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Oltre la miseria del presente

di Franco Milanesi

Recensione di l’“Abecedario” di Mario Tronti

boicottaWuMing bis1La forza militante della riflessione teorica non va misurata secondo la radicalità delle affermazioni ma per la precisione delle domande che interrogano il pensiero e per sua la capacità di farsi materia dentro il movimento reale di classe. Il lavoro di Mario Tronti, in tale prospettiva, si distende come una pluridecennale, rigorosa azione di militanza teorico-politica. Dagli studi gramsciani alla fine degli anni cinquanta fino agli scritti più recenti sullo “spirito libero”, Tronti ha svolto l’unico compito politico possibile: pensare forme e modi di alterità al capitale. Come combatterlo? Cosa significa costituire conflitto sul terreno dell’egemonia globale medio-borghese? L’Abecedario pubblicato da DeriveApprodi (Roma 2016, euro 20, a cura di Carlo Formenti con la regia di Uliano Paolozzi Balestrini, 2 dvd) sgrana questi e altri temi in una video-intervista di circa sette ore che si apre con amico/nemico e si conclude con tempo (Zeit) passando, tra le altre voci, per democrazia, guerra, libertà, Novecento, rivoluzione.

Un abecedario si svolge come una successione di parole-concetti che nella declinazione trontiana si delineano innanzi tutto nella netta distanza dalla semantica degli avversari. Un dizionario di lotta, percorso da un tono politico tutto “di parte” a conferma, a nostro parere, che le svolte che hanno caratterizzato il pensiero di Tronti, spesso oggetto di forti polemiche, non ne spezzano la continuità, ma si caratterizzano come un’incessantemente ridefinizione della “linea di condotta”. Nei sessant’anni che intercorrono da Operai e capitale a Dello spirito libero (“il mio libro più sovversivo”) Tronti non abbandona l’odio per il nemico ma lo rincalza osservandone la mutazione e ridisegnando l’intero contorno dei soggetti schierati nei due campi. L’abecedario proprio di questo tratta, e dell’intero campo dal politico spingendolo però, grazie alla voce e alla presenza visiva della forma-intervista, fin dove la scrittura – una veste con cui si copre il corpo del pensiero – non può giungere, verso un “pensiero messo a nudo”, come dice Tronti in chiusura, che offre anche passaggi biografici di grande intensità.

Cambiato, dice Tronti, è l’avversario, non solo a seguito dei processi di finanziarizzazione quanto nell’addensamento della società borghese in una complessa articolazione sistemica che ordina in sé l’intera vita. A prevalere è un “tipo” umano che ci obbliga a passare da una “critica di società a una critica di civiltà” poiché “è l’uomo che questa società ha prodotto, l’antropologia presente, dominante” con il suo corollario di valori che ora va combattuta e respinta (“Destino”).

Tronti ferma lo sguardo sul profilo vacuo e pervasivo del “borghese medio”, immagine su cui convergono la grande e la piccola borghesia. Sono, queste, figurazioni sociali ormai trascorse con il XX secolo, epoca in cui avevano espresso una propria visione del mondo verso cui l’alterità proletaria, popolare, comunista aveva tracciato confini netti. Ora il campo avversario, divenuto civiltà, si è dilatato e uniformato nella medietà. Realismo e pessimismo si sovrappongono così nella descrizione del processo di cattura egemonica che ha visto schierati su un unico fronte antirivoluzionario, assieme ai potenti di sempre, il progressista illuminato, il pacifista radicale, il riformista, sorretti dal vasto campionario delle ideologie del pensiero debole, del relativismo o delle teorie universalistiche ed emancipative. L’azione di queste forze, riconosce Tronti, è stata utile nel processo di implementazione della democrazia borghese e dunque di miglioramento effettivo delle condizioni di vita della popolazione. Ma, detto ciò, Tronti riafferma con vigore che è stata proprio questa democrazia a sconfiggere con la sua azione inclusiva e pacificante la classe operaia. Se era difficile nella realtà fordista stare “dentro e contro” il capitale, esserne cioè al tempo stesso dinamica immanente di sviluppo e potenza trascendente di annientamento (una delle sfide teorico-pratiche più affascinanti e più estreme di Tronti), più arduo appare ora perimetrare un “noi” a partire da soggetti frammentati nelle identità, incerti nel riconoscimento del “per sé”, fidelizzati alle procedure della democrazia progressiva e del divenire riformistico.

Non siamo di fronte alla riproposizione dell’alternativa rivoluzione/riforme, né a una nuova litania contro il gradualismo del movimento operaio. Al realista Tronti non appartengono piagnistei e neppure indici accusatori puntati verso i “traditori”. Già nel 2009 in Non si può accettare aveva scritto: “oggi una cosa è certa: puoi pensare la rivoluzione ma non puoi farla” poiché manca, allora come oggi, la forza sufficiente per avviare un’alternativa al “blocco antropologico” neoborghese.

Ora, finito il secolo in cui il politico ha espresso la sua massima estensione e potenza, dispersa la “comunità di destino” rappresentata dalla classe operaia novecentesca, il limite è ulteriormente spostato e riguarda la stessa pensabilità della rivoluzione, dunque le possibilità protese verso il futuro, il suo rapporto con la memoria, i compiti del presente.

Con le spalle al futuro, una raccolta di saggi del 1992, aveva aperto una meditazione sul rapporto tra tempo e politica ed è questa forse la chiave di lettura più appropriata per l’intero abecedario. Tutte le sue voci (cadenzate dal contrappunto solidale e stimolante di Formenti) si affacciano al problema della temporalità. “C’è una dittatura del presente (…) Il futuro non può essere altro che la continuazione di questo presente perché non c’è nessuna forza in grado di interrompere questo presente di bloccarlo e di rovesciarlo in qualcosa che lo contraddice nei suoi fondamenti. Oggi parlare di futuro non è un fatto antagonistico, un fatto conflittuale contro il mondo (…) È molto più sovversiva la coltivazione di un certo passato, delle lotte, delle forze organizzate, delle insubordinazioni e delle rivolte degli oppressi. Quel carico di eredità che c’è stato e che il movimento operaio aveva preso su di sé portandolo ad altezze mai viste, portandolo in un cambio dei dominanti, in un rovesciamento dei rapporti di forza” (“Zeit”). Se il futuro è ipotecato dal presente, è il passato che va rivisitato facendo tesoro della potenza sovversiva che porta in sé. Voltate le spalle a questo eterno presente, dilatato indefinitamente in avanti, Tronti ripercorre l’intero Novecento, il “suo” secolo, grande e terribile, perché grande è la politica quando opera tra conflitto rivoluzionario e mediazione, quando appare in grado di oggettivare forza di popolo in organizzazione ma anche in istituzione e norma. È nel Novecento che precipita l’intero pensiero e l’agire politico della modernità. Si apre con Machiavelli e Hobbes, evidenziando con chiarezza “le due gambe della politica”, conflitto e mediazione, Volpe e Lione. Il canone trontiano aggira il Settecento riformatore per giungere a Marx, Weber, Schmitt. E Lenin, soprattutto Lenin, l’autore del grande rovesciamento con cui – la formula è di efficace semplicità – “chi sta sopra va sotto e chi sta sotto va sopra”. Ma se la rivoluzione ha bisogno di uno straordinario senso della contingenza, più difficile è la costruzione del socialismo. Non possiamo ora ripercorrere le riflessioni di Tronti sul ’17 sovietico ma questo abecedario – arricchito da un libro con due meditati saggi di Carlo Formenti e Pasquale Serra – assume un particolare significato in occasione del suo centenario, perché mette a tema molte questioni centrali, a partire dal rapporto tra Lenin e la NEP fino al tentativo, inevitabilmente perdente, di sfidare e rincorrere il capitalismo sul terreno della modernizzazione.

È pertanto necessario andare oltre il Novecento operaio, ripercorrere a ritroso l’intera vicenda dei ceti subalterni e della loro ribellione ai dispositivi di conformazione, assumere la loro storia evitando di pensare la rivoluzione come una cesura che recide ogni nesso con il passato. Dobbiamo recuperare (conservare e venerare per il bisogno di liberazione, direbbe Nietzsche) i valori della nostra tradizione e muoverli contro la tradizione degli altri. In questo lavoro di creazione di memoria sarà accolto tutto ciò che ha agito e pensato diversità dalla Zivilisation borghese – strisciante, “morbida”, quotidiana – che ha sgretolato dall’interno la grande Kultur novecentesca che con il comunismo e il cristianesimo radicale condivideva, in profondità, una semantica del tragico. La comune sconfitta di queste forme di vita ci deve portare a dialogare e “imparare” anche dalla rivoluzione conservatrice e dal cristianesimo. Non quello irenico, ma il Cristo venuto a portare la spada, la religiosità che offre alle lotte degli ultimi la parola profetica e non l’utopia, l’apocalisse come rovesciamento e non la progressività delle buone opere. È il pontificato di Ratzinger, apprezzato per la lotta al relativismo perché, dice Tronti, solo una verità di parte può dare fondamenta alla certezza di essere nel giusto lottando contro le forze nemiche. Un cristianesimo così inteso serve ad “armare la propria interiorità di anticorpi” e l’autonomia interiore diviene una categoria politica che consente di selezionare e di “lasciare fuori”, riconquistando innanzi tutto la libertà di giudizio necessaria per rilanciare l’azione.

Per un intellettuale totus politicus come Tronti anche la tradizione religiosa e le espressioni culturali si dispongono lungo una linea che traccia il senso di ciò che sta dentro questo mondo (e questo modo d’essere) e fuori da esso. In questa prospettiva si mostra appieno la distanza del Novecento dalla miseria del presente. Le avanguardie del XX secolo, ma anche gli anni del cosiddetto “ritorno all’ordine”, le figure desolate degli spazi americani di Hopper, la grande musica che rinnova forme, rivoluziona le strutture, si articola con le idee, sono espressioni imparagonabili, ricche di potenzialità rivoluzionaria, con la povertà culturale di questo primo scorcio di XXI secolo. Tronti offre così, come si è detto, squarci inediti sui propri “gusti”, momenti di vita che, pur curvati in senso politico, delineano con più precisione la figura di un intellettuale che ha sempre perseguito la sottrazione dell’ego privato alla ribalta pubblica. Scelta conforme a un modello antropologico comunista e popolare che fa resistenza, anche ironicamente, all’esibizione, alla vanagloria, ai “confesso che ho vissuto”. Si apre il ricordo di quell’umanità radicalmente diversa dai potenti e dei padroni, si disegna la Roma dei mercati generali, dove lavorano i genitori, calda e dura, rivendicata come orgogliosa appartenenza (e matrice dell’estraneità a quella mescola diffusa di istanze di sinistra e “buoni” valori della borghesia democratica). Poi “l’Unità”, il primo libro aperto sulle cose del mondo.

C’è, nel breve ricordo della madre, una straordinaria intensità esistenziale e politica. Prende forma quel popolo a cui è stata inferta la violenza dell’inibizione alla grande bellezza delle opere di Musil, Bach o Caravaggio, privilegio – allora più di oggi – di pochissimi. Impregnata di questi ricordi la lotta acquista significato non per le generazione future ma per gli antenati oppressi e asserviti. Anche di questo – come insegna Benjamin – si nutre la vendetta, da un passato di minorità, mai genericamente universalistica (quella contro cui muove l’illuminismo) ma sempre storicizzato nella divisione di classe.

Scorgiamo in filigrana un percorso di formazione senza sconti, scorciatoie, facilitazioni. Tronti non esplicita queste difficoltà, le capovolge invece nel privilegio di avere avuto questa origine dal basso, nella sostanza popolare delle periferie. Una prima radice che l’ha salvato dalla maledizione del ruolo di intellettuale, il protagonista mediatico dei festival culturali, delle scaramucce accademiche, dell’inesausta chiacchiera ermeneutica. Meglio di questa narcisistica e vuota attività è lo scranno da senatore o la vita di partito che consentono di stare in un “punto della forza” e di sfuggire al culto del minoritarismo. Scene di prassi politica: Tronti che dialoga con Miglio e Bobbio o che propone, di fronte alla sconcertata platea di un convegno organizzato dal PCI in transito verso la proprio autoliquidazione, l’elaborazione di un liberal-comunismo che coniughi comunismo e libertà, “una parola devastata” da ripensare e sottrarre sia all’egemonia liberale sia alla deriva libertaria. A tal proposito Tronti ribadisce la critica la ’68 e l’esito nefasto delle sue filiazioni in particolare quelle “desideranti” e biopolitiche. Questa cultura che ha ostentato il culto del desiderio ha preparato il terreno alla colonizzazione borghese, alla mercificazione bulimica predisposta dalla logica del tutto e subito. È l’occidente borghesizzato che oggi chiama a raccolta la sua gente per la difesa incondizionata di questa realtà. Bisogna invece continuare a dire da quale parte “non si sta”. “La retorica difensiva nei confronti dei valori di questa civiltà aggrediti da di fuori (...) Questi valori non sono i miei valori. Non bisogna attaccarli in quel modo, ma io li attacco in una altro modo, con le armi del pensiero, della lotta, del conflitto civile (…) Mi meraviglio quando sento dire che dobbiamo difendere la coesione sociale. Dobbiamo cercare di ordinare il conflitto, non favorire la coesione sociale”.

Che tali affermazioni vengano fatte svolgendo il concetto di “Esilio” è certo significativo. Ma va inteso non come il punto di approdo e ritiro, ma come il segno unitario di un ridotto difensivo da cui tornare a pensare il “politico”, sempre inteso come luogo di congiunzione di un grande progetto strategico, coinvolgimento di popolo, forza di organizzazione. Nessuna ricetta per l’osteria dell’avvenire: il pessimismo di Tronti si innesta sulle domande che investono il rapporto tra interiorità, memoria, azione, tra opposizione attiva e contenimento catecontico, interrogando la categoria ultima della temporalità, quella della durata. Può soccorrere, ancora una volta, la storia della Chiesa, capace di rinunciare all’assolutezza dei principi per la conservazione dell’essenzialità dell’ispirazione originaria, recuperabile quando l’intersecarsi misterioso di condizioni di soggettività, realtà fattuale e destino piega il presente verso il proprio trascendimento. Se manca, nell’abecedario, la voce trascendenza la sensazione è che tutte le parole di Tronti la declinano in una paradossale circolarità temporale: trascendenza dal sé nel noi, del qui ed ora di una collettività in lotta nella più ampia misura della storia; infine della ricaduta dell’intera densità del tempo sulla “puntualità” delle scelte e delle responsabilità di ogni singolo uomo.

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