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ospite ingrato

Direi di no

di Andrea Cavazzini

Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Milano, Feltrinelli, 2016, pp. 160

banksy 29Il libro di Enrico Donaggio è un libro da leggere, e non si presta ad un riassunto “oggettivo”. Ricco di riferimenti e di allusioni, privo di apparati eruditi e parsimonioso nelle citazioni – nel confronto con autori classici o contemporanei privilegia il discorso indiretto libero e la parafrasi –, dall’andatura apparentemente divagante e discontinua, il lavoro di Donaggio si presenta come una meditazione che occorre seguire in funzione dei propri interrogativi, e da cui prelevare domande e risposte, sollecitazioni e ispirazioni.

Un libro di filosofia denso dunque, ma pressoché privo di acrobazie verbali e di terminologie esoteriche, che “stona” quindi (fortunatamente) con il diluvio di gerghi ridondanti e di macro-concetti spesso autoreferenziali da cui la letteratura filosofica è sommersa in Italia da quando ha lavato i panni heideggeriani degli anni Ottanta e Novanta nelle acque variopinte della cosiddetta “French Theory”. Un libro di teoria critica nel senso di Adorno – quale poteva essere letto e compreso negli anni Cinquanta, all’epoca della traduzione di Minima moralia – che discute direttamente nei termini “minimalisti” delle forme elementari della soggettività contemporanea, dei suoi affetti e delle sue scissioni e che pone il problema di cosa sia possibile fare oggi, per noi quali siamo tutti dopo la fine del “secolo breve”. Una fine che sembra sancire la fine di «un’idea di uomo» e cristallizzare un presente «sempre più sterile e triste», dominato «da un’impotenza generale e da una disponibilità ad accontentarsi di poco, se non di niente» (p. 10). Potremmo chiamare questo presente “condizione post-moderna”, secondo un vecchio filosofema, oppure, forse più chiaramente, “condizione post-comunista”, in cui assistiamo all’eclissi definitiva di «un arsenale di soggettività, idee, visioni oggi apparentemente inservibili, impresentabili o disinnescate»:

Quelle di fabbricazione comunista, per l’implosione dell’universo sovietico […]. Quelle di matrice socialdemocratica, per l’appoggio incondizionato, in Europa e nel globo, all’integralismo neoliberista. Quelle di taglio anarchico o radicale, perché assimilate e messe a profitto dal nuovo spirito del capitalismo. (p. 13)

Tale è dunque la condizione che ci definisce oggi.

Ma chi siamo “noi”? Chi indica questa parola in cui dovrebbero potersi ritrovare l’autore e i suoi lettori? Il libro di Donaggio non parla a tutti, ovviamente; il “noi” cui si riferisce è determinato, ma al tempo stesso indefinito. Diciamo che questo “noi” indica la comunità di coloro che condividono «alcuni degli affetti e dei codici basilari trasmessi in eredità da una tribù di antenati sconfitti» (p. 11). Secondo Donaggio, la crisi attuale (politica, sociale, economica…) riattiva «uno a uno o per piccoli gruppi» delle «affinità elettive» in cui è reinvestito «un lascito di memorie e visioni che, in modo enigmatico, addirittura miracoloso data la violenza delle forze contrarie, orienta e lega comunque tra loro individualità sbandate» (p. 11).

In questo passaggio risiede il nucleo essenziale di ciò che il libro sviluppa sotto forma di un lungo ragionamento: le condizioni di effettività di una certa «idea dell’uomo» in quanto essere capace di criticare e rovesciare tutti i rapporti che lo rendono asservito e spregevole, secondo l’espressione del giovane Marx. Lo stato presente dei rapporti sociali e delle soggettività ha reso evidente che questa critica e questo rovesciamento non sono dei dati naturali, spontanei e gratuiti: in quanto la loro posta in gioco è una felicità reale da realizzare contro i suoi simulacri, essi sono presi necessariamente in una regolazione “economica”, nel senso freudiano del termine, delle forze e degli affetti. La critica dei godimenti immaginari deve potersi alimentare di «piaceri e liberazioni reali» (p. 35), la cui realtà è sentita come un’esperienza possibile o perfino imminente. Se la situazione sembra priva di sbocchi, se la liberazione reale è sentita come astratta o troppo distante, lo sforzo per opporsi criticamente all’esistente trascende le forze che il soggetto è in grado di mobilitare, anche sul solo piano della discorsività teorico-critica.

La “critica”, infatti, non è una pratica puramente intellettuale, anche quando essa si organizza nelle forme concettuali di una “teoria critica”: «Prima di ogni teoria che giudica e condanna il reale, quale suo luogo e condizione di nascita, radicamento e senso, si dà infatti una passione critica» (p. 46). A monte di tutti i dispositivi teorici, la posizione critica è istituita da un’economia affettiva:

Prima di qualsiasi teoria critica e dei più disparati esiti cui le sue elaborazioni possono mettere capo, c’è la materia prima che questo ramo dell’attività umana impiega. E che è quindi obbligato a rispettare e rinnovare, pena l’estinzione del senso e dei risultati dell’impresa. Un elemento speciale, un bene comune senza cui questo tipo di teoria semplicemente non potrebbe esistere […]. La passione che brucia in ogni animale critico in preda a desideri di migliori libertà. Cioè tutti gli esseri umani, almeno una volta nella vita. (p. 41)

Ma questa dinamica passionale che motiva la posizione critica può indebolirsi o svanire di fronte alla possibilità concreta di una perdita eccessiva, ad un distacco doloroso dalle condizioni alienate del presente, allorché tale distacco non è compensato dall’esperienza reale di un accrescimento della gioia: «Il gesto della critica scalda le teste e i cuori di un numero importante di individui soltanto se la posta in palio – il nudo piacere di esistere – è tale da giustificare il prezzo che una percezione disillusa delle cose impone al bilancio di felicità» (p. 36).

Da qui, la sostituzione della posizione critica, che implica una prospettiva di trasformazione vissuta come effettiva ed efficace, con la posizione cinica, che riconosce la falsità del tutto ma vi si adatta più o meno agevolmente: è la posizione di

ribelli dal fiato corto piegati da un potere immutabile e invincibile, a cui non resta che adattarsi. Gente che capisce benissimo cosa non funziona e come dovrebbero andare le cose. Ma che ogni giorno, però, vede, subisce e compie atti non condivisibili, contrari ai propri principi o addirittura rivoltanti. Non sapendo bene come reagire e che fare. Direbbe volentieri di no. Ma sembra un gesto inutile, irresponsabile, pericoloso o insensato. Alla portata di individui rari o di chi non ha più nulla da perdere. La passione critica, che dovrebbe preludere a una dissociazione o a un rifiuto dell’andazzo dominante, diventa così compagna amara e inerte di compromessi e rinunce quotidiane. (p. 127)

La “ragion cinica” teorizzata da Peter Sloterdijk ha quindi come premessa il sentimento che l’azione trasformatrice sull’esistente per renderlo più conforme alla speranza di liberazione ed emancipazione ecceda le forze dell’uomo ordinario, e non sia più alla portata di nessuno all’infuori dei santi, dei criminali e dei folli. Questa configurazione della soggettività contemporanea è a sua volta determinata da un evento storico, o piuttosto da un anti-evento che sembra aver reso impensabile la storia stessa in quanto luogo di realizzazione cosciente di un’umanità comune:

Pensare che il capitalismo possa ancora venire messo in questione, anche solo per una piccola parte degli effetti che esercita sulla vita di ciascuno, non è un gesto scontato per uomini senza compagni […]. Aspirazioni del genere costituiscono, per un normale individuo degli anni zero del ventunesimo secolo, performance complicate e fuori dal comune. (p. 137-138)

Tale è l’esito dell’implosione del sistema sovietico e della speranza che incarnava malgrado tutto, malgrado la sua realtà catastrofica, e che preludeva in realtà alla maggior catastrofe della sua dissoluzione ingloriosa:

Una catastrofe psicopolitica enorme (…). Settant’anni di socialismo reale trasfigurati in fossa comune di ogni progetto di liberazione non coincidente o compatibile con quella capitalistica. La prova definitiva dell’insensatezza di qualsiasi ulteriore tentativo di agitarsi e organizzarsi in senso contrario. (p. 130)

Il comunismo infatti non ha incarnato solo il valore simbolico di un’esperienza di fuoriuscita dal mondo del capitale. Questa esperienza ha innervato le esistenze immediate e le pratiche quotidiane di milioni di esseri umani:

Gente che aveva scelto di vivere all’insegna di una comune disciplina della distanza, ma anche come parte in causa, raccontandosi e sentendosi protagonista della stessa storia. Trovando altre persone e organizzazioni con cui spartire […] l’onerosità e i rischi di quell’impegno. (p. 139)

Ciò che resta, i residui e le filiazioni, delle strutture politiche che avevano incarnato questa esperienza collettiva non offrono più nulla di simile alle «risorse di sapere e potere, senso e forza, che possono favorire e sostenere gesti, condivisi o condivisibili, di dissidenza vitale e speranza efficace» (p. 139); al contrario, quando tali apparati non sono semplici fenomeni residuali, ai limiti della marginalità sociale, essi sono stati e restano degli agenti entusiasti del dominio incontrastato dell’esistente e della demoralizzazione collettiva – epifenomeni e operatori dell’assolutismo del reale non trascendibile.

La conclusione del libro non è pessimista, malgrado la lucidità e la durezza della diagnosi. Ma non è nemmeno ispirata da un wishful thinking ideologico troppo frequente nei discorsi “critici” contemporanei. È senza dubbio una virtù di questo lavoro il fatto che la conclusione pratica, il “che fare”, resta commensurabile alla situazione descritta, senza fughe in avanti verso soluzioni immaginarie – non ci sono, fortunatamente, né moltitudini né popoli alla fine di questo percorso critico –, ma senza compiacimenti nella disperazione. Ciò che resta possibile e necessario è infatti chiedersi: chi sono i miei compagni? Questa domanda fortiniana

può condurre a inventare o scoprire dei nuovi luoghi comuni di umanità. Degli spazi di esperienza collettiva in cui si possa tentare di pensare e agire altrimenti. Dove dire e fare di no dimostrino ancora un qualche senso ed effetto, poco importa se limitato. Dove ci si possa sentire meno soli e sbandati, impotenti e disarmati, quando si viene colpiti da certi desideri di migliori libertà. Per il sostegno che si può ricevere da compagni per caso, a loro volta sensibili alla critica come passione. E da un sapere, antico o recente, fatto di pratiche e racconti. (p. 144)

Un «luogo comune di umanità» è una

situazione in cui una minoranza di persone abbastanza normali può compiere cose relativamente eccezionali, in rapporto al periodo in cui si trova a vivere. Esperimenti di reciproca emancipazione e riconoscimento, tentativi di liberazione dal basso e fra pari. Schiavi che si liberano vicendevolmente. (p. 144)

Non bisogna nascondere che, dal punto di vista di ciò che è stato possibile e reale nel ventesimo secolo, tali situazioni costituiscono una «regressione a uno stadio prepolitico dell’impegno» (p. 144). Ma questa regressione è forse un passaggio necessario per ricominciare a tessere le condizioni elementari, le materie prime antropologiche, di processi che potranno diventare più vasti e generali. Certo, queste indicazioni restano generiche, come le affinità elettive che strutturano il “noi” cui questo discorso si rivolge: è indubbio che le pratiche contemporanee di liberazione non possono, e non potranno per lungo tempo ancora, evitare questa esposizione radicale alla contingenza degli incontri, alla provvisorietà dei percorsi, alla relativa opacità delle esigenze e delle parole d’ordine.

Più ancora che il regresso al prepolitico, è dunque la manifestazione radicale della finitudine che dovremo attraversare e portare. Ma la finitudine cui tutti siamo soggetti è attraversata da antichi saperi, racconti e pratiche che non smettono di reinscrivere nel presente il lascito quasi invisibile, frammentario ed enigmatico, dei nostri «antenati sconfitti». Queste vestigia di un passato che non è mai stato pienamente realizzato alimentano la passione critica, ricordano delle parole e dei gesti sepolti alla domanda attuale di un «nudo piacere di esistere». È nella conservazione-riattivazione di queste vestigia che la teoria critica – cioè la pratica che incarna il libro in questione, e ovviamente anche la sua recensione – trova la sua giustificazione ultima:

La teoria è uno dei vari ambienti – non l’unico – dove [la passione critica] può venire incubata, coltivata e protetta […]; custodirla e proteggerla in tempi di oblio, latenza o repressione. Concentrarla, come fa una lente con il fuoco, affinché bruci con maggiore intensità e precisione. (p. 47)

Se ne potrebbe concludere che il compito di una teoria critica non è solo riportare alla luce le vestigia di forme di vita scomparse, di passioni e discorsi rimossi, ma anche di lavorare alla conservazione di tracce infime, che ritroveranno come vestigia gli archeologi di domani. In questo senso, la teoria critica è un’archeologia del futuro, che conserva le condizioni della propria trasmissione.

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