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Privatizzare il signoraggio?

di Claudio Gnesutta

Rivalutare le quote delle banche private, così come previsto dal decreto Bankitalia, significa sottrarre al Tesoro parte di questi introiti di natura pubblica. Siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, a danno della collettività, avvantaggia alcuni privati

In un lucido fondo su Affari&Finanza di lunedì 3 febbraio, Massimo Giannini elenca i punti che i “grillini” hanno frainteso (veramente parla di “falsificazione”) nella loro opposizione al “decreto Bankitalia”. Per dimostrare che non vi è stato “un altro regalo alle banche” (in linea con quanto affermato dal Ministero del Tesoro e commentato su questo sito da Andrea Baranes http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Bankitalia-una-toppa-peggiore-del-buco-22000) Giannini sostiene che la Banca d’Italia è, e rimane, un istituto di diritto pubblico e che non potrà mai essere privatizzata; che le quote di capitale possono appartenere solo a banche nazionali; che l’aumento di capitale (da 156.000 euro a 7,5 miliardi) è una semplice rivalutazione delle quote già esistenti nel bilancio di (alcune) banche nazionali: “nessuno sborsa un euro, né Via Nazionale, né il Tesoro” ed è quindi solo un “vantaggio virtuale”. Ma questo è vero? Non manca ancora un tassello alle considerazioni fin qui ineccepibili del vicedirettore de La Repubblica?

Perché le quote di capitale (nelle mani delle banche) abbiano un valore reale, tanto da poter essere alienate come previsto se superano la quota del 3%, esse devono fornire un rendimento. È proprio su questo rendimento atteso che Giannini si dimentica di renderci edotti. Senza farla troppo lunga, rivalutare il valore delle quote di partecipazione delle banche in Bankitalia significa anche rivalutare il loro reddito in occasione della distribuzione annuale degli utili.

Se, nel 2012, le banche partecipanti hanno ricevuto tra dividenti e loro integrazione, poco più di 15.000 euro, sostanzialmente il 10% del valore capitale delle loro quote, quali saranno gli utili che verranno stornati alle banche partecipanti quando il valore delle loro quote è stato rivalutato a 7 miliardi e mezzo di euro? Se si assume un tasso del 4%, le banche private otterranno d’ora in poi 400 milioni di euro all’anno. Si può considerare questo un “vantaggio (solo) virtuale”?

 

Ma per giustificare una tale decisione occorre farsi alcune domande. Ad esempio, quale apporto hanno dato le banche private al capitale della banca centrale per garantirsi una rendita sicura vita natural durante? Direi nulla; come giustamente precisa Giannini: si tratta di una semplice colpo di penna, una rivalutazione che si dice inevitabile per aggiornare dati storici ormai altamente svalutati ma non si dice che la rivalutazione contabile di quote di capitale relative a una realtà bancaria storica priva di alcun legame con la situazione odierna, non ha alcun fondamento economico: è la brutale concessione di una ingiustificata situazione di rendita per quelle banche. Non mi si risponda che quelle banche saranno in prospettiva costrette a vendere parte di queste quote (che eccedano il 3%) poiché, da un lato, i ricavi che così otterrebbero non ci sarebbero in assenza di questa posizione di rendita e, dall’altro lato, sempreché il settore pubblico non sia costretto a riacquistare parte di queste quote (indebitandosi per riavere ciò che era suo), le quote che rimangono in mani private saranno comunque remunerate a carico degli utili della Banca d’Italia.

E questo solleva un’ulteriore perplessità. Da dove provengono gli utili della Banca d’Italia? In estrema sintesi, essi rappresentano il “signoraggio” dovuto all’emissione della moneta cartacea. Il signoraggio, come noto, esprime il valore del conio apposto dal Signore sulla moneta circolante che eccede il valore intrinseco della moneta-merce e che costituiva un’entrata per le finanze pubbliche. In presenza di moneta-carta, il signoraggio è la differenza tra il costo della moneta-carta (quasi-nullo) e il rendimento degli investimenti finanziari (in genere titoli di stato e valuta estera) che forniscono un reddito alla banca centrale. Il reddito dovuto all’emissione monetaria è, comunque la si metta, un reddito della collettività tanto che, nei fatti, gli utili realizzati dalla banca centrale vengono retrocessi al Tesoro (un miliardo e mezzo di euro nel 2012). La rivalutazione pretestuosa delle quote capitale delle banche private in Bankitalia significa sottrarre al Tesoro parte di questo signoraggio: siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, di pertinenza collettiva, avvantaggia (alcuni) privati.

Se le mie considerazioni sono corrette, con questa operazione il Tesoro rinuncia per tutto l’avvenire a parte di questi introiti di natura pubblica e, temo, sia difficile giustificare la correttezza di una tale decisione. Si può certamente dire che l’attuale situazione delle banche è così grave da rendere necessario un intervento straordinario per evitare il dissesto dell’intero sistema. Non vi è dubbio che la situazione appare pesante, ma di fronte a questi pericoli aver accettato questa soluzione solleva almeno due questioni. La prima; se la questione era il salvataggio del sistema bancario (o di alcune delle banche principali), l’operazione avrebbe dovuto essere più trasparente definendo esplicitamente l’apporto, ma anche gli obblighi cui le banche beneficiarie avrebbero dovuto sottostare per garantire una più adeguata gestione dei fondi (penso al credito alle attività produttive). La seconda; se l’operazione aveva il senso di affrontare un problema “congiunturale”, ovvero le difficoltà di (alcune) banche, non ha alcuna logica adottare un intervento che avvantaggia tali banche in un orizzonte indefinito, molto oltre alla data entro la quale si auspica il risanamento dalla situazione creata dalla crisi finanziaria. Sono queste discrepanze tra il problema da affrontare e lo strumento adottato che rende perplessi sulle affermazioni che “non è stato fatto alcun regalo alle banche” o che l’operazione ha creato solo dei “vantaggi virtuali” per le (poche) banche private interessate.
 

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Commenti

Bankitalia

Confesso di non avere capito l'articolo di Gnesutta (nè tanto meno le tesi dei grillini). Perché la rivalutazione delle quote di partecipazione in Bankitalia (che è un fatto puramente contabile) dovrebbe modificare il sistema di distribuzione dei dividendi a favore dei soci privati?

Supponiamo che i soci di Bankitalia siano 100 banche private, ognuna con una quota di partecipazioen dell'1%. Le banche socie sino ad ora avevano iscritto a bilancio il valore di questa partecipazione per, esempio, 1.000 euro; dopo il decreto devono invece iscriverla per 10.000 euro (pagando le imposte dulla plusvalenza contabile di 9.000 euro).

Se prima Bankitalia distribuiva un dividendo di 10 euro ad ogni socio, per quale motivo dovrebbe ora distribuirne per 1.000 euro (per mantenere lo stesso tasso di rendimento), come mi pare sostenga Gnesutta?

Se gli utili (che sono in gran parte il frutto del signoraggio) restano costanti, il dividendo distribuito resterà pari a 1.000.

Francamente non capisco dove starebbe questo regalo.

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Sentiamo tutte le campane.

Caro Zanotti, la cosa è pacifica (vedi anche il comunicato stampa della Banca d'Italia). L'aumento del dividendo alle banche partecipanti deriva dal fatto che esso è calcolato come una tasso percentuale sul valore (nominale) delle quote; l'aumento del valore comporta un aumento dei dividendi. Nel tuo caso il 10% su 1000 è 100, il 10% su 10.000 è 1.000.

Più complessa è la riflessione che comporta la sollecitazione di Tullio Marra, che ringrazio, per aver girato su questo sito il comunicato della Banca d’Italia sulle conseguenze della legge 29.01.2014 n. 5, perché, come dice e come condivido, “è bene sentire tutte le campane”. Le “campane" della Banca d’Italia hanno suonato a lungo, anche se il nostro sistema informativo non ne ha fatto sufficiente eco. Il documento del nostro Istituto centrale è, come d’so, ben articolato e, dai suoi assunti, anche esauriente. Non dimentichiamoci però che il problema non riguarda la posizione dell’organo tecnico, ma del Governo che ha presentato il decreto, sempreché si ritenga ancora valida una tale separazione in un mondo in cui alla tecnocrazia vengono sempre più devolute le scelte istituzionali.

Scorrendo comunque il comunicato-stampa, la questione che ho tentato di sollevare con il mio intervento non appare affrontata e risolta. Non è difficile essere d’accordo che “la Banca d'Italia era e resta un istituto di diritto pubblico” perché svolge funzioni pubbliche (primo punto del comunicato). Le banche (ora) private hanno una partecipazione in Banca d’Italia solo “per ragioni storiche”; va ricordato che queste banche sono nel tempo prima diventate pubbliche (come la banca centrale anche se con funzioni diverse) e poi privatizzate. In questa seconda fase sarebbe stato logico non "riprivatizzare” le loro quote di capitale di un istituto con funzioni pubbliche quale è la banca centrale. È stato un errore? una dimenticanza? un aspetto a quel tempo ritenuto irrilevante tanto da non doverlo prendere in esplicite correzione? Che questo sia un problema è evidente dalla considerazione sottolineata dallo stesso comunicato che l’indipendenza dell’Istituto (dal governo, ma anche dai privati) è sancita dalla normativa che ha dato origine al Sistema europeo delle banche centrali.

Rimane allora la domanda: su quale base di merito, per quale apporto sostanziale, le banche (ri)privatizzate possono vantare un diritto sugli utili della banca centrale? Il fatto che negli anni Trenta avessero una partecipazione in una (allora) banca privata alla quale sarebbe stato poi affidato una funzione pubblica con una trasformazione profonda dell’assetto normativo dell’intero sistema bancario? Quasi un secolo di cambiamenti istituzionali epocali e ci troviamo a vantare questo “diritto”, questa posizione di rendita? Un vincolo così cogente da ritenere, come dice il comunicato, che in caso di “statalizzazione” ciò avrebbe comportato un esborso “a carico del bilancio pubblico”?

La domanda cruciale è quindi: perché? La questione che mi piacerebbe venisse risolta è chi ha diritto al “signoraggio” dell’emissione di carta moneta? Se esso è cosa pubblica o è cosa privata? Se il vantaggio collettivo di utilizzare fiduciaramente un pezzo di carta per le nostre transazioni deve andare a vantaggio della collettività o di (alcuni) privati? In effetti, nel secondo punto del comunicato, la questione sembra avere una risposta precisa: “[i] proventi dell'attività classica di una banca centrale, il "battere moneta", [derivano] da una tipica attività di interesse pubblico” e pertanto gli attivi della Banca “non sono di proprietà dei partecipanti” e quindi su di essi le banche private non possono vantare diritti. Ma da questa premesse è arduo giungere alla conclusione - contabilmente bizzarra - che un simile diritto le stesse banche lo possono vantare sul capitale, quasi si potesse ritenere che la posta contabile “capitale sociale più riserve” non sia nella sostanza il riflesso dell’attivo e il passivo di bilancio. I 450 milioni annui che il comunicato prevede andranno a remunerare le quote capitale sono la remunerazione di quale risorsa produttiva utilizzata dalla banca centrale? Le pur interessanti considerazioni sul calcolo di questi dividendi e sulle implicazioni della regolamentazione europea mi appaiono pertanto del tutto secondarie rispetto a questa questione di sostanza.

Se è facile concordare (terzo punto) anche sul fatto che per il bilancio della Banca centrale la rivalutazione delle quote è una semplice scrittura che non cambia contabilmente il suo patrimonio, non risolve, al di là degli artifici formali, la questione che è da una tale “scrittura” che si modifica economicamente la destinazione degli utili (che merita ricordare sono il frutto del signoraggio). Anche qui la Banca è trasparente. La risposta è: “essa implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto […] rispetto a quello percepito negli anni recenti”. Se si accetta questo, non si comprende tuttavia la conclusione é infondato "che lo Stato comunque ci rimetterà", che non è vero che "incasserà meno soldi ogni anno dalla Banca d'Italia”. Mi sembra molto difficile far conciliare questa affermazione con il fatto assodato che, in ogni anno futuro, una consistente parte degli utili (i maggiori 450 milioni citati) NON vanno allo Stato, ma alle banche private. Per quanto apprezzabili siano gli sforzi fatti per convincere che maggiori fondi affluiranno (contabilmente) allo Stato, non sembrano riescano a risolvere questo mistero.

Ma è il quarto punto che rende tutta la questione quasi surreale se si parte, come penso si debba fare, dall’assunto che non vi sia giustificazione economica alcuna alla partecipazione delle banche private al capitale della Banca centrale. Le quote di partecipazione vengono rivalutate (e questo è un puro fatto contabile) e nel caso esse eccedano il limite del 3% la Banca centrale potrà essere costretta a riacquistarle (temporaneamente) al prezzo rivalutato con un esborso effettivo di fondi per essere “ricollocate al più presto sul mercato”. Ma a quale prezzo se il "mercato" per le quote della Banca d'Italia “dipende dalla percezione della "qualità " dell'investimento”? Poiché quel capitale non si accompagna ad alcun diritto di incidenza sulla gestione della Banca centrale, è escluso che si si renderà necessario calibrare (in aumento) i dividendi a favore dei privati affinché il valore di mercato delle quote non si svalutino facendo realizzare delle minusvalenze nel bilancio del nostro Istituto centrale?

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Dividendi

Caro Gnesutta,

prendo atto della tua risposta. Se così è, come pare, allora concordo. In questo caso non si tratta più di un dividendo, quanto di una rendita assicurata su un capitale non versato, che francamente mi sembra assurdo.

Sembra quasi uno scambio: care banche pagatemi un pò di imposte adesso che poi ve le restituisco sotto forma di dividendo!

E' chiaro che le banche si avvantaggiano anche in termini di patrimonio di vigilanza, ma questo non mi sembra negativo.

 

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