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Laboratorio sulla moneta: dalla scarsità all’abbondanza?

Rapporto sul Money lab

di Tiziana Terranova

La due giorni del ‘laboratorio sulla moneta’ organizzata dall’Institute for Network Culture di Amsterdan nelle giornate del 21 e 22 marzo 2014 è iniziata con un botto. Saskia Sassen, autorevolissima sociologa della globalizzazione e delle trasformazioni urbanistiche, docente alla Columbia University di New York, condensa in venti minuti la ‘breve storia brutale’ degli ultimi quattordici anni (2000-2014). Tanta complessità (la finanza), ci dice, ha prodotto una semplice brutalità: i milioni di sfratti da New York ad Amburgo a Budapest, l’accaparramento delle terre agricole in Africa e l’espulsione forzata di milioni di persone dall’economia. Sassen illustra servendosi di grafici l’ascesa drammatica delle curve del profitto del settore finanziario per cui la crisi del 2008 è stata poco più di un singhiozzo. I numeri straordinari, incredibili che indicano il valore corrente o meglio ‘futuro’ dei titoli finanziari mostrano un enorme tasso di crescita impensabile in qualsiasi altro settore dell’economia. Nel 2001, il mercato dei titoli finanziari valeva 819 miliardi di dollari, nel 2008 62.2 trilioni (ogni trilione vale mille milliardi o un milione di milione) e infine nel 2015 siamo arrivati al quadrilione (cioè mille milioni di milioni o un milione di milioni di milioni di milioni).

Questi numeri improbabili, per Sassen, sono il risultato della transattività frenetica e multidirezionale degli scambi finanziari, in cui il denaro è moltiplicato dalle nuove tecnologie dell’accelerazione. Vendendo qualcosa che non ha, si deve inventare ‘strumenti’ e simultaneamente invade gli altri settori dell’economia usando il debito come ‘ponte’. La finanza, ci dice Sassen, commercia col futuro e quindi si occupa di probabilità e incertezza, la sua matematica non è quella della microeconomia, ma della fisica.

Essa scollega il valore di una ‘modesta casetta’ dal suo tessuto di bisogni, desideri e relazioni, connettendola a prodotti finanziari (asset-backed securities) che ne spingono il valore fuori controllo solo per farlo ritornare poi sulle teste dei suoi ‘proprietari’ nella forma di sfratti e espulsioni. Questa crescita accellerata sta avendo per Sassen effetti molto reali e materiali. I profitti ricavati dalla rendita finanziaria vengono reinvestiti nell’acquisto e costruzione di beni immobili, case, palazzi e terreni agricoli nelle città globali e in Africa. La questione degli sfratti, la lotta alla speculazione immobiliare e la concentrazione delle proprietà immobiliare di valore nei centri urbani ma anche quella a difesa delle terre agricole costituiscono dunque elementi centrali nell’azione di contrasto al processo per cui alla fine di questa crescita smodata della finanza ci ritroveremo in una società con un DNA radicalmente cambiato. Sassen ne parla in termini del passaggio dal DNA del mondo animale, e specificamente di primati e scimmie, e quello umano: solo pochi cambiamenti lasciano molte cose immutate, ma introducono una grande differenza. Quando il quadrilione di dollari non riuscirà a essere realizzato in profitto, la società sarà già stata mutata. Tutto quello che poteva essere privatizzato sarà privatizzato, e la ricchezza e la proprietà si accumuleranno nelle mani di pochi. Il debito, Sassen insiste, è il ponte attraverso cui la finanza invade la società, cartolarizzando, mercatizzando e quindi privatizzando.

Eppure il fascino di questo evento di due giorni con il suo denso programma di conferenze e presentazioni (bazaar e presentazioni di progetti si affiancano alle lezioni più accademiche), ma anche con il suo vivace pubblico che include un mix eterogeneo di economisti, artisti, hackers, comunisti, anarchici, libertari, banchieri, ingegneri, filosofi, antropologi, teorici, militanti e smanettoni è stato proprio il fatto che non si è limitato a denunciare i mali della finanziarizzazione, ma ha considerato seriamente questa più ampia sperimentazione sociale che oggi investe il campo della creazione della moneta. Sassen stessa ha aperto questa prospettiva dicendo che la ‘monetizzazione è capabilità’ (capacità di fare, di mettere in moto movimenti e produzione, di condizionare il futuro), che ‘questa finanza non si sa governare ma che noi potremmo governare la finanza per fare molte cose’, ponendo la domanda di ‘come usciamo da questa versione particolare dell’economia monetaria’?

In generale, bisogna dire che questa due giorni molto europea tutto sommato, con una importante presenza nordamericana, ma con poche anche se annunciate presenze da Africa, Asia e Sudamerica, non c’è stato generalmente molto entusiasmo per invenzioni di moda come il ‘crowdfunding’ o Bitcoin. La ricerca sul crowdfunding è tutto sommato abbastanza negativa: questo meccanismo per cui ci si fa finanziare dalla rete risulta alla fine riuscire a mobilitare nella maggior parte dei casi solo reti familiari e amicali, mentre consente all’industria culturale di tagliare ulteriormente i costi, esternalizzando il finanziamento ai produttori stessi, alle loro famiglie e amici. Nella logica della finanza, il mercato attraverso il meccanismo monetario, ‘scopre’ il vero valore (o prezzo) di qualsiasi cosa e se in questa economia il lavoro intellettuale e culturale si valuta abbia valori irrisori, allora il produttore culturale precario, come gli altri lavoratori il cui lavoro è sempre più svalutato in tutti i sensi, non può lamentarsene. Così vogliono le dure leggi del mercato e della finanziarizzazione. Ma se il denaro non fosse misura neutra del valore che rivela il vero prezzo delle cose attraverso i meccanismi del mercato, ma invece se il denaro parlasse e rivelasse in un certo modo i valori di chi l’ha codificato come un software? E se la borsa fosse, come l’ha definita Brett Scott, un Internet sociale?

Bitcoin per esempio è una moneta che codifica un certo tipo di valori e interessi che caratterizzano la comunità che l’ha inventata – quella dei movimenti hackers e cypherpunks. Bitcoin codifica valori espressi da queste società di programmatori: la privacy e l’anonimato, il peer-to-peer come modello di relazione, il privilegio dell’automatismo tecnico per aggirare il problema del rapporto sociale (Bitcoin, come si è detto al MoneyLab, sostituisce la fiducia con la computazione). Bitcoin è una moneta che ha un certo valore di disintermediazione in certi contesti (il suo uso da parte delle reti migranti come un modo per aggirare il pedaggio pesante imposto da Western Union per il trasferimento dei soldi, la crucialità di avere a disposizione una moneta anonima per certe transazioni). Allo stesso tempo, nella sua relazione con la moneta finanziaria, si è detto, Bitcoin rimane una moneta debole che finisce per essere trattata come un prodotto finanziario tra gli altri. Non riesce, in altre parole, a andare oltre la sua funzione di moneta di scambio e unità di preservazione del valore: è una moneta non capace al momento di vero investimento.

Eppure Bitcoin, ‘rompendo il taboo sulla moneta’ (per usare la felice espressione di Jaromil), ha anche aperto il campo ad una idea della moneta in quanto istituzione sociale e tecnica che può essere oggetto di una potenziale proliferazione. Il denaro virtuale, le monete complementari, le cripto-monete, il denaro mobile, la moneta-punk, il crowd-funding mobilitato non per sostenere i costi di produzione che dovrebbero accollarsi aziende e pubblico ma per finanziare ‘micro-azioni sovversive’, fondi di investimento ‘minori’ per precari meta-parassitanti i comportamenti mimetici della borsa reinvestiti in istituzioni del commonfare, e persino l’idea di una economia algoritmica non-monetaria basata sulla distribuzione automatizzata di lavori e compiti, indicano l’emergere di un panorama promettente di sperimentazione capace di incontrare l’inventività speculativa della finanza sullo stesso terreno. Questo è possibilmente il significato della misteriosa espressione, usata da Toni Negri quindici anni fa, ‘il denaro è il comune. Lo spettro che infesta, per così dire, il Lab è la nozione di una possibile abbondanza del denaro come capacità che non è privatizzata da una élite che si vive la sua ‘grande bellezza’ del ‘comunismo del capitale’. Sarebbe un tipo di moneta che è distribuita nella società in modo tale da funzionare non solo come equivalente generale delle merci e mezzo di consumo, basato in una economia della scarsità minacciata dall’inflazione, ma come potente capacità di investire in e quindi finanziare i poteri della cooperazione sociale permettendole di crescere in intelligenza, socialità, cultura. Sarebbe una rottura e un invertimento di rotta clamorosi in una società traumatizzata e corrotta dalle tecniche di governo neoliberale che impongono privatizzazione e precarizzazione come modello di società e norma di vita. La soluzione che ci offrono i cosiddetti riformisti è sempre la stessa: più mercato e più competizione, ma se questa logica, come sempre più evidente, non ci porta verso la crescita che ridistribuisce lavoro, ma verso la corruzione generalizzata e l’impoverimento di massa, perché non mettere sotto accusa proprio quei meccanismi di mercatizzazione che sono proposti come una cura? E’ possibile, come ha sostenuto Carlo Vercellone, che l’estensione dei principi di mercato a tutti i settori della produzione abbia come effetto non una razionalizzazione virtuosa, ma una corruzione endemica? Che trattare i soggetti sociali come attori economici impegnati nel calcolo razionale di costi e benefici non ci renda più razionali e morali, ma sia uno stimolo alla corruzione che distrugge i valori sociali che diamo all’educazione, all’ambiente, alla cura del corpo e della psiche?

Si tratta dunque di impedire e contrastare allora quella deriva iper-privatizzata, basata sulla logica dominante del mercato, anche sul terreno della forma della moneta ormai trasformata in ‘puro segno’ prodotto da una macchina semiosociale (i mercati finanziari). Come ci ricorda Christian Marazzi la moneta oggi è un puro segno che però non è simulacro baudrillardiano nella misura in cui non può staccarsi completamente dal motore della ricchezza, cioè il lavoro, concepito non come lavoro salariato in senso stretto, ma nel senso più generale di dispendio di energia psico-fisica, investimento energetico nella relazione sociale e nel rapporto trasformativo con la natura e la tecnologia. Contro la propaganda neoliberista si tratta di dire: quello che ci manca non è il lavoro, di lavoro inteso come capacità di investire saperi, competenze, energie e passioni in attività costituiva del mondo c’è abbondanza. Come pure abbondanti ed entusiasmanti sono le sfide difficili in cui lavoro e denaro dovrebbero essere investiti: la bonifica di territori avvelenati, la cura di patologie psichiche e fisiche indotte dalla precarizzazione, inquinamento e intensificazione dello sfruttamento, l’invenzione di nuove istituzioni della ricerca, dell’insegnamento, della cura del sè, degli altri, di nuovi modi di produrre oggetti e relazioni sociali– quella economia antropogenetica e quelle istituzioni del commonfare di cui ci ha parlato la ricerca postopoeraista in questi anni. Allora si tratta di spostare l’ordine del discorso dalla ‘scarsità’ e l’ ‘austerity’ (scarsità di ‘posti di lavoro’ e limiti sempre più stretti di spesa) in cui lo ‘spreco’ di vite e risorse regna sovrano verso un discorso dell’abbondanza di energie e di passioni, di idee e progetti volti alla costruzioni di futuri diversi da quelli prefigurati dal cambiamento genetico sociale prefigurato da Sassen. Tutto questo processo passa per una riappropriazione del denaro non solo come reddito, ma anche come ‘capabilità’ di indirizzare gli investimenti di ricchezza comune, di deciderne le priorità.

 La domanda che si pone dunque, è se il denaro rappresenta in questo momento la forma sociale del potere del capitale sulla produzione e sulla società, è possibile portare il conflitto dentro la finanza anche sul campo della creazione del denaro? Se questa economia ci ha insegnato che il denaro è un segno, che le banche possono creare ex-nihilo e moltiplicare a dismisura a patto che continui ad accumularsi, che altro tipo di denaro è possibile creare? Se questa moneta finanziaria è solo una delle forme possibili di misura del valore e mobilitazione di capacità di intervento, di che forme tecniche e sociali di denaro abbiamo bisogno per rompere il monopolio esercitato da banche e fondi di investimento sulla creazione e distribuzione di ricchezza? Se i giganti di Internet si stanno già attrezzando per produrre le proprie monete elettroniche, come salviamo la ‘valuta-segno’ da una economia di abbondanza per pochissimi e debito, scarsità e stress per i tanti in una economia di abbondanza generale non finalizzata al consumo sterile ma all’investimento in nuovi futuri possibili?

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