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La dittatura dello spread

Alessandro Somma

Pubblichiamo un estratto dal libro La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito in libreria in questi giorni per le edizioni DeriveApprodi

SPREAD2Rating, dall’inglese «valutazione», è un vocabolo divenuto di uso corrente per indicare la descrizione di determinate caratteristiche riferite a istituzioni pubbliche e private. Dal momento che fine ultimo del rating è solitamente la compilazione di un ranking, altra espressione inglese diffusa il cui significato è «classifica», la descrizione avviene in forma di misurazione espressa in termini numerici o comunque quantitativi, in quanto tali frutto di notevoli semplificazioni e arbitri. Ciò nonostante i rating e i relativi ranking sono estremamente diffusi: hanno assunto il rango di una vera e propria forma di comunicazione, quasi uno specifico genere letterario, utilizzato per veicolare, in modo efficace e immediato, i messaggi più disparati.

Prendiamo ad esempio i rating confezionati da Transparency International, che misura la corruzione percepita nei diversi paesi del mondo. Il relativo ranking restituisce dell’Italia un’immagine tutt’altro che gratificante: si piazza al sessantanovesimo posto, a pari merito con la Romania, terz’ultima tra i paesi dell’Unione europea dopo la Bulgaria e la Grecia. Il messaggio che si ricava da questa classifica, e dal rating che la precede, è immediato: per quanto le leggi non siano sufficienti a produrre qualità morali, possono contribuirvi in modo determinante e dunque è opportuno che il parlamento si attivi per prevenire e reprimere la corruzione.Ciò nonostante, sono anni che da più parti si denuncia invece l’inerzia del legislatore italiano, se non addirittura la volontà di rendere la vita facile ai corruttori e ai corrotti.

Non va meglio nel rating che prende in considerazione la libertà di stampa, confezionato da Reporters sans frontières. Nell’ultima classifica l’Italia compare piuttosto in basso: si colloca al quaranta novesimo posto. Nell’Unione europea solo cinque paesi ottengono un risultato ancora meno gratificante: Malta, l’Ungheria, la Croazia, la Grecia e la Bulgaria. Qui il legislatore potrebbe fare molto per migliorare la situazione, ad esempio disciplinare il conflitto di interessi in cui versano i leader politici proprietari di televisioni e quotidiani a larga diffusione nazionale. Eppure, notoriamente, nonostante se ne parli da decenni, non è avvenuto nulla di significativo in questa direzione.

Il posizionamento dell’Italia lascia a desiderare anche nella valutazione delle politiche sociali e del lavoro, ad esempio quella realizzata da Eurostat. Due dati sono sufficienti a dimostrarlo: secondo le ultime rilevazioni disponibili, riferite al 2012, il 30% delle persone era a rischio povertà o esclusione sociale, contro una media europea inferiore al 25%, mentre al principio del 2014 il tasso di disoccupazione giovanile sfiorava il 43%, essendo migliore solo di quello registrato a Cipro, in Croazia, in Grecia e in Spagna (la media europea è sotto il 23%). Anche i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), pubblicati nel 2014 e riferiti al 2012, confermano che l’Italia è in pessima salute dal punto di vista delle politiche sociali: nella classifica che misura la distribuzione del reddito, tra i paesi membri dell’Unione europea, l’Italia si trova in una situazione migliore solo del Portogallo e del Regno Unito. Anche in paesi come Grecia o Spagna, le cui politiche sociali e del lavoro sono per altri aspetti meno soddisfacenti di quelle italiane, la forbice tra ricchi e poveri non è così ampia come nel Belpaese.

Non occorre un acume particolare per ricavare il messaggio, per non dire l’urlo di dolore, che proviene da questi rating e dai relativi ranking: la situazione che descrivono non è il frutto di accidenti, ma di scelte politiche ben precise, rispetto alle quali occorre un radicale mutamento di rotta. Eppure, anche qui, accade il contrario: all’aumento della povertà e alla polarizzazione della ricchezza corrispondono tagli crescenti alla spesa sociale, mentre all’incremento della disoccupazione si continua a rispondere con la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro. Lo stimolo a proseguire lungo questa strada, lasciandosi tutt’al più sfiorare da dubbi di mera facciata, deriva da un altro rating, utilizzato per veicolare un messaggio evidentemente ritenuto il più attendibile. È quello delle mitiche agenzie di rating, appunto, che misurano la solvibilità degli Stati, la loro affidabilità in quanto debitori, a beneficio di chi intende acquistare titoli del debito pubblico: un tempo prevalentemente semplici cittadini, per mettere i risparmi al riparo dall’inflazione, da alcuni anni soprattutto gli investitori istituzionali, per realizzare profitti attraverso la speculazione finanziaria.

Le agenzie di rating non brillano per la loro neutralità, giacché intrattengono rapporti di affari con i soggetti valutati, e neppure per la loro professionalità: i loro errori di valutazione sono da annoverare tra le cause della crisi finanziaria che ha prodotto l’attuale crisi economica. E tuttavia le previsioni di quelle agenzie incidono sensibilmente sulla situazione debitoria degli Stati, e di riflesso sulla vita dei loro cittadini.

Consideriamo ad esempio il rating della Germania confezionato da Standard &Poors’s: si valuta che abbia ottime capacità di onorare gli impegni assunti in quanto, afferma l’agenzia in una nota, oltre a possedere un’economia moderna, ha un governo capace di adottare politiche fiscali prudenti e di tenere la spesa pubblica sotto controllo. Il rischio sopportato da chi investe in titoli del debito tedeschi, il rischio che la Germania non sia in grado di restituire le somme prese a prestito, è allora sostanzialmente inesistente, e non ha bisogno di essere ripagato da tassi di interesse elevati.

Diversa la situazione dei paesi che godono di cattiva fama quanto alla loro affidabilità come debitori: per attrarre acquirenti dei loro titoli del debito devono promettere tassi di interesse particolarmente elevati, abbastanza da bilanciare il rischio di insolvenza. È quanto deve fare l’Italia, il cui governo, sempre per Standard & Poor’s, appare incapace di adottare le riforme strutturali necessarie a ridurre l’enorme debito pubblico. Va da sé che, se i tassi di interesse sono elevati, la complessiva situazione debitoria del paese peggiora, giacché anche il cosiddetto servizio del debito, ovvero la restituzione delle somme prese a prestito aumentata del tasso di interesse, costituisce una percentuale importante della spesa pubblica. E visto che questa viene finanziata con il debito, il paese debitore ritenuto inaffidabile viene trascinato in una spirale perversa.

A questo punto entra in gioco una terza parola inglese di uso corrente: lo spread, il «differenziale» tra i tassi di rendimento dei titoli di Stato tedeschi, il più basso in Europa, e quelli italiani (a dieci anni). Qui il risultato peggiore è stato ottenuto sul finire del 2011, quando lo spread ha raggiunto la sua quota record, preceduto da previsioni nefaste delle agenzie di rating sulla solvibilità dello Stato italiano. Da allora il Belpaese occupa i posti bassi delle classifiche che misurano l’affidabilità dei debitori sovrani, con le agenzie di rating tutt’ora impegnate a sostenere che i suoi titoli del debito sono più o meno vicini al livello dei titoli spazzatura.

Si è così scatenata una corsa contro il tempo per realizzare ciò che i mercati finanziari pretendono per pronosticare un miglioramento quanto alla solvibilità del debitore Italia: una diminuzione delle uscite attraverso la riduzione della spesa in prestazioni sociali, un incremento delle entrate con un programma di privatizzazioni e liberalizzazioni, e una riforma del mercato del lavoro destinata a precarizzarlo e flessibilizzarlo. Il tutto anche per assecondare quanto emerge dai noti Rapporti Doing business, confezionati dalla Banca mondiale per classificare i diritti nazionali in base alla loro capacità di creare un clima business friendly. Anche qui l’Italia occupa posizioni basse perché, si sostiene, ha un governo invadente, che pone troppi ostacoli agli operatori economici, inclusi quelli che derivano dalla tutela dei lavoratori.

Più inquietanti dell’ideologia espressa da questo impeto riformatore, sono le modalità con cui si esprime, sostanzialmente incompatibili con le regole della democrazia. Queste ultime sono sacrificate alle necessità del mercato, che richiede sottomissione a quella che a buon titolo può essere definita la dittatura dello spread. Che per salvare il mercato si sacrifichi la democrazia, non è certo una novità. È accaduto nella prima metà del Novecento, quando la richiesta di una mano visibile che sostenesse l’ordine economico, e imponesse a monte la necessaria pacificazione sociale, ha prodotto l’esperienza fascista. Proprio per questo i paesi che l’hanno vissuta si sono poi dotati di costituzioni in cui, accanto alla democrazia politica, si prescrive la democrazia economica: il legislatore deve promuovere lo sviluppo della persona anche quando disciplina il mercato, evitando di subordinare la garanzia dei diritti fondamentali a quanto di volta in volta richiesto per sostenere l’ordine economico.

In molti, soprattutto dalle fila dell’antifascismo, si riconobbero in questo programma e vollero rafforzarlo ponendolo alla base dell’unità europea: fu questo il senso del noto Manifesto di Ventotene. Quando l’unità venne avviata, però, fu per perseguire finalità di segno opposto: per produrre un’integrazione incentrata sulle libertà di mercato, indifferente, se non ostile, alle sorti dei diritti fondamentali e della democrazia.

Il primo stimolo in questo senso, alla conclusione del secondo conflitto mondiale, derivò dall’Organizzazione per la cooperazione economica europea, voluta dagli statunitensi per utilizzare l’assistenza finanziaria prevista dal Piano Marshall come incentivo al posizionamento nell’incipiente Guerra fredda. Fu l’occasione per sperimentare una modalità destinata a divenire il principale strumento di integrazione europea: quella per cui le trasformazioni richieste agli Stati per convergere verso fondamenti comuni, tutti relativi alla promozione delle libertà di mercato, si impongono come contropartita per la concessione di prestiti. È successo prima con l’ampliamento della Comunità economica europea verso sud, poi con l’allargamento dell’Unione europea a est, e ora con la ristrutturazione del debito sovrano, guarda caso soprattutto dei paesi le cui costituzioni prescrivono la democrazia economica. In tutto questo la Germania ha rivestito e riveste un ruolo fondamentale, innanzitutto come centro incaricato di disciplinare l’integrazione europea e di individuare i dati macroeconomici di riferimento.

Un tempo si privilegiava la sostenibilità delle bilance dei pagamenti nazionali, ma ora, con l’economia tedesca in forte surplus, le cose sono cambiate: tutto ruota attorno al contenimento del deficit e del debito pubblico a presidio di un’unione monetaria ossessionata dal controllo sull’inflazione. Le ricette di politica economica verso cui far convergere i paesi europei sono infatti un riflesso della disciplina di bilancio imposta soprattutto attraverso la regola del pareggio: è per rispettarla che si taglia la spesa pubblica, si incentivano le privatizzazioni e le liberalizzazioni, e si rende il lavoro flessibile e precario.

Peraltro il ruolo della Germania nello sviluppo dell’integrazione europea si gioca soprattutto sul terreno dei suoi fondamenti ideologici, riassunti nella formula «economia sociale di mercato». È una formula volutamente fuorviante, che vorrebbe richiamare l’idea di un capitalismo dal volto umano, ma solo per confondere circa il senso della combinazione tra libero mercato e socialità. L’economia sociale di mercato, infatti, è tale perché identifica nel mercato il meccanismo migliore, e in questo senso sociale, di produrre e redistribuire ricchezza. Di qui la riduzione dell’inclusione nel mercato a inclusione sociale tout court, realizzata da uno Stato di polizia economica incaricato di imporre la concorrenza attraverso la spoliticizzazione del potere. Di qui anche il contrasto del confronto democratico, costretto entro schemi neocorporativi presidiati da un apparato tecnocratico, primo fra tutti quello incaricato di realizzare l’unione monetaria.

Siamo insomma confrontati con una costruzione che alimenta lo scontro tra capitalismo e democrazia, e si capisce: i fondamenti dell’economia sociale di mercato si sono concepiti durante l’epoca nazista per descrivere teorie e pratiche alimentate dalla dittatura hitleriana. E se quelle teorie e quelle pratiche sono potute sopravvivere alla capitolazione del regime, contro il volere della maggior parte dei tedeschi, è stato per l’ingerenza degli statunitensi, oltre che per il ricorso a un’imponente campagna di marketing politico. Il resto è il prodotto della congiuntura positiva che ha caratterizzato i primi anni di vita della Repubblica di Bonn, consentendo ai suoi leader di presentare l’economia sociale di mercato come fonte di miracoli economici.

Ecco cosa si cela dietro alla formula ora menzionata anche dal Trattato dell’Unione europea, che si vuole basata su «un’economia sociale di mercato fortemente competitiva». Molti reputano che la formula sia il segno di una maggiore sensibilità per le tematiche sociali e di una minore ossessione per le ragioni dei mercati. Basta però osservare quanto è sotto gli occhi di tutti, per comprendere che si tratta di una mistificazione: l’Europa avanza come Superstato di polizia economica, pronto a sacrificare democrazia e giustizia sociale sull’altare di un’unione economica e monetaria utilizzata per imporre l’ortodossia richiesta dai mercati. Tutto questo accade mentre da qualche tempo, in Italia, le notizie sullo spread hanno smesso di occupare le prime pagine dei quotidiani.

In effetti, caduto il governo Berlusconi pochi giorni dopo il raggiungimento del record, il successivo governo cosiddetto tecnico, quello presieduto da Mario Monti, ha raggiunto l’obiettivo che si era dato: dimezzare lo spread grazie a un programma di riforme strutturali indicate dalla Banca centrale europea, destinate a provocare migliori previsioni sulla solvibilità del debitore Italia da parte delle agenzie di rating. Caduto anche il governo Monti, i successivi, l’attuale in testa, hanno proseguito l’opera del tecnico prestato alla politica, e questo ha provocato un’ulteriore discesa dello spread, al momento attestatosi su valori non particolarmente preoccupanti. Tutto questo è avvenuto mentre, come abbiamo detto, le pagelle distribuite dalle agenzie di rating all’Italia sono peggiorate. E si capisce: se quando Monti arrivò a Palazzo Chigi il debito pubblico era al 120% del pil, quel valore è poi cresciuto costantemente, sino a sfondare ampiamente la soglia del 130%.

Significa allora che la dittatura dello spread è cessata, perché le previsioni negative formulate dalle agenzie di rating non sono più in grado di condizionare il comportamento dei mercati? Per nulla: nonostante quelle previsioni non determinino una minore attrattività dei titoli del debito pubblico, la dittatura è più feroce che mai. Essa opera sul terreno delle scelte della politica italiana, che contemplano oramai un orizzonte unico e indiscutibile: occorre proseguire lungo la strada dei tagli alla spesa sociale, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro. Lo spread resta basso finché l’Italia convince circa la volontà di proseguire lungo questa strada, mentre è subito pronto a risalire se sorgono dubbi in proposito: come recentemente accaduto quando, negli ultimi momenti della recente campagna per le elezioni europee, sembrava che il governo potesse uscirne indebolito.

Continuiamo insomma a subire la dittatura della spread. I livelli bassi indicano solo che stiamo vivendo un periodo di pax finanziaria, pronta a incrinarsi se l’ortodossia richiesta dai mercati non riceve avalli incondizionati: se la democrazia non accetta di ridurre il suo perimetro in funzione delle necessità di riforma del capitalismo.

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