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aprileonline

Intenzionalità della svalutazione del Dollaro?

Domenico Moro

dollaro bruciaIl crollo del dollaro negli ultimi mesi ha fatto pensare che sia stato in qualche modo pilotato dall'amministrazione Obama allo scopo di ridurre l'abnorme debito commerciale estero statunitense. Bisogna ammettere che chi la pensa in questo modo è in buona compagnia, visto che lo stesso Trichet, presidente della Banca centrale europea, ha rivolto recentemente un appello alle autorità Usa a favore di un dollaro più forte

La richiesta di Trichet è comprendibile alla luce della difficoltà di Eurolandia nelle esportazioni verso gli Usa a causa dell'apprezzamento dell'euro. Comprensibile, ma senza fondamento, perché la svalutazione del dollaro è tutt'altro che voluta dal governo Usa ed è semmai una conseguenza necessaria di scelte indirizzate verso ben altri obiettivi. In primo luogo, bisogna notare che il dollaro è da diversi anni che tende a svalutarsi rispetto all'euro.

Il rafforzamento della valuta di Eurolandia va oltre la situazione contingente e semmai ha la sua radice nell'indebolimento storico dell'economia Usa e di conseguenza nella incapacità degli Usa a sostenere una moneta "mondiale". In tal modo, di riflesso si rafforza l'unica valuta che dietro di sé ha condizioni simili a quelle Usa: una economia grande e potente e una struttura finanziaria sufficientemente sviluppata in grado di rappresentare una alternativa per i flussi mondiali di capitale.

Detto questo, vediamo perché per Obama il crollo del dollaro non può essere una scelta intenzionale. Innanzi tutto, il debito commerciale Usa è troppo grande per poter essere risolto con la svalutazione del dollaro. C'è stata in effetti una piccola riduzione del debito commerciale nell'ultimo anno, ma questo non è dovuto all'aumento delle esportazioni Usa che, secondo il ragionamento di alcuni, sarebbero dovute essere favorite dal deprezzamento del dollaro, permettendo così di praticare prezzi più competitivi. Viceversa, è da attribuirsi al crollo delle importazioni, causato dall'aumento della disoccupazione e dall'interruzione, a seguito della "crisi dei mutui", del meccanismo che permetteva a decine di milioni di statunitensi, alle prese con salari reali decurtati, di acquistare a credito merci di importazione. Soprattutto molto interessante è quanto dice David Lubin di Citigroup, ovvero che tra 2005 e 2008 il cambio effettivo reale cinese si è apprezzato del 15%, mentre il surplus corrente passava dal 7% al 10% del Pil. E sappiamo che la gran parte del surplus del commercio estero cinese è con gli Usa.

Cosa vuol dire? Vuol dire che le variazioni del cambio non hanno effetti sulla relazione commerciale con la Cina e che la reiterata richiesta Usa ai cinesi di rivalutare lo yuan renmimbi per riequilibrare la squilibrio commerciale è fumo negli occhi. Comunque, se la svalutazione del dollaro è inutile dal punto di vista del riequilibrio del debito commerciale estero, risulta deleteria per quanto riguarda il crescente debito federale. Infatti, come tutti sanno, questo è finanziato dagli acquisti di titoli del Tesoro Usa da parte dei detentori di surplus commerciali, in primis dalla solita Cina.

Se il dollaro si deprezza anche i risparmi detenuti dalla Cina e dagli altri Paesi (Giappone, Russia, Arabia Saudita, ecc.) perdono valore, creando una spinta a diversificare, a favore di altre valute (in primis l'euro), il paniere delle valute di riserva, come sembra sia già accaduto (la composizione della riserva cinese è segreta). Di sicuro c'è che negli ultimi tre mesi la Cina ha acquistato solo titoli del debito Usa a breve, evitando quelli a lunga scadenza. La verità è che questo meccanismo fa comodo agli Usa, ridottisi a Stato rentier (che vive di rendita), perché gli permette di drenare, almeno finché la Cina e altri Paesi non sviluppino mercati finanziari adeguati, il risparmio mondiale verso i propri mercati finanziari. Non c'è, quindi, neanche un vero interesse a modificare le relazioni economiche con la Cina (e a svalutare il dollaro), visto che il surplus commerciale di questa, poi, prende la via dei mercati finanziari Usa, che a loro volta provvedono a indirizzarlo verso investimenti produttivi o di portafoglio in giro per il mondo.

Si tratta, in effetti, di niente altro che dell'esercizio di un potere imperiale. Un potere basato sul cosiddetto signoraggio del dollaro, cioè sulla capacità di finanziarsi semplicemente battendo moneta, che rappresenta una sorta di tassa imposta agli altri Paesi. Questo meccanismo funziona, però, solo finché questa moneta è riconosciuta valida universalmente, ed è valida nella misura in cui è accettata in virtù della forza economica dello Stato che la emette. È tipico degli imperialismi che l'abitudine ad esercitare tale potere distolga le energie economiche dalla produzione e dallo sviluppo delle forze produttive, alla cui avanguardia si pongono altri Stati e altre aree economiche che nel frattempo hanno registrato un maggiore dinamismo. Infatti, negli ultimi trenta anni gli Usa si sono fortemente deindustrializzati, riducendo drasticamente la loro quota dell'output mondiale, mentre masse di lavoratori sono stati licenziati o spostati nei servizi, molto spesso tutt'altro che "avanzati", dove sono pagati molto meno. L'impoverimento dei lavoratori si contrappone così all'arricchimento dell'aristocrazia finanziaria, aumentando il divario sociale e sospingendo la propensione Usa a basarsi sul credito.

Ad ogni modo, mano a mano che la forza economica viene meno, è sostituita dalla forza militare. L'invasione dell'Iraq avvenne, ad esempio, allorché Saddam provò a commercializzare il petrolio in euro, mentre le reiterate minacce Usa all'Iran sono collegate simili problematiche energetico-valutarie. Per l'imperialismo, il controllo delle risorse energetiche estere non è finalizzato alla soddisfazione di propri bisogni, bensì al mantenimento del proprio dominio, come prova il ruolo che giocò la contrapposizione dell'impero impero inglese a quello tedesco per il petrolio della Mesopotamia (ora Iraq) nello scoppio della Prima guerra mondiale. La conseguenza dello stato di guerra latente o guerreggiato è, però, che l'imperialismo si ritrova appesantito da un debito pubblico sempre maggiore, che richiede maggiori finanziamenti e quindi di nuovo un rafforzamento dell'esercizio del potere militare, avviluppando così lo Stato imperialista e rentier in un circuito vizioso dal quale non può affrancarsi.

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