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Libia, come si saccheggia una nazione

di Giacomo Gabellini

La storia non raccontata di una Libia divenuta un pericolo per il processo di globalizzazione e che doveva essere ricondotta all’ordine

libya fall of tripoliLa Libia è oramai una mera espressione geografica, per usare un’espressione del principe Von Metternich. Dall’intervento occidentale contro Muhammar Gheddafi, il Paese – le regioni del Sahel con cui confina – è infatti sprofondata nel caos, con un nugolo di fazioni autofinanziate mediante quella che si configura in tutta evidenza come una moderna tratta degli schiavi e armate di fucili, lanciarazzi, pistole, ecc. sottratti dagli arsenali della Jamahiriya ormai distrutta che si contendono il territorio. Una situazione da cui le grandi imprese sperano di trarre ottimi profitti, attraverso l’applicazione di disegni egemonici studiati a tavolino quali quello spiegato al «Corriere della Sera» da Paolo Scaroni, l’ex amministratore delegato dell’Eni riciclatosi come vice-presidente della Banca Rothschild (la stessa in cui si è formato Emmanuel Macron). A detta di Scaroni, «occorre finirla con la finzione della Libia, Paese inventato» dal colonialismo italiano. È necessario «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», cosa che spingerebbe inevitabilmente Cirenaica e Fezzan a dotarsi di propri governi regionali con lo scopo di amministrare in autonomia le proprie ricchezze.

Si tratta di un piano balcanizzazione mutuato dal colonialismo di stile ottocentesco e riveduto e corretto per essere adattato alle necessità strategiche degli Stati Uniti e dei loro alleati-sottoposti che, nello specifico, vertono sulla disintegrazione di interi Paesi (come la Jugoslavia) per assumere il controllo delle risorse locali e stroncare sul nascere qualsiasi loro possibile riposizionamento geopolitico. Un piano, insomma, che andrebbe a completare ciò che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna iniziarono nel 2011 con l’intervento armato contro la Jamahiriya Libica.

La natura dei rapporti intrattenuti da Stati Uniti ed Europa con il colonnello Gheddafi è sempre stata profondamente intrisa di schizofrenia. Nell’arco degli ultimi decenni, a Gheddafi è stata attribuita la responsabilità dell’azione terroristica del 5 aprile 1986 alla discoteca La Belle di Berlino, il cui obiettivo erano i militari statunitensi che frequentavano abitualmente il locale, dell’attentato del 21 dicembre 1988 al Boeing747 esploso sui cieli di Lockerbie e di quello che il 19 settembre 1989 colpì il Dc-10 francese mentre sorvolava il deserto del Téneré in Niger come forma di rappresaglia per il sostegno francese al governo di N’Djamena durante la guerra tra Ciad e Libia tra il 1978 e il 1987. Tali azioni valsero alla Libia l’embargo commerciale, e a Gheddafi il titolo di grande sponsor del terrorismo internazionale benché quantomeno caso di Lockerbie il quadro fosse ben più complesso di quanto appariva. Secondo l’ex agente della Cia Oswald LeWinter, infatti,

«a bordo dell’aereo Pan-Am caduto a Lockerbie, in Scozia, nel Natale del 1988 (260 morti), c’erano sei agenti Cia in ritorno da una missione in Libano per la liberazione degli americani tenuti in ostaggio laggiù» (cfr. Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, Chiarelettere, Milano 2013, p. 230).

Sul volo, come spiega la giornalista investigativa Stefania Limiti, c’era però anche Bernt Carlsson, plenipotenziario dell’Onu per la Namibia ed ex stretto collaboratore del premier svedese Olof Palme (assassinato in circostanze misteriose da ambienti legati alle strutture atlantiche) che portava con sé una valigia contenente una massa di documenti attestanti il coinvolgimento della P-2 nel traffico d’armi noto come Iran-Contras. Stando a quanto rivelato da LeWinter, fu per impedire che il coinvolgimento della loggia massonica diretta da Licio Gelli che alcuni elementi di spicco della stessa organizzarono l’abbattimento dell’aereo. Lo stesso LeWinter ha inoltre parlato di

«un’agghiacciante indagine, svolta da un’agenzia di copertura del Mossad, sull’attentato all’aereo Pan-Am esploso a Lockerbie, in Scozia. Ventisei pagine per una ricostruzione puntuale che parla di Cia, di droga e di resa dei conti all’interno dello stesso traffico. Fonte sospetta, certamente, ma interessante da verificare» (ibidem, p. 230-231).

Anche gli occidentali si resero peraltro responsabili di azioni “poco ortodosse” (per usare un eufemismo), visto che, con ogni probabilità, era francese il missile che nel giugno del 1980 colpì il Mig libico durante la guerra aerea combattuta il 27 giugno del 1980 sui cieli italiani che culminò con l’abbattimento del Dc-9 dell’Itavia, precipitato al largo di Ustica dopo esser stato colpito, con ogni probabilità, da un missile Nato. L’obiettivo dell’operazione era quello di eliminare il colonnello, cosa che gli Stati Uniti tentarono di fare anche nell’aprile del 1986, quando, come ritorsione per l’attentato di Berlino, bombardarono il palazzo residenziale di Tripoli provocando la morte della figlia adottiva di Gheddafi. Poco importava, dal momento che sul rais pesavano comunque l’appoggio (ondivago e ambiguo, visti e considerati i continui ammiccamenti del colonnello a Israele, tra i quali rientra probabilmente l’assassinio di Moussa al-Sadr, influentissimo imam sciita e fondatore del partito libanese Amal) alla causa palestinese, i ripetuti abboccamenti con l’Ira nordirlandese e la sfida posta agli interessi petroliferi occidentali, con la nazionalizzazione dei campi della British Petroleum (1971) e degli impianti petroliferi della Oxy (1972).

Per queste ragioni la Libia fu sottoposta ad un sostanziale isolamento internazionale fino al 2003, quando Gheddafi tornò nelle grazie degli euro-statunitensi risarcendo i parenti delle vittime degli attentati degli anni ’80 e aprendo l’economia libica agli investitori stranieri. Nel settembre 2003 il capo del governo spagnolo José Maria Aznar fu il primo a rompere gli indugi recandosi a Tripoli per farsi garante degli interessi degli investitori iberici che si accingono a far affluire capitali in Libia. Il 25 settembre dell’anno seguente fu il turno di Tony Blair, che atterrò all’aeroporto della capitale per sovraintendere alla concessione petrolifera del valore di 200 milioni di dollari che Gheddafi aveva accordato alla Shell. Nell’aprile del 2004 Gheddafi raggiunse quindi Bruxelles per incontrare il presidente della Commissione Europea Romano Prodi, il quale salutò l’evento come il frutto di anni ed anni di fitto lavoro diplomatico. Sei mesi dopo, il premier italiano Silvio Berlusconi presenziò alla cerimonia per l’inaugurazione dell’oleodotto italo-libico, che andava a coronare decenni di affari tra l’Eni e la Jamahiriya tra cui spiccano la concessione del giacimento Western Desert e il potenziamento del gasdotto Greenstream, in grado di garantire l’afflusso annuale di 8 miliardi di m3 di gas dal porto libico di Mellitah ai terminali di Gela. Nell’ottobre dello stesso anno, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder si recò alla corte di Gheddafi per partecipare alle trattative propedeutiche all’assegnazione dei diritti di esplorazione di alcune aree del deserto libico alla compagnia tedesca Wintershall.

Gheddafi era conscio del fatto che acconsentire a qualche apertura nei confronti degli occidentali rappresentava una tappa necessaria per vedersi riconoscere come interlocutore credibile in grado di attirare quegli investimenti di cui la Libia aveva fortemente bisogno per modernizzare la propria economia. Non a caso, gli fu sufficiente annunciare lo smantellamento dell’arsenale biologico di cui disponeva e la rinuncia allo sviluppo dell’energia nucleare per ottenere l’archiviazione generale delle colpe che gli erano state attribuite in passato. Gli stessi Stati Uniti si gettarono alle spalle le vecchie ruggini favorendo una distensione dei rapporti culminata con una lettera in cui il presidente George W. Bush auspicava una «normalizzazione dei legami politici, economici, commerciali e culturali» con Gheddafi. La revoca dell’embargo e l’assoluzione dai “peccati” del passato permise alla Libia di intraprendere un processo di crescita assolutamente straordinario. Il Paese, collocandosi al primo posto tra i produttori dell’Africa, deteneva all’epoca riserve di petrolio – di ottima qualità e facilmente estraibile – stimate in 46 miliardi di barili e riserve di gas naturale che ammontavano a circa 1.500 miliardi di m3. I fondi sovrani depositati nei forzieri della Libyan Investment Authority (Lia) ammontavano nel settembre 2010 a circa 70 miliardi di dollari, ma arrivavano ad oltre 150 se nel conteggio totale fossero stati inclusi gli investimenti esteri della Banca Centrale e di altri organismi statali. Una volta depennata dalla lista degli “Stati canaglia” da Washington, la Libia implementò il sistema di contrattazione Epsa-4, attraverso il quale venivano concesse alle grandi società straniere operanti all’interno del Paese licenze di sfruttamento tali da assicurare alla compagnia statale libica la percentuale più alta del petrolio estratto che, data la forte competizione, arrivava a circa il 90%. «I contratti Epsa-4 erano quelli che, su scala mondiale, stabilivano i termini più duri per le compagnie petrolifere» , ha successivamente riconosciuto l’ex presidente della ConocoPhillips in Libia Bob Fryklund. I lauti profitti garantiti da questo metodo consentivano a Gheddafi, che aveva aperto le porte della Libia anche a compagnie cinesi e russe, di intraprendere una politica estera finalizzata alla valorizzazione dei fondi sovrani attraverso una serie di investimenti particolarmente vantaggiosi in Africa, Europa ed Asia.

Nell’arco di pochi mesi la bilancia commerciale del Paese accumulò un avanzo pari a circa 30 miliardi di dollari che vennero poi reinvestiti, soprattutto in Italia. L’Italia, i cui interessi in Libia risalgono al 1911, ha sempre intrattenuto uno stretto legame con il regime di Muhammar Gheddafi. Non va dimenticato che erano libici i fondi che nel 1976 vennero riversati nelle casse di una Fiat regolarmente bisognosa di liquidità per mantenersi attiva sul mercato italiano e internazionale. I dati risalenti al marzo del 2011 rivelano invece che la Libia si collocava al quinto posto nella classifica dei principali Paesi fornitori dell’Italia, coprendo il 4,5% delle importazioni totali, mentre il mercato libico costituiva a sua volta lo sbocco per circa il 17% delle esportazioni italiane. Nel 2010, l’interscambio complessivo ammontava a circa 12 miliardi di euro. La Libia si attestava inoltre al primo posto nella classifica dei fornitori di greggio e al terzo in quella dei fornitori di gas per l’Italia, così come quest’ultima rappresentava il terzo Paese investitore nell’economia libica tra quelli europei (petrolio escluso) e il quinto a livello mondiale. L’importanza che il mercato libico rivestiva per il nostro Paese è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di un numero esorbitante di aziende italiane. Fin dai tempi di Enrico Mattei l’Eni costituiva una delle principali compagnie estrattive di petrolio e gas operanti in Libia, ed era successivamente riuscita ad ottenere da Gheddafi i diritti di sfruttamento dei giacimenti fino al 2045. La Libyan Investment Authority possedeva il 2% circa di Finmeccanica, con la quale era stata lanciata una cooperazione paritetica altamente strategica inerente il settore dei trasporti, dell’aerospazio e dell’energia. Ansaldo Sts, AgustaWestland e Selex, società controllate da Finmeccanica, erano riuscita ad aggiudicarsi contratti, per un giro di affari che superava il miliardo di euro, rivolti al potenziamento del sistema ferroviario e allo sviluppo dell’elicotteristica. Impregilo, dal canto suo, aveva vinto i bandi per la costruzione di tre poli universitari e la realizzazione di numerose opere infrastrutturali sia a Tripoli che a Misurata. La Lia e la Central Bank of Libya acquisirono inoltre quote del colosso finanziario Unicredit sufficienti per collocare la autorità libiche al primo posto tra gli azionisti. Aziende come Alitalia, Telecom, Anas ed Edison ottennero anch’esse ricchi contratti in Libia. L’Italia, in particolare quando la corrente morotea della Democrazia Cristiana riuscì a far valere il proprio peso, non esitò ad offrire a Gheddafi vantaggi di varia natura, in particolare per quanto riguarda la collaborazione nei settori dell’intelligence (i servizi italiani salvarono più volte la pelle al colonnello, avvertendolo degli attentati che gli “alleati” statunitensi e francesi avevano organizzato per eliminarlo) e le forniture militari. Come è noto, tuttavia, non era solo il governo di Roma a mantenere fruttuosi rapporti diplomatici e commerciali con Tripoli, perché già allora si registrava un frenetico attivismo da parte di numerosi Paesi collocati in ogni parte del mondo. Il risultato fu che,

«anche se inferiori a quelli dell’Arabia Saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si caratterizzarono per la loro rapida crescita. Quando la Libyan Investment Authority fu costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre».

I progetti escogitati e promossi da Gheddafi non riguardavano tuttavia soltanto gli investimenti all’estero e l’assegnazione delle commesse alle compagnie europee, ma vertevano anche e soprattutto sul riscatto dell’Africa. Attraverso la Libyan Investment Authority, Tripoli si era posta nelle condizioni di erogare ragguardevoli somme di denaro con l’obiettivo di potenziare l’intero apparato infrastrutturale del continente africano, in specie per quanto riguarda i settori minerario, manifatturiero e delle telecomunicazioni. I fondi sovrani libici si rivelarono infatti fondamentali per la realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Regional African Satellite Communications Organization (Rascom), entrato in orbita nell’estate del 2010 permettendo ai Paesi africani di alleggerire la propria dipendenza dalle reti satellitari statunitensi ed europee con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari. Ma non è tutto. Come ha rivelato l’ex direttore della Lia Mohammed Siala in un’interessantissima intervista, gli investimenti libici avevano permesso la costruzione del

«canale di 4.000 km che trasporta l’acqua prelevata dal gigantesco bacino naturale sotterraneo scoperto anni fa, con una portata pari alle acque del Nilo per 50 anni, e rifornisce fra l’altro Bengasi e Tripoli […]. C’è inoltre una ferrovia che attraversa tutto il Nord Africa ad eccezione della Libia. Vogliamo portare a termine l’integrazione nell’economia regionale e spingerla oltre. I cinesi costruivano il tratto tra la Tunisia e Sirte. I russi avevano il compito di collegare Sirte a Bengasi. C’era una trattativa con l’Italia per la sezione Bengasi-Egitto, così come per la fornitura di alcune locomotive. Abbiamo anche iniziato la costruzione di una linea transcontinentale nord-sud, con il tratto Libia-N’Djamena. Sono investimenti di interesse internazionale per realizzare i quali i Paesi del G-8 avevano promesso di aiutarci, ma non abbiamo mai visto il becco di un quattrino […]. Costruiamo anche strade. Per esempio dalla Libia al Niger. Abbiamo già collegato Sudan e Eritrea, sconvolgendo l’economia regionale e aprendo prospettive di sviluppo. Ora è possibile spostare merci su strada e mare […]. Abbiamo 50 milioni dollari di fondi per la costruzione, da parte delle imprese cinesi, di un canale di 32 km in Mali, per l’irrigazione delle aree agricole […]. Sono investimenti di interesse internazionale per realizzare i quali i Paesi del G-8 avevano promesso di aiutarci, ma non abbiamo mai visto il becco di un quattrino».

Allo stesso tempo, Gheddafi contava di impiegare quote considerevoli proprio fondo sovrano libico per finanziare la costituzione di tre nuovi istituti finanziari patrocinati dall’Unione Africana: la Banca Centrale Africana (con sede in Nigeria), il Fondo Monetario Africano (con sede in Camerun) e la Banca Africana di Investimento (con sede proprio a Tripoli). Tali progetti nascevano dall’esigenza di erodere il predominio della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, i cui meccanismi garantiscono l’eterna esposizione delle nazioni africane al ricatto del debito, come documentato da un “sicario dell’economia” pentito in un suo impressionante libro di memorie. Nella visione di Gheddafi, la nuova architettura finanziaria africana si sarebbe inoltre dovuta ispirare al modello vigente in Libia, dove la Banca Centrale era pubblica, scollegata dal sistema della Bank for International Settlements di Basilea (Bis) ed ispirata ai precetti anti-usura della finanza islamica. La Bis è uno dei massimi luoghi di culto per la religione neoliberista, che annovera tra i suoi dogmi fondanti l’imperativo di introdurre una netta separazione tra governo e Banca Centrale per assicurarsi che le dinamiche politiche che caratterizzano l’attività del primo non interferiscano con l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi che la seconda è chiamata a conseguire per statuto. Ciononostante, come ha rilevato l’economista Henry Liu in un articolo del 2002:

«i regolamenti della Bis servono unicamente per rafforzare il sistema bancario privato internazionale, anche a rischio di mandare in rovina le economie nazionali. La Bis provoca nei confronti dei sistemi bancari nazionali gli stessi danni che il Fondo Monetario Internazionale produce sui regimi monetari di ciascuno Stato. Le economie nazionali sotto la globalizzazione finanziaria non servono più gli interessi della popolazione […]. Gli Investimenti Esteri Diretti (Ied) denominati in valute estere – dollari in larghissima parte – hanno condannato molte economie nazionali a uno sviluppo distorto volto a potenziare l’export, con l’unico scopo di ottenere valuta pregiata mediante la quale pagare gli interessi sugli Ied, senza alcun beneficio netto per i Paesi interessati […]. Detenendo invece il controllo diretto sulla propria emissione monetaria, qualsiasi governo può finanziare con la propria valuta tutte le esigenze di sviluppo interno mantenendo la piena occupazione senza provocare inflazione».

La Central Bank of Libya era un ente pubblico completamente nelle mani di uno Stato che, essendo ricco d’oro e di petrolio, poteva servirsene per emettere moneta a seconda delle necessità prendendosi letteralmente gioco delle regole-capestro imposte dalla Bis e dal Fmi. L’obiettivo del colonnello era quello restituire autonomia finanziaria al continente africano strappandolo al controllo delle istituzioni di Bretton Woods (controllate dagli Usa), come sognava Thomas Sankara. Per conseguire tale scopo, Tripoli aveva introdotto il dinaro d’oro, una moneta ancorata alle cospicue riserve auree libiche (che ammontavano a quasi 150 tonnellate, a cui vanno sommati d’argento di quantità analoga) attraverso la quale espletare il commercio con l’estero aggirando il dollaro; qualcosa di simile a ciò che aveva tentato Saddam Hussein convertendo il fondo Oil for Food da dollari ad euro, prima che l’Iraq venisse devastato dall’aggressione statunitense. Nel 2009, Gheddafi propose ai leader africani di adottare una moneta basata sul paradigma del dinaro d’oro e dichiarò la propria disponibilità a impegnare parte delle riserve auree libiche per agevolare la realizzazione del progetto, il quale

«avrebbe rafforzato l’intero continente africano agli occhi degli economisti – per non dire degli investitori. Ma i suoi effetti sarebbero stati assai negativi per gli interessi statunitensi, a partire dalla tenuta del sistema dollaro-centrico».

Tanto più che, con il passare dei mesi, un numero crescente di Paesi arabi e africani cominciò ad esprimere interesse per la proposta (tra cui Nigeria, Angola, Tunisia ed Egitto; questi ultimi due furono i primi ad essere investiti dalle cosiddette “primavere arabe”), a cui si opponevano strenuamente il Sud Africa e i vertici della Lega Araba. Ne consegue che

«per quanto l’abbattimento della Banca Centrale pubblica di Libia possa non apparire nei discorsi di Obama, Cameron e Sarkozy, esso si trova comunque in cima all’agenda globalista per l’assorbimento della Libia nel novero delle nazioni “conformi”».

Se portato a termine, il disegno di Gheddafi avrebbe infatti posto una seria minaccia alla tenuta del sistema del franco Cfa attraverso il quale la Francia tiene finanziariamente in pugno ben 14 Paesi dell’Africa sub-sahariana. Questi ex colonie francesi detengono infatti non meno del 65% delle proprie riserve presso il Ministero del Tesoro di Parigi, il quale si occupa di garantire la convertibilità del Cfa, ancorato all’euro da tassi di cambio fissi. La necessità di mantenere intatta l’egemonia monetaria francese sull’Africa centro-occidentale rappresenta uno dei principali motivi di ostilità nei confronti di Gheddafi che l’ex funzionario del Dipartimento di Stato Sidney Blumenthal aveva attribuito a Nicolas Sarkozy in una mail inviata il 2 aprile del 2011 – e pubblicata anni dopo da «WikiLeaks» – all’allora segretario Hillary Clinton, al cui interno si citavano anche gli obiettivi di rilanciare l’immagine del presidente a livello nazionale (i sondaggi erano assai preoccupanti per Sarkozy, il quale si sospetta avesse anche ricevuto finanziamenti illeciti da Gheddafi nel 2007), incrementare la presenza dell’industria petrolifera transalpina in Libia (a scapito dell’Italia) e consolidare la presa politica e militare della Francia nel “continente nero”. Un analista sempre ben informato come il giramondo Pepe Escobar ha anche ventilato l’ipotesi che i francesi, sempre molto attivi nel settore idrico, avessero messo gli occhi sullo sfruttamento della grande falda nubiana a cui attingeva l’acquedotto libico menzionato da Siala, che nella sua intervista a «Voltairenet» ha anche richiamato l’attenzione sui fondi crescenti che, nelle intenzioni di Gheddafi, la Libyan Investment Authority avrebbe dovuto stanziare per favorire lo sviluppo dell’agricoltura, del commercio e del settore estrattivo in tutta l’Africa:

«il continente non è in grado di esportare materie prime. Noi investiamo in modo che queste siano lavorate e commercializzate in Africa, dagli africani. Si tratta di creare posti di lavoro e mantenere il plusvalore in Africa. Da un lato gli europei ci incoraggiano, perché così si prosciuga il flusso migratorio, dall’altro si oppongono perché ciò si pone in contrasto con la logica dello sfruttamento coloniale […]. Gli occidentali vogliono mantenere l’Africa in una situazione in cui esporta solo materie prime, dei beni primari. Per esempio, quando il caffè prodotto in Uganda è esportato in Germania, dove viene venduto, il profitto resta in Germania. Abbiamo finanziato impianti per la torrefazione, macinatura, confezionamento e così via, ecc. La percentuale di remunerazione per gli ugandesi è passata dal 20% all’80%. Ovviamente, la nostra politica è in conflitto con gli europei, per usare un eufemismo. Finanziamo risaie in Mozambico e in Liberia, per la somma di 32 milioni di dollari a progetto e creare 100.000 posti di lavoro ciascuno. Cerchiamo prima l’autosufficienza di ogni Stato africano, e solo dopo i mercati di esportazione. Senza dubbio, entriamo in conflitto con coloro che producono ed esportano riso, soprattutto se vi speculano».

Non stupisce quindi che gli ambiziosissimi progetti gheddafiani volti a creare un’Africa indipendente e disposta a cooperare con chiunque – a partire da russi e cinesi – accettasse di trattare con i Paesi africani su un piano di parità suscitassero un certo fastidio presso determinati circoli egemonici statunitensi ed europei.

A fianco di ciò, va rilevato che le crescenti somme di denaro che erano cominciate a piovere sul Paese grazie alla “diplomazia dei fondi sovrani” di Gheddafi finirono però per alimentare un circolo vizioso di corruzione, giochi di potere e rivalità rapidamente sfuggito al controllo dello stesso colonnello, che nel 2009 si era inimicato buona parte dell’apparato burocratico della Lia proponendo di ridistribuire i 30 miliardi di proventi petroliferi “direttamente al popolo libico”. Nel corso degli anni, gli amministratori del fondo sovrano libico instaurarono solidissimi legami con la grande finanza occidentale, al punto che, all’inizio del 2011, la Libia era un cliente di primissimo piano della britannica Hsbc (a cui aveva affidato circa 1,5 miliardi di dollari), della francese Société Génerale, dell’italiana Unicredit e delle statunitensi Jp Morgan Chase e Goldman Sachs. Il problema è che gran parte degli investimenti realizzati da tali istituti per conto della Libyan Investment Authority, che li pagava profumatamente, si erano rivelati fallimentari nella stragrande maggioranza dei casi. Nel 2008, ad esempio, Goldman Sachs aveva investito circa 1,3 miliardi di dollari del fondo sovrano libico in un paniere di valute e in sei diverse società europee e statunitensi (Citigroup, Unicredit, Banco Santander, Allianz, Eléctricité de France, Eni); a poco più di un anno di distanza, i responsabili della banca comunicarono alla controparte libica che, a causa della crisi innescata dalla bancarotta di Lehman Brothers, di quell’ammontare di denaro rimaneva appena il 2% (25 milioni), perché il restante 98% era andato in fumo. Il rappresentante di Goldman Sachs per il Nord Africa si recò quindi a Tripoli per fornire spiegazione sull’accaduto, ma fu costretto a smobilitare in tutta fretta assieme a tutti i suoi sottoposti temendo di finire in manette. La dirigenza della banca offrì quindi ai rappresentanti della Jamahiriya azioni privilegiate a titolo di risarcimento e per evitare che la Lia intentasse un’azione legale, ma l’accordo non fu raggiunto perché Tripoli intendeva mantenere aperta la possibilità di trascinare sul banco degli imputati non solo Goldman Sachs, ma anche le altre decine di società macchiatesi dell’incredibile “mala-gestione” dei fondi libici. Ne dà conto un’inchiesta del «New York Times» in cui si rivela che la Permal (controllata dalla prestigiosa finanziaria di Baltimora Legg Mason), ingaggiata dalla Libyan Investment Authority per la cifra di 27 milioni di dollari, aveva perso il 40% dei 300 milioni di dollari di fondi sovrani libici che le erano affidati in poco più di un anno e mezzo. Risultati parimenti fallimentari furono ottenuti da società finanziarie come Bnp Paribas, Credit Suisse e l’olandese Palladyne, le quali rischiavano di vedere la propria reputazione infangata da una colossale denuncia da parte della Libia.

La reazione da parte degli euro-statunitensi non si è fatta attendere. Nell’arco di pochi giorni, la scintilla della cosiddetta “primavera araba” che era scattata in Tunisia ed Egitto finì per divampare in Libia. Si trattava tuttavia di una rivolta scarsamente omogenea, contrassegnata caratterizzata da un forte carattere tribale e concentrata essenzialmente nella storicamente turbolenta regione della Cirenaica, le cui principali città si erano rivelate vere e proprie fucine di terroristi. Lo rivela uno studio condotto nel dicembre 2007 dagli esperti dell’accademia militare di West Point Joseph Felter e Brian Fishman, i quali, analizzando gli scontri a fuoco sostenuti fino a quel momento dalle forze statunitensi in Iraq, giunsero alla conclusione che solo l’Arabia Saudita, con circa 30 milioni di abitanti, era in grado di rifornire le brigate islamiste irachene comandate da al-Zarqawi con un numero di jihadisti più elevato rispetto a quello assicurato dall’angusto lembo di terreno l’area compreso dal triangolo Bengasi-Derna-Tobruk. L’insurrezione libica, guidata dalle tribù filo-monarchiche degli Harabi e degli Obeidi, aveva preso origine proprio da quella turbolenta regione geografica dove è sempre stato molto forte il radicamento della Senussiya, una confraternita mistico-missionaria che propugna una versione ultratradizionalista del sunnismo. Nel corso della resistenza ai colonialisti italiani, gli Harabi e gli Obeidi si allearono con i britannici e Londra, in segno di riconoscenza, nominò il capo dell’Ordine dei Senussi – l’Emiro di Cirenaica Idris I – come nuovo monarca libico. Il rovesciamento di Idris ad opera di Gheddafi provocò la revoca dei privilegi di cui avevano goduto queste tribù, che nel corso dei decenni hanno accumulato un odio implacabile, accresciuto da forti componenti razziste, nei confronti degli immigrati di pelle nera provenienti dal Ciad, dal Mali e dal Sudan e dei clan tribali schierati a supporto del colonnello. La tribù Harabi, di cui facevano parte i due principali capi ribelli Abul Fatah Younis e Mustafa Abdul Jalil, costituiva a sua volta l’élite del Libyan Islamic Fighting Group (Lifg), che nel 1995/1996 aveva scatenato una sanguinosa rivolta repressa duramente dalle forze governative. Dal Lifg proveniva anche Abu Sufian bin-Qumu, ex veterano dell’Afghanistan originario di Derna che fu internato a Guantanamo prima di essere trasferito in Libia e scarcerato in base a un accordo raggiunto tra gli Usa e alcuni membri del governo libico che si sarebbero poi riciclati come capi della rivolta anti-gheddafiana. L’intesa prevedeva la scarcerazione di molti prigionieri, tra i quali figurava anche Abdulhakim Belhaj, altro mujaheddin libico reduce della guerriglia islamista in Afghanistan che era stato catturato dalla Cia in Malaysia nel 2004, estradato in un carcere di Bangkok, trasferito in Libia e infine liberato. Anch’egli avrebbe svolto un ruolo preminente nella sollevazione del 2011, così come Abu Abdullah al-Libi e Abu Dajana, eliminati tra il 2013 e il 2014 in Siria dove si erano recati per aderire al sedicente “Stato Islamico” e contribuire al rovesciamento di Bashar al-Assad dopo aver affinato le proprie capacità durante la guerra contro le forze della Jamahiriya. Tutti questi personaggi, scarcerati dal governo libico su esplicita richiesta statunitense, furono quindi contattati dai servizi segreti qatarioti ed emiratini affinché organizzassero una rivolta interna. Arruolarono quindi i loro vecchi compagni di lotta assieme a criminali comuni e soldati di ventura provenienti da tutto l’universo sunnita, al fine di creare gruppi armati in grado di sostenere scontri a fuoco con le forze regolari.

Ciò suggerisce che alcune frange dell’apparato dirigenziale libico si fossero accordate in anticipo con gli Stati Uniti e i loro alleati europei e mediorientali per predisporre l’abbattimento di Gheddafi. Lo si evince anche dal fatto che, stando a quanto si legge all’interno di un cablogramma pubblicato da «WikiLeaks», il 20 gennaio 2011 l’alto funzionario della Lia Mohamed Layas aveva informato l’ambasciatore statunitense a Tripoli dell’avvenuto trasferimento di 32 miliardi di dollari di fondi sovrani libici in alcuni istituti di credito statunitensi. Crediti che, a nemmeno un mese di distanza, con lo scoppio delle prime rivolte, vennero congelati dagli Usa e affidati in “custodia temporanea” ad alcuni degli istituti verso i quali Gheddafi aveva minacciato di intraprendere un’azione legale. L’Unione Europea fece lo stesso, congelando 45 miliardi di dollari di proprietà della Libiyan Investment Authority. La conclamata incapacità dei ribelli di conseguire i propri obiettivi sul campo di battaglia contando unicamente sulle proprie forze rese rapidamente necessario un intervento militare da parte dei Paesi interessati a rovesciare la Jamahiriya, per preparare il quale fu lanciata una colossale campagna di demonizzazione del colonnello (a cui prese parte l’immancabile Bernard Henry Levy) che raggiunse il culmine con l’accusa a Gheddafi di aver ordinato l’eccidio di circa 10.000 civili. L’accusa era completamente infondata ma si rivelò utilissima ad alimentare il coro interventista intonato, tra gli altri, anche da alcuni degli stessi soggetti che fino a pochi mesi prima conducevano affari e si facevano ritrarre con Gheddafi, non esitando a tributargli gli onori normalmente riservati ai grandi leader.

È interessante notare, a questo proposito, quanto emerso dalle indagini condotte sulla crisi libica da un centro studi statunitense. Gli investigatori del gruppo hanno raccolto la testimonianza del vice-ammiraglio Chuck Kubic, il quale ha rivelato che nel marzo del 2011 aveva organizzato un incontro tra gli emissari di Muhammar Gheddafi e il generale Carter Ham, che allora dirigeva il Comando Africa (Africom). Kubic ha raccontato che al tavolo negoziale il generale Ham richiese ai propri interlocutori una prova utile ad appurare che stessero effettivamente trattando con dei rappresentanti della Jamahiriya. Gli Usa chiesero quindi ai negoziatori libici di ordinare un’evacuazione del personale militare da Bengasi, ottenendo, nel giro di poche ore, il pronto ritiro delle truppe libiche dalla città cirenaica. Comprovata l’identità dei propri interlocutori, il generale Ham ritenne del tutto attendibili le loro informazioni circa la disponibilità di Gheddafi a dimettersi a patto che venissero scongelati i suoi beni sottoposti a sanzione e che una forza militare internazionale si insediasse per impedire la presa del potere dei jihadisti. Acconsentì quindi a sottoscrivere un documento che sanciva una tregua di 72 ore per permettere ai funzionari della Jamahiriya Libica di implementare l’iter burocratico necessario a garantire un’uscita di scena rapida e indolore di Gheddafi. Non appena Ham ebbe finito di trasmettere il contenuto dei colloqui al Dipartimento di Stato, una telefonata del segretario in persona gli ordinò di sconfessare l’accordo che lo stesso Africom si era impegnato a sottoscrivere e ad onorare. Una dettagliata ricostruzione del «Washington Times», basata su telefonate tra ufficiali della Difesa, un congressista del Partito Democratico e Saif Gheddafi (figlio di Muhammar), conferma tutto ciò, evidenziando che l’incontro organizzato da Chuck Kubic era un’iniziativa presa dal Pentagono in maniera indipendente dal Dipartimento di Stato, il quale era apparso molto più oltranzista dei militari riguardo alla questione libica. Le registrazioni dimostrano che fu l’ammiraglio Mike Mullen, allora Capo di Stato Maggiore congiunto, a conferire a Kubic l’incarico di sondare il terreno con esponenti del regime di Gheddafi, dopo aver appurato che i rapporti che la Cia e il Dipartimento di Stato avevano redatto per conto della Casa Bianca erano clamorosamente tendenziosi, esagerati e del tutto inadeguati a riflettere la realtà fattuale libica. La tesi di Mullen era solidamente supportata sia da Human Rights Watch, che per bocca del direttore esecutivo per il Medio Oriente Sarah Leah Whitson aveva dichiarato al giornale statunitense della capitale che le atrocità compiute fino a quel momento erano limitate e «del tutto insufficienti a far pensare ad un genocidio imminente», sia, successivamente, da Amnesty International, che in un report del settembre 2011 avrebbe rivelato che anche i ribelli si erano macchiati di crimini quali torture, esecuzioni sommarie, rapimenti di lavoratori stranieri a fini di riscatto, ecc. L’intelligence del Pentagono, dal canto suo, era stata in grado di dimostrare che Gheddafi aveva impartito alle forze armate l’ordine di evitare di colpire i civili allo scopo specifico di evitare interventi militari internazionali. Da ciò si evince che il Dipartimento di Stato guidato da Hillary Clinton cospirò assieme alla Cia, consegnando alla Casa Bianca informative parziali e destituite da qualsiasi fondamento al fine di spingere un recalcitrante presidente Obama a decretare la discesa in campo a fianco di Francia e Gran Bretagna. Contro il parere del Pentagono, che aveva anche acceso i riflettori sulle possibili ripercussioni sulla stabilità areale di un intervento armato contro un regime che, tra le altre cose, era in grado di garantire un’occupazione a circa 2 milioni di lavoratori stranieri.

Tali premesse posero le basi per l’adozione (26 febbraio 2011) della risoluzione 1970, che conteneva l’elenco dei capi d’accusa nei confronti di Gheddafi e del suo governo (violazione estesa e reiterata dei diritti umani, repressione di pacifici dimostranti, incitamento alla violenza contro la popolazione civile) e delle sanzioni contro la Jamahiriya, a partire dall’embargo sulle forniture di armi. Eppure, come rivelato da un’inchiesta del «Daily Mirror», decine di Sas britanniche e forze speciali francesi e qatariote, coadiuvate da alcuni contractor al soldo di diverse agenzie di sicurezza private, erano penetrate in Libia già diversi giorni prima dell’approvazione della risoluzione Onu con l’obiettivo di prendere contatto con i ribelli e localizzare i pezzi di artiglieria dell’esercito regolare libico, in modo da fornire all’aviazione le coordinate necessarie per l’attacco che, a questo punto, non poteva che esser stato deciso da tempo. L’incapacità delle misure contemplate dalla risoluzione 1970 di evitare la diffusione del caos in tutto il Paese spinse il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ad approvare (17 marzo 2011) la risoluzione 1973 (proposta da Stati uniti, Francia, Gran Bretagna e Libano), che sanciva l’inasprimento dell’embargo alla Libia, imponeva a Gheddafi di proclamare la tregua immediata, disponeva l’applicazione di una zona di non sorvolo (no-fly zone) sullo spazio aereo libico (che valida sia per i velivoli militari che commerciali) e, soprattutto, autorizzava l’uso di tutti i mezzi necessari a proteggere i civili e le aree popolate da civili, ad esclusione di qualsiasi azione che comportasse la presenza di una “forza occupante”. Il pronunciamento passò grazie anche all’astensione di Russia e Cina, titolari del diritto di veto. È probabile che Mosca – non va dimenticato che all’epoca il presidente era Dmitrij Medvedev, ben più “morbido” del premier Vladimir Putin in materia di politica estera – si sia chiamata fuori per favorire l’estromissione della Libia dal mercato degli idrocarburi, in modo da saldare il vincolo di dipendenza energetica che lega la Russia all’Europa. Meno note sono le ragioni che stanno alla base della presa di posizione cinese. Ad ogni modo, l’approvazione della risoluzione 1973 gettò le basi per l’Operazione Odyssey Dawn, l’aggressione alla Libia che fu lanciata il 19 marzo 2011 dall’aviazione francese, che non esitò a sfruttare il conflitto come vetrina per pubblicizzare i nuovi caccia Rafale, prodotti dalla Dassault Aviation. Gli aggressori, dal canto loro, decisero uno dopo l’altro di riconoscere – la Francia di Sarkozy fu la prima a farlo – il sedicente Consiglio Nazionale di Transizione come legittimo rappresentante del popolo libico, mentre il 31 marzo, dopo una serie di dissidi tra Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, la Nato si assumeva l’onere di dirigere le azioni militari attraverso l’Operazione Unified Protector. Durante in conflitto, i velivoli della Nato hanno compiuto oltre 25.000 incursioni e sganciato sul Paese oltre 40.000 ordigni responsabili di migliaia di morti e della distruzione di numerosissime infrastrutture, tra cui ponti, scuole, fabbriche, raffinerie. Le imbarcazioni dell’Alleanza Atlantica ormeggiate al largo delle coste libiche si occupavano invece di mantenere il blocco dei porti affinché venisse garantito l’embargo contro le forze governative.

Contestualmente, le forze speciali di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e altri Paesi adempivano ai compiti logistici, segnalando agli aerei gli obiettivi da colpire. La partecipazione della Nato alle operazioni militari ha quindi costituito un fattore determinante, in assenza del quale i ribelli non avrebbero mai potuto sopraffare le forze governative, nonostante il corposo flusso di armi che gli Usa e loro alleati facevano pervenire loro tramite appositi canali sotterranei. Lo ha rivelato l’ex agente della Cia Claire Lopez, la quale ha spiegato che

«Hillary Clinton era interessata a rovesciare violentemente Gheddafi, pur sapendo che collocandosi in questa posizione avrebbero dato manforte ai terroristi di al-Qaeda già impegnati nella lotta contro quello stesso regime che aveva collaborato per anni con gli Stati Uniti per tenere sotto controllo le cellule fondamentaliste locali. Da mesi, infatti, Qatar ed Emirati Arabi Uniti stavano finanziando l’acquisto di armamenti pesanti da inviare ai guerriglieri islamisti in Libia sotto la supervisione Usa/Nato».

La stessa Lopez ha inoltre rivelato che alcuni esponenti del governo degli Emirati giunti in Libia durante le prime fasi della guerra civile avevano scoperto che circa metà del carico di armi da un miliardo di dollari che avevano acquistato per conto dei ribelli era stato rivenduto alle forze leali a Gheddafi da Mustafa Abdul Jalil, massimo rappresentante della Fratellanza Musulmana all’interno del Comitato Nazionale di Transizione libico. Per coprire questo traffico, Jalil arrivò successivamente a organizzare l’assassinio del generale Abdel Fattah Younis, l’ex ministro dell’Interno di Gheddafi passato tra le fila dei ribelli che aveva iniziato a raccogliere indizi circa le manovre occulte di Jalil.

L’esecutore materiale dell’omicidio fu Mohamed Abu Khattala, il jihadista a capo del commando che l’11 settembre 2012 avrebbe sferrato il clamoroso assalto alla sede diplomatica statunitense di Bengasi. Secondo il magistrato Andrew Napolitano, il sanguinoso attacco islamista che costò la vita, tra gli altri, all’ambasciatore statunitense Christopher Stevens, costituisce uno spiacevole “effetto collaterale” del traffico di armi verso le bande islamiste organizzato dalla Clinton con il Qatar. Il giudice si è infatti dichiarato convinto che le armi che il piccolo Emirato inviava a specifici gruppi ribelli fossero state vendute dagli stessi Usa nell’ambito di un’operazione messa in piedi proprio dall’allora segretario di Stato. Le partite di armi dirette ai ribelli libici erano composte da fucili mitragliatori, missili anti-carro e lanciarazzi di fabbricazione est-europea della cui consegna si occupavano società statunitensi alle dipendenze dela Clinton. Marc Turi, titolare di una delle imprese incaricate del trasferimento delle armi, ha rivelato che «quando il materiale atterrava in Libia, metà rimaneva in loco e metà ripartiva immediatamente per ricomparire tempo dopo in Siria» attraverso la cosiddetta “ratline“, grazie alla quale, come documentato da Seymour Hersh, fu trasferito dai depositi libici alla Siria – e sotto la supervisione del Mit turco – anche il gas sarin impiegato dai jihadisti durante l’attacco di Ghouta dell’agosto 2011. Lo stesso Turi, arrestato per traffico d’armi, ha accusato il presidente Obama di averlo «incriminato per proteggere il ruolo centrale svolto dalla Clinton».

Alla luce delle “alleanze” istituite dalla Clinton, nono stupisce pertanto che, durante le fasi calde della rivolta, Washington abbia appoggiato la “candidatura” dell’islamista Belhaj (il terroristi che negli anni precedenti avevano internato e torturato a Bangkok) alla presidenza del consiglio militare di Tripoli incaricato di gestire la regolare transizione democratica in Libia (!), mentre la Francia “arruolava” Nouri Mesmari, il potente braccio destro di Gheddafi che non esitò a far leva sui buoni rapporti che aveva instaurato con alcune frange dell’esercito per favorire gli ammutinamenti contro il governo di Tripoli. Sul versante economico, va segnalato che il nuovo Consiglio Nazionale di Transizione libico nominò Ministro delle Finanze e del Petrolio Ali Tharouni, professore di economia presso la Washington University di Seattle dotato di solidi agganci presso il Fondo Monetario Internazionale. La sua prima mossa fu quella di creare la Libyan Oil Company, una nuova compagnia con sede a Bengasi (epicentro della rivolta) che andava così a sostituire la vecchia National Oil Company (basata a Tripoli) facendo decadere i contratti che quest’ultima aveva revocato alle società statunitensi, francesi e britanniche e accordato ad Eni, Wintershall e alle compagnie russe e cinesi nel momento in cui le minacce di attacco alla Libia si erano fatte più pressanti. L’altra manovra cruciale di Tharouni fu quella di creare una Banca Centrale alternativa, anch’essa con sede a Bengasi. Ciò ha suscitato forte sorpresa anche in un navigato esperto di settore come il finanziere Robert Wenzel, il quale ha osservato che

«il fatto che in piena belligeranza il Consiglio Nazionale di Transizione libico abbia pensato di dar vita a una Banca Centrale alternativa a quella creata da Gheddafi indica che i ribelli non sono dei semplici poveracci, ma agiscono dietro peculiari e sofisticate influenze esterne. Mai avevo visto una Banca Centrale essere formata in pochi giorni nel bel mezzo di un’insurrezione».

Sulla stessa linea si espresse anche una “insospettabile” fonte mainstream come la «Cnbc», secondo cui «è la prima volta che un gruppo rivoluzionario si preoccupa di dar vita a una Banca Centrale mentre sta ancora combattendo per prendere il potere». Segno, come riporta «The New American», che «quei ribelli erano molto più che una semplice banda di esagitati e che c’erano delle forti influenze esterne». Tali prese di posizioni sono state avvalorate da una strana vicenda verificatasi nel 2014. A narrarla è il vice-presidente della Banca Centrale “ribelle” Abdalgader Albagrmi, il quale spiegò al quotidiano «The Namibian» che nella filiale della Central Bank of Libya di Bengasi

«c’erano due camere blindate sotterranee incassate in doppi muri e protette da una pesante porta blindata per aprire la quale servivano tre chiavi. Due erano a Bengasi, mentre la terza era a Tripoli, ancora sotto il controllo di Gheddafi. Ci vollero tre giorni per riuscire a penetrare all’interno. Nella prima camera furono trovati dinari e contante in valuta estera; di dinari ce n’erano “tra i 500 milioni e un miliardo”, mentre la quantità di valuta estera “non era rilevante”. Nella seconda camera c’era invece una grande pila di barre d’oro che alcuni hanno valutato in 1 miliardo di dollari».

Cifre che con ogni probabilità furono deliberatamente sottostimate da Albagrmi, il quale giurò anche che i ribelli non avevano sottratto un singolo lingotto dal deposito. Ammesso e non concesso che ciò risponda al vero, resta da domandarsi che fine abbiano fatto le consistenti riserve auree di cui la Libia disponeva alla vigilia delle rivolte. Alcuni dietrologi hanno ipotizzato che se ne siano impossessati i britannici, che in quei giorni caldi si trovavano fortemente sotto pressione per effetto della richiesta di rimpatrio dell’oro venezuelano depositato in leasing presso la Bank of England avanzata da di Hugo Chavez. L’ipotesi è che Londra non disponesse più di quell’oro, e per provvedere alla consegna avrebbe dovuto prima riacquistarlo sul mercato a prezzi proibitivi – visto anche che la mossa di Chavez aveva fatto schizzare il prezzo del metallo a 1.881 dollari l’oncia. La notizia non trova conferme ufficiali, ma resta il fatto che il caos che continua a devastare la Libia ha finora permesso a Stati Uniti ed Unione Europea di rimandare continuamente la restituzione al popolo libico dei 72 miliardi di dollari di fondi sovrani che erano stati congelati e “tenuti in deposito per il futuro della Libia” non appena scoppiarono i primi scontri tra ribelli e forze governative.

Il 20 ottobre 2011, il convoglio che stava trasportando Muhammar Gheddafi venne localizzato a Sirte e colpito da un’incursione congiunta francese e statunitense. I ribelli, giunti immediatamente sul posto, lo torturarono a lungo prima di ucciderlo con un colpo di pistola alla testa. Una volta confermata la notizia, Hillary Clinton, vestendo (senza pudore) i panni di un Giulio Cesare redivivo, colse subito l’occasione per presentarsi dinnanzi alle telecamere e pronunciare con evidente soddisfazione l’ormai famigerato «we came, we saw, he died». Poco importava che l’attacco alla Libia, fortemente voluto da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e petro-monarchie del Golfo Persico, stesse sventrando un Paese che, come evidenziato in un appello al presidente russo Medvedev sottoscritto da una squadra di medici russi, ucraini e bielorussi che avevano lavorato in Libia, offriva ai suoi cittadini il

«diritto alla cura gratuita ed equipaggiamenti ospedalieri di ottimo livello. L’istruzione è libera, e ai giovani capaci viene garantita l’opportunità di studiare all’estero a spese dello Stato. Quando si sposano, le giovani coppie ricevono 60.000 dinari libici (corrispondenti a circa 50.000 dollari Usa) di assistenza finanziaria sotto forma di prestito senza interesse. Grazie ai sussidi governativi, il prezzo delle auto è molto più basso che in Europa, cosa che permette ad ogni famiglia di acquistarne una. Benzina e pane costano un centesimo, e sono esentasse per coloro che sono impegnati nel settore agricolo».

Gheddafi era pienamente consapevole che la guerra che la guerra mossa dalla Nato contro la Jamahiriya rappresentava un mossa dagli esiti catastrofici per tutti, come puntualmente sottolineato in un’intervista rilasciata il 6 marzo 2011 alla rivista «Le Journal de Dimanche»: «l’Occidente deve scegliere tra me o il caos del terrorismo […]. Se non aiutate la Libia, vi ritroverete al-Qaeda a 50 km dai confini dell’Europa […]. Ci sarà una Jihad di fronte a voi, nel Mediterraneo. Sarà una crisi mondiale, un cataclisma che dal Pakistan si estenderà fino al Nord Africa». E' probabile che un esito simile fosse stato preventivato anche dal senatore repubblicano dell’Arizona John McCain, il quale, in uno dei suoi soliti slanci di obiettività, arrivò a dichiarare che «crediamo irriducibilmente che il popolo libico stia ispirando i popoli di Teheran, Damasco e forse anche di Pechino e Mosca», aggiungendo che i libici «continueranno a ispirare il mondo e insegnando che anche i peggiori dittatori possono essere detronizzati e rimpiazzati con libertà e democrazia». L’esternazione andava di fatto a preannunciare la strategia di strumentalizzazione delle cosiddette “primavere arabe” che gli Stati Uniti si apprestavano a mettere in atto con l’obiettivo di destabilizzate il cosiddetto “arco di crisi” islamico da un lato per minare la sicurezza dei confini meridionali della Russia e allentare la presa geopolitica di Mosca sull’Asia centrale, e dall’altro per sabotare il colossale progetto infrastrutturale cinese meglio noto come Nuova Via della Seta.

Quel che gli Stati Uniti non si aspettavano è non solo che la resistenza siriana coadiuvata da Russia ed Iran riuscisse a impedire l’instaurazione di un “santuario salafita” (per citare un’espressione usata da Hillary Clinton in una delle sue ormai famigerate e-mail) scompaginando così i piani Usa rivolti a mettere a ferro e fuoco Medio Oriente ed Asia centrale e sud-orientale, ma anche che, benché

«il sogno Gheddafi di un sistema monetario arabo e africano basato sull’oro e indipendente dal dollaro sia morto assieme a lui […], un nuovo gruppo di nazioni sta alleandosi per realizzare un paradigma valutario simile. Questo blocco è guidato da Russia e Cina […] e si propone di sostituire il proprio modello eurasiatico basato sull’oro a quello attuale, dominato dagli Stati Uniti».

La Russia (terzo produttore d’oro al mondo) detiene attualmente 1.715 tonnellate di riserve auree (a fronte delle 386 del 2005), mentre la Cina ne dichiara ufficialmente 1.842. Sono tuttavia in molti a ritenere che i depositi reali siano di gran lunga superiori (alcuni parlano di 12.000 tonnellate, altri di più di 20.000), in ragione del fatto che, come dichiarato nel 2014 dal governatore della People’s Bank of China:

«il mercato dell’oro è parte importante e integrale del mercato finanziario cinese. Oggi siamo il più grande produttore, importatore e consumatore nel mondo. La Banca Centrale della Cina continuerà a sostenerne il mercato».

Il che concorre a spiegare perché Mosca e Pechino abbiano elaborato un progetto finalizzato alla creazione di un circuito finanziario da estendere a tutti i Brics – che il vice-governatore della Bank of Russia Sergeij Shvetsov ha definito «grandi economie con grandi riserve auree ed imponenti volumi di produzione e acquisto di questo metallo prezioso» – in cui l’oro rimpiazzi definitivamente il biglietto verde. Non va inoltre sottovalutato l’impatto della decisione della Industrial and Commercial Bank of China (Icbc, il cui maggior azionista è lo Stato) di aprire una propria filiale a Mosca per svolgere il ruolo di «banca di compensazione dello yuan in Russia e accreditarsi quindi come grande centro finanziario di riferimento dei Paesi dell’Unione Economica Eurasiatica», visto che l’interscambio commerciale tra Cina e Russia è aumentato del 34% nell’arco di pochi mesi. Per imprimere un’ulteriore accelerata al processo di “de-dollarizzazione”, Mosca ha fornito copertura politica ad Etheruem, una criptovaluta basata sulla tecnologia blockchain che sta rapidamente diffondendosi in tutto il mondo fino a insidiare il primato di Bitcoin. Grazie ad essa, Putin conta di favorire l’entrata degli istituti finanziari russi nel mondo della moneta virtuale indipendente dal sistema delle Banche Centrali e del dollaro. Anche Pechino ha offerto il suo contributo alla limitazione dello strapotere della moneta Usa, lanciando contratti future per la compravendita del petrolio denominati in yuan e convertibili in oro presso le piazze finanziarie di Shangai ed Hong Kong. Il messaggio è stato immediatamente recepito da Nicolas Maduro, che, per reagire all’assedio economico e politico statunitense nei confronti del Venezuela, ha emesso un comunicato in cui si rendeva noto che «il prezzo del petrolio venezuelano verrà espresso in yuan cinesi». Come rileva «Il Sole 24 Ore»:

«se il nuovo future prendesse piede, erodendo anche solo in parte lo strapotere dei petrodollari, sarebbe un colpo clamoroso per l’economia americana».
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