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La sfida eurasiatica all’egemonia degli Stati Uniti

di Alberto Prina Cerai

Questo articolo è il primo di una serie di contributi per approfondire il tema della sfida tra Stati Uniti e Cina per l’ordine mondiale. In seguito alle recenti dichiarazioni riguardo ad una possibile adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative – la cosiddetta nuova Via della Seta –, abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli alle prospettive strategiche relative alla fase che stiamo vivendo e al possibile ruolo del nostro Paese, che merita un approfondimento di più ampio respiro. Questo primo articolo si propone di fare luce di come e perché la BRI rappresenti una sfida all’egemonia americana. Nei successivi si tenterà di capire come l’Italia possa essere un benchmark per gli equilibri geopolitici tra Washington e Pechino

bandiera121Sin dal 1945 il cuore pulsante della politica estera statunitense è stato preservare «un ordine internazionale aperto e stabile, basato sul libero movimento di beni, capitali e persone» basato su un «balance of power in favore della libertà». Queste iniziative, secondo lo storico Hal Brands, hanno costituito un «impegno bipartisan di lunga data» volto a sostenere «la leadership americana e preservare l’ordine internazionale liberale che il potere americano ha tradizionalmente promosso»[1]. Per chi vede queste continuità, al netto dei grandi cambiamenti che hanno fortemente messo alla prova la tenuta della Pax Americana, la natura e le radici dell’egemonia globale degli Stati Uniti si possono identificare nella lettura esplicita di Henry Kissinger:

«Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia […] costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e un’incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti»[2]

La geopolitica del secondo dopoguerra è rimasta fortemente ancorata a questa visione e più in generale all’eredità imperiale degli impegni globali degli Stati Uniti. Harry Truman agli esordi della guerra fredda aveva recuperato l’immagine del paese come grande erede «della Persia di Dario I, la Grecia di Alessandro, la Roma di Adriano, la Gran Bretagna vittoriana […] Nessuna nazione ha avuto le nostre responsabilità»[3].

Sorto sulle ceneri del vecchio ordine eurocentrico e consolidatosi su scala tri-continentale, l’impero americano aveva esteso i suoi dominia militari dall’Atlantico al Pacifico, giustificato strutture di sicurezza regionali per il contenimento del comunismo lungo il Rimland eurasiatico e vegliato infine su di un «sistema globale integrato […] orchestrato da Washington» grazie ad una supremazia navale impareggiabile[4]. Era lo zenit del «momento liberale», frutto degli sforzi dei «policymakers dell’Occidente sotto la tutela americana» di costruire l’ordine internazionale ad immagine e somiglianza della «modernità liberale», dei suoi principi e valori[5].

Nel passaggio precedente Kissinger sottintende che il mondo necessiti di un «poliziotto globale» che eserciti un ruolo di nucleo autoritativo e intervenga per governare o ripristinare l’equilibrio nel sistema dell’ordine mondiale – in economia, nella gestione dei flussi, dei global commons o nella governance politica – in cambio della sua riconosciuta leadership su base multilaterale. In breve, quella posizione che gli Stati Uniti hanno goduto, parafrasando Joseph Nye, quando le tre dimensioni del potere – economico, militare e soft – erano saldamente nelle mani di Washington. Quando il Leviatano Liberale era sinonimo di «egemone benevolo» e di «nazione indispensabile».

Dopo la fine della guerra fredda e dei rigidi schemi bipolari, la principale preoccupazione geopolitica era diventata la polverizzazione e la deconcentrazione del potere a causa dei processi di globalizzazione. In quella crescente «anarchia», gli Stati Uniti si assunsero pienamente oneri e responsabilità di sicurezza lungo un arco di crisi che copriva, grossolanamente, la fascia equatoriale. Prefigurando un ruolo simile a quello ricoperto dall’Impero britannico nel XIX secolo, un alto funzionario della Difesa sostenne che gli USA avrebbero dovuto agire per impedire la «decentralizzazione e l’anarchia» attraverso il mantenimento di una «bilancia del potere globale favorevole agli Stati Uniti e ai suoi alleati» e impedendo qualsiasi forma di «egemonia regionale». In quanto difensori del functioning core della globalizzazione, gli Stati Uniti avrebbero dovuto dedicarsi alla «esportazione della sicurezza» in quelle aree post-coloniali non pacificate[6]. La «teoria della stabilità egemonica», infatti, vede nel pluralismo di potere un rischio per l’equilibrio del sistema che, in assenza di un egemone, tende all’entropia inaugurando periodi di tensione e conflitto. Già nel 2006, in piena rivoluzione Bush Jr., il realista Stephen Walt pose la questione in termini chiari. Il problema degli Stati Uniti era di portare il «resto del mondo a salutare positivamente il [loro] primato», incoraggiando gli altri «Stati a vedere la loro posizione dominante come benevola» e convincendoli che la potenza statunitense fosse utilizzata «per il beneficio più ampio dell’umanità»[7].

All’indomani della violenta deregulation speculativa del 2008 e dell’unilateralismo fallimentare in Medio Oriente, quel postulato – l’egemone benevolo che interviene nella periferia imperiale per sedare i focolai di tensione – sembrò ormai privo di senso. Ciò nonostante, secondo lo storico Melvyn Leffler, gli interessi geopolitici dell’impero americano anche di fronte alla sovra-estensione e al declino relativo non sono venuti meno. «Quello che è cambiato è la percezione della minaccia e gli strumenti per raggiungere gli obiettivi», poiché più grande è il pericolo, maggiore è il rischio della passività, anche in un’epoca di austerity che può suggerire una maggiore accortezza strategica nel valutare «le fonti primarie della supremazia americana» e nel difendere le fondamenta economiche della sicurezza nazionale[8]. Il danno, quello irreparabile, al debito pubblico e alla reputazione internazionale sono chiaramente le più grandi cicatrici del «decennio perduto» degli Stati Uniti. Perso a rincorrere «sogni liberali» di un mondo ad immagine e somiglianza americana, perdendo di vista quelle «realtà internazionali» che compongono la scacchiera geopolitica di Eurasia[9]. Questa presunzione ha reso gli Stati Uniti equal among the equals, poiché come tutte le nazioni possiedono «interessi che non sempre combaciano con i suoi valori». Mentre gli ideali possono vacillare ma non svanire, le fondamenta del potere risentono costantemente degli smottamenti geopolitici. «È una tragedia, ma come tale va accettata»[10].

 

La percezione americana della Belt and Road Initiative

Oggi, in un mondo multipolare, la principale minaccia – come ribadisce la National Security Strategy del 2017 – proviene da una rinnovata competizione interstatale, in cui la Cina rappresenta il peer competitor per eccellenza. Nel 2016 Joseph Nye, incalzato dal dibattito sul declino degli Stati Uniti di fronte all’emergere della Cina, ha scritto con una buona dose di ottimismo come il divario tecnologico sia ancora troppo ampio e «l’ascesa della Cina a livello globale […] un processo talmente in divenire» che era prematuro parlare della «fine del secolo americano»[11]. Tuttavia, sin dal 2011 quando l’amministrazione Obama varò il pivot to Asia, era chiaro a molti membri dell’establishment che i destini del potere globale si sarebbero giocati in Estremo Oriente[12]. Tanto sul piano militare, laddove i progressi tecnologici – in primis «i missili balistici antinave cinesi» – e la «coercizione dei vicini» rappresentavano «crescenti minacce alla superiorità militare americana in punti chiave dell’Eurasia e alla stabilità regionale»[13]. Quanto su quello economico, con il Trans Pacific Partnership che, prima del dietrofront di Trump, era volto a rafforzare la presenza americana nella regione. La risposta cinese, annunciata due anni più tardi, fu con le parole del Generale Qiao Liang una «hedge strategy against the eastward move of the US»[14].

A poco più di un decennio dalla global war on terror, il dilemma di sicurezza tra due colossi mondiali ritornava il tema centrale nella pianificazione di Washington e Pechino. Dopo sei anni dalla sua ufficializzazione, l’espansione cinese, secondo gli analisti, mirerebbe ad «escludere gli Stati Uniti dalla regione Indo-Pacifica» tramite il monumentale progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative, volta ad implementare l’obiettivo strategico del Partito Comunista: fare della Cina «la potenza preminente» del continente eurasiatico[15].

Un progetto geopolitico, ma non solo. Secondo lo studio di Nadège Rolland, i flussi di capitale che fuoriusciranno dalla Cina lungo il tracciato terrestre (Belt) e marittimo (Road) non andranno soltanto a finanziare la costruzione di porti, oleodotti, autostrade e reti digitali. La retorica del Presidente Xi Jinping di una Cina prospera che ridistribuirà i dividendi della sua crescita in una logica di cooperazione win-win non è senza fondamenta, specialmente di fronte alla penuria di investimenti nel mondo occidentale e all’erosione del ruolo egemonico statunitense. Tuttavia, la logica strategica sottesa al piano – tra cui quella di procurare gli sbocchi commerciali all’eccesso di capacità produttiva – rimane quella di creare un “centro di gravità” eurasiatico come contrappeso all’influenza marittima degli Stati Uniti in Asia. Una Grand Strategy cinese che si nutre anche di una visione ideologica: creare un nuovo ordine mondiale in cui l’ordine egualitario jeffersoniano, devoto alla promozione della democrazia, venga rimpiazzato dall’ordine gerarchico confuciano in cui prevalga la peaceful coexistence secondo i canoni cinesi[16].

C’è anche chi mantiene un non troppo velato ottimismo. In un recente libro dal titolo molto suggestivo, Robert D. Kaplan (membro del think tank Center for a New American Century) riconosce che le recenti «interazioni della globalizzazione, tecnologiche e geopolitiche, rinforzandosi a vicenda, [stiano] inducendo il supercontinente eurasiatico a diventare, analiticamente parlando, un’unità fluida e coesa», mentre l’indebolimento del sistema westfaliano dello stato-nazione sembra stimolare l’emergere di un nuovo nomos imperiale sino-centrico. In questo senso, «nulla è più illustrativo di questo processo dei tentativi del governo cinese [n.d. BRI] di costruire una rete infrastrutturale che colleghi l’Asia Centrale e Orientale con l’Europa». Tuttavia, come sostiene criticamente l’autore rifacendosi all’epoca di Marco Polo, di Kublai Khan e degli imperi medioevali, questi fenomeni di interconnessione economica e tecnologica porteranno, più che armonia e pacificazione, inevitabili criticità, rendendo l’Eurasia un’unità geopolitica soggetta alle oscillazioni e alle conflittualità della rete (geoeconomica e digitale). Una vulnerabilità, inoltre, acuita dalla realtà multiforme delle culture e delle potenze eurasiatiche che guardano con nostalgia e fervore al proprio passato imperiale (Russia, Turchia, Iran). «La Cina spera che la strategia di sviluppo [della BRI] possa porre fine alla volatilità regionale», ma una maggiore «connettività non porta necessariamente ad un mondo più pacifico»[17].

Siamo davvero di fronte ad una transizione imperiale dovuta allo spostamento dell’asse geopolitico mondiale? È presto per dare valutazioni oggettive. I contorni di questa hot peace, in ogni caso, sono tracciati. Due visioni del mondo, due progetti imperiali: l’uno conservativo, l’altro revisionista. Una competizione strategica che, data l’interdipendenza globale, alla lunga potrebbe risultare pericolosa se cristallizzata come ai tempi della guerra fredda[18]. «Quello che serve è una combinazione di competizione e cooperazione con una Cina in ascesa», scrive Martin Wolf[19]. Per ora, abbiamo assistito ad una guerra commerciale senza vinti né vincitori. In definitiva, sembra certo che nel lungo termine «l’offensiva geo-economica cinese lungo il continente eurasiatico potrebbe minacciare le basi dell’egemonia americana» sorta dopo il 1945[20]. Se la Cina riuscirà, come prescriveva Paul Kennedy, a trasformare la superiorità economica in supremazia politica allora lo «slittamento nella forza relativa dei poli» della politica internazionale sarà compiuto, sancendo «the Rise of the Rest»[21].

Di fronte alle opportunità della BRI, sarà decisivo il ruolo dell’Europa. E l’Italia? Lo stivale, antico crocevia imperiale, sembra aver troppa fretta di decidere. In un momento storico in cui il Titanic affonda, l’invito a prendere parte ad un nuovo ordine mondiale pare una promessa di prosperità. Con annessi rischi e pericoli lungo il cammino della Via della Seta.


Note
[1]National Security Strategy’ 2002; Hal Brands, America Grand Strategy in the Age of Trump, Brookings Institution Press, Washington D.C., 2018, cit. p. 53.
[2] Henry Kissinger, L’arte della diplomazia (1994), Milano, Sperling & Kupfer, 1996, pp. 634-635 (corsivo mio).
[3] Citato in D. W. White, History and America Internationalism. The Formulation from the Past After World War II, in «Pacific Historical Review», 1989, n.2, pp. 145-172, part. P. 151.
[4] David Reynolds, “Power and Superpower: The Impact of Two World Wars on America’s International Role”, in ed. Warren Kimball, America Unbound. World War II and the Making of a Superpower, New York: St Martins, Palgrave Macmillan, 1992, pp. 22-36; Melvyn Leffler, The American Conception of National Security and the Beginnings of the Cold War, 1945-1948, «The American Historical Review», Vol. 89, No. 2 (aprile 1984), pp. 346-38; Robert Steel, Temptations of a Superpower, Cambridge (Mass.,), Harvard University Press, 1995, p. 55.
[5] Robert Latham, The Liberal Moment. Modernity, Security, and the Making of Postwar International Order, New York, Columbia University Press, 1997, p. 4.
[6] T. P. Barnett, The Pentagon’s New Map. War and Peace in the Twenty-First Century, New York, Putnam’s Sons, 2004, pp. 1-4, 5.
[7] S. M. Walt, Taming American Power. The Global Response to U.S. Primacy, New York, Norton, 2006, p. 26.
[8] Melvyn Leffler, Safeguarding American Capitalism: U.S. Foreign Policy and National Security, 1920-2015, Princeton, Princeton University Press, 2017, pp. 282, 316.
[9] Si veda John Mersheimer, The Great Delusion. Liberal Dreams and International Realities, Yale University Press, New Haven, 2018.
[10] Robert D. Kaplan, The Tragedy of U.S. Foreign Policy, «The National Interest», 1 agosto 2013.
[11] Joseph S. Nye, Jr., Fine del secolo americano?, Bologna, il Mulino, 2017, p. 71.
[12] https://foreignpolicy.com/americas-pacific-century;
[13] Brands, American Grand Strategy, p. 20.
[14] Citato in https://www.cfr.org/backgrounder/chinas-massive-belt-and-road-initiative
[15] Department of Defense (DoD), ‘Assessment on United States Defense Implications of China’s Expanding Global Access’, dicembre 2018, pp. I, 12, http://www.andrewerickson.com/wp-content/uploads/2019/01/DoD-China-Report_2018_Defense-Implications-of-China%E2%80%99s-Expanding-Global-Access.pdf
[16] Nadège Rolland, China’s Eurasian Century? Political and Strategic Implications of the Belt and Road Initiative, Washington D.C., The National Bureau of Asian Research, 2017.
[17] Robert D. Kaplan, The Return of Marco Polo’s World. War, Strategy, and American Interests in the Twenty-first Century, Random House, New York, 2018, pp. 15, 19-20, 31; per una lettura ottimista sull’ordine mondiale a guida eurasiatica, Bruno Macaes, The Dawm of Eurasia: On the Trail of the New World Order, Penguin Books, London, 2018.
[18]https://foreignpolicy.com/2019/01/07/a-new-cold-war-has-begun/?fbclid=IwAR3K5LJ2Pcq5-yab4yMV7Duuw56Vo-CMxd76Rt4Fr8z90RndTPLtk7eu20s
[19] ‘The Challenge of One World, Two Systems’, «Financial Times», 29 gennaio 2019.
[20] Thomas P. Cavanna, ‘What Does China’s Belt and Road Initiative Means for U.S. Grand Strategy?’, «The Diplomat», 5 giugno 2018.
[21] N. J. Spykman, Geographic Objectives in Foreign Policy I, in «The American Political Science Review», Vol. 33, No. 3, giugno 1939, pp. 391-410; l’espressione è presa in prestito dal fortunato libro di F. Zakaria, The Post-American World. And the Rise of the Rest, New York, Penguin Books, 2009.
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