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opiniojuris

Le mosse del Dragone

Monica Montella intervista Alberto Bradanini

Alberto Bradanini, ex-diplomatico, scrittore e attuale Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea risponde a diverse domande che riguardano la Cina e la sua posizione su ciò che sta succedendo nello scenario geopolitico globale

The Drum Tower in Beijing 1024x683Alberto Bradanini è un ex-diplomatico, tra i numerosi incarichi ricoperti, è stato Console Generale d’Italia ad Hong Kong (1996-1998) e Ambasciatore d’Italia a Pechino (2013-2015). Attualmente è il Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea, ed ha risposto a diversi quesiti che riguardano la posizione della Cina di ieri, oggi e domani. Alberto Bradanini grazie alla sua esperienza di rappresentante d’Italia ad Hong Kong e Pechino ha assistito in prima persona ai cambiamenti politici, economici e sociali che hanno da sempre contraddistinto la Cina (leggi tutti gli articoli sulla Cina.)

Tale esperienza si denota chiaramente all’interno delle descrizioni del contesto cinese che sono presenti all’interno della sua opera intitolata “Cina, l’irresistibile ascesa” pubblicato da Sandro Teti. Tale libro rappresenta uno strumento essenziale per comprendere la politica ed economia della Cina contemporanea, ed anche il modo di pensare dei suoi abitanti. Utile per tutti coloro che si avvicinano alla Cina per curiosità intellettuale, ma anche per chi vi si reca per affari, studio o turismo culturale.

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Nella sua brillante carriera ha ricoperto il ruolo di Console generale d’Italia ad Hong Kong dal 1996 al 1998, trovandosi così nel momento in cui l’ex colonia britannica è tornata alla Cina come regione a statuto speciale. Può descrivere la sua esperienza ad Hong Kong e lo stato d’animo dei suoi cittadini nel passaggio di amministrazione? Come è cambiata Hong Kong da ieri ad oggi e come sarà domani?

“Domanda complessa. Chiedo indulgenza se non sarò sintetico. Il 1° luglio 1997, in attuazione dell’accordo Thatcher-Deng Xiaoping del 1982, la Cina mette anche formalmente fine ai residui coloniali del secolo dell’umiliazione, iniziato nel 1848 con la prima disgustosa guerra dell’oppio. Dopo 157 anni, Hong Kong torna alla madrepatria e diventa un limbo di sperimentazione istituzionale che Deng Xiaoping aveva racchiuso nella geniale formula un paese, due sistemi, una formula che merita appieno la qualifica dalle caratteristiche cinesi. Da quel momento il territorio è governato da una mini-costituzione (la Basic Law) subordinata però a quella della Cina Popolare per quanto concerne la sicurezza e la politica estera.

Nella storia, Hong Kong è stata l’esempio unico[1] di una colonia che ha superato, in termini di benessere, il proprio colonizzatore: quando nel 1997 torna alla Cina il suo Pil pro-capite era di 27.215, quello britannico di 26.735[2]. Un divario cresciuto anche dopo: nel 2021, il Pil pro-capite[3] è stato di 49.036 dollari, quello inglese di 46,344 dollari.

La costituzione di Hong Kong prevede una magistratura indipendente, la libertà di parola e la tutela della proprietà privata, oltre al suffragio universale per l’elezione del Chief Executive (Capo del governo) e del Consiglio Legislativo (90 membri), al termine però di un percorso graduale. Nel giudizio di Pechino, oggi non vi sono le condizioni perché HK sia amministrata da un governo in potenziale dissenso con il governo centrale. Le ragioni di tale posizione sono legate ai timori che forze esterne, in particolare gli Stati Uniti, stiano cercando di destabilizzare Hong Kong per fermare l’ascesa della Repubblica Popolare nel suo insieme.

Secondo Pechino, il governo britannico (e dietro le quinte, gli Usa) avrebbe alimentato le agitazioni pro-democrazia nella colonia solo a ridosso del ritorno di HK alla Cina, mentre tali istanze di democratizzazione erano state del tutto ignorate nei 157 anni di dominio coloniale (fino al 1997, Governatore e Consiglio legislativo erano nominati dal governo coloniale).

A suo tempo, Deng Xiaoping[4] aveva suggerito di valutare la possibile estensione dello statuto speciale di HK alla scadenza del 2047, alla luce delle condizioni politiche di allora e degli interessi del paese, e dunque non è scontato che a quella data HK sarà normalizzata. Sul piano economico, a dispetto delle apparenze, l’economia di HK presenta tuttora un tipico assetto coloniale, basato sui privilegi dei tycoons che controllano la ricchezza del territorio tramite una struttura fondiaria oligopolistica, che nemmeno il ritorno alla Cina ha sostanzialmente modificato.

È diffusa la convinzione che il successo pregresso di HK fosse legato all’ingegno della sua gente, insieme alle istituzioni di un paese democratico, seppure coloniale. Si tratta di una lettura semplicistica. In realtà, la performance di Hong Kong – e tale affermazione non appaia azzardata – è da attribuirsi alla fortuna. Per oltre 130 anni e fino alla fine degli anni ‘70, l’ex-colonia britannica, pur collocata in una posizione strategica, non aveva mostrato alcun particolare dinamismo. Nel 1978, Deng Xiaoping apre la Repubblica Popolare sul mondo e l’ex-colonia diventa di colpo la porta d‘ingresso del business occidentale in Cina. Tale rendita di posizione sarebbe durata fino al 2001. In quell’anno, la Cina entra nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e le imprese straniere possono recarsi direttamente in Cina. HK inizia una fase di relativa sofferenza e il suo futuro è oggi legato all’integrazione con il Delta del Fiume delle Perle, vale a dire Shenzen, Canton, Macao e in definitiva il resto della Cina Popolare.

Quanto alle proteste del 2019-20 (e prima ancora quelle del 2014), esse puntavano alla conquista di una maggiore autonomia da Pechino e in primis al suffragio universale nelle elezioni del capo del governo e del consiglio legislativo. La costituzione dell’isola consente, come in Occidente, ogni genere di protesta, anche quelle di stampo antigovernativo, precluse nel resto della Cina. Pechino ha precisato che queste devono però escludere rivendicazioni indipendentiste e svolgersi all’interno del quadro istituzionale del paese sovrano, vale a dire nel rispetto degli interessi fondamentali della Repubblica Popolare, la sicurezza in primis. Tali proteste – in parte pilotate da fuori, secondo Pechino, come sopra rilevato – erano però anche espressione di disagio sociale, squilibri nella distribuzione del benessere e moltitudini di lavoratori con salari di sopravvivenza, un quadro che fa a pugni con la ricchezza dell’ex-colonia.

Taluni affermano che HK non può rinunciare alla democrazia (mai esistita) e allo stato di diritto (di stampo britannico elitario, tuttavia), per essere governata dal Partito Comunista Cinese. È possibile. Tuttavia, la storia non fa retromarcia, e dunque Hong Kong può solo investire sull’avvenire, dando il suo prezioso contributo all’evoluzione della patria. Per 157 anni essa ha ignorato la Cina, pur appartenendovi in termini di civiltà e valori. Il suo sguardo era rivolto a Occidente, mai verso Nord. È venuto il tempo di prendere congedo dal passato, lavorando a un’integrazione mutuamente vantaggiosa e levigando i contorni critici. Invece di concepirsi quale soggetto esterno, come una colonia o un territorio separato (o separabile) dalla Cina, Hong Kong – con tutta la sua diversa esperienza – avrebbe interesse a diventare parte dinamica e necessaria della madrepatria, della sua storia e cultura, per costruire insieme un futuro migliore.”.

 

Dal 2013 al 2015 ha ricoperto il ruolo di Ambasciatore d’Italia in Cina, solo da un anno Xi Jinping era al potere e ad oggi si avvia verso un terzo mandato. Come è cambiata la Cina di Xi negli anni? Spesso la sua figura è paragonata a quella di Mao Zedong, è possibile fare un confronto o è una semplificazione?

“Xi Jingping è il Segretario del Partito Comunista Cinese non un dittatore sudamericano che accentrerebbe su di sé tutto il potere. Egli risponde a una platea di 90 milioni di iscritti (cui si aggiungono gli 85 milioni della gioventù comunista), i quali – secondo i riti propri della tradizione cinese e delle alchimie del centralismo democratico – discutono e deliberano, prima che il Segretario Generale del Partito illustri al pubblico le politiche del governo.

La narrativa occidentale tende a dipingere Xi Jinping come un autocrate legibus solutus, un quadro lontano dalla realtà, sebbene egli abbia talvolta interpretato in forma personalistica il ruolo di leader del Partito. Deng Xiaoping, ideatore e creatore del grande successo economico della Cina di oggi, aveva raccomandato ai suoi successori di operare affinché la Cina potesse crescere in silenzio, poiché essa è troppo grande e ingombrante e il mondo reagirebbe, in specie la superpotenza americana. Deng aveva anche suggerito di rispettare la regola dei due mandati, che Xi Jinping sembra voler infrangere (ma su questo punto sarà bene attendere le determinazioni che saranno adottate in autunno dal Comitato Centrale). È però indubbio che Xi Jinping si è ispirato all’icona di Mao Zedong (concentrato su politica e personalizzazione) più che a quella di Deng (che si era dedicato alla crescita economica). Tuttavia, egli resta espressione esecutiva della dirigenza cinese nel suo insieme e ha il merito, tra l’altro, di aver lanciato nel 2013 la Belt and Road Initiative (Nuova Via della Seta), un progetto dalle enormi potenzialità che mira a sviluppare le infrastrutture in molte regioni del mondo (interconnessione, investimenti industriali e tecnologici, rafforzando in definitiva la stabilità politica di tali regioni), nonostante la forte opposizione americana. La pace nel mondo, non è messa in pericolo dalla crescita cinese, ma dalla patologia di dominio del nostro principale alleato, per il quel le altre nazioni non hanno il diritto di promuovere sovranità e crescita sulla base di principi e interessi legittimi autonomi.”.

 

Qual è la sua opinione riguardo la posizione assunta dalla Cina nel conflitto tra Russia e Ucraina? Con l’evolversi della guerra la Cina modificherà anche il suo ruolo?

“Pur non concordando sulla decisione di Putin di invadere l’Ucraina, nella sostanza Pechino condivide il giudizio di Mosca che la genesi del conflitto vada attribuita alla strategia americana di destrutturare la Federazione Russa con una guerra per procura (cinicamente combattuta fino all’ultimo ucraino, con armi e finanziamenti Nato-Usa e dunque insensibile alle sofferenze e alle distruzioni che ciò comporta per l’Ucraina), provocare un cambiamento di regime e se possibile la frantumazione della Russia per consegnarla al corporativismo americano-centrico, secondo lo schema tentato al tempo di Yeltsin (1991-99). Sempre agli occhi di Pechino, dunque la saldatura Cina-Russia deve essere ostacolata in ogni modo, poiché l’obiettivo ultimo di tale strategia è quello di destrutturare la Repubblica Popolare, provocando anche in Estremo Oriente un conflitto anticinese simile a quello ucraino, combattuto sempre per procura e fino all’ultimo taiwanese.

Il 2 marzo 2022, l’Assemblea delle Nazioni Unite approva una risoluzione di condanna all’invasione russa con 141 voti a favore, 5 contrari (Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del nord e Siria), e 35 astenuti, tra cui Cina, India, Pakistan ed Egitto. Nella narrativa occidentale si è trattato di una grande vittoria. Il punto di vista cinese è un altro. Persino le risoluzioni del CdS, vincolanti sulla carta, vengono ignorate dalle grandi potenze (si pensi a quelle su Palestina, Iraq, Libia e via dicendo). Quelle dell’Assemblea Generale, poi, non hanno nemmeno tale virtù, sebbene rivestano una certa valenza politica. Tra gli astenuti, troviamo Cina, India, Pakistan, Sud Africa, Mongolia, le ex-repubbliche sovietiche, diversi paesi africani e latinoamericani. Altri, pur avendo votato contro la Russia, non si sono però associati alle sanzioni Usa-Ue. Ora, non sarebbe corretto catalogare gli astenuti, gli assenti e i non-aderenti alle sanzioni – che insieme rappresentano la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta – tra i sostenitori della Russia. Essi, nondimeno, danno corpo a un evidente malumore nei riguardi della superpotenza Usa, considerata all’origine di un conflitto iniziato assai prima del 24 febbraio 2022, aggravatosi nel Donbass con 14000 vittime (dal 2014, dati Osce) e oggi divenuto una guerra aperta. Secondo tali paesi, solo Washington possiede la chiave di volta, se solo decidesse di far leva sul governo di Kiev di cui controlla fatti e misfatti. Se ciò non avviene la ragione va dunque individuata altrove. Nel comunicato finale del vertice Nato di Bruxelles del giugno 2021, si legge: “la crescente influenza della Cina e le politiche internazionali costituiscono una sfida che la Nato deve affrontare unita. Occorrerà fronteggiare la Cina se vogliamo proteggere la sicurezza dell’Alleanza”. Si tratta di un lessico che senza alcuna prova presenta come minaccia una nazione situata dall’altra parte del globo, contro la quale l’Occidente sta mobilitando un’alleanza militare nata e cresciuta in un contesto lontano e diverso (l’acronimo Nato sta infatti per North Atlantic Treaty Organization). Gli Stati Uniti aprono così un altro pericoloso fronte. Le attività antiterroristiche nel Xinjiang, il tema delle libertà individuali e altre discutibili politiche di Pechino, di cui si può e si deve discutere, non hanno nulla a che vedere con la sicurezza dell’Occidente. Eppure, occorre alimentare tensioni, spingere la Cina al conflitto, bloccarne la crescita e magari provocarne la frantumazione in tanti staterelli litigiosi e facilmente asservibili. Secondo tale patologia, un mondo plurale è inconcepibile. Le nazioni non possono convivere nella diversità, ciascuna con proprie caratteristiche ideologiche, sociali ed economiche. No, questo non è consentito.

Il giudizio di Pechino sulle responsabilità degli Stati Uniti – che con l’espansione della Nato espongono il mondo al rischio di un conflitto mondiale – è d’altra parte condiviso da una folta schiera di studiosi/politici occidentali di diversa estrazione: tra di essi, solo per citarne alcuni, gli ex-PM australiani Malcolm Fraser e Paul Keating, il principale esperto americano di Russia Stephen Cohen, l’eminente prof. dell’Un. di Chicago John Mearsheimer, il prestigioso economista Jeffrey Sachs, l’attuale direttore della Cia William Burns, il noto economista Michael Hudson, il diplomatico del containment antisovietico George Kennan, il democratico Bernie Sanders e persino il falco Henry Kissinger, i quali in tempi diversi hanno tutti espresso il loro dissenso sull’allargamento del blocco atlantico alla frontiera russa, che ha costituito il presupposto del conflitto in Ucraina, avendo sfidato la percezione di sicurezza della Russia.

La dirigenza cinese non ama i conflitti, che giudica contrari alla sua assiologia e ai suoi interessi. Le tre gambe della crescita economica della RPC sono infatti, come ovunque, domanda interna, investimenti e commercio, e quest’ultimo, tuttora cruciale, sarebbe la prima vittima di un conflitto che la coinvolgesse. Davanti alla crisi ucraina, la Cina si trova dunque in imbarazzo, avendo legami profondi sia con la Russia che con l’Occidente. Con la prima condivide i benefici di un commercio dal valore strategico poiché importa petrolio e gas via terra, evitando i tratti di mare controllati dalla marina americana, ed esportando prodotti finiti a basso costo, macchinari, tecnologia (tra cui apparati 5G) e via dicendo. Nel 2021, il commercio Russia-Cina ha sfiorato i 150 miliardi di dollari, con un avanzo per Mosca di alcuni miliardi, che nei prossimi anni avranno un’ulteriore impennata con l’import cinese di altro gas siberiano. Nel commercio elettronico e transfrontaliero, nella navigazione satellitare, nella produzione di aerei a lungo raggio e persino sul fronte culturale le relazioni bilaterali si arricchiscono ogni giorno di nuovi orizzonti. Le due nazioni svolgono regolari esercitazioni militari, hanno ultimato la costruzione del grandioso e simbolico ponte sul fiume Amur, e sviluppato intese in ambiti militari avanzati, tutto ciò nel comune intento di costruire un mondo multipolare.

Pechino ha però legami profondi anche con Unione Europea e Stati Uniti, con i quali commercio e investimenti eccedono di gran lunga quelli con la Russia. Nel 2021, l’interscambio Cina-Usa ha raggiunto i 657 miliardi di dollari, con un avanzo cinese di 355 miliardi, e quello Cina-UE i 695 mld di euro, anch’esso con un surplus cinese di 250 miliardi di euro, cui devono aggiungersi ingenti investimenti reciproci sia con gli Usa che con l’Ue.

Nell’Occidente americano-centrico si concentra la più micidiale macchina da guerra del pianeta. Le basi Usa nel mondo sono oltre 800 (cui devono aggiungersi quelle del vassallo britannico, 145 in 42 paesi), la Cina ne ha una sola, a Gibuti, dove ce l’ha persino l’Italia, utilizzata soprattutto contro i pirati somali. Gli Usa hanno dodici portaerei, la Cina tre, e via dicendo. Sul piano militare, sebbene le distanze tendano a ridursi, il confronto non ha storia.

Negli anni, d’altra parte, tra le due nazioni è sorta un’interdipendenza che va sottovalutata. Oltre a commercio, investimenti e acquisto di bond americani (1180 miliardi di dollari, 5,6% del totale), 70.000 imprese americane fanno profitti in Cina con un fatturato annuo di 700 miliardi di dollari. Va poi considerato il ruolo della finanza. Pechino ha allentato i vincoli sui gestori esteri di capitali. Le società di raccolta fondi – BlackRock, Vanguard, JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley e altri – possono ora operare liberamente in Cina, con reciproco vantaggio: diversificazione per il sistema cinese e profitti americani sui risparmi delle famiglie cinesi, che nel 2023 supereranno i 41.000 miliardi. Se in America il partito anticinese cerca di tenere le società del gigante asiatico lontano dai listini, una parte di Wall Street, seguendo il piano B e in un contesto assai fluido, rema contro e punta al cuore della Cina.

Alla luce di tali intrecci, la richiesta Usa di mediazione è vista da Pechino come una trappola insidiosa. Per Washington, nel giudizio cinese, tale riluttanza sarebbe evidenza che la Cina approva la guerra di Putin. Un’accusa che, insieme a quella di vendere armi alla Russia (dalla quale è Pechino ad acquistare armi, non viceversa), di essere stata informata in anticipo dell’attacco russo e aver chiesto a Mosca di rinviarlo al termine delle Olimpiadi, starebbe preparando il terreno per l’adozione di sanzioni anche contro la Cina.

In ogni caso, un’ipotetica mediazione cinese dovrebbe includere lo stacco di un assegno, politico e/o economico, in vista del quale le due parti sarebbero spinte al compromesso. In linea teorica, all’Ucraina Pechino potrebbe offrire un significativo contributo alla ricostruzione del paese al termine delle ostilità, sebbene ciò potrebbe non bastare. A Mosca, però, Pechino avrebbe poco da offrire, se si esclude la minaccia boomerang di non acquistare gas o petrolio, di cui è lei stessa ad aver bisogno. Il punto di vista cinese è invero un altro: sono gli Stati Uniti a disporre del bandolo della matassa, e un compromesso andrebbe imposto in fretta, poiché se la guerra si prolungasse oltre, aumenterebbero i morti e le distruzioni in Ucraina, oltre ai rischi di escalation, mentre le ambizioni territoriali di Mosca crescerebbero, complicando ancor più i negoziati di pace cui prima o poi si dovrà inevitabilmente giungere.

D’altra parte, questo conflitto consente di dissotterrare in Europa alcuni utili fantasmi del passato. La Nato recupera quella funzione teleologica perduta allo scioglimento del Patto di Varsavia, al quale sarebbe dovuto seguire il parallelo dissolvimento del Blocco Atlantico, in una prospettiva di distensione che avrebbe probabilmente prosciugato quel fiume carsico che è alla radice dell’attuale conflitto. Al contrario, i bilanci europei della difesa si vanno gonfiando a scapito degli investimenti sociali, riempendo ancor più le tasche dei produttori di armi, americani ed europei. All’immagine dell’orso sovietico si sostituisce ora quello russo, che sebbene non più rosso viene anch’esso esibito quale minaccia alla sicurezza dell’intero continente europeo.

Secondo i governi Nato, quello italiano incluso, occorre armare l’esercito ucraino. Pechino reputa che ciò accresca il rischio di escalation. A suo avviso, se dovesse confrontarsi con un’ipotetica sconfitta, la Russia procederebbe innanzitutto alla sistematica distruzione delle città ucraine. Inoltre, una nazione nucleare che combatte per ragioni che giudica esistenziali, davanti alla prospettiva di un’ipotetica disfatta potrebbe valutare il ricorso all’arma nucleare, ipotesi che nessun governo assennato dovrebbe sottovalutare.

In ultima analisi, Pechino suggerisce di investire su una diversa nozione di sicurezza, che dovrebbe essere collettiva e indivisibile, abbandonando un’astratta etica dei principi a favore dell’etica della realtà, foriera di equilibrio tra Grandi Potenze, riduzione del danno e logica del compromesso. Sposare la prima nozione aggraverebbe le tensioni, umiliando la capacità di comprendere il senso degli eventi o nascondendo propositi poco raccomandabili. Per la dirigenza cinese, la dimensione multipolare delle relazioni internazionali sta guadagnando terreno. La globalizzazione centrata sul capitale (l’Occidente), il basso costo del lavoro (la Cina) e la disponibilità di materie prime (la Russia) è giunta al termine della corsa. Il pianeta troverà un altro equilibrio, ma non sarà più questo.”.

 

Ad oggi al centro delle tensioni tra Cina e Stati Uniti si trova Taiwan. È possibile a suo parere la coesistenza di due “Cine”? Crede che la Cina possa arrivare a riprendersi Taiwan con la forza? E in tal caso gli Stati Uniti manterranno la promessa di intervenire militarmente?

“Nella scommessa di Deng la formula eccezionalistica un paese due sistemi applicata ad Hong Kong avrebbe dovuto fungere da modello per Taiwan. In tale prospettiva, negli ultimi anni di vita, il leader cinese aveva promesso ai dirigenti dell’isola un’autonomia ancora maggiore di quella concessa a HK. Il riscontro taiwanese fu tuttavia negativo: ci terremo la nostra indipendenza fintantoché le condizioni geopolitiche e la forza militare (con il malcelato sostegno americano) ce lo consentiranno, sottintendendo altresì fintantoché la Cina Popolare non sarà diventata una democrazia liberale.

Se Hong Kong, prodotto del colonialismo europeo, dava corpo all’indecorosa memoria di un’epoca da dimenticare, Taiwan – che il Giappone aveva strappato al morente impero Qing nel 1895 – rappresenta invece l’ultimo lembo di terra che impedisce l’unificazione e allo stesso tempo l’alternativa ideologico-istituzionale alla Repubblica Popolare.

Stando alle minute di un incontro dell’American Enterprise Institute (2 novembre 2021, Orlando/Florida) – alla presenza di noti sostenitori di D. Trump, tra cui Hal Brands, Dan Blumenthal, Gary Schmitt, Michael Mazza, John Bolton e altri – persino la destra americana ha riconosciuto che recuperare l’isola ribelle non presenta per Pechino nulla di ideologico o eccentrico. Finanche un ipotetico governo cinese amico dell’America collocherebbe tale obiettivo in cima all’agenda politica. Taiwan è infatti una terra cinese, costituitasi quale entità autonoma nel 1949 con la sconfitta dei nazionalisti e la fuga del loro capo Chiang Kai-shek sotto la protezione americana.

In condizioni ideali, per la Repubblica Popolare la riunificazione dovrebbe aver luogo con il consenso dei taiwanesi, la cui maggioranza resta tuttavia contraria. La Cina è ben consapevole che un conflitto con Taiwan avrebbe profonde ripercussioni sulla sua stabilità politica ed economica, senza contare che la deterrenza militare di Taipei (a prescindere dall’ipotetico intervento degli Stati Uniti) non renderebbe la conquista dell’isola una passeggiata.

D’altra parte, a dispetto della strumentale narrazione che attribuisce a Pechino la volontà di usare la forza – e nonostante il narcisismo di Xi Jinping che vorrebbe passare alla storia come il ri-conquistatore dell’isola – nel suo insieme la dirigenza cinese ha insistito sulla necessità di mantenere la pace sugli Stretti, favorendo in parallelo commercio e investimenti (che sono costantemente a vantaggio di Taipei). Non vi è alcuna evidenza che l’esercito cinese stia preparando l’invasione dell’isola, uno scenario questo che esaudirebbe il sogno dell’impero Usa, porre un freno all’ascesa della sola nazione al mondo in grado di sfidare l’egemonia americana. La Cina però opera sub specie eternitatis, sa aspettare e rebus sic stantibus – in linea con gli auspici esposti da Deng Xiaoping poco prima di morire – intende rinviare la soluzione del problema alle future generazioni di dirigenti, quando le condizioni politiche sui due fronti lo consentiranno. L’unica evenienza che potrebbe indurre la dirigenza cinese a considerare un ipotetico intervento è costituita dalla dichiarazione formale d’indipendenza da parte del governo dell’isola. E si fa fatica e capire la logica che potrebbe spingere Taiwan ad avventurarsi verso un conflitto devastante, tenuto conto che l’isola di fatto indipendente lo è già. Certo, in linea teorica la dirigenza taiwanese potrebbe piegarsi alle demenziali mire imperialistiche americane, incamminandosi in tale direzione. Tuttavia, i taiwanesi hanno sinora dimostrato di avere la testa sulle spalle, curare i propri interessi e non quelli americani. E speriamo che continuino così.”.

 

Attualmente la politica “zero Covid” ha portato alla chiusura dei confini cinesi, provocando effetti sulle relazioni con gli altri stati tra cui l’Italia; molti italiani sono bloccati in Cina e altri attendono di arrivarci (studenti soprattutto). Lei cosa ne pensa di questa chiusura? Che effetti ha sulla politica interna ed estera della RPC? La politica “zero Covid”, il lockdown di Shanghai e le immagini dei recinti posti all’esterno di ogni palazzo che circolano in rete, che effetti hanno avuto sull’idea che gli italiani hanno della Cina?

“Non sono in grado di formulare una riflessione sensata sull’idea che gli italiani hanno elaborato in merito alla strategia cinese nei riguardi dell’epidemia Covid. Non v’è dubbio che le misure adottate dal governo siano state oggettivamente estreme. Per quanto è dato sapere, il duro confinamento al quale i residenti di diverse città (tra cui Shanghai) hanno dovuto piegarsi ha forse portato benefici alla lotta contro il virus, ma ha anche causato danni gravi e forse evitabili all’economia del paese. Uno scenario che a sua volta avrebbe generato una frattura in seno al Partito. È dunque non inverosimile che una valutazione complessiva di tale strategia, che di tutta evidenza è stata pilotata dallo stesso Xi Jinping, formerà oggetto di attenta valutazione quando il Comitato Centrale del Partito nel prossimo autunno dovrà pronunciarsi sull’eventuale rinnovo del mandato di Xi, il quale – diversamente da una narrativa occidentale forse troppo scontata – potrebbe essere costretto a farsi da parte, non solo per questa ragione, consentendo così al sistema di successione di tornare al rispetto delle lontane ma sagge prescrizioni di Deng Xiaoping (non più di due mandati).”

 

La Cina aspira a un cambiamento del sistema internazionale diretto al multipolarismo e in contrasto con l’egemonia statunitense. A questo è strettamente legato il concetto di multilateralismo e l’ambizione cinese di ricoprire un ruolo sempre maggiore e responsabile nel sistema internazionale. Si può affermare che la Cina stia promuovendo un modello alternativo di governance rispetto ai valori liberali occidentali?

“Il fondamentalismo liberista giustifica gli squilibri nel mondo ricorrendo alla teoria del trickle down, secondo la quale la mano invisibile del mercato costituisce il motore della crescita, che si diffonderebbe “giù per li rami” consentendo anche agli ultimi di beneficiarne. Una narrazione mistificatoria questa, dal momento che alla tavola imbandita può accedere solo l’1%, mentre al restante 99% sono riservate solo le briciole. Nell’attuale nozione occidentale di populismo – che se non trova una definizione condivisa, appartiene tuttavia a pieno titolo alla categoria del disagio sociale – si sono accumulati gli effetti della sconfitta del mondo del lavoro dopo i trent’anni gloriosi (1945-75) e quelli perversi e asociali della globalizzazione, che sta gradualmente distruggendo servizi pubblici e coesione sociale.

La rivalità tra il corporativismo americano – aggrappato agli esorbitanti privilegi di cui gode dalla fine del secondo conflitto mondiale – e i paesi sfidanti che intendono uscire a modo loro dal sottosviluppo, si basa sulle diverse caratteristiche dei rispettivi sistemi: in America/Occidente, gli asset economici e sociali sono nelle mani della ricchezza privata, mentre nei contender states (in Cina, in primis) essi sono controllati dalle classi di stato.

A dispetto dei limiti in tema di libertà e partecipazione, le nazioni sfidanti costituiscono un freno all’espansionismo patologico delle corporazioni private americano-centriche, consentendo di coltivare l’orizzonte filosofico di possibili alternative alla normalizzazione nichilista dell’imbuto di F. Fukuyama (democrazia liberale ed economia di mercato). Un mondo plurale, come suggeriva finanche il grande pensatore tedesco E. Kant (Per la pace perpetua) è sempre meglio di un impero che s’impone con la forza sulle altre nazioni.

Concorrente, rivale e nemico a seconda dei contesti, in ragione della sua dimensione geografica, economica e demografica, oltre che ideologica – la Cina costituisce il paese più insidioso per l’imperialismo Usa, un giocatore accorto e pacifico che non mira ad abbattere l’ordine economico mondiale, ma a rimodellarlo pacificamente in chiave multipolare. In tale contesto, secondo la dirigenza cinese, è indispensabile che le Grandi Potenze, in primis gli Stati Uniti, s’incamminino sulla strada di un negoziato strategico con le altre nazioni del mondo, anche quelle che intendono vivere e prosperare sulla base di condizioni storiche, economiche e ideologiche diverse. Gli Stati Uniti, dunque, nella valutazione dei dirigenti cinesi, dovrebbero dismettere gli abiti imperiali e tornare ad agire come una nazione normale – abbandonando la concezione della sola nazione indispensabile al mondo (secondo il lessico patologico di B. Clinton, 1999) – sedendosi intorno al tavolo per un dialogo rispettoso degli interessi di tutti i popoli del mondo.”.


Note
[1] L’ex-colonia, giudicata l’economia più libera del mondo per 25 anni consecutivi dall’americana Heritage Foundation, ha conquistato per quattro volte il primo o il secondo posto per competitività tra il 2015 e il 2020, secondo l’International Institute for Management Development. Dal 1997 al 2019, il suo PIL è cresciuto da 1.370 miliardi a 2.870 miliardi di dollari HK, rafforzando il suo status di centro finanziario globale. Alla fine del 2019, la borsa di Hong Kong valeva cinque mila miliardi di dollari USA, la quarta al mondo dopo New York, Shanghai e Tokyo
[2] https://www.macrotrends.net/countries/GBR/united-kingdom/gdp-per-capita
[3] https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_countries_by_GDP_(nominal)_per_capita
[4] Deng Xiaoping on the Question of Hong kong, New Horizon Press, 1993
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