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La guerra a perdere

di Alfonso Gianni

6720409 29180010 daeePrimo Levi conclude la sua splendida trilogia sul sistema concentrazionario con alcune semplici e definitive parole, prive di retorica quanto gravide di verità: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”.1 L’Autore si riferisce in particolare al fatto, fino a quel momento incredibile, di un intero popolo civile che ai accoda a un istrione criminale. Tuttavia non è una forzatura intendere il senso delle sue parole in modo più ampio. “L’avvenimento fondamentale e inaspettato è avvenuto, fondamentale appunto perché inaspettato”. E il pensiero, in questi tempi, non può evitare di correre ad un altro avvenimento “fondamentale”: lo scoppio della bomba atomica a Hiroshima e a Nagasaki. Se i paragoni, storicamente del tutto discutibili ma capaci di suscitare emotività, fra Putin ed altri dittatori del secolo scorso e ancora più in là, si sprecano per quantità sui mass media, la riflessione e l’avvertimento sul pericolo di una guerra nucleare è invece ancora sottotraccia, e quando viene evocato è per sottolinearne l’estrema improbabilità o addirittura la impossibilità del suo concreto verificarsi. Eppure “é accaduto, quindi può accadere di nuovo”.

 

La cultura del Manifesto di Ventotene

La percezione di questo pericolo era sicuramente più viva negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta che non al tempo d’oggi. La cultura del Manifesto di Ventotene aveva diffuso e lasciato i suoi fruttiferi semi, almeno per allora, ben al di là dell’alveo culturale in cui era nata.

Basti ricordare che il futuro capo dello Stato Luigi Einaudi, in un discorso tenuto all’Assemblea costituente nel 1947, riflettendo sui fallimenti passati che avevano portato a due guerre mondiali, affermava che “il mito funesto” della sovranità assoluta degli Stati è “il vero generatore della guerra” poiché “arma gli Stati per la conquista dello spazio vitale” e quindi “l’unico ideale” per cui valesse la pena di lottare senza risparmio di energie fosse quello degli Stati uniti d’Europa. Anche perché, nel frattempo, la forza distruttiva degli armamenti aveva compiuto un fatale salto di potenza.

Nei primi anni sessanta non si trattò solamente della acutissima crisi dei missili a Cuba a suscitare e a diffondere la paura di un tragico esito, quale poteva essere il ricorso ad armi nucleari. Ma anche l’attenzione che il mondo della cultura più sensibile, a sinistra e nel campo cattolico per quanto riguarda in particolare il nostro paese, seppe dedicare a questo tema. Non a caso la riflessione sulla potenza assoluta del carattere distruttivo della bomba atomica si intrecciava con il nascente pensiero ambientalista moderno. Ed era anche in grado di dischiudere in campo comunista una nuova visione dell’internazionalismo, non più solo legata alla contrapposizione tra blocchi geo-social-politici, di cui si voleva evitare l’urto devastante attraverso la “coesistenza pacifica”, ma in modo assai più lungimirante nel nome della salvezza del genere umano.

 

La riflessione degli intellettuali italiani

L’elenco dei portatori e diffusori di questa consapevolezza è assai lungo per richiamarlo qui senza avere la certezza di fare torto per dimenticanza ad alcuni. Ma come non ricordare un intellettuale, proprio perché oggi quasi oscurato, dello spessore di Mario Spinella, la cui migliore riflessione si muoveva proprio verso questi approdi. Egli coglieva, quasi paradossalmente, anche la potenzialità positiva implicita nella minaccia atomica qualora le donne e gli uomini fossero in grado di comprenderla e svilupparla. Per Spinella la minaccia atomica avrebbe anche potuto spingere l’uomo verso una tendenza quale “quella di eguagliare in vita, di realizzare, di fronte a sé, la cospiratio oppositorum, la convergenza degli opposti”2.

Assai più controverso, contradditorio e sofferto è stato certamente il delinearsi della posizione di Norberto Bobbio nei confronti della guerra. Negli anni Cinquanta egli si posiziona in modo decisamente critico nei confronti del Movimento dei Partigiani della Pace, criticandone quello che gli appariva essere un “pacifismo astratto”, mentre il suo riferimento, ripercorrendo le tesi di Hans Kelsen3, si ancorava al “pacifismo giuridico”. Tuttavia un’accresciuta percezione della minaccia nucleare impose al pensatore torinese una svolta, sottolineata anche dalla sua partecipazione alla prima e quindi storica marcia della pace Perugia-Assisi, a fianco di Aldo Capitini, nel 1961. Non sarà l’unica svolta di Bobbio. Infatti in occasione della guerra in Iraq torna sulla tesi della guerra giusta, giudicandola tale in base al diritto internazionale.4

 

Lo sdoganamento dell’arma nucleare

Venendo ai giorni nostri, dominati dalla guerra in atto in Ucraina a seguito dell’invasione russa, il pericolo nucleare si capovolge nel suo contrario. L’arma nucleare viene sdoganata. Il suo uso o viene considerato un pericolo troppo remoto per meritare d’essere preso in seria considerazione, oppure si considera il nucleare un’arma certamente ed enormemente più distruttiva di altre, ma il cui uso non viene considerato più come impensabile e comunque viene sollevato da eccessive preoccupazioni etiche. Il passepartout che dischiuderebbe tutte le porte delle meraviglie della guerra moderna, sarebbe costituito dall’arma nucleare tattica. Questa, si dice, differirebbe dalle armi nucleari strategiche in ragione di una potenza e di una gittata inferiori, compensata dalla maggiore trasportabilità e dalla capacità di colpire obiettivi più circoscritti e mirati. Tuttavia, avvertono i ricercatori e gli analisti dell’Istituto di ricerca sul disarmo dell’Onu, non esistono in realtà criteri convenzionali per una precisa distinzione tra armi nucleari tattiche ed armi nucleari strategiche. Questa ad ogni modo non risiede tanto nella differenza di potenza, quanto negli scopi per i quali verrebbero utilizzate. Si dice che le testate nucleari strategiche potrebbero sprigionare un’energia di centinaia di chilotoni (un chilotone libera un’energia pari all’esplosione di mille tonnellate di tritolo), mentre le nucleari “tattiche” si limiterebbero a pochi chilotoni. Ma le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki avevano una potenza di 15 e 20 chilotoni. In altre parole con i criteri odierni anch’esse potrebbero essere considerate tattiche, pur avendo giocato un ruolo strategico, quello di portare alla resa il Giappone (anche se questo obiettivo si sarebbe ottenuto comunque anche senza l’impiego del nucleare). Quindi le armi nucleari tattiche hanno già una potenza distruttiva considerevole, al netto degli effetti di più lungo periodo sul territorio e le forme di vita. Si dice che l’unico vegetale che sopravvisse alle radiazioni dopo il bombardamento di Hiroshima fosse la Ginko Biloba: un suo seme germogliò a distanza di decenni dalla tragedia. Ma soprattutto una volta aperto il teatro nucleare nessuno può dirsi in grado di prevedere dove può portare l’escalation nucleare che verrebbe innestata e tantomeno a quel punto di fermarla.

 

I mass media italiani e il pericolo nucleare

I mass media italiani hanno deciso di silenziare il tema, se non per accusare chi lo solleva di codardia o di mascherare un sostanziale filoputinismo. I nostri maggiori quotidiani hanno scelto di appiattirsi su una linea filoatlantica e di indossare l’elmetto. Con qualche significativa eccezione. Anche sui giornali più schierati sulla linea di una vittoria militare dell’Ucraina, ogni tanto compare qualche voce in controtendenza. Vale la pena di sottolineare tra le non molte quella dell’imprenditore Carlo De Benedetti che in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera insiste sul fatto che “gli Stati uniti si preparano ad una guerra lunga, anche di un anno” che sarebbe per l’Italia e l’Europa un disastro, mentre “l’unico modo per fermare le atrocità è trovare una soluzione negoziale”.5

Non può non colpire anche un’intera pagina che Il Sole 24 Ore dedica esplicitamente alla minaccia della guerra atomica, facendo comparire accanto alle celebri fotografie del fungo di Nagasaki, un breve e secco articolo del suo direttore, Fabio Tamburini, in cui afferma che “l’eventualità di una guerra atomica ancora più distruttiva è tornata drammaticamente di attualità” dal momento che “l’intelligence

Americana la ritiene possibile”. Tamburini conclude ricordando che “la grande colpa è avere ignorato l’appello di Papa Francesco che, da anni ormai, lancia l’allarme: la terza guerra mondiale, dice, c’è già, come dimostrano 60 conflitti in corso. Detto ciò la guerra in Ucraina rappresenta un salto di qualità, con la possibilità reale che si inneschi da un momento all’altro un conflitto nucleare … Nessuno deve potere dire di non esserne stato consapevole”6

Di tutt’altro genere è invece la presa di posizione di Lugi Manconi nei suoi articoli su la Repubblica, dove proclama di non avere paura della bomba, mentre apprezza il fatto che “la precaria stabilità della coesistenza planetaria si regge sulla reciproca intimidazione tra i paesi titolari di arsenali atomici”, poiché “nessuna delle potenze nucleari vorrà mettere a repentaglio, insieme a quella altrui, la propria sopravvivenza.Se le cose stessero così bisognerebbe non solo evitare di contrastare – cosa che infatti non si sta facendo – la proliferazione nucleare, ma addirittura di promuoverla come fattore di equilibrio, seppure in una precaria stabilità! Manconi aggiunge che “agitare la minaccia nucleare corrisponde in primo luogo a enfatizzare la potenza russa e a rafforzare una sorta di sua intangibilità. Il che significa dargliela vinta e incentivarne l’aggressività imperialista”, concludendo con un’aspra quanto immotivata critica al pacifismo “tra i limiti attuali del pacifismo, accanto alle sue tante virtù, c’è quello di affidarsi esclusivamente all’emotività: di essere, cioè, un ‘movimento di reazione’ e di mobilitazione della paura”.7 Meno male che esiste l’emotività, verrebbe da commentare.

 

La guerra per procura

Che la guerra non si limiti solo ad un aspro e sanguinoso conflitto russo ucraino è ormai cosa difficile da negare. Ciò malgrado piovono accuse di giustificazionismo ad ascendenza putiniana su chi si azzarda a parlare di una guerra “per procura” degli Stati Uniti che mirano quantomeno ad indebolire stabilmente la Russia, preparando così il terreno per affrontare il loro vero nemico di questo secolo, la Cina.

In un rapporto reso noto nel 2019 della Rand Corporation, un istituto di studi strategici americano nato nel 1946, già si delineavano sei possibili mosse che gli Stati uniti avrebbero potuto compiere nel quadro della competizione geopolitica fin d’allora in atto, ovvero: “fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno ai ribelli siriani, promuovere un cambio di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni armene e azere, intensificare l’attenzione all’Asia centrale e isolare la Transnistria” Il testo afferma subito dopo che vi sarebbero altre possibili mosse geopolitiche che sono state oggetto di ricerche del Rand, trattate in altri capitoli, tra queste “l’intensificazione delle relazioni della Nato con la Svezia e la Finlandia”. Dopo avere esaminato i pro e i contro di ciascuna delle “mosse” indicate, gli estensori del rapporto concludono che la cosa più rischiosa e comunque con meno probabilità di successo sarebbe stata il tentativo di un regime change in Bielorussia.8 Come si vede le valutazioni dell’Istituto di ricerca non si sono di molto discostate dalla realtà effettuale.

Lo stesso New York Times, in un articolo firmato dall’Editorial board del quotidiano, a metà maggio si domandava seriamente se gli Usa fossero veramente pronti ad affrontare tutte le difficoltà che la guerra in Ucraina stava manifestando.9 Il pacchetto di aiuti per 40 miliardi di dollari autorizzato dal Senato americano imponeva agli editorialisti dell’autorevole giornale nuovayorkese di chiedere all’Amministrazione Biden quale fosse realmente il suo obiettivo, se quello di aiutare gli ucraini o piuttosto quello di destabilizzare la Russia e rimuovere Putin dalla plancia di comando. Il Nyt invitava quindi il presidente Biden a considerare l’enorme devastazione economica mondiale alle porte e dunque a chiarire a Zalenski “e al suo popolo che c’è un limite alle armi, al denaro e al sostegno politico che essi possono mettere insieme”.

 

La politica di Biden

Ma Biden non ha voluto dare retta agli editorialisti del Nyt, così come ai giudizi pesantemente critici di George Kennan, l’inventore della strategia di contenimento dell’Urss durante la “guerra fredda”, che negli ultimi anni della sua vita centenaria, scrisse che l’allargamento della Nato a Est era stato il più grande errore della politica statunitense a cavallo del secolo. Posizione ripresa anche recentemente da Henry Kissinger che insiste sulla necessità di arrivare ad una pace anche con il sacrificio di pezzi di territorio ucraino.

James W. Carden, opinionista di Asia Times, già consigliere per la Russia per il dipartimento di Stato degli Usa, fa notare come l’inversione di tendenza nei confronti della Russia sia avvenuta con Clinton e proseguita dai suoi successori, siano stati essi repubblicani o democratici, con l’intento di fare presa sugli elettori polacchi ed ucraini presenti nella Rust Belt, le zone deindustrializzate dell’America, senza peraltro che questo abbia poi impedito a Donald Trump di vincere anche grazie a quei territori.10

La recente National Security Strategy – un documento che ogni governo americano deve scrivere per individuare i pericoli per la nazione e le misure da assumere di conseguenza – ha subito un ritardo della sua pubblicazione per via dello scoppio della guerra. Proprio per questo è un testo estremamente attuale e ci permette di leggere meglio la visione strategica che guida gli Usa. Come ha affermato il consigliere per la sicurezza nazionale Jack Sullivan, astro nascente nel panorama politico democratico americano, “Esiste un certo livello di integrazione e simbiosi nella strategia che stiamo perseguendo in Europa e quella nella regione indo-pacifica. Il presidente Biden ha una capacità unica di fondere le due questioni e questa sarà la caratteristica della sua presidenza in politica estera.”11 Sulle doti mirabolanti di Biden è lecito dubitare, anche tenendo conto dei non straordinari successi ottenuti proprio nella regione indo-pacifica. Ma quello che appare sempre più chiaro è che il sostegno all’Ucraina si inserisce in un più complesso tentativo degli Usa di invertire la tendenza alla transizione egemonica da Ovest ad Est, cercando di contenere la crescita della potenza cinese a cominciare dall’indebolimento dei suoi alleati reali o potenziali. La guerra russo-ucraina è una parte strategicamente importante nella guerra mondiale a pezzi di cui ha spesso parlato Papa Francesco.

 

Il coinvolgimento nella guerra

Gli Stati uniti, la Nato e i paesi europei che ne fanno parte cercano in ogni momento di tenere in piedi la finzione per cui l’armamento, oramai di ogni tipo, dei propri alleati, o futuri tali, non è la stessa cosa che prendere parte alla guerra. Ma nella nostra epoca, ove la società è immersa in una infosfera, tale distinzione non ha davvero più senso. La cosiddetta cyberwar, pienamente in atto come testimoniano le cronache, non conosce confini. D’altro canto gli Usa hanno fornito informazioni che sono risultate indispensabili per l’eliminazione fisica di generali russi e che pare abbiano contribuito in modo determinante all’affondamento nel Mar Nero dell’incrociatore russo Moskva. Nello stesso tempo sono stimati in numeri importanti le presenze, distribuiti su ambo le parti in conflitto, di foreign fighters.

A fronte di questa situazione non è solo la politica ad essere assente. Anche l’intellettualità a livello internazionale appare fortemente divisa e quella più attiva, anche perché aiutata e sospinta dai mass media, è schierata con la speranza di una vittoria militare sul campo dell’Ucraina. Il che coincide nella maggioranza dei casi in un appoggio ai vari governi per l’invio di armi, indistinguibili peraltro tra difensive e offensive. Si erge a favore di un percorso di pace solo la voce del Papa. Alla fine di Aprile Jurgen Habermas invitava sul settimanale Die Zeit l’Occidente a sciogliere un difficile dilemma. Quello che vede da un lato il diritto degli ucraini a difendersi dall’aggressore, a combattere per l’integrità, la libertà e l’autodeterminazione del loro paese e dall’altro la necessità di scongiurare, prima che sia troppo tardi, il pericolo di una escalation militare che potrebbe sconfinare nell’uso delle armi nucleari, tanto più se lo stato di belligeranza in Europa si prolungasse nel tempo, cosa che peraltro non dispiacerebbe affatto agli Stati uniti. Ciò che finora ha ottenuto però è stata l’accusa, se non di fare direttamente il gioco del Cremlino, di occhieggiare all’egoismo maturo del capitalismo tedesco.12

 

L’armamento dell’Ucraina

L’escalation militare non è cominciata all’indomani della tragica decisione di Putin di dare il via all’invasione, ma ben prima. Secondo alcuni osservatori americani, sempre molto attenti a quello che avveniva in quella parte dell’Europa, le condizioni dell’esercito ucraino fino al 2014 non si potevano certo definire eccellenti e competitive. Tanto è vero che gli oligarchi – prerogativa non solo della Russia – più che lo stato hanno finanziato e armato milizie inviate a combattere i separatisti nell’est del paese. Gli Stati uniti hanno cominciato ad armare e addestrare l’esercito ucraino fin dall’Amministrazione Obama, anche se con qualche esitazione poi del tutto venuta meno sotto la direzione di Trump. Dal 2018 l’Ucraina ha ricevuto missili anticarro Javelin made in Usa, artiglieria ceca e droni Bayraktar turchi e altre armi interoperabili con la Nato. Sempre gli Usa, cui si è aggiunto il Canada, hanno più di recente inviato obici M777 di progettazione britannica che sparano proiettili Excalibur guidati da Gps.

Anche l’artiglieria pesante italiana è entrata in azione del Donbass. Si tratta dei cannoni FH70, esito di un progetto tedesco, inglese e italiano, capaci di sparare tre colpi al minuto centrando obiettivi situati a 25 chilometri di distanza. Fanno parte delle armi letali che il nostro esercito ha consegnato alle forze armate ucraine in attuazione dei tre decreti interministeriali del governo Draghi su cui, essendo secretati, il Parlamento italiano non ha potuto mettere lingua. E’ evidente che la credibilità di un piano di pace, quale quello annunciato dal governo italiano, ma dallo stesso poco sostenuto, al di là degli specifici punti in esso contenuti, è minata alle fondamenta dal sempre maggiore coinvolgimento, attuato senza dichiararlo, del nostro paese nella guerra in atto fra Russia e Ucraina.

Esattamente un mese dopo l’invasione russa, si è tenuta a Roma una riunione, passata quasi sotto silenzio, dell’ Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise) che risponde direttamente al Presidente del Consiglio dei ministri e ha il compito di ricercare e fornire tutte le informazioni su quanto si muove al di fuori del territorio nazionale, a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia. Nel corso di quella riunione si sottolineava come i russi avessero incontrato difficoltà impreviste anche per il vantaggio ucraino negli armamenti, dal momento che per ogni tank russo vi sarebbero 11 armi anticarro in dotazione agli ucraini. Infatti, parlando agli inizi di maggio ai lavoratori della Lockeed Martin - protagonista cinquant’anni fa di un famoso scandalo nelle relazioni con l’Italia - Biden era andato sul pesante, celebrando la produzione dei missili anticarro Javelin, di cui 5.500 inviati in Ucraina, e commentando con scarso senso del ridicolo che i genitori ucraini chiamavano i neonati Javelin e Javelina in onore di quella manna piovuta dal cielo a stelle e strisce. Davanti al nuovo pacchetto di aiuti di 40 miliardi di dollari a favore dell’Ucraina, il New York Times il 19 maggio si interrogava seriamente se l’obiettivo di Biden non fosse in realtà quello di destabilizzare e mortificare la Russa piuttosto che salvare gli ucraini. E il vecchio Kissinger ammoniva quanto tale obiettivo fosse sciagurato, dati i rischi concreti di una guerra nucleare.

 

La corsa al riarmo in Europa e in Italia

Ma la spinta bellicista e riarmista ha oramai invaso l’Europa. Lo abbiamo visto nelle scelte del nuovo governo tedesco in aperta controtendenza con quelle praticate nel dopoguerra da quel paese. Lo vediamo nitidamente anche da noi. Il pregevole lavoro degli analisti della Rete italiana Pace e Disarmo ha condotto a significative correzioni del Rapporto annuale al Parlamento sull’export di armi, mettendo in luce che nel 2021 si è verificato il record storico di esportazioni effettive e definitive di materiale bellico (oltre 4,7 miliardi di euro) rimanendo alte le nuove autorizzazioni (per 4,6 miliardi). In totale gli Stati del mondo verso cui sono state autorizzate nell’anno scorso vendite italiane di armamenti sono stati ben 92. Il nostro paese si presenta come un hub mondiale della produzione militare, tanto per quantità che per qualità distruttiva.

Progetti in sé non nuovi traggono alimento da questa rinnovata spinta alla produzione di armi. Riappare il tormentone di una fusione fra Leonardo e Fincantieri. Così sono state intese le parole di Giorgetti, ministro dello sviluppo economico, durante la sua recente visita alla Fincantieri di Monfalcone, dove ha avanzato l’ipotesi di costruire “un polo militare italiano”. Il governo è azionista di riferimento sia di Leonardo (partecipata dal Mef al 30%) che di Fincantieri (che Cdp industria controlla con il 71.32%). La sua è dunque la voce del padrone. Ma non ha finora trovato consensi tra gli Ad delle due imprese e neppure nel mercato. La reazione negativa di Profumo, Ad di Leonardo, ha subito fatto risalire le quotazioni azionarie dell’azienda, proponendo in alternativa di fare di Leonardo il polo di aggregazione per un gruppo europeo dell’elettronica della Difesa. Altri centri finanziari si sono dichiarati contrari alla fusione. Eppure l’ipotesi resta in campo, più forte che nel passato, in un curioso braccio di ferro tra politica e finanza. Infatti Giorgetti ribadisce che la domanda di difesa in Europa crescerà e quindi il nostro paese deve mostrarsi all’altezza. Come a dire che non abbiamo ancora dato il peggio di noi stessi.

Non c’è quindi solo l’ombra avvolgente di una non più impossibile nuclearizzazione della guerra, ma l’allargamento e il sempre maggiore coinvolgimento in essa dell’Alleanza atlantica e di paesi europei, in assenza di una qualche capacità di iniziativa politica da parte dell’Unione europea. Anzi si accarezza da più parti la convinzione della possibile vittoria dell’Ucraina sul campo. Poiché però si deve nascondere in qualche modo il flusso di moderni armamenti che da anni alimenta il potenziale bellico ucraino, si devono trovare altre motivazioni extra-militari per sostenere la tesi di una possibile vittoria ucraina.

 

Il confine fra democrazia e autocrazia

Ecco quindi entrare in campo il leitmotiv della contrapposizione epocale fra democrazia e autocrazia, individuando in Kiev la nuova linea Maginot dietro la quale fanno muro i paesi democratici contro quelli autarchici che minacciano la pace e la civiltà del mondo. Sarebbe questa una sorta di mondializzazione soft dello scontro in atto sul teatro est europeo.

Esemplari, da questo punto di vista, ma non certo isolate sono le tesi che Filippo Andreatta – docente di Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze politiche e sociali all’Università di Bologna – sviluppa nel corso di un’intervista al Corriere della Sera.13 Alla domanda se l’Ucraina può vincere la guerra il professore risponde che “emerge una differenza qualitativa a favore degli ucraini, che credo sia dovuta alle sue istituzioni democratiche”. Quindi l’intervistatore alza il tiro e chiede se le democrazie vincono sempre, a quel punto Andreatta si fa un filo più prudente e ci aggiunge un “quasi”, ma poi insiste che “nella letteratura scientifica è un’opinione consolidata che le democrazie abbiano alcuni vantaggi materiali, almeno nelle guerre convenzionali” (precisazione, quest’ultima, non da poco) e conclude “una vittoria ucraina non può ancora essere data per scontata; ma ora è diventata plausibile oltre che auspicabile”.

Tutto il contrario di quanto affermerà in un comunicato pochi giorni dopo Amin Awad, Segretario generale aggiunto e coordinatore Onu delle crisi per l'Ucraina: "Questa guerra non ha e non avrà vincitori. Piuttosto, abbiamo assistito per 100 giorni a ciò che è stato perso: vite, case, lavoro e prospettive".14 Se l’essere un paese democratico – al di là di ogni doveroso dubbio sullo stato di salute delle democrazie occidentali – fosse di per sé garanzia non solo di una superiorità etica-istituzionale, ma anche militare, non ci sarebbe freno alle teorie dell’esportazione della democrazia che tante guerre hanno provocato nel mondo. Quanto alla letteratura scientifica chiamata in causa da Andreatta è lecito dubitare che questa offra pareri omogenei sulla questione. In un articolo15, che prende spunto dall’intervista di Andreatta e dalla dichiarazione di Enrico Letta (successivamente un poco annacquata) sulla necessità di una impennata “umanitaria e militare”, Michele Prospero cita una serie di studi internazionali che richiamano in dubbio il dogmatismo democratico di cui fa sfoggio Andreatta. In particolare un volume collettaneo (A. Geis, L. Brock, H. Muller Democratic Wars, Palgrave 2006) smonta la tesi della rilevanza del regime politico interno. Un altro studio di Errol Henderson (Democracy and War. The End of an Illusion? Lynne Rienner Publishers, 2002) già ammoniva che il raggiungimento della pace non deriva di per sé dalla proliferazione delle democrazie “La pace democratica non è certo una legge empirica: anzi sembra essere una grande illusione” In realtà peggio ancora che un’illusione questa teoria si presenta come un inganno. A guardare bene essa corrisponde in questa fase a un rilancio della Nato che si rivitalizza come aggressivo propalatore del messaggio liberal-democratico.

 

Le cause economiche del proliferare delle guerre

Se ci si ferma all’impianto politico istituzionale si comprende ben poco dell’origine e della natura delle guerre che sconvolgono il mondo, compresa quella russo – ucraina. Ha ragione Emiliano Brancaccio quando lamenta l’assenza di una vera e approfondita disamina delle tendenze strutturali che smuovono i moderni venti di guerra. Se si guardasse ad esse si vedrebbe che “sulla base di una ferrea razionalità capitalistica … entrambe le parti (qui si riferisce allo scontro fra Nato e Russia) sono portate a proseguire la guerra” e la ragione sta, secondo Brancaccio, in un mutamento dello scenario mondiale le cui cause sono legate al problema del controllo del capitale, “è la cosiddetta tendenza verso la ‘centralizzazione del capitale’ (un punto chiave nella riflessione analitica dell’autore) in sempre meno mani, che col tempo sposta il controllo del capitale dei debitori liquidati verso i creditori che li acquisiscono” per cui “nella sua essenza, il moderno conflitto militare è pura ‘guerra capitalista’ che scoppia a causa non di sacri diritti negati ma di profani contratti mancati”.16 Come ben si intende non si tratta di cadere in preda a forme di determinismo economicista, ma di non dimenticare mai il sottostante economico che è un fattore decisivo, anche se non l’unico, nel muovere le scelte politiche e militari.

Ma se dunque l’analisi, oltre che l’evidenza empirica di questi terribili mesi, ci porta alla conclusione che con ogni probabilità il conflitto è destinato a durare, come se ne esce? Se l’ipotesi di una sconfitta militare della Russia è un’ipotesi improbabile e che non affronta, da nessun punto di vista, le conseguenze del dopoguerra, cosa si fa? La strada delle sanzioni economiche è realmente perseguibile ed efficace?

 

I limiti delle sanzioni economiche

Il famoso pronunciamento del 28° presidente degli Stati uniti, Woodrow Wilson, sul finire della Prima guerra mondiale, secondo cui le sanzioni economiche sarebbero peggiori della guerra, pare ormai relegato al passato. Dopo un secolo Biden ha cercato di resuscitarlo dicendo che l’unica alternativa ad esse sarebbe una terza guerra mondiale. Ma non è andato al di là del richiamo orrorifico. Ancora una volta è lo stesso New York Times a mettere in dubbio l’efficacia delle sanzioni, anzi a contestare la validità di una strategia basata su di esse. Gli analisti del quotidiano nuovayorkese invitano l’Amministrazione Biden a prendere atto dei limiti delle sanzioni, proprio a partire dalla stessa esperienza nazionale degli Usa, concludendo che “sebbene l’invasione della Russia dimostri che l’integrazione economica non è una cura contro la guerra, anche l’isolamento economico non è una ricetta per la pace. Le sanzioni sono spesso vendute come alternativa alla guerra. Ma possono essere anche un precursore della guerra, come si è visto con l’istituzione dell’embargo petrolifero americano contro il Giappone e il congelamento dei beni giapponesi circa cinque mesi prima dell’attacco a Pearl Harbor”17

Da allora sono passati più di ottant’anni, ma non per questo la scelta delle sanzioni ha accresciuto le sue chance di successo. Anzi. La reciproca dipendenza economica tra gli stati anche in un quadro, quale quello attuale, di de-globalizzazione - o di “globalizzazione selettiva” come la chiamano alcuni analisti - moltiplica e diffonde gli effetti delle sanzioni economiche e allo stesso tempo le depotenzia. Non solo perché la loro efficacia dipende in modo decisivo dal ruolo dominante che assume nella geoeconomia e nella geopolitica la potenza che le impone. E la Ue è ben lontana dall’ambire a quel ruolo, mentre gli Usa cercano di invertire o almeno frenare un declino, evidente in particolare negli ultimi vent’anni, che rischia di mettere fine al “secolo americano”. Ma anche perché non è affatto detto che il vero obiettivo delle sanzioni sia quello di evitare la guerra.

Se da un lato la governatrice della Banca centrale russa, Elvira Naibullina, ha rotto il muro dello spavaldo patriottismo putiniano, avvertendo che le sanzioni, in atto dal 2014, dovrebbero imporre cambiamenti strutturali all’economia russa a cominciare dal peso del suo modello esportativo, dall’altro lato le contromisure messe in atto dal sistema finanziario russo non sono state prive di efficacia. I costi delle sanzioni finanziarie sono diseguali per chi le pratica. Minimi per gli Stati Uniti, ben più rilevanti per i paesi europei, in particolare Germania e Italia. I costi delle sanzioni non vengono equamente distribuiti tra i paesi della Ue e ciò mina la possibilità di accordo tra di essi. Come si è visto nel ricatto messo in atto da Orban. Il risultato è che la repressione finanziaria è stata debole, parziale, variabile, dunque inefficace.

 

Le sanzioni economiche non sono un’alternativa alla guerra

La mossa russa sull’obbligo dell’acquisto dei beni energetici in rubli ha scompaginato le carte nel campo europeo. La moneta russa se ne è avvantaggiata. Alla fine di febbraio il valore del rublo era dimezzato, ai primi di maggio è tornato ai valori precedenti l’aggressione. La seconda ragione è che il passaggio da sanzioni finanziarie già parziali a quelle sui prodotti energetici è ancora più complicato. Non solo per la mancanza di unità di intenti tra i paesi della Ue, ma per la composizione dell’export russo in questo campo. Vari centri studi ci dicono che il 60% delle esportazioni russe avviene nel settore energetico, tanto da finanziare con buon margine l’intero import di quel paese. Tuttavia diverso è il peso, sia per l’esportatore russo che per i paesi importatori, di un blocco operato sul gas, piuttosto che sul petrolio o sul carbone. Ma le scelte sanzionatorie hanno tenuto conto di queste differenze solo dal punto di vista degli interessi dei paesi importatori, non dell’efficacia “punitiva” sulla Russia. Inoltre il loro effetto – e probabilmente il loro reale intento - è quello di rallentare il processo di transizione ecologica anziché cogliere l’occasione per un balzo in avanti. Lo si è visto in Italia (riapertura a trivellazioni, rigassificatori ecc.) e nel dibattito sulla tassonomia delle fonti energetiche a livello Ue.

Nel contempo la guerra con gli strumenti bellici e quella con le sanzioni si abbatte pesantemente sui nostri vicini: i Balcani, il Levante, il Nord Africa. Un trickle down, un effetto “gocciolamento”, all’incontrario. Qui la recessione economica sarà spietata con probabili carestie determinate dall’impennata di prezzi di grano – si cerca di arrivare ad un accordo per sbloccare quello già ammassato ma il nuovo raccolto si prevede scarso – orzo, mais, con conseguente aumento inarrestabile dei processi migratori. Come giustamente scrive Alberto Negri “le sanzioni a Mosca possono ridurre alla fame il cosiddetto terzo mondo”18 aggiungendosi alle devastazioni e alle conseguenze geopolitiche create dalla guerra.

La produzione bellica è sempre andata storicamente d’accordo con lo sfruttamento dell’energia fossile e la proliferazione nucleare. Ecco perché le tanto decantate sanzioni economiche, sia nella loro versione finanziaria, già spuntata, che in quella che agisce nel campo dell’economia reale, mai interamente messa in opera, ma à la carte, non rappresentano nel nostro presente l’alternativa alla guerra, ma possono coesistere con questa, perpetrando il vecchio modello di sviluppo nei suoi effetti più disastrosi per l’umanità e per il pianeta.

 

Per un percorso di pace

Francesco ha detto che la Chiesa usa le parole di Gesù, non quelle della politica. Giusto. Ma quest’ultima resta muta. Eppure non possiamo rassegnarci. Dobbiamo avanzare una proposta di un percorso di pace. Passando da un pacifismo messianico ad uno concreto. Già su questa stessa rivista, prima ancora dell’invasione russa dell’Ucraina, Giuseppe Cassini, anche sulla base della sua lunga esperienza di ambasciatore, proponeva l’idea di giungere ad una nuova conferenza internazionale, come quella che si tenne ad Helsinki nel 1975, nel pieno della guerra fredda, cui parteciparono 35 paesi dell’emisfero nord, che sottoscrissero un Atto finale, contenente i principi basilari per una coesistenza pacifica19. La sua realizzazione non è stata coerente, come purtroppo sappiamo, particolarmente dallo smembramento della Jugoslavia in poi, quindi da vent’anni a questa parte. Ma resta un esempio a cui guardare pur nelle mutate condizioni. Vi ha fatto esplicito riferimento anche il Presidente Mattarella nel suo discorso al Consiglio europeo dello scorso 28 aprile.

Certamente si tratta in primo luogo di ottenere il cessate il fuoco. Ma, se è impensabile trattare sotto i bombardamenti è altrettanto improbabile che le parti accettino di fermare le armi se non gli si prospettano subito i passi che si possono fare successivamente. Come in tutte le trattative è decisiva la presenza di una autorevole mediazione. Questo ruolo non può essere interpretato da un unico paese, tantomeno dalla Turchia o da Israele. Allo stesso modo pensare che il confronto debba avvenire tra Usa e Cina significherebbe attribuire ad essi una capacità di rappresentanza che non è data o non è gradita. Resta l’Onu a doversi assumere una simile responsabilità, pur con tutte le sue debolezze e i limiti di una mancata riforma, ma sapendo che è proprio davanti e dentro grandi difficoltà che possono cambiare le grandi istituzioni internazionali. Così deve avvenire il ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino, e il riconoscimento dello stato di neutralità dell’Ucraina, fuori dalla Nato e libera dal soffocamento dell’abbraccio russo. Così può trovare soluzione lo status della Crimea e del Donbass, attraverso pronunciamenti popolari con referendum sotto precise garanzie internazionali. In questo quadro torna anche il tema del superamento della Nato, la cui ragione di esistenza è da molti anni certamente superata, visto lo scioglimento del suo opposto, il Patto di Varsavia. Ma la responsabilità di cercare accanitamente una soluzione pacifica non ricade solo sui protagonisti della mortale contesa, o sui governi e le grandi istituzioni internazionali, ma anche sui movimenti per la pace che devono trovare il coraggio e la determinazione di fare sentire la loro voce e la loro presenza, come è già avvenuto in passato e quindi può e deve accadere ancora.

Quello che sappiamo è che se la guerra continuerà ognuno ne uscirà perdente. Comunque andrà e se si riuscirà ad evitare l’inimmaginabile Armageddon nucleare, il mondo non sarà più come prima. Ci vorrà molta intelligenza, capacità di visione e sano realismo per affrontarne le nuove condizioni e contraddizioni. Il lunghissimo Novecento è davvero finito.


Note
1 Primo Levi I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986
2 Mario Spinella La morte atomica, Feltrinelli, Milano, 1985
3 In particolare si fa qui riferimento a: Hans Kelsen Peace through Law, Chapel Hill, The University of North Carolina press, 1944
4 Si veda, tra gli altri, Giovanni Scirocco L’intellettuale nel labirinto. Norberto Bobbio e la “guerra giusta”, Biblion edizioni, Milano 2013, pp. 128, euro 10,00
5 De Benedetti, “L’Europa non ha interesse a fare la guerra a Putin. Non deve seguire Biden” Intervista di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera del 8 maggio 2022
6 Fabio Tamburini, “Mai più l’Atomica: le immagini per non dimenticare” in Il Sole 24 Ore del 12 maggio 2022
7 Luigi Manconi “Non ho paura della bomba” la Repubblica 7 giugno 2022
8 https://www.rand.org/pubs/research_reports/RR3063.html
9 Editorial Board: “The war in Ukraina is getting complicated and America isn’t ready” in The New Tork Times del 19 maggio 2022
10 James W. Carden. “Bush padre aveva ragione: giù le mani dall’Ucraina” in Limes n.4/2022
11 Vedi Paolo Mastrolilli “Pericolo Cina e Russia, la strategia di Buden per la sicurezza Usa” in la Repubblica del 5 giugno 2022
12 Ne parla Marco Bascetta in “Torna la logica dei blocchi e dei ricatti” in il manifesto del 18 maggio 2022
13 Aldo Cazzullo “Essere una democrazia conta. Ora Kiev può vincere su Mosca” intervista a Filippo Andreatta, Corriere della Sera del 22 maggio 2022
14 Ansa, Kiev, 3 giugno 2022
15 Michele Prospero “Democrazia uguale pace: la feroce menzogna liberale”, Il Riformista del 31 maggio 2022
16 Emiliano Brancaccio “Oltre l’Ucraina, le segrete cause materiali della guerra” in Econopoly, del 1 giugno 2022
17 Editorial Board: Can Sanctions Really Stop Putin?” in The New York Times del 22 aprile 2022
18 Alberto Negri “Come le sanzioni puniscono il mondo” in il manifesto del 7 giugno 2022
19 Giuseppe Cassini “L’Ucraina tra l’incudine e il martello” in Alternative per il socialismo n.63

Comments

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Ascanio Bernardeschi
Tuesday, 19 July 2022 15:13
D'accordo quasi su tutto. Mi preme marcare una differenza sul Manifesto di Ventotene, ormai sacralizzato dalla retorica della sinistra riformista (quella vera, perché il Pd è controriformista).
Andiamo a vedere le fonti autentiche e le dichiarazioni dei proponenti tra cui il Santo Altiero Spinelli e si vedrà chi il progetto era in chiave antisovietica e che l'Ue e l'adesione dell'Europa Occidentale alla Nato sono suoi figli legittimi
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Mario M
Monday, 18 July 2022 14:38
Beh, fra tutte le miserie, sciagure, distruzioni che portano una guerra possiamo escludere il pericolo dell'olocausto nucleare. Nessuna bomba atomica è mai stata costruita; Hiroshima e Nagasaki subirono il tradizionale bombardamento a tappeto con bombe incendiarie. Per consultazione potete leggere Akio Nakatani, Anders Bjoörkman, Michael Palmer , Miles Mathis
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Pantaléone
Tuesday, 19 July 2022 10:23
Ho dato un'occhiata agli autori citati, sembra molto istruttivo!
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