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giubberosse

Big clash

di Enrico Tomaselli

NATO RussiaAnche se siamo ormai assuefatti ad un ritmo informativo incalzante, che ci porta ad una percezione accelerata degli avvenimenti, e che al tempo stesso induce un parallelo bisogno di velocità – per cui abbiamo fretta di consumare le notizie, così da poter passare ad altre – la guerra non è una faccenda rapida. Anche se il nostro immaginario ci fa pensare che lo sia, nella gran parte dei casi è invece una questione di lunga durata. Quando poi parliamo di conflitti geopolitici, possiamo star certi che la guerra guerreggiata è sempre preceduta da un lungo periodo di accumulo ed è seguita da un non meno breve periodo di assestamento.

 

Wolfowitz e Brzeziński

La caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del Patto di Varsavia e poi il collasso dell’URSS sicuramente indussero gli Stati Uniti a credere che si stesse aprendo un secolo di assoluto dominio globale per il capitalismo liberista incarnato negli states. L’apertura della successiva stagione della globalizzazione nasce da questa certezza di presupposta supremazia. Ma, al tempo stesso, nelle segrete stanze del deep state non si abbassava la guardia: già nel 1992, l’allora sottosegretario alla Difesa di George W. Bush, Paul Wolfowitz ebbe cura di pubblicare la Defence Policy Guidance (1), che divenne poi la base su cui si costruiranno le strategie imperiali di lungo periodo. Nella sua analisi sullo stato delle cose, Wolfowitz mette subito in chiaro che “la nostra politica deve ora concentrarsi nuovamente sull’impedire l’emergere di qualsiasi potenziale futuro concorrente globale”. Non appena archiviato il loro unico competitor, l’Unione Sovietica, già si preoccupavano di impedire l’emergerne di nuovi. E, nello stesso documento, Wolfowitz non mancava di sottolineare che “la Russia rimarrà la potenza militare più forte in Eurasia”.

In questa brevissima frase è già concentrata tutta l’essenza del pensiero strategico americano: si indica il territorio cardine (l’Eurasia), si identifica l’avversario (la Russia), si specifica la natura della minaccia (la potenza militare).

Va tenuto presente che nella cultura imperialista americana lo strumento militare è, per innumerevoli ragioni, un elemento cardine del pensiero strategico, un suo asset costitutivo (2).

Per quanto abbiano appena prevalso sull’Unione Sovietica, portando non solo alla dissoluzione dell’Unione e delle sue alleanze militari, ma anche alla trasformazione in senso liberal-capitalista dello stato russo (sono gli anni di Borís Él’cin, che porterà Mosca a divenire quasi un satellite degli USA), a Washington rimane ben chiaro come, dal punto di vista geopolitico, la capacità militare che la Russia ha ereditato dall’URSS ne faccia comunque una potenziale minaccia. Per sgombrare il campo da questa minaccia, all’ora’epoca solo potenziale, la Russia deve essere costretta nei suoi spazi, isolata, depotenziata, possibilmente smembrata.

L’ossessione angloamericana per l’Eurasia ha però origini più antiche. Fondamentalmente affonda le radici nel pensiero di Halford John Mackinder, considerato uno dei fondatori della geopolitica. Mackinder, un diplomatico britannico, elaborò la sua teoria dell’Heartland, presentata ufficialmente – all’interno del suo saggio “The Geographical Pivot of History” – nel 1904 alla Royal Geographical Society di Londra. Nella sua idea, l’Heartland, consisteva nella parte centrale del blocco continentale d’Europa e d’Asia, e questa a sua volta, insieme al resto dell’Asia ed all’Africa, l’Isola Mondo. La summa del pensiero di Mackinder si riassume perfettamente nella sua famosa frase “Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo”. In pratica, il blocco russo-tedesco è la chiave per il dominio globale.

Avendo questo background culturale (ma anche politico), si capisce bene perché gli angloamericani abbiano sempre visto come il fumo negli occhi qualsiasi possibile saldatura tra Germania e Russia.

A portare a compimento l’evoluzione di questo pensiero strategico, agli inizi del nuovo secolo sarà un gruppo di strategy planner americani che elaboreranno il documento “The New Geopolitics of Empire” (3). Esponente di spicco di questo gruppo sarà Zbigniew Brzeziński, consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter. Di origini polacche, porterà con sé la russofobia della terra natia e si applicherà costantemente a combattere l’URSS prima e la Russia poi. Sarà Brzeziński, più di ogni altro pensatore strategico, a tracciare la strategia statunitense sulla Russia, che sarà portata avanti per tre decenni dalle successive amministrazioni USA.

È interessante qui notare un’altra caratteristica della politica americana. Mentre le figure politiche apicali cambiano, al cambiare delle amministrazioni c’è un milieu politico che sostanzialmente rimane al suo posto, magari con cambi di posizione e/o avvicendamenti vari. Pur non essendo spesso direttamente riferibile ad uno dei due partiti, esercita comunque una considerevole influenza sulle decisioni della Casa Bianca, soprattutto in materia strategica. Il suo ruolo può essere più o meno visibile, secondo il momento, ma la sua influenza è costante e spesso decisiva. Un esempio recente è Victoria Nuland, moglie del maître à penser neocon Robert Kagan.

In un suo libro del 1997, “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives” (4), Brzeziński scriverà che gli Stati Uniti sarebbero diventati il primo e l’ultimo impero globale. Per ottenere questo risultato, sarebbe però stato necessario controllare strettamente quello che lui definiva il buco nero, ovvero il vuoto politico lasciato dall’URSS. A tale scopo, la NATO avrebbe dovuto espandersi verso est sino ad integrare tutti i paesi dell’ex-blocco comunista; in particolare, per conseguire l’obiettivo di depotenziare la Russia, sarebbe stato essenziale fare leva sul perno geopolitico dell’Ucraina. Secondo Brzeziński, senza l’Ucraina la Russia sarebbe stata troppo debole ed al tempo stesso un’Ucraina nella NATO sarebbe stata una lancia nel costato di Mosca.

Da qui parte tutto. Ancora sul finire del secolo scorso, quando le rovine dell’URSS erano ancora fumanti e Vladimir Putin un semisconosciuto ufficiale del KGB, nei centri di pianificazione strategica degli Stati Uniti si tracciava la rotta che, nell’arco di venticinque anni, avrebbe portato alla guerra con la Russia.

 

Stop and go

Vittime come siamo di una narrazione giornalistica, spesso semplicemente propagandistica, che tende ad una semplificazione estrema, siamo portati a pensare che le scelte politiche siano o frutto di sistemi monolitici o, all’opposto, soggette ad una estrema mutevolezza. A ben vedere, però – e questo vale soprattutto per le grandi potenze, che hanno necessariamente uno sguardo lungo – le cose non funzionano esattamente così. Facendo a nostra volta un’altra semplificazione, potremmo dire che gli orientamenti strategici sono, come si è visto, pianificati e perseguiti su tempi decennali, mentre le mosse tattiche sono assai mutevoli e condizionate sia dal contesto storico in cui si collocano, sia dai contingenti orientamenti politici. Ciò comporta anche che le linee strategiche non sempre siano evidenti, e talvolta che le mosse tattiche appaiano (ed a volte siano) in contrasto col disegno generale. Svolgendosi su tempi lunghi, nel corso dei quali nuovi ed imprevisti avvenimenti possono presentarsi, i grandi disegni strategici sono quasi inevitabilmente costretti a degli stop and go, rallentando, deviando, a volte persino fermandosi. Ma essi inesorabilmente saranno portati avanti. Anche quando sembra che non sia così.

Del resto, è esattamente questa la ragione per cui le grandi strategie hanno bisogno di anni, spesso di decenni, per essere portate a compimento. Esse infatti indicano gli obiettivi di fondo e la strada per conseguirli, ma il percorso richiede un continuo adattamento alle condizioni che via via si presentano. Che possono talvolta essere ostacoli, tali da costringere a rallentare la marcia, e talvolta possono essere opportunità, che consentono di effettuare un balzo in avanti.

Il grande disegno strategico americano di accerchiare la Russia, di privarla del suo potenziale militare e, soprattutto, di impedire il formarsi di un blocco egemone nell’Heartland, ha richiesto circa trent’anni, dalla sua formulazione alla messa in atto dei suoi passaggi finali. Ma trent’anni sono lunghi e specialmente nel mondo contemporaneo possono essere un lasso di tempo in cui emergono fattori nuovi, capaci di incidere profondamente sullo schema.

E, in effetti, dal tempo della grande scacchiera di Brzeziński, almeno due significative novità sono intervenute.

La prima, è l’emergere della Cina come grande potenza economica mondiale – fattore, questo, a cui ha dato una spinta determinante proprio quella globalizzazione voluta dal mondo economico-finanziario statunitense; nonostante l’avviso di Wolfowitz, una nuova potenza è emersa, anche grazie agli USA. E la seconda è l’inizio del declino americano.

Entrambi questi elementi sono intervenuti come fattori acceleranti. Dal punto di vista statunitense, infatti, l’emergere di un competitor più pericoloso ed il proprio contemporaneo indebolimento hanno reso necessario accorciare i tempi per chiudere la pratica Russia.

 

Tiro alla fune

Il disegno americano di neutralizzare la Russia e la saldatura euroasiatica, quindi, accelera perché altre esigenze urgono. Come aveva predetto Brzeziński, l’Ucraina si rivela cruciale. Mosca, infatti, ha continuato a protestare per il progressivo dilagare della NATO fino alle sue frontiere, ma ha comunque mostrato una certa resilienza rispetto alle continue provocazioni. La Russia insomma è stata abbastanza riluttante a farsi trascinare in uno scontro. Tant’è che, pur consapevoli che l’Ucraina era per la Russia una red line, gli USA preparano un ‘piano B’. Nel 2021, infatti, oltre a realizzare ben tre esercitazioni NATO nel paese, l’esercito ucraino viene preparato per lanciarsi nuovamente all’attacco del Donbass: come testimoniato persino dagli osservatori dell’OSCE, tra dicembre e gennaio i normali bombardamenti d’artiglieria sulle due repubbliche separatiste registrano un’impennata d’intensità. Se la Russia non si muove, scatterà l’attacco.

Ovviamente, è difficile dire cosa esattamente si aspettassero, nei think tank strategici statunitensi; se infatti l’idea di fondo era quella di far impantanare i russi in un conflitto d’attrito, logorandone l’apparato bellico, nonché di cogliere l’occasione per colpirne duramente l’economia attraverso le sanzioni, non è detto che le cose siano andate – e stiano andando – proprio come previsto. Anche trascurando il modesto impatto delle sanzioni, che invece si stanno abbattendo duramente sugli alleati europei creando le premesse per significative frizioni, sul piano militare si può in un certo senso dire che le cose stiano andando in modo simile. Al netto di oscillazioni tattiche, e persino degli errori commessi da parte russa, il dato di fatto è che, dopo otto mesi di guerra, la Russia occupa saldamente circa il 20% del territorio ucraino, si dimostra in grado di colpire dove e quando vuole su tutto il resto del paese, è sostanzialmente andata avanti sinora impegnando molto limitatamente il proprio potenziale e senza mettere in affanno la produzione industriale militare.

Non solo, il mutamento del quadro globale ha spinto ad una accelerazione dei processi di costruzione del multipolarismo, in netto contrasto con l’unipolarismo a stelle e strisce, e rafforzato saldature strategiche significative, capaci di pesare anche sul confronto bellico. Una su tutte, quella con l’Iran – le cui forniture militari stanno dando un apporto rilevante sul fronte ucraino e, cosa assai più significativa in termini strategici, che ha prodotto le prime esercitazioni navali congiunte Russia-Cina-Iran nell’indopacifico. Già oggi squadre navali miste russo-cinesi pattugliano i mari orientali, e nell’ottica di dover fronteggiare una potenza thalassocratica come gli USA non è da poco…

La questione di fondo del conflitto, in ogni caso, è che l’esercito ucraino non è all’altezza del compito previsto. Certamente dotato anche di un’ammirevole capacità di resistenza, e sicuramente assai determinato, ma comunque per una lunga serie di ragioni assolutamente non in grado di reggere lo scontro. La conseguenza, difficile dire quanto prevista, è che la guerra – notoriamente una faccenda che non sai mai come si sviluppa – ha via via preso la piega di una ineluttabile escalation.

Per alimentare il conflitto e sostenere l’esercito ucraino, cosa peraltro fatta sin dal primo istante (il 26 febbraio primi aiuti militari), la NATO ha dovuto impegnarsi in modo crescente. Molto più di quanto ha fatto la Russia. Il supporto dell’Alleanza Atlantica non solo è aumentato in termini quantitativi, ma soprattutto lo è in termini qualitativi.

In una prima fase, infatti, il supporto da parte NATO è consistito prevalentemente nell’aiuto dell’intelligence, nella fornitura di dati satellitari sulle forze russe, in armamento leggero e mezzi di produzione sovietica (forniti dai paesi ex Patto di Varsavia). In una fase successiva, sono cominciati ad arrivare carri armati (sempre sovietici) e blindati per la fanteria, si è intensificato il supporto di intelligence e la sua integrazione coi comandi ucraini. La terza fase ha visto un passaggio significativo di artiglieria meccanizzata e MLRS, l’avvio di programmi intensivi di addestramento, l’ospedalizzazione dei feriti più gravi nei paesi NATO, la collaborazione attiva nelle operazioni di sabotaggio. Allo stato attuale, si sta aprendo una quarta fase, che vede un ampliamento importante dell’addestramento truppe, un incremento del supporto boot on the ground con crescenti unità mercenarie, e la fornitura di sistemi anti-missile.

Ciò che caratterizza l’impegno USA-NATO è quindi una lenta escalation qualitativa, anche se sul piano quantitativo rimane largamente al di sotto delle necessità ucraine.

Considerato che c’è un fronte attivo di oltre 1000 Km, ed una lunga linea di confine (dove non ci sono combattimenti), la quantità di armamenti forniti è decisamente insignificante, tanto più a fronte della grande superiorità russa, soprattutto nei settori dell’artiglieria e dei MLRS. L’invio centellinato di obici e HIMARS, ad esempio, ha fatto sì che non fosse mai possibile utilizzarli facendo massa critica, ed al tempo stesso dando ai russi tempo e modo per distruggerli, almeno in parte. Se per un verso ciò si spiega con la volontà americana di mantenere attivo il conflitto il più a lungo possibile, e quindi rendendo necessario evitare un innalzamento del livello di scontro, potenzialmente capace di abbreviarne i tempi, dall’altro proprio l’esigenza di mantenere in vita ed operativo l’esercito ucraino ha reso necessario un flusso di armi e mezzi che però non solo non è servito ad alcun mutamento della situazione strategica, ma si è rivelato un pozzo senza fondo, che ha finito per svuotare gli arsenali dei paesi NATO.

La situazione odierna, dal punto di vista della NATO, è perciò riassumibile in questi termini:

  • la disponibilità di mezzi ex-sovietici, sia da parte di paesi ex Patto di Varsavia che sul mercato internazionale, è ormai assai scarsa
  • la disponibilità di mezzi NATO considerati cedibili all’Ucraina è pressoché esaurita
  • la necessità di far ricorso alla produzione dell’industria militare, sia per le forniture a Kyev che per rimpinguare gli arsenali ormai svuotati, per un verso ha un costo vivo aggiuntivo, e per l’altro allunga i tempi di consegna
  • rimane irrisolta la questione fondamentale delle forniture di carri armati, visto che quelli d’epoca sovietica sono ormai esauriti ma non si vogliono fornire quelli di produzione occidentale, anche se non modernissimi (come i Leopard tedeschi), tenendo anche presente che la Russia dispone di circa 10.000 carri armati (tra i vari dipartimenti militari sul territorio).

Seppure quindi, anche grazie ad alcuni errori da parte russa, la situazione attuale sul campo si è stabilizzata, appare evidente che i nodi verranno al pettine. Ed il nodo più grosso è quello politico. La questione, infatti, come ha confermato ingenuamente lo stesso Stoltenberg, è che se l’Ucraina esce sconfitta, ne uscirà sconfitta anche la NATO – anche se, formalmente, non è coinvolta nel conflitto. D’altra parte, è evidente al mondo intero che questa è a tutti gli effetti una guerra della NATO contro la Russia, e che quindi la sconfitta sarebbe dell’Alleanza Atlantica, quanto e più che dell’Ucraina.

Per la NATO è fondamentale tenere aperto il conflitto senza essere costretta ad intervenire direttamente, ma al tempo stesso questo diventa sempre più complicato, perché nonostante gli aiuti l’esercito ucraino non è e non sarà in grado di reggere l’urto delle forze armate russe. Tanto più quando arriveranno sul fronte i 300.000 uomini della mobilitazione parziale, più le varie unità di volontari organizzate nelle varie repubbliche della Federazione (probabilmente altri 20/30.000 uomini). Quello che si profila quindi è un vero e proprio tiro alla fune.

 

Verso il Big Clash

L’orientamento anglo-americano, come si è visto ad esempio in occasione della crisi Pelosi-Taiwan, è tendenzialmente quello di tirare al massimo, sin quasi al punto di rottura, sia per saggiare la reazione dell’avversario, sia per massimizzare il risultato. D’altra parte, proprio la sempre maggiore esposizione della NATO rende complicato allentare la presa, perché una sconfitta sul campo sarebbe disastrosa per l’egemonia americana e per la sopravvivenza della stessa NATO. A sua volta, per la Russia questa è una partita esiziale, ed ha messo molto in chiaro che è disposta a tutto pur di non perderla. L’accelerazione sull’annessione dei quattro oblast alla Federazione Russa è, da questo punto di vista, un segnale chiarissimo. Così come lo è la risposta all’attentato contro il ponte di Kersh.

In un quadro di tal fatta, è chiaro che si acutizzano le possibilità che l’escalation divenga incontrollabile.

USA e Russia stanno attraversando entrambe un momento di difficoltà. Per Mosca, l’evidenza di alcuni errori di sottovalutazione, duramente pagati sul campo, hanno reso necessaria una mobilitazione un po’ affrettata, ed a quanto pare anche con qualche defaillance, che ha prodotto più di un malumore, oltre quelli che hanno riguardato la gestione militare in sé. Per quanto riguarda Washington, invece, a parte una certa divaricazione tra Casa Bianca e Pentagono, relativamente alla condotta della guerra, pesa un malumore interno ed i crescenti mugugni europei. Con tutta evidenza, il sabotaggio dei North Stream 1 e 2 è un segno di debolezza; un po’ come un ragazzone grande e grosso che ingiunge ad un gruppo di bambini di non giocare con quello lì, ma che alla fine deve bucare il pallone per impedire che possano giocare comunque…

I mesi invernali , per quanto rendano più difficili le operazioni sul terreno, è probabile che vedano un intensificarsi dei combattimenti. L’Ucraina presto getterà in battaglia i 10.000 uomini che hanno appena terminato l’addestramento in Gran Bretagna, si vedrà se opterà per il fronte di Kharkiv al nord, dove comunque i russi sono tornati ad avanzare, recuperando parte del terreno perso, eppure al sud, sul fronte di Kherson – che rimane comunque quello strategico per Kyev, poiché da lì possono puntare ad isolare la Crimea ed a proteggere Odessa. Fermo restando che, se pure in quel settore – ricco di linee fortificate – il movimento è più lento, nel Donetsk occidentale i russi stanno macinando villaggio dopo villaggio, ed è presumibile che entro l’inverno arrivino a minacciare direttamente (se non a sfondare) la linea Sloviansk-Kramatorsk.

Nonostante tutto, i nodi cruciali per l’Ucraina restano le forniture di carri armati ed il personale combattente qualificato. Non è un caso che, diversamente dalla prima fase della guerra, oggi il numero di contractors sia nuovamente in crescita, e non si tratta più di singoli volontari che vanno in cerca d’avventura, ma di personale esperto, molto ben pagato, ed arruolato direttamente negli USA ed in UK. Mentre per i russi il problema principale, almeno finché le nuove reclute non arrivano al fronte, è la forte disparità numerica, che in buona misura li costringe sulla difensiva.

A preoccupare, quindi, non è tanto la minaccia nucleare – se la tua ambizione è il dominio, non vai incontro a morte sicura – quanto il fatto che i soggetti ai due capi della fune, a furia di tirarla finiscano col trovarsi faccia a faccia. E poiché nessuno dei due può perderla, continueranno a tirare, questo è poco ma sicuro. A quel punto, il rischio di un big clash, uno scontro violento e diretto, tra la NATO e la Russia, potrebbe diventare inevitabile.

Per questo, è più che mai urgente che emergano spinte ragionevoli a rallentare, e soprattutto che emergano dei mediatori credibili ed autorevoli, capaci quindi di portare ad una conclusione realistica del conflitto, e che consenta ai due avversari di uscirne senza apparire sconfitti.

Due elementi che, però, sono assai difficili da concretizzare, perché il realismo impone che l’Ucraina rinunci ai territori perduti, e questo – fintanto che la NATO continuerà ad urlare il proprio sostegno all’oltranzismo ucraino – rappresenterebbe una palese sconfitta per l’occidente atlantico.


Note
1 – Cfr. https://www.archives.gov/files/declassification/iscap/pdf/2008-003-docs1-12.pdf
2 – Cfr. L’anti-Clausewitz, https://giubberosse.news/2022/10/05/lanti-clausewitz/
3 – Cfr. https://monthlyreview.org/2006/01/01/the-new-geopolitics-of-empire/
4 – Zbigniew Brzeziński, Grand Chessboard, Basic Books

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