“La guerra necessaria. Logiche della dipendenza”
di Alessandro Visalli
Sulla rivista “La Fionda”, numero 2/2022, dal titolo “Guerra o pace. Destini del mondo” è uscito un mio articolo su una logica dell’attuale guerra (non l’unica, ovviamente, ma una delle più pertinenti). L’intero numero della rivista esplora le altre ragioni, ed inquadra la crisi ucraina nei suoi plurimi e molteplici contesti. Sono presenti interventi autorevoli, come quello di Carlo Galli che apre il testo “Geopolitica come critica”, o interventi di Alessandro Somma “Si scrive europeismo ma si legge atlantismo”, di Marco Baldassari “Imperi, Stati e grandi spazi”, Paolo Cornetti “Stati Uniti d’America: l’impero minacciato”. O altri, nella sezione Geopolitica e Geoeconomia, che si apre con il mio testo, di Pierluigi Fagan “La transizione dell’ordine mondiale nell’era complessa”, Matteo Bortolon “Sanzioni come una nuova forma di guerra” e Marcello Spanò “Il sistema finanziario dollarocentrico alla prova del conflitto in Ucraina”. Infine Onofrio Romano, “Tina al Sud” e Silvia d’Autilia e Mario Cosenza, “Sguardi sul presente tra biopolitica e spettacolo”.
Questo solo per dire di alcuni interventi, non necessariamente i principali.
Quello che segue è la versione lunga dell'articolo, quella pubblicata è di un terzo più sobria.
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La guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari.
Anche se lascia senza parole, tutto ciò non accade per caso: appena la posizione dei nostri sistemi economici nella catena del valore, o, per dirlo meglio, nella catena dello sfruttamento e dell'estrazione di valore mondiale è stata sfidata, e ciò si è fatto urgente[1], allora abbiamo immediatamente dismesso l'abito del mercante per prendere dagli antichi armadi quello del guerriero e tutta la sua epica. Non appena i nostri privilegi, la possibilità di avere i nostri agi e i nostri giocattoli con poche ore di lavoro (mentre i fattori con i quali sono prodotti derivano da tantissime ore di altri umani meno umani) è stata messa a rischio allora è uscito lo spirito vero dell'Europa. Il pirata Drake, fatto baronetto e poi divenuto parte della schiatta dominante; i tanti avventurieri senza scrupoli ma con tanto coraggio che hanno piegato il mondo; la corazza di Cortez, ... Tutto è tornato, anche la nausea.
Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio’[2] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[3] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[4], storicamente necessaria, dei “progressi”[5] della “Ragione”[6] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[7], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata oggi dalla direzione che stanno prendendo i fatti.
Ci sono molte chiavi possibili per comprendere questo fenomeno. Una risale allo scontro di potenza (ovvero tra “grandi potenze”[8]) che ha un sapore novecentesco inconfondibile. Per chiamare un testimone non sospettabile di amicizia con il nemico, Chas Freeman[9] ha recentemente dichiarato[10] che la guerra tra Ucraina e Russia assomiglia alle guerre per procura tra i blocchi della guerra fredda, come quella del Vietnam o dell’Afghanistan, dove una parte era impegnata e si logorava e l’altra operava in modo indiretto. La parte che agiva tramite il procuratore, fino al suo ultimo uomo, non aveva alcun interesse a porvi fine. In questo caso Washington ha costantemente soffiato sulla brace fino a che è divampato il fuoco. Come scrive nel suo articolo, ha “trascorso gli ultimi otto anni ad addestrare ed equipaggiare le forze ucraine per combattere la Russia e i separatisti a Donetsk e Lugansk. Ha sostenuto con forza la resistenza ucraina all’aggressione russa, suggerendo al contempo che potrebbe opporsi a un accordo ucraino con Mosca, che considera troppo favorevole alla Russia”. Insomma, “queste politiche non mirano a produrre una pace. Mirano a sostenere la guerra finché ci sono ucraini disposti a morire in combattimento con i russi”. Dunque, in sintesi, “nella guerra in Ucraina, abbiamo appena assistito alla fine del periodo successivo alla Guerra Fredda, alla fine del secondo dopoguerra e all’era di Bretton Woods, alla fine della pace in Europa e alla fine del dominio globale euro-americano. Le sanzioni ora divideranno il mondo in ecosistemi in competizione per finanza, tecnologia e commercio. Difficilmente possiamo immaginare le implicazioni di una tale trasformazione.”
Guardando invece la cosa dal punto di vista russo per il politologo russo Dmitrij Trenin[11] la guerra per procura con gli Stati Uniti è da inserire in un complessivo processo di cambiamento dell’ordine mondiale che vede il baricentro di attività economica spostarsi dall’Euro-Atlantico all’Indo-Pacifico. In questa crisi si sta abbandonando l’eredità di Pietro il Grande, ovvero il desiderio Russo di essere parte integrante della civiltà paneuropea che è andato avanti sino al “primo” Putin (il quale chiese di entrare nella Ue e nella Nato). Il fallimento di questi tentativi deriva però dal semplice fatto che “gli edifici europei sono stati costruiti ed occupati sotto la protezione degli Stati Uniti, e non della Russia”. Questa, come dice, “non è colpa di nessuna delle parti. È impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali; ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica” (questa è la frase chiave, sulla quale torneremo nel seguito).
E’ sempre più evidente che i paesi ‘non bianchi’ (secondo la razzistica tassonomia implicita, e talvolta non solo, occidentale[12]) emergono alla consapevolezza che la pluralità di civiltà esistenti ha pieno diritto di considerarsi alla pari con quella occidentale. Le civiltà cinese, indiana e islamica si stanno quindi alzando e rifiutano la visione gerarchica lungo il maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’[13]. Di fronte a questa contrapposizione, anche culturale, la guerra ibrida[14] in corso nasconde e manifesta ad un tempo grumi concreti di interesse, di classe e di gruppo. Specificamente l’interesse dell’Occidente (anzi, di uno degli occidenti) a conservare la sua capacità di aspirare dal mondo il surplus, tramite il commercio ineguale e tramite l’interconnessione finanziaria, e sostenere in tal modo un tenore di vita che eccede quello del resto dell’umanità. Interessi che sono per questo accuratamente nascosti sotto più strati sovrapposti di ideologia e di sentimenti apparentemente umani.
Perché, però, Trenin dice che è impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali in quanto ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica? Uno schema analitico[15] proposto a partire dagli anni cinquanta del novecento (con antesignani negli anni venti e trenta) e poi sommerso negli anni novanta dalla fine della guerra fredda può fornire qualche indizio. Esso individuava nella “metropoli” una tendenza alla concentrazione e sottoinvestimento tenuta a tratti sotto controllo da specifiche ‘controtendenze’ le quali coinvolgono le “periferie”. Le principali nel secondo dopoguerra furono la guerra fredda (con l’espansione del sistema militare-industriale e i corposi investimenti pubblici connessi), l’esportazione di capitale per sfruttare lavoro e materie prime a basso prezzo, e la cetomedizzazione[16], che contribuì a spegnere le tensioni politiche create dalle numerose ‘periferie’ interne. La nozione di ‘periferia’ e di ‘centro’ (o “metropoli”) era una delle chiavi più importanti ed anche una delle più delicate della teoria e viene ripresa spesso nel dibattito contemporaneo.
Uno dei punti chiave era che il dirottamento del surplus su spese improduttive (il cui massimo esempio è in quelle militari), lungi dall’essere uno spreco ed una distorsione, diventa una necessità sistemica che serve nel breve termine ad impedire la stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale. Dunque, sempre nel breve termine, esso rende possibile la prosecuzione dell’accumulazione. Le merci e i servizi prodotti, infatti, nelle condizioni monopolistiche hanno una strutturale difficoltà a trovare collocazione in un mercato interno reso debole dall’eccesso di estrazione di surplus e di concentrazione dei profitti e dei capitali. Ne deriva la tendenza alla successione di fasi di espansione e destabilizzazione, e di conseguente l’insorgere ciclico di fasi di disordine sistemico (anche politico), che caratterizzano la fisiologia del sistema capitalistico esteso.
La tesi, avanzata già alla fine degli anni Quaranta, era che le ‘ragioni di scambio’[17] tra paesi sviluppati e non tendono, nel lungo periodo, a sfavorire i paesi esportatori di prodotti primari in favore di quelli che esportano prodotti manifatturati. È la debolezza relativa del mondo del lavoro nelle periferie a determinare questo effetto, per il quale i prodotti industriali contengono, a parità di prezzo, molto meno lavoro e meno fattori (energia, materia) di quelli con i quali sono scambiati. Di qui la prescrizione classica di procedere ad un’industrializzazione forzata. La prescrizione economica principale di tutte le diramazioni della teoria è la cosiddetta “disconnessione”[18]. Ovvero, partendo dal riconoscimento dell’esistenza di una ‘metropoli’ sfruttatrice e di una ‘periferia’ sfruttata, della necessità di sviluppo industriale autonomo e della ‘sostituzione delle importazioni’[19]. Una prescrizione per molti versi semplicistica che è fallita ovunque non erano presenti le condizioni di forza (ma non ovunque).
La mondializzazione e l’Ordine Mondiale a guida occidentale (dell’Occidente collettivo) emerse proprio dopo la decolonizzazione e gli sforzi falliti di “sostituire le importazioni”; molti paesi ex coloniali a quel punto avevano infrastrutture ed erano disponibili ad avviare cicli di industrializzazione molto più solidi. I capitali (anche quelli riciclati dal saccheggio dell’est) vennero quindi proiettati nelle ex periferie con maggiore impeto ed esplose in pochi anni l’esercito di riserva mondiale. La base produttiva si sparpagliò in tutte le aree di minore resistenza. Nel modello che si affermò la domanda era, peraltro, ormai garantita dalla fluidità ed estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nacque così il sistema della “sostituzione delle esportazioni”, fragile e basato sulla liquidità, che da allora deve correre sempre più forte per restare sostanzialmente fermo. In questo contesto in via di formazione, dalla metà degli anni Ottanta, a Birmingham la “banda dei quattro” (Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, André Gunder Frank e Samir Amin) elaborò la “teoria dei sistemi mondo”. Il focus analitico si spostò dagli stati-nazione al sistema globale. Negli anni Novanta la teoria si consolidò. Venne proposta da Giovanni Arrighi una teoria dei cicli egemonici[20] non economicista, che individua come fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra due tecnologie del potere reciprocamente estranee: una ‘capitalista’ ed una ‘territorialista’. Lo schema analitico postulava l’esistenza di grandi cicli di accumulazione, composti idealtipicamente da una fase di espansione produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando ogni volta un sistema funzionalmente interconnesso. Quando i cicli vanno ad esaurimento la soluzione delle contraddizioni avviene tramite la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte di un nuovo Stato capitalistico egemonico che ha un diverso e più efficace modello. Nel complesso si passa quindi da un modello fondato sulla trasformazione DTD’ ad una TDT’, passando da un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”, nel senso di sfruttabili.
Secondo le ‘teorie della dipendenza’, che pure hanno andamento plurimo e notevoli divergenze interne, insomma, il capitalismo è un movimento che genera sempre una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di classe. Crea e vive di squilibri. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi sbocchi alle eccedenze di capitale che generano i “centri” (monopolistici)[21]. Ma questo determina una cronica instabilità e genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi costantemente e necessariamente economie subalterne, e quelle che Harvey chiama “coerenze strutturate incomplete” (appunto perché dipendenti). Contemporaneamente genera e sostiene alleanze di classe nelle quali quelle superiori sono di necessità estese a livello internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo (esterno ed interno) ed imperialismo. Il punto è che questo movimento a spirale, oltre ad essere costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce la concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su quelle di provenienza. Per questa ragione la geopolitica del capitalismo è sempre alla ricerca di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello sfruttamento di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca, parossistica, di ‘soluzioni’ spaziali attiva il circolo vizioso della competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio di precipitare nella violenza (anzi, è in se stesso violenza potenziale, trattenuta e minacciata).
E’ importante sottolineare che la tendenza intrinseca del capitalismo a generare scontri tra aree e dipendenze “coloniali” non è una questione di disposizione morale, ma una necessità. Non è un complotto ma un funzionamento. L’accumulazione del capitale è, infatti, in buona misura una questione geografica. Il problema è che, nel quadro di questa teoria, l’interconnessione delle dinamiche di espansione e contrazione produce oggi l’esaurimento della soluzione (alle crisi degli anni Sessanta e settanta) della finanziarizzazione e poi mondializzazione e quindi l’accelerazione di una transizione in corso da molto tempo. Transizione che è cresciuta all’ombra della fase ‘unipolare’ (quando l’egemone statunitense si è progressivamente mutato in dominatore) fino ad emergere negli ultimi anni con la doppia sfida della Cina e della Russia (e degli altri). Assistiamo perciò all’emergere di nuove potenziali costellazioni di potenza, e di una nuova egemonia possibile, che determina aree di crisi ad elevato rischio di perdita di controllo. Perdita di controllo che oggi abbiamo sotto i nostri occhi, quando la ‘violenza trattenuta e minacciata’ tende ad uscire dalle caserme.
Più concretamente, l’esaurimento, da vedere come perdita di equilibrio, del ciclo del debito sembra imminente. Le istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali da tempo è caduto il peso di salvare il sistema dal quale dipendono per intero le élite e buona parte dei sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno crescente fatica a garantire la liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe sul tappeto e sempre meno tempo è in tal modo “comprato”[22]. Tutto ciò è stato enormemente accelerato dalla crisi pandemica[23]. Dall’altra parte sono in corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[24]. Si tratta di un livello sotterraneo, ma decisivo, di tensione che spinge per mutamenti radicali a causa della difficoltà alla riproduzione del capitale, dei crescenti rischi di controllo, della dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste forze convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[25] e quindi delle strutture della vita quotidiana di molti. Queste tendenze di crisi, che possono essere lette con le lenti della “teoria della dipendenza”, si legano agli effetti depositati dalla lunga fase neoliberale. Precisamente alla ridislocazione in occidente del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli ed a più elevato tasso di sfruttamento ed alla concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione, avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’ che li organizzano.
La guerra tra la Russia e l’Ucraina aggiunge un’ulteriore dimensione a questa consapevolezza e sta spingendo tutte le parti del mondo a richiedere improvvisamente “indipendenza”, piuttosto che efficienza e rapidità.
Ciò che accade ha portata storica. Alcuni mesi fa il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, il filoccidentale ma fedelissimo di Putin ex Presidente ed ex Primo ministro fino al 2020 Dmitrij Anatol'evič Medvedev, ha dichiarato sulla stampa russa che le sanzioni (congelamento delle riserve, misure sui capitali privati all’estero, esclusione dallo Swift) violano la sacralità della proprietà privata e lo stato di diritto, apparentemente cari all’occidente, e dunque manifestano una ‘guerra senza regole’ che ‘distruggerà tutto l’ordine economico mondiale’. Lo distruggerà (anzi, lo ha già distrutto) perché queste misure colpiscono principalmente la credibilità stessa di chi le promuove, stracciando leggi e regolamenti, con ciò mostrando la natura del potere. Determinano l’arrivo di un nuovo “Ordine finanziario mondiale” nel quale chi non è credibile non avrà più voce in capitolo. Chi farebbe patti con un baro? La risposta russa a questa mossa è stata di tentare di capovolgere il principio di base denaro-per-merci. L’idea è di connettere merci di base, petrolio, gas naturale, materie prime minerarie e oro, al rublo. La guerra valutaria lanciata contro la Russia, fondata sull’inibizione della liquidità in modo che sia inibita sia la funzione di riserva di valore, sia quella di mezzo di scambio della moneta internazionale detenuta dal sistema economico russo, viene tradotta da questa mossa (alla quale lavora la Banca centrale Russa e la diplomazia economica altamente attiva verso i paesi ‘non allineati’, che crescono ogni giorno) in guerra di merci e monete. Ovvero in un confronto a tutto campo tra ‘merci’ cruciali e monete sovrane ad esse ancorate. Se l’Occidente ha la sua valuta finanziaria, il ‘non-occidente’ (che si genera per negazione direttamente dalla logica della ‘crociata’ politico culturale altamente autolesionista avviata dai neocon americani negli anni Novanta ed ora fatta propria dai democrat al potere[26]) ha le merci di base e anche la capacità di trasformazione. Da tempo, infatti, le basi industriali di tutte le filiere mondiali non sono più in Occidente e questo fa tutta la differenza. Allora, chi ha paura di chi? Chi punisce chi? Chi ha ucciso il cervo? Si chiede Zhang Weiwei (docente di economia al Fudan e presidente del China Research Institute) su Guancha[27].
Chiaramente, la rivoluzione contro l’Ordine valutario americano[28], lanciata in questo modo, deve vedere necessariamente la partecipazione della Cina stessa, che è ormai la più grande economia mondiale (a parità di potere di acquisto, ovvero in termini di beni reali), il più grande commerciante di beni e il più grande mercato di consumo e investimento. E’ del tutto chiaro che avendo perso tutti questi primati gli Stati Uniti sono in una posizione di fragilità.
Questa considerazione mostra con precisione la posta della guerra e anche la ragione della disperata determinazione americana (e dei suoi clienti e subalterni).
Si tratta, niente di meno che di tradire il principio cardine dell’Ordine finanziario esistente per il quale la liquidità va sempre protetta. Ovvero il principio per il quale va sempre garantito, costi quel che costi, che sia sempre possibile la convertibilità incondizionata tra moneta e credito (per cui qualsiasi credito sia sempre rilevabile a richiesta in moneta). Questo è quel che rendeva il dollaro la moneta centrale e i suoi titoli la riserva di valore più affidabile per privati e stati. Se il credito è essenzialmente una relazione rischiosa, allora ciò che è stato fatto è di distruggerlo. Ma non si può distruggere una relazione senza esserne colpiti.
Ed il colpo cade in una situazione di enorme fragilità. Infatti la potenza americana, in prima fase fondata sulla maggiore produttività e sull’enorme dotazione di infrastrutture, industrie, capacità in un mercato continentale interconnesso, dalla crisi degli anni sessanta-settanta (nella quale quella supremazia si erode) e dalla rottura del 1971 non vive più del suo commercio e della sua produzione, ma dei suoi debiti. Paradossalmente vive di rendita sui propri debiti, grazie alla tesaurizzazione come moneta del debito della sua Banca Centrale, che è accettata in tutto il mondo come moneta di riserva. Il sistema del dollaro svolge questa funzione in modo rischioso ed incerto, a causa dell’assenza di una sottostante economia effettivamente dominante, sostenuta da un attivo commerciale che renda logico detenere riserve (per acquistare beni). La funzione di riserva, questo si vede benissimo in questa crisi, ha il suo limite fuori di sé (si regge sull’indispensabile capacità di minaccia, e quindi di ordine, svolta dalle forze armate americane). Del resto, a ben vedere, c’è in pratica un solo ‘bene’ nel quale la superiorità Occidentale è ancora netta: le armi. Di qui l’assoluta necessità di spezzare la resistenza russa, prima che la Cina diventi troppo forte anche su questo terreno.
Dall’altra parte l’idea che emerge dalla reazione del sistema russo alla crisi, alla quale si era lungamente preparato[29], è di riposizionarsi nella catena del valore da paese ‘periferico’, che essenzialmente vende materie prime con sfavorevoli ragioni di scambio, affidandosi per il resto alle importazioni di prodotti finiti o semilavorati, a paese ‘semicentrale’ in un ecosistema dominato da centri di potenza ed industriali meno ostili (la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, i Brics, ai quali aggiungere almeno il Venezuela, alcuni paesi africani, alcuni paesi del golfo, probabilmente il Pakistan e forse l’Arabia Saudita) e, soprattutto, più complementari.
Detto in altre parole, c’è una sorta di ironia: l’occidente si aspetta che l’ambiente economico russo sia costretto dalla crisi dei capitali ad accettare una situazione di maggiore dipendenza e quindi maggior sfruttamento (banalmente di dover accettare di vendere i propri prodotti e materie prime ad un prezzo inferiore, o serbando minore quota del profitto[30]), ricollocandosi in posizione ancor più periferica. Ma la Russia sembra voler accettare la sfida e punta a ricollocarsi in un diverso ecosistema nel quale la propria industria e i propri prodotti energetici siano più necessari. Il progetto di Putin, e dei gruppi decisionali che lo circondano, è quindi di invertire la sconfitta degli anni Ottanta, ma non nel modo che pensiamo: non si tratta affatto, almeno a medio termine, di recuperare le aree di influenza territoriale perdute che, nel frattempo, si sono interconnesse con l’ecosistema economico occidentale in modo troppo intenso (tanto meno di farlo per via militare). Si tratta di qualcosa di molto più significativo: di risolvere l’incorporazione subalterna del sistema-mondo che allora fu determinata. Esiste solo un modo a tal fine, ed è quello che viene indicato come “ristrutturazione strutturale dell’economia”. Si tratta di riportare le proprie élite industriali e finanziarie, con le buone o le cattive (ed una guerra è a tal fine perfetta) sotto il dominio della propria logica ‘territorialista’; rialzare a tal fine barriere di sistema (e questo lo stanno facendo gli Usa); trovare un’altra area di proiezione per i propri capitali, nella quale la concorrenza sia più contenuta e l’ambiente normativo più controllabile. Passare da un modello trainato dalle esportazioni (quello della “Grande Moderazione” degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a stabilizzare il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il quale saranno necessari anni e potrebbe fallire, si dovrà: ristrutturare il mercato del lavoro; modificare i settori trainanti; attuare quella che in Cina è stata chiamata una “doppia circolazione”. Ciò dovrà comportare una netta ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree economiche geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali estere perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci sarà più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare, per far crescere la domanda interna. Il modello neoliberale funziona all’esatto opposto. Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i profitti industriali, e ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire il realizzo delle merci in capitale all’estero in una lotta spietata a somma zero. In questo consiste la sua “libertà”. La scommessa russa è di poter ritransitare nel modello opposto, ovviamente insieme alla Cina ed a numerosi partner. Un modello che stabilizza il proprio ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale facendo essenzialmente leva sul mercato interno, salari alti e stabili, una classe media in ascesa. Ovviamente ne fanno parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità a farsi controllare dall’esterno.
L’idea è che dentro questo sistema, che fraziona il complessivo sistema-mondo occidentale, ritagliandovi un grande enclave, la Russia possa trovare una posizione di minore debolezza. In altre parole che possa essere più necessaria, sia come fornitore di materie prime e di tecnologie avanzate (in alcuni specifici settori, aerospaziale, chimica, nucleare, militare), sia come fornitore di protezione (sfidando, ovviamente, il monopolio Usa su questo cruciale ‘servizio’). Due generi di interlocutori sono da individuare per questo progetto: in primo luogo, i grandi paesi altamente differenziati e fortemente finanziarizzati, ma che nell’ecosistema “Occidentale” sono costantemente schiacciati al ruolo di junior partner o di ospite inaffidabile[31]. In secondo luogo, i paesi intermedi, con una specializzazione più pronunciata e minori risorse umane, materiali e finanziarie. Questi si sentono spesso umiliati e vittimizzati dall’arroganza occidentale e possono essere tentati di ridurre la dipendenza.
Chiaramente, e simmetricamente, i paesi che nell’attuale sistema-mondo sono ‘centrali’ o ‘semi-centrali’ (o ‘semi-periferici’ in un centro rilevante come quello europeo), da questa riframmentazione in sistemi-mondo interconnessi, ma anche parzialmente separati, hanno da perdere. Da una parte si riducono gli sbocchi alle eccedenze di capitale, ovvero le aree nelle quali proiettare i capitali garantendone per via politica o di influenza militare la redditività. Quindi diventa più difficile il gioco di rompere gli ‘spazi regionali’, costringendoli a rilasciare i propri valori e destabilizzandoli (gioco nel quale gli Usa sono maestri, ma noi siamo i vecchi maestri ed attuali volenterosi allievi). Infine, si ridefinisce l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione del surplus; in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità ‘capitalismo’ (ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di soggettività che si definiscono per la centralità del principio organizzativo e di ordine del ‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna delle quali trova la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione nell’insieme. Posizione che è sempre gerarchica. La ragione è che tutti i fenomeni economici e sociali, ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità di essere compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione.
Il processo di fratturazione dell’ambiente finanziario e commerciale mondiale, e la revoca della centralità in esso del dollaro (processo che richiederà qualche anno), riprodurrà quindi quella priorità all’indipendenza che rese possibile il percorso di crescita di tanti paesi nel trentennio ’50-’80 e ne motivò la tensione ideale. Anche alla luce di questi fenomeni si può verificare come tutte le teorie trovino sempre la loro urgenza e plausibilità dal contesto del tempo. Sono, cioè, illuminate dal tempo nel quale si manifestano, più che il contrario. Prevedo che, insieme al confronto tra sistemi, intorno a questo tempo difficile tornerà perciò in campo la “teoria della dipendenza” e quella “dell’imperialismo”.