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Linee imperialiste nella guerra d'Ucraina

di Guido La Barbera1

Brzezinski e Kissinger sull’Ucraina. A partire da La grande scacchiera, due politiche estere a confronto nella gestione degli interessi vitali delle potenze: Stati Uniti, Russia e Cina. Da Paginauno n. 80, dicembre 2022 – gennaio 2023

3 750x375“Ma, Zbig, quante volte puoi mettere uno stecco nell’oc­chio alla Russia, senza che reagisca? Noi abbiamo pre­so l’abitudine, negli anni del­la debolezza russa sotto Eltsin, di mettergli le dita ne­gli occhi un sacco di volte, facendola franca. Non sta finendo quel perio­do? Non dobbiamo prenderli sul se­rio quando dicono «Questo è fonda­mentalmente contrario ai nostri in­teressi e resisteremo»?”

Così David Ignatius del Washing­ton Post, terza voce in America and the World del 2008, libro intervista con Zbigniew Brzezinski e Brent Sco- wcroft, il primo consigliere per la si­curezza nazionale per Jimmy Carter, il secondo per George Bush e Gerald Ford, nonché consigliere militare di Richard Nixon. Da quella dialettica tra due decani della politica estera del­l’imperialismo americano emergeva­no con nettezza due linee nei con­fronti dell’imperialismo russo e delle sue ambizioni a riprendere il control­lo, nel “vicino estero”, dello storico dominio dell’impero zarista.

Brzezinski risolutamente a favore dell’inclusione dell’Ucraina nella NATO.

Scowcroft contrario, sulla falsari­ga delle obiezioni che erano anche di Henry Kissinger: i legami storici e identitari della Rus’ di Kiev col potere mo­scovita; la divisione dell’Ucraina tra un Ovest filo-occidentale e un Est rus­sificato.

L’imperialismo europeo vi compa­riva solo sullo sfondo: Scowcroft a ri­cordare la contrarietà europea a un’a­zione così intrusiva nei confronti del­la Russia e a lamentare la confusa so­vrapposizione tra l’ambito della Ue e quello della NATO; Brzezinski a impu­gnare il fatto che sulla questione ucrai­na gli europei erano “divisi”.

La linea Brzezinski aveva un lungo tracciato alle sue spalle. Il libro La grande scacchiera, del 1997, è il suo intervento più significativo negli anni Novanta; vi traspare l’intento d’in­fluenzare la politica americana nel secondo mandato di Bill Clinton. Alla luce di quel testo, si può considerare Brzezinski come uno dei principali teo­rizzatori del momento unipolare del­l’imperialismo americano, tesi trion­falista in voga negli anni Novanta in seguito al crollo dell’URSS nella ce­sura strategica del 1989-91.

Thierry de Montbrial, nell’annua­rio Ranises 2023 dell’IFRI, sostiene che La grande scacchiera ebbe un’in­fluenza “immensa”. Vede inverata la linea Brzezinski negli orientamenti dell’amministrazione Biden e nella ri­sultante della guerra d’Ucraina, là dove l’ex consigliere di Carter ripren­deva l’impianto geopolitico di Hal- ford Mackinder combinato con l’ec- cezionalismo americano. Gli Stati Uni­ti avrebbero confermato il ruolo di unica superpotenza e di impero uni­versale basato sui valori di libertà, democrazia e progresso economico se avessero giocato sulla “scacchie­ra” del continente eurasiatico, impe­dendo che vi si affermassero una po­tenza o una coalizione egemone osti­li. In quella visione, riassumiamo noi, nella falsa coscienza che identificava gli interessi americani con lo svilup­po globale nella democratizzazione - oggi si direbbe con l'ordine liberale - si trattava di tenere gli avversari divi­si per tenere il mondo unito, appunto attorno ai valori che rivestivano l’e­gemonia americana.

In quel contesto, Brzezinski pro­spettava l’estensione della NATO e dell’Unione Europea verso Est, sino a contemplare l’inclusione dell’Ucraina; una Ue però “euroatlantica”, legata organicamente agli Stati Uniti e co­munque, almeno nel tempo prevedi­bile di una generazione, limitata a un livello d’integrazione non in grado di impensierire Washington. La salda­tura dell’Ucraina all’Occidente era la carta per condizionare Mosca. Senza l’Ucraina, la Russia non sarebbe stata più “un impero” e non avrebbe potu­to isolare sotto il suo dominio le re­pubbliche del Caucaso e dell’Asia cen­trale. Attraverso l’Ucraina incardina­ta in un “Occidente allargato” o “gran­de Occidente”, Mosca sarebbe stata indotta ad agganciarsi al processo di democratizzazione occidentale.

Brzezinski alla superficie era criti­co con la storica ambivalenza ameri­cana nei confronti dell’integrazione politica europea; sosteneva che essa andava semmai sviluppata con un ruolo attivo degli Stati Uniti, riorga­nizzando la NATO su due pilastri del­l’Alleanza Atlantica. Va trattenuto pe­rò che La grande scacchiera prospet­tava più un'integrazione transatlanti­ca che una reciprocità, e comunque faceva intravedere un processo che avrebbe richiesto più di una genera­zione, mentre sarebbe proseguito l'al­largamento a Est.

In questo senso era concepita e incoraggiata la relazione tra Unione Europea e Russia. Per un verso era una Ue incardinata nella relazione atlantica, per cui ogni sua espansio­ne - in sostanza accompagnata o preceduta dall’allargamento della NATO - sarebbe stata un’espansione dell’influenza americana. Per l’altro verso, la Russia sarebbe stata depotenziata dall’adesione dell’Ucraina alla Ue e alla NATO, dunque ricondotta a un ruolo regionale, e non paritario, nella confluenza col grande Occidente allargato. In questo senso, allora, l’alleanza tra Euro­pa e Russia non sarebbe stata la minaccia di una coalizione ostile in grado di controllare l’heartland - il cuore continentale dell’“isola mondiale” nell’im­maginario geopolitico di Mackinder - ma l’esercizio della bilancia americana sullo scacchiere eurasiatico, a equilibrare la Cina sul fronte orientale dell’Eurasia.

Nel testo La grande scacchiera Brzezinski analizza le prospettive per la Russia valutando tre diverse “scuo­le di pensiero”, che considera tutte non confacenti ai reali rapporti di forza in cui si trovava Mosca: “La pri­ma assegna una priorità a una ‘cooperazione strate­gica’ ormai matura con l’America, che per alcuni dei suoi sostenitori sta a significare di fatto un condomi­nio mondiale; la seconda mette l’accento sull’impor­tanza centrale dei ‘Paesi limitrofi’ [il vicino estero] della Russia, con alcuni che auspicano un’integrazio­ne economica centrata su Mosca e altri che mirano al ripristino di un controllo imperiale, volto a raffor­zare una potenza in grado di tener testa all’America e all’Europa; la terza punta a una controalleanza di una coalizione euroasiatica intesa a ridurre il predo­minio americano su questo continente”.

Secondo Brzezinski, la prima corrente era preva­lente all’inizio degli anni Novanta, attorno alla filiera occidentalista dei primi governi della presidenza El- tsin; gli altri due orientamenti sono emersi subito do­po. Tutte e tre le tendenze si sono mostrate però “storicamente inadeguate”, perché basate “su una concezione alquanto fantasmagorica della potenza effettiva, così come delle prospettive e degli interes­si internazionali della Russia”.

Seguiamo il filo della ricognizione di Brzezinski. A suo avviso, il retropensiero della prima corrente, pur occidentalista, era il miraggio di una nuova Yalta e il convincimento che sarebbe stata riconosciuta alla Russia una “parità con l’America”; “implicita in que­sta illusione l’idea che l’Europa centrale sarebbe ri­masta, volente o nolente, una regione di fatto politicamente vicina alla Russia”. Lo scio­glimento del Patto di Varsavia e del Comecon non avrebbe comportato una gravitazione dei loro ex aderenti verso la NATO o anche verso la Ue.

Brzezinski qui è critico con l’am­ministrazione Clinton, per aver inco­raggiato queste correnti ed essere ri­masta nell’ambiguità sullo status del­l’Europa dell’Est. Nel libro sul pro­cesso di estensione della NATO di Mary E. Sarotte Not one inch (Non un solo pollice) - che inspiegabilmente non cita La grande scacchiera - si ri­chiama una polemica del 1993, dove Brzezinski critica la formula ibrida del­la “Partnership for peace” offerta al­l’Est e sostiene risolutamente l’allar­gamento della NATO.

In questo contesto, per Brzezinski la discriminante dell’indipendenza dell’Ucraina vale anche verso le cor­renti filo-occidentali del primo Eltsin: “L’élite postsovietica russa si aspetta­va inoltre chiaramente che l’Occiden­te favorisse, o quantomeno non im­pedisse, il ripristino di un ruolo cen­trale della Russia nello spazio postso­vietico, vedendo perciò di malocchio l’aiuto fornito ai nuovi Stati indipendenti per consoli­dare la loro autonomia”.

In quella prospettiva, l’Ucraina “assumeva un’im­portanza decisiva”: “la crescente propensione degli Stati Uniti ad assegnare un’alta priorità ai rapporti con questo Paese e ad aiutarlo a difendere la sua nuova indipendenza veniva vista da molti a Mosca - filo-occidentali compresi - come una politica contra­ria all’interesse vitale della Russia a reintegrare col tempo l’Ucraina nel suo campo: un obiettivo che ri­mane ancora un articolo di fede per molti esponenti dell’élite politica russa. La tendenza storica e geopo­litica della Russia a rimettere in discussione il sepa­ratismo dell’Ucraina entrava così in urto con la con­cezione americana secondo la quale una Russia im­periale non poteva essere democratica”.

In conclusione, “i democratici filo-occidentali vo­levano semplicemente troppo e potevano dare po­co”: “auspicavano una cooperazione - o piuttosto un condominio - con l’America su un piano di parità, mano relativamente libera all’interno della CSI e un cuscinetto geopolitico neutrale nell’Europa centrale. Ma la loro ambivalenza verso il passato sovietico, la mancanza di realismo riguardo ai nuovi equilibri di potenza nel mondo, la profondità della crisi econo­mica e l’assenza di un ampio consenso sociale hanno impedito loro di fare della Russia un Paese stabile e realmente democratico, come richiedeva il concetto di cooperazione paritaria”.

Attenzione: De Montbrial aggiunge che verso la fine della sua vita, rendendosi conto dei rischi di un’esportazione della democrazia per via forzosa - le iniziative della filiera neocon che nel 2003 spinge­rà per la guerra per scelta in Iraq - Brzezinski opterà per la formula di una “finlandizzazione” dell’Ucraina. In questo ripensamento c’è l’indizio di una prima ri­sultante non voluta della dottrina Brzezinski. Questo mutamento d’avviso spiega perché Brzezinski e Kis- singer, che sull’adesione dell’Ucraina alla NATO ave­vano posizioni opposte, alla fine nella crisi del 2014 convergono sulla finlandizzazione.

Pensiamo tuttavia che la convergenza tra i due su quella formula, riecheggiata negli accordi di Minsk, sia un ritrovarsi tattico, non strategi­co o concettuale. Siamo nel 2014, allo scoppio delle ostilità sul Don- bass e sulla Crimea: Brzezinski vuole evitare probabilmente che precipiti il conflitto militare con la Russia, ma il suo convincimento che l’Ucraina an­dasse sottratta in modo permanente a Mosca e che andasse con ciò impe­dita un’Unione eurasiatica che la com­prendesse, resta inalterato.

La vicenda illustra bene l’uso dif­ferente che Brzezinski e Kissinger fan­no delle nozioni di bilancia di poten­za e interessi vitali.

Brzezinski riconosce i rapporti di forza della bilancia e gli interessi vi­tali delle potenze, ma ritiene di po­terli manipolare e indirizzare, sia nel­le relazioni tra le potenze sia all’in­terno delle potenze stesse, influen­zandone i processi politici che con lo sviluppo hanno almeno la potenziali­tà di inclinare verso libertà e demo­crazia: è la visione del “grande risve­glio” che, a partire dalla Rivoluzione francese nel 1789, sotto l’impulso del­lo sviluppo economico avrebbe via via spinto le masse alla coscienza po­litica e sociale. Per Brzezinski la Rus­sia ha sì l’interesse vitale all’Ucraina, ma deve essere forzata a rinunciarvi. Allo scopo, ipo­tizza un triplice aggiramento strategico: a Ovest, le­gando appunto Kiev alla Ue e all’Alleanza Atlantica; in Asia centrale, che immagina legata coi gasdotti al­l’Occidente e islamizzata, oltre che sotto influenza della Turchia; e in Asia orientale, dove accanto all’al­leanza col Giappone, con Tokyo in posizione dipen­dente, sostiene la convergenza strategica con la Cina. Mosca sarebbe stata costretta così a scegliere come unica opzione la democratizzazione, nella ri­nuncia al dominio imperiale e nell’appartenenza - subordinata - all’Occidente allargato imperniato sul legame transatlantico.

Kissinger parte dalla medesima ricognizione degli interessi vitali delle altre potenze, in questo caso la Russia, però in qualche modo per riconoscerli, e su quella base trattare una composizione, in un concer­to di potenze vestfaliano, dove non è contemplata o è limitata l’ingerenza negli affari interni di un’altra potenza. Anche Kissinger pensa a una Russia legata all’Occidente, ma sulla base del riconoscimento dei suoi interessi di potenza. Infatti negli anni Settanta, quando Washington tratta con l’URSS per cercare un equilibrio sulle armi strategiche, Nixon e Kissinger sono accusati di acquiescenza nei confronti di Mo­sca; le trattative sono ostacolate nel Congresso dalle correnti, sia democratiche che repubblicane, che so­stenevano che l’URSS andasse incalzata di più, impu­gnando anche l’arma dei diritti umani. Con la presidenza Carter, di cui Brzezinski è con­sigliere per la sicurezza nazionale, verrà adottata questa linea più intru­siva; i due orientamenti, ispirati da Brzezinski e da Kissinger, possono es­sere visti come i due tracciati dei sog­gettivisti e degli oggettivisti della bi­lancia di potenza.

A ben vedere, i due approcci, vi­sti alla distanza di mezzo secolo, ri­flettono non solo due culture politi­che - Brzezinski un realismo compe­netrato con l’eccezionalismo ameri­cano; Kissinger una realpolitik di stampo europeo, che infatti si ispira a Metternich e Bismarck - ma anche due prospettive di bilancia. Kissinger, assieme a Nixon, con il quale Brze- zinski polemizza nel 1972 tacciando di “illusione” la sua nozione di equili­brio pentapolare, pensa a un equili­brio multipolare, nozione che farà evolvere nei decenni, nell’ipotesi di un esapolarismo negli anni Novanta e di equilibrio tra grandi aree regio­nali nel suo testo conclusivo, Ordine mondiale.

Brzezinski pensa alla preminenza di un Occidente allargato che, gio­cando sulla pluralità di potenze sul continente eurasiatico, si dà il tempo per conformare l’intero sistema glo­bale ai valori liberali incarnati dall’e­gemonia americana. Ciò non toglie che sul finire degli anni Dieci del nuovo secolo, di fronte alla necessità di bilanciare una Cina che si avvicina a eguagliare la potenza americana e in prospettiva l’intero Occidente, quanto all’equilibrio di potenza e alla relazione con Pechino le due pro­spettive di Brzezinski e Kissinger ten­deranno a sovrapporsi.

Forse però la distinzione più importante è pro­prio la differente relazione dei due con la cultura po­litica americana. Brzezinskzi, per il fatto di mettere il suo realismo al servizio di una concezione wilsonia- na, è più aderente a quella cultura eccezionalista, e il corso degli eventi nei decenni è più aderente alle sue analisi. In questo senso, si può pensare, De Montbrial parla di “influenza immensa” del suo li­bro. Questo, attenzione, nel bene e nel male del procedere della politica estera americana, nei suoi successi e nei suoi scacchi. L’Afghanistan diventerà davvero il Vietnam dell’URSS, come Brzezinski aveva preconizzato nel 1980, ma ne scaturiranno il terrori­smo islamico e l’11 settembre; l’Ucraina davvero è stata staccata dall’Unione eurasiatica di Mosca e av­viata verso la Ue e la NATO, ma al prezzo di una guerra che lascerà le sue conseguenze per decenni. Qui la Russia per ora si muove in senso opposto a quello ipotizzato da Brzezinskzi, che la voleva co­stretta a democratizzarsi e ad accordarsi con l’Occi­dente euroatlantico.

Parafrasando il titolo del romanzo di Graham Greene Un americano tranquillo (The quiet ameri- can), sul disastro dei tentativi manipolatori degli USA in Vietnam, vera via per l’inferno sulla strada la­stricata dall’ipocrisia delle buone intenzioni, in una certa misura Brzezinski è un geopolitico tranquillo. Resta vero che per quella sua via alcuni obiettivi strategici americani al dunque vengono conseguiti: l’URSS crolla anche per essere rimasta impigliata nel ginepraio afghano; una convergenza tra Germania e Russia o tra Ue e Russia che sia ostile agli USA sarà ora impedita per un lungo lasso di tempo.

Dal canto suo, Kissinger per il suo realismo d’im­pronta europea non avrà mai risolto il rebus di una condotta realista della politica americana che si saldi col sentire di massa in quelle psicologie sociali; ma anche col fattore morale delle stesse élite politiche. Per tutta la vita condurrà un tentativo pedagogico nei confronti di quella cultura politica, segnalando i rischi per l’America del suo oscillare tra lo spirito missionario wilsoniano - anima dell’internazionali­smo liberale delle élite politiche della Costa Est - e l’isolazionismo jeffersoniano o jack- soniano della pancia continentale e del Sud degli States. Vi combinerà una pratica di ‘consigliere del princi­pe’ della presidenza di turno, cercan­do di influenzarla anche accompa­gnandone in una certa misura deci­sioni in contraddizione con la sua vi­sione: un esempio per tutti: la guer­ra per scelta ingaggiata nel 2003 in Iraq da George W. Bush e dai suoi consiglieri neoconservatori. Su un aspetto decisivo questa tattica ha avuto successo, la svolta nella bilan­cia globale attuata nel 1971 con Ni- xon sulla Cina; per molti altri fran­genti Kissinger rimarrà invece una Cassandra della Realpolit. Si pensi proprio all’attuale guerra d’Ucraina, il cui contesto era stato previsto da Kissinger alla lettera, appunto par­tendo dalla comprensione dell’inte­resse vitale della Russia.

La seconda opzione considerata da Brzezinski per la Russia dei tardi anni Novanta era la priorità al “vicino estero”. È quella che si affermerà con Vladimir Putin, no­tiamo; secondo Brzezinski questa corrente si oppone a quella filo-occidentale sostenendo che la coopera­zione con gli Stati Uniti aveva trascurato la priorità del rapporto con le repubbliche dell’ex URSS: “L’o­biettivo era insomma quello di ricostruire, entro lo spazio geopolitico dell’ex URSS, un sistema di rap­porti imperniato su Mosca come centro decisionale”. All’interno di questa tendenza confluivano differenti scuole di pensiero. “Funzionalisti” e “deterministi economici” erano convinti che la CSI, la labile Comu­nità degli Stati Indipendenti subentrata all’URSS, “avrebbe potuto diventare l’equivalente di una Ue guidata da Mosca”. Altre correnti vedevano nell’inte­grazione economica “solamente uno dei vari stru­menti per ripristinare il dominio imperiale”, accanto all’influenza politico-militare. La componente dell’“eu- rasianesimo” sosteneva una “missione storica per­manente della Russia” nello spazio dell’ex URSS.

Si può ritrovare in questa ricognizione una tasso­nomia delle correnti che oggi si raccolgono attorno a Putin. Secondo Brzezinski gli orientamenti funzionali o economicisti combinavano un “determinismo eco­nomico oggettivo” a una forte dose di “volontà im­periale soggettiva”, ma non davano una risposta e­sauriente su cosa fosse la Russia e quale la sua “mis­sione”: “La dottrina sempre più seducente dell’eu- roasianesimo, col suo accento sui ‘Paesi vicini’, cer­cava di riempire proprio questo vuoto. Il punto di partenza di questo orientamento, definito in termini piuttosto culturali se non mistici, era la premessa che la Russia, dal punto di vista geopolitico e cultu­rale, non è interamente europea né interamente asiatica, e che, pertanto, possiede una propria iden­tità euroasiatica distinta. Quest’identità è il retaggio della sua peculiare capacità di controllo sull’enorme massa continentale racchiusa tra l’Europa centrale e le sponde dell’Oceano Pacifico, ovvero l’eredità della grandezza imperiale che Mosca ha conquistato in quattro secoli di espansione a Est, assimilando un’am­pia popolazione non russa e non europea che ha conferito alla Russia la sua singolare personalità poli­tica e culturale, euroasiatica”. Una versione “più sobria” delle teorie eurasiatiste, sem­pre per Brzezinskzi, era alla base del­le iniziative fautrici di una Unione economica eurasiatica.

Anche questa seconda opzione per Brzezinski è un’“illusione geopo­litica”: “L’inadeguatezza geopolitica dell’opzione per i ‘Paesi vicini’ consi­steva in definitiva nel fatto che la Russia non era abbastanza forte poli­ticamente per imporre la propria vo­lontà, né abbastanza attraente dal punto di vista economico per eserci­tare una seduzione sui nuovi Stati in­dipendenti”.

Infine, la terza opzione che era venti­lata dalle correnti russe era un’al­leanza alternativa da parte di Mosca con Pechino e Teheran. Anche que­sta prospettiva, notiamo, fa parte delle opzioni politiche odierne nel dibattito russo; per Brzezinski resta­va improbabile: sarebbe stata possi­bile solo se la “miopia” di Washing­ton avesse portato gli Stati Uniti si­multaneamente in urto sia con la Cina che con l’Iran; soprattutto, Mosca avrebbe do­vuto accettare un’alleanza in cui Pechino sarebbe stata la forza predominante.

Come risultante dell’inadeguatezza di tutte e tre le opzioni per la Russia - quella filo-occidentale che pretendeva una relazione paritaria con gli Stati Uniti, quella euroasiatista che puntava a restaurare il con­trollo sull’ex URSS, quella asiatista che considerava un’alleanza con la Cina - Brzezinski riteneva appunto che Washington dovesse operare per rendere obbli­gata la cooperazione di una Russia democratizzata, e non più “imperiale”, con una “Europa transatlantica” e con gli USA; un’Ucraina incardinata in Occidente diventava il perno dell’intera manovra sulla “scac­chiera” geopolitica.

De Montbrial nota che all’epoca la Cina non era ancora vista come una minaccia; infatti, aggiungia­mo, Brzezinski sosteneva un’alleanza di fatto tra gli Stati Uniti e una “Grande Cina” potenza regionale. Di recente Walter Russell Mead ha ripreso sul Wall Street Journal suggestioni geopolitiche affini a quel­le di Brzezinski in La grande scacchiera, sostenendo però che il gioco di bilancia degli USA, potenza ma­rittima di fronte alla massa dell’Eurasia, avrebbe po­tuto essere sostenuto con successo dall’America as­sieme agli alleati europei e asiatici anche contro una coalizione tra Cina e Russia. Invece per Brzezinski quello sarebbe stato lo scenario più pericoloso, in un quadro di tre possibili coalizioni regionali in contrasto con l’interesse americano.

La prima era appunto un’alleanza tra Cina e Russia, forse estesa all’Iran e a guida cinese: “Al fine di scongiu­rare tale eventualità, gli Stati Uniti dovranno dar prova di tutta la loro abilità geostrategica contemporanea­mente sui perimetri occidentale, orien­tale e meridionale dell’Eurasia”.

La seconda combinazione sfavo­revole agli Stati Uniti sarebbe stata un asse tra Cina e Giappone, consi­derato però “non troppo plausibile”, dato il tracciato storico del conflitto bellico tra le due potenze, e comun­que facilmente scongiurabile dagli USA.

La terza combinazione ostile po­teva essere un grande riallineamen­to europeo alla Russia, attraverso una “collusione russo-tedesca” o un’“in- tesa franco-russa”. È da notare che per Brzezinski l’ipotesi, remota, po­teva verificarsi qualora l’unificazione europea avesse segnato “una battu­ta d’arresto” e le relazioni tra Europa e America si fossero seriamente de­teriorate: “In quest’ultimo caso, è pos­sibile immaginare un accordo Russia- Europa per escludere l’America dal continente”. Ipotesi improbabile, che avrebbe richiesto errori grossolani nella politica europea dell’America e una “svolta imponente” da parte dei principali Stati europei. Avvertiamo un’eco di questa terza tesi, così con­fidente sull’influenza americana in Europa, nel documento della prima­vera 2021 pubblicato da Center for American Progress - istituto legato all’ambito di Hillary Clinton attraver­so John Podesta - dove si sosteneva che Washington avrebbe dovuto incoraggiare una difesa europea anziché frenarla, per­ché gli USA sarebbero stati comunque in grado di bloccarne una declinazione anti-americana.

Si può dire che nel Brzezinski de La grande scacchie­ra c’è una sottovalutazione delle prospettive dell’a­scesa cinese? Sì e no. Per un verso è vero che la pro­spettiva è l’emergere della Cina solo come potenza regionale e non ancora globale, e che l’ipotesi è la sua cooptazione nell’ordine occidentale. Ma va evi­tato l’anacronismo: siamo nel 1997 e il libro in più occasioni si pone nella prospettiva di una generazio­ne.

È vero che la questione dominante non è la Cina, ma è l’accerchiamento della Russia, da Ovest, da Est e da Sud, per impedirne il risorgere come potenza imperiale. Alla luce della guerra del 2003 e della crisi del 2008, si può semmai osservare che le basi dell’e­gemonia americana, che Brzezinski considera incon­trastate, saranno erose prima del previsto col proce­dere del declino relativo americano.

È vero, infine, che a consuntivo le proporzioni as­sunte dall’ascesa della Cina e l’andamento della crisi ucraina, che sta spingendo Mosca verso Pechino, mostrano proprio nella realizzazione del disegno di Brzezinski sull’Ucraina l’avvicinarsi di una grande ri­sultante non voluta. Forse nel deflagrare della guer­ra, come fa pensare la sua conversione del 2014 alla finlandizzazione. Certamente nella spinta alla con­vergenza tra Russia e Cina, che Brzezinski considera­va la minaccia strategica maggiore.

Messa in condizione obbligata, la reazione della Russia è stata in direzione opposta a quanto si pro­poneva la manipolazione di Brzezinski. In questo senso ha avuto due volte ragione la Cassandra Kis- singer, quando ammoniva nel 2014 che non si dove­vano mettere i russi con le spalle al muro, nella con­dizione di dover dimostrare ciò di cui erano capaci. E quando si domanda oggi se la guerra d’Ucraina non rischi di fare della Russia una propaggine dell’Asia di fronte all’Europa e all’Occidente. I fatti si sono svolti secondo l’indirizzo preconizzato da Brzezinskzi; le correlazioni tra quei fatti nelle loro risultanti non volute hanno confermato le riserve di Kissinger. L’impronta di entrambe le scuole di pensiero s’intravede nel­l’ambivalenza dell’amministrazione Biden.

Si può avvertire una sorte di desola­ta ammissione d’impotenza nelle te­si di De Montbrial per “Ramses”, là dove constata che nella guerra d’U­craina per gli europei è stato impos­sibile sottrarsi alle pressioni di Wa­shington, senza però che sia chiaro il senso di direzione degli Stati Uniti. Del resto, il parallelogramma delle forze non solo è complicato dai molti centri di potenza del multipolarismo, ma è anche in rapido mutamento sotto la spinta dello sviluppo inegua­le.

L’imperialismo americano ha sem­pre riluttato all’unità europea e tan­to più a un’alleanza esclusiva tra Eu­ropa e Russia, ma l’irruzione dell’im­perialismo cinese cambia l’equazione globale di potenza e fa di Pechino il vero rivale strategico.

L’imperialismo europeo non ha avuto altra scelta che assecondare il momento atlantico generato dal­la guerra e imperniato sul tropismo filo-USA di Polo­nia e Stati del Baltico, ma resta in sospeso una linea dell’Europa renana che nei confronti della Russia e soprattutto della Cina trovi lo spazio per un’autono­mia strategica del Vecchio Continente.

L’imperialismo russo ha creduto che il movimen­to delle placche tettoniche globali impresso dalla Cina creasse le condizioni per una rapida incursione in Ucraina, ma la lunga guerra di logoramento che ne è scaturita sembra mettere allo scoperto la sua debolezza di fondo.

Il nazionalismo ucraino si è diviso, tra l’area occi­dentale, che ha cercato l’integrazione nell’imperiali­smo europeo e nel legame atlantico, e quella orien­tale, che si è rivolta all’imperialismo russo.

L’imperialismo cinese rafforza la presa dei suoi poteri in vista di un “decennio decisivo” nella conte­sa globale, come si è visto col 20° Congresso del PCC e il terzo mandato per Xi Jinping, ma la sortita russa ha accelerato in modo imprevisto e indesiderato i tempi della crisi dell’ordine.

Lo sviluppo ineguale rende impossibile mantene­re un ordine stabile; prima o poi la guerra verifica i nuovi rapporti di forza. Com’è stato scritto per il con­flitto mondiale del 1914, è facile che i vertici delle potenze in lotta vi arrivino come “sonnambuli”.


Note
1Articolo pubblicato su Lotta comunista, n. 626, ottobre 2022

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