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lafionda

Usa vs Cina: ce n’est qu’un début

Su un libro di Raffaele Sciortino

di Mimmo Porcaro

5G Usa CinaTra gli studi dedicati al tema del conflitto internazionale, e quindi alla guerra, si fa notare il più recente contributo di Raffaele Sciortino: Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, Trieste, 2022. Un lavoro molto denso, ricco di dettagliate considerazioni fattuali, utili sia a ribadire l’esistenza di una tendenza allo scontro globale sia a farci capire che quest’ultimo non ha necessariamente i tempi rapidissimi e le forme univoche che l’adrenalinica comunicazione social ci impone di prevedere.

All’inizio del libro l’autore così riassume i risultati principali della sua ricerca: a) i motivi e le forme dello scontro trai due paesi vanno fatti risalire a una contraddizione sistemica, che vede gli Usa costretti, per mantenere il ruolo di egemone mondiale, a spezzare la sinergia con la Cina, ossia proprio il fondamento di quella globalizzazione che è cardine dell’egemonia che si vorrebbe salvare; b) d’altra parte per la Cina la sfida è esistenziale: essa non può arrestare la propria marcia, pena la messa in crisi del compromesso di classe su cui si regge e della stessa struttura unitaria del paese, e quindi deve mantenere in vita la globalizzazione almeno finché la rottura non sarà inevitabile; c) la relativa arretratezza della Cina e i costi immani dell’esercizio dell’egemonia mondiale fanno sì, però, che non sia alle viste un “secolo cinese”; d) nemmeno è ipotizzabile un ordine multipolare, che sarebbe meramente transitorio e “riformista”; e) ne consegue che sono possibili solo la disconnessione del mercato globale, e quindi il caos, oppure l’emergere, anche grazie a questo caos, di un’alternativa mondiale capace di abolire lo strapotere della competizione e del profitto.

Dico subito che questo riassunto non rende giustizia al lavoro di Sciortino: quindi, prima di argomentare il mio dissenso, che verte essenzialmente sui punti d) ed e), accennerò ai più importanti tra gli ulteriori spunti presenti nel libro, che integrano o precisano quanto elencato sopra. 

 

Lo scontro è certo, il come e il quando no

Prima di tutto, Sciortino riesce a legare molto meglio di quanto non si faccia di solito le dinamiche geopolitiche e quelle specifiche dell’economia capitalistica. La natura dello scontro in atto è secondo lui determinata in gran parte da una crisi del modello di accumulazione (a trazione finanziaria) del capitalismo attuale, capitalismo che non ha ancora saputo rispondere allo shock del 2008 anche perché la risposta comporterebbe costi sociali ed economici tali da incrinare il consenso finora mantenuto. Questa sorta di stallo rende sempre più vitale, per gli Usa, conservare l’egemonia del dollaro e la rendita che questa assicura: rendita tanto più ingente quanto più il sistema mondiale degli scambi è esteso e vitale. La strategia degli Usa è così condizionata sia dalla fragilità strutturale del capitalismo occidentale sia dalla già notata contraddizione tra la necessità di far sopravvivere la globalizzazione, e la necessità altrettanto forte di contrastare una Cina che vuol risalire le catene del valore e competere anche sul mercato delle tecnologie più avanzate. Quanto sopra fa sì che, secondo Sciortino, gli Usa non abbiano ancora una vera e propria strategia, essendo per ora incerti tra il limitare duramente l’ascesa del Dragone e il mettere in discussione l’esistenza stessa della Cina puntando a una sua dissoluzione, analoga a quella dell’Urss.

Qualunque sia la scelta, un fatto è certo: alla estenuazione del modello di accumulazione si accoppia ormai la fine del dispositivo che ha fatto da stabile cornice alle vicende del dominio capitalistico e statunitense dalla fine degli anni ’70 in poi: ossia del rapprochement sino-americano costruito da Kissinger e Zhou Enlai e benedetto da Nixon e Mao. Sarebbe esiziale sottovalutare questo fatto: il rapprochement è stata l’architrave del dominio Usa nel mondo, e la sua fine è quindi, in mezzo a tanti segni di mutamento, la vera svolta epocale dei nostri tempi. Esso ha consentito agli Usa di uscire dal pantano vietnamita, di indebolire strategicamente l’Urss (favorendone in seguito la caduta), di estendere l’area del dollaro, di delocalizzare la produzione, e così di contrastare vittoriosamente – insieme a tutto l’Occidente – le pressioni operaie e popolari che, intrecciando rivendicazioni di classe e movimenti di liberazione nazionale, hanno dato vita al lungo ’68 e alla connessa contestazione dell’ordine capitalista. In cambio, però, la Cina ha ottenuto l’accesso ai capitali e ai mercati che le erano necessari per il salto produttivo a cui era chiamata: l’innegabile successo cinese e le sue conseguenze attuali sono quindi da leggersi, per Sciortino, anche come una nemesi che colpisce gli Usa per aver represso le lotte di classe e antimperialiste degli anni ‘70. Il che non è solo un’immagine suggestiva, ma richiama un nesso reale tra lotte di classe e geopolitica, nesso che nel testo che stiamo esaminando è, finalmente, ben esplicitato.

Lotta di classe e geopolitica: non si tratta semplicemente di “tener conto” dell’una mentre si parla dell’altra, ma di capire come la prima non sia un mero elemento di contorno, bensì una (co)determinante degli stessi scontri fra stati. E’ infatti la lotta di classe interna a condizionare pesantemente, anche se in maniera contraddittoria, la politica imperialista degli Usa, modulandone l’aggressività e rendendo comunque inaggirabile, nella versione Trump o in quella Biden, una mediazione con gli strati popolari. Ma è sempre la lotta di classe a spingere, a detta dell’autore, per un mutamento della politica interna ed estera della Cina. E soltanto la lotta di classe, aggiungo io, sembra in grado di smuovere in qualche modo la polvere che grava sulle asfittiche stanze delle cancellerie europee. Va notato inoltre che, a differenza di molti che, nella sinistra, tremano al solo scrivere la parola “nazione”, quasi che questa evocasse da subito gli spettri di Hitler e Mussolini e non piuttosto la Resistenza sovietica ed europea, Cuba e le altre esperienze sudamericane e così via, Sciortino non teme di indicare nel rapporto tra lotta di classe e nazione, e nella questione nazionale così declinata, un nodo inaggirabile per comprendere l’esperienza cinese (e nordamericana), nodo che può essere sciolto nei più diversi modi, e quindi non solo in senso reazionario.

Altro merito del libro è quello di trattare in profondità della questione cinese, sulla base non di desideri o di preconcetti, ma di fatti, nonché di studi di diversa origine, anche interna. Ne emerge – oltre a un’idea della natura sociale del paese di cui dirò dopo – il quadro di una Cina che a differenza degli Usa ha una strategia più chiara: quella di non richiedere un ribaltamento, ma una riforma dell’ordine mondiale che la riconosca come potenza economica regionale e le consenta di continuare la penetrazione commerciale in Asia, Africa ed Europa. Il tutto, si badi bene, non nell’illusione di una pacifica evoluzione del rapporto con gli Usa, ma proprio per giungere preparata alla rottura, avendo accumulato – anche grazie a un contemporaneo rilancio del mercato interno – le relazioni, le tecnologie, la forza militare per reggere lo scontro. Anche per questo la marcia per l’estensione dell’influenza della moneta cinese procede e procederà con cautela: sia per non sfidare ancora direttamente Washington, sia perché Pechino sa bene che più cresce quell’influenza meno la moneta sarà controllabile e più aumenterà l’onerosa esigenza di assicurarne la convertibilità. Insomma: la “dedollarizzazione” (che certamente è già in movimento), non è per domani e, aggiungo, è legata certamente più alla formazione di una “moneta Brics” che all’affermazione del renminbi.

Questo insieme di valutazioni fa dire a Sciortino che la deglobalizzazione e lo scontro sono sì un processo in atto, sono la chiave per comprendere la politica mondiale, ma non sono ancora pienamente dispiegati. E questa, se mai ci fosse un soggetto collettivo capace di fare politica, sarebbe una considerazione da tenere nel massimo conto, dovendo costruire una tattica realistica e non un mero elenco di rivendicazioni di principio, buone solo a convincere chi convinto lo è già.

Veniamo ora ai punti, non lievi, di dissenso: l’interpretazione del multipolarismo da un lato e quella della natura della formazione sociale cinese dall’altro.

 

Multipolarismo, caos o governo mondiale?

Del multipolarismo già sappiamo che a Sciortino esso appare come soluzione instabile e transitoria destinata sfociare o in un perpetuo caos o in qualcosa che somiglia molto alla rivoluzione internazionale. A me invece pare che, data la leniniana “legge” dello sviluppo ineguale del capitalismo (che è anche sviluppo ineguale della politica), e dati anche i processi che già da tempo vedono formarsi aree regionali pur dentro la globalizzazione, il multipolarismo sia l’esito più probabile di quest’epoca di scontri. Consideriamo meglio la questione.

La posizione che qui esamino mi sembra frutto di una contraddizione tra le documentate ricerche analitiche dell’autore e quella parte del suo quadro teorico di riferimento che rimanda a una concezione lineare e stadiale del capitalismo, per cui a) se quest’ultimo non si è pienamente sviluppato non può esservi socialismo, ma solo transizioni interne al capitalismo stesso (e su questo torneremo), e b) se, come avviene ora, il capitalismo giunge allo stadio della connessione mondiale via catene globali del valore, è illusione sovranista pensare che si possa tornare indietro, e l’unica alternativa è quella tra il governo mondiale (con bandiera star and stripes, o rossa) e il caos. Una simile concezione potrebbe facilmente condurre a una teoria dell’ultraimperialismo, ossia all’idea che l’“economia” spinge verso la concordia mentre la “politica” lavora irrazionalmente per la guerra; ma in Sciortino questo esito è reso impossibile anche dalla robusta base analitica che gli fa dire a più riprese che lo scontro è inevitabile. L’armonicismo implicito nella teoria stadiale, però, se non si manifesta direttamente nell’analisi della fase attuale, appare comunque dopo, ossia nel disegnare le prospettive che si aprono a seguito dello scontro: un armonicismo che, sia chiaro, non si esprime nell’idea dell’inevitabilità del governo mondiale, ma nel pensare che l’unica alternativa ad esso sia, come visto, il caos.

Per la verità qualche traccia dello “stadialismo” fa capolino anche nell’analisi della tendenza allo scontro: e mi riferisco al ruolo che l’autore attribuisce alle catene globali del valore nell’ostacolare un pieno dispiegamento del conflitto. Egli insiste sul fatto che il decoupling voluto dagli Usa per liberarsi dalla dipendenza dalla Cina in materia di semiconduttori ecc. è un processo selettivo che colpisce solo le catene del valore strategiche, non è pienamente riuscito perché la bilancia commerciale degli States è comunque in deficit, e in ogni caso non si è risolto in un vero reshoring, ossia nel riportare a casa la produzione finora dispersa, ma piuttosto in un nearshoring, che ha sottratto alcuni snodi produttivi alla Cina per ricollocarli non tanto negli Usa quanto in altri paesi asiatici o nel Messico. Tutto ciò non elimina affatto, secondo Sciortino, la tendenza alla deglobalizzazione, ma la rallenta di molto: ciò che preoccupa e trattiene le élites americane è insomma il costo molto alto del decoupling, e della guerra tout court. Ora, si potrebbe osservare che le recenti mosse di queste élites (ossia la guerra alla Russia e quindi – come nota giustamente Sciortino – alla Cina) non sembrano indicare una predilezione per la lentezza. E si potrebbe aggiungere che il reshoring è comunque in atto, giacché mira principale di Trump (che ha inaugurato il vero decoupling, Biden non essendo che una variante tattica di questa scelta) non era certo l’eliminazione del deficit, ma il sottrarre comunque snodi produttivi alla Cina, ovunque questi vadano poi a ricollocarsi. Ma la tendenza allo scontro e alla guerra non si desume, a mio avviso, solo dalla pur significativa analisi fattuale, bensì anche dal ruolo che all’interno del mercato mondiale gioca proprio quell’interdipendenza che, nelle vesti dell’internazionalizzazione della produzione, parrebbe essere un ostacolo alla guerra e costituire per alcuni (ma non certo per Sciortino) l’autorizzazione ad immaginare futuri irenici. In realtà l’interdipendenza produce effetti assai contraddittori. Essa infatti non ha solo la funzione di unire e di spingere alla fratellanza, ma anche quella di dividere e creare inimicizia, giacché se io dipendo da quello che tu produci posso essere tentato di porti sotto il mio dominio per disporre liberamente del tuo prodotto. Insomma: in un sistema tendenzialmente cooperativo l’interdipendenza rafforza i legami; in un sistema altamente conflittuale, come quello in cui viviamo, essa invece genera legami puramente transitori che celano una tendenza immanente allo scontro. Dunque: la (inter)dipendenza trai diversi spazi economico-politici è uno dei motivi principali del conflitto, anche se in certi momenti pare frenarlo. Più in generale: la guerra è certamente antieconomica, ma ciononostante è: se i più importanti dissidi economici spiegano in larga misura l’origine delle guerre, e se l’equilibrio postbellico può essere tale solo se risolve quegli stessi dissidi, se, detto altrimenti, l’economia spiega sia l’origine della guerra che la sua fine, nella preparazione e nella conduzione della guerra stessa i costi economici sono invece soltanto una variabile fra le altre.

Ma torniamo direttamente alla questione del multipolarismo. Sciortino riconosce che alcune regioni economiche si sono già formate all’interno della globalizzazione, così come riconosce che l’azione attuale della Cina consiste anche nella creazione di uno spazio regionale autonomo che, unito allo sviluppo del mercato interno, le consenta di resistere alla strategia di accerchiamento da parte degli Usa. Lo riconosce ma considera tutto ciò come una variante della globalizzazione e non come una potenziale, stabile, alternativa. Questa valutazione a mio avviso non dipende tanto dai fatti, quanto dall’interpretazione, ovvero dall’idea, stadiale, della mondializzazione come destino (e del governo mondiale come sua unica forma politica razionale). Invece, in un’interpretazione ciclica che mi pare più ragionevole nulla impedisce che le connessioni del mercato mondiale regrediscano o mutino di forma, e che, pur mantenendo o generando catene del valore in parte analoghe a quelle attuali, un multipolarismo possa gestirle mediante accordi politici. Non si tratterebbe, nel caso, di una sconnessione del mercato mondiale, ma di una sua diversa articolazione. Sia chiaro, qui non sostengo che non vi siano stadi nel capitalismo e che i cicli del capitalismo stesso consistano nell’eterno ritorno delle identiche cose; sostengo piuttosto che lo stadio non sia definibile soprattutto dal tipo di connessione economica e che questa non imponga, in ogni caso, una univoca soluzione politica. Detto diversamente: ciò che è irreversibile nella configurazione attuale del mondo non è l’internazionalizzazione produttiva (che può regredire e/o mutare forma)  ma è piuttosto il fatto che, a causa dell’estensione veramente globale dello spazio economico-politico e a causa della differenziazione e della forza di tutte le componenti territoriali e statuali di questo spazio, nessuno può ormai essere il Signore del mondo se non a costo di dissanguarsi completamente, né vi sono tendenze obiettive che costringano a un governo mondiale. E quindi il multipolarismo è l’unica soluzione razionale, e razionalmente prevedibile.

 

Quale multipolarismo?

Dobbiamo però essere coerenti. Supponendo come sopra (e non se ne può fare a meno) la permanenza di un significativo flusso di scambi interregionali, dobbiamo necessariamente supporre che il lato negativo dell’interdipendenza possa funzionare anche in caso di multipolarismo. Ciò significa che parlare di multipolarismo non basta e che uno stabile assetto multipolare è possibile solo sulla base di una drastica riduzione della tendenza alla massima valorizzazione del capitale, che è causa principale dell’impulso al dominio di un polo sugli altri. In assenza di ciò, e qui avrebbe ragione Sciortino, il multipolarismo si alternerebbe costantemente al caos, in un nuovo ciclo fatto di equilibri transitori e successive lotte per l’egemonia. Ma i costi dell’egemonia mondiale e la memoria dei risultati della corsa dissennata al profitto potrebbero favorire la costruzione di un multipolarismo capace di repressione finanziaria e di controllo politico dell’economia (magari attraverso la creazione di una moneta simile al bancor ipotizzato a suo tempo da lord Keynes). Una simile soluzione dovrebbe essere uno degli obiettivi della lotta di classe interna a ciascuno dei poli e potrebbe a sua volta, quando e se attuata, favorire quella stessa lotta avendo eliminato o decisamente indebolito il nemico fondamentale delle classi subalterne di tutto il mondo, ossia la libera circolazione dei capitali. Ecco un possibile nesso tra guerra e rivoluzione. Ora, Sciortino non esclude affatto, un multipolarismo come soluzione instabile, transitoria e, alla meglio, “riformista”: ma considerandola appunto come una falsa soluzione non vi si sofferma, non aiuta a concettualizzarla e a definirne i problemi. E meno ancora, quindi, aiuta a definire i problemi del nesso tra lotta di classe e nazione in Italia, posto che la costruzione di uno spazio internazionale regionale che possa essere sede di politiche socialiste, presuppone anche per l’Italia la definizione di un interesse nazionale (che, nella mia idea, è l’interpretazione dal punto di vista delle classi subalterne dei vincoli geopolitici obiettivi) come base per la negoziazione con altre nazioni.

Nonostante tutto ciò la posizione di Sciortino ci spinge utilmente a formulare qualche interrogativo su un multipolarismo che troppo spesso invochiamo come salvifica soluzione a prescindere dalle sue caratteristiche attuali e future, e a prescindere dal ruolo che in esso dovrebbe avere il nostro paese. Per quale modello di multipolarismo, per quale regolazione degli scambi e dei flussi di capitale propendiamo? Di quale regione geopolitica dovremmo far parte, noi, in questo ipotetico modello? Saremmo una spina nel fianco dell’Europa per conto dei Brics, o per conto degli Usa? Saremmo parte di una regione europea completamente riformata, o addirittura di una regione eurasiatica? Saremmo il perno di una rinata opzione mediterranea? Rispondere a queste domande, o, più realisticamente, iniziare a impostarle, sarebbe compito primario di una forza politica degna di questo nome.

 

La Cina: socialismo o capitalismo “minore”?

E veniamo alla Cina. Qui più che altrove si mostra che il giudizio di Sciortino, come il mio dissenso da esso, non deriva dai fatti (di cui il nostro fornisce una ricostruzione dettagliata e – per quanto posso saperne io – largamente condivisibile), ma dalla loro interpretazione. Della Cina Sciortino dice infatti tutto il bene possibile: per lui essa è un paese in cui l’accumulazione originaria non ha mai condotto all’espropriazione integrale dei contadini e alla loro integrale proletarizzazione; un paese in cui alle protezioni comunitarie tipiche del passato precapitalistico si sono aggiunte protezioni di tipo nuovo che hanno consentito la formazione di nuclei familiari operaio-contadini capaci anche di libera iniziativa artigianale e commerciale; un paese che è oggi definibile come la patria della lotta di classe – che lì si sviluppa in forti ondate recepite e mediate positivamente dal Pcc – e che per questo è il paese più democratico del mondo. Dice inoltre che il Pcc è un partito-stato non manipolabile a piacimento dalle élite capitalistiche interne ed esterne, e che per questo, nonché per il contrasto agli Usa, non può essere paragonato a un mero stato “sviluppista”; dice infine che essa, la Cina, instaura con i paesi in cui investe un rapporto non predatorio e non imperialista, e che quindi anche per ciò la sua azione è destinata ad acuire la crisi del capitalismo mondiale. Ma… .Ma tutto questo non è per Sciortino altro che espressione di un particolare tipo di capitalismo: l’accumulazione della presunta (per Sciortino) fase socialista (maoista) è stata essenzialmente accumulazione di capitale, ancorché incompleta e corretta da istituzioni non già socialiste ma precapitaliste; il denghismo è stata una fase di forte (pur se non totale) apertura al capitalismo interno ed esterno;  le epoche successive hanno visto, e vedono soprattutto sotto la reggenza di Xi Jinping, una benevola apertura di tipo “socialdemocratico” alla lotta di classe, usata però a fini di sviluppo capitalistico, e più precisamente ai fini del passaggio da uno sviluppo estensivo basato sul plusvalore assoluto ad uno intensivo facente perno sul plusvalore relativo. Infine se la Cina stabilisce rapporti non imperialistici coi partner minori è solo per via dell’arretratezza del suo capitalismo: si tratta di relazioni non ancora imperialistiche, pronte a mutarsi in qualcos’altro.

A quanto sopra si possono muovere diverse obiezioni di dettaglio. L’accumulazione del capitale, giusta Marx, è soprattutto accumulazione di rapporti sociali, e più precisamente è la separazione forzosa dei lavoratori dai mezzi di produzione: se tale separazione avviene solo parzialmente, si può parlare di accumulazione originaria solo parzialmente capitalistica. L’aver utilizzato forme precapitalistiche di protezione dei contadini non depone a sfavore del carattere socialista del sistema, sia perché l’averle confermate è pur sempre una scelta politica, sia perché esse sono state affiancate, al tempo di Mao, da altre istituzioni collettivistiche che, qualunque sia stata la loro efficacia (e Sciortino considera comunque quella fase come la base del successivo sviluppo cinese) avevano un carattere socialista dimostrato anche dal fatto che il denghismo ha dovuto in parte smantellarle. L’attuale tendenza del Pcc alla valorizzazione del mercato interno (e quindi all’aumento dei salari, dell’occupazione e del welfare) non è puramente socialdemocratica giacché l’esperienza socialdemocratica era una mediazione sociale fatta in presenza di una classe capitalistica economicamente e politicamente dominante, cosa che, per ammissione dello stesso Sciortino, non si può dire egualmente della “borghesia” cinese, pubblica e privata. Infine, il fatto che il capitalismo cinese (che, beninteso, per quanto non dominante esiste ed è forte sia fuori che dentro il Pcc) sia meno sviluppato di quello occidentale non significa che non possa essere imperialista, vuoi perché si danno casi di “imperialismo straccione” (e noi italiani ne sappiamo purtroppo qualcosa), vuoi perché l’imperialismo è questione di forza relativa, e la forza cinese è certamente soverchiante rispetto a quella di molti dei suoi partner. Quindi se la Cina non è imperialista non è per un caso, ma per l’attuale (e non necessariamente eterna, bisogna riconoscerlo) mancata fusione tra i gruppi dirigenti statuali e le pulsioni “ipervalorizzatrici” delle élite capitalistiche, che favorisce relazioni internazionali improntate più al calcolo strategico che al massimo profitto.

Queste obiezioni però, in ogni caso, non potrebbero da sole modificare la posizione di Sciortino perché questa mi pare condizionata, pur se non integralmente, da un assunto preliminare, tipico della storica sinistra comunista, secondo cui la rivoluzione cinese porta lo stigma di tutte quelle “rivoluzioni” che, sfumata l’ondata proletaria del primo dopoguerra, hanno ripiegato su una dimensione nazionale nella quale è possibile soltanto lo sviluppo del capitalismo, e ciò soprattutto quando si parla di paesi “arretrati”. Come la rivoluzione russa, anche quella cinese ha quindi dato vita, secondo questa scuola, soltanto a un nuovo tipo di capitalismo, non a un abbozzo di società socialista. Inoltre in occidente le strategie nazionali hanno condotto al massimo a soluzioni socialdemocratiche che sono state il preludio dell’assorbimento del movimento operaio nello stato borghese. That’s all, folks. Polemizzo con queste posizioni dal secolo scorso, e riprendere tutta quella discussione sarebbe qui sforzo sterile. Ho sempre riconosciuto alla sinistra comunista – oltre al notevole rigore morale di molti dei suoi anziani militanti – il merito di aver sottolineato il punto oscuro della strategia prevalente, la quale non ha compreso che la “progressiva conquista” dell’egemonia nella società e nello stato avrebbe in realtà comportato, soprattutto in un periodo di crescita capitalistica, l’assorbimento e la metamorfosi dello stesso movimento comunista. Ma quella corrente di pensiero dovrebbe ormai riconoscere che la irridente ironia della storia non colpisce soltanto, per capirci, l’operato di un Togliatti, ma anche quello di chi, per aver predicato da un secolo la rivoluzione in tutto il mondo, non è riuscito ad organizzarne nemmeno una in nessun luogo. Ciò che la posizione in parola non considera fino in fondo è che è necessario elaborare una teoria della transizione che realisticamente preveda la convivenza, per lunghe fasi, di capitalismo e socialismo. Una convivenza che può essere risolta in senso positivo solo – questo è vero – in presenza di determinate condizioni internazionali, ma anche a condizione della diffusa presenza di forze politiche di massa che non si costruiecono agitando un modello di comunismo integrale e quasi immediato.

Il libro di Sciortino, in ogni caso, non può essere linearmente inquadrato nelle ristrette coordinate di cui sopra, anche perché l’autore, definendo come (social)democratica la lotta di classe in Cina, non intende per questo sminuirla, ma vuole valorizzarne l’ambiente di origine e le potenzialità. Inoltre è ricorrente, nel libro, il riconoscimento documentato e convinto del ruolo progressivo svolto oggi dal Pcc in Cina e nel mondo. Si può anche quindi sospendere la polemica sulla definizione della Cina come socialista o meno, contentandosi di una importante convergenza sui punti di cui sopra. Ma ovviamente questo dissidio (che non riguarda solo la Cina, ma tutte le esperienze che si definiscono socialiste) può in prospettiva influenzare non di poco la valutazione dello svolgimento del conflitto attuale, modificando il giudizio sui diversi attori e quindi le previsioni relative al loro comportamento.

 

Delenda Carthago

Infine, un’osservazione di carattere molto più generale. Si tratta, ancora una volta, del rapporto tra critica dell’economia politica e geopolitica. Non mi stancherò mai di dire (da ciò il titolo del paragrafo) che si deve evitare come la peste di giustapporre un’analisi economicista e un’analisi politicista, sommando così i difetti di un marxismo impoverito e di una geopolitica riduzionista. E che quindi si deve costruire un ponte tra le due discipline recuperando l’essenza della critica dell’economia politica, ossia il suo essere analisi dei rapporti sociali che sottostanno alle relazioni economiche, e riconoscendo che la gestione capitalistica di detti rapporti non può perciò limitarsi alla sfera dell’economico ma deve immediatamente far ricorso anche allo stato e quindi a una dimensione territoriale: in tal modo le dinamiche dell’accumulazione e quelle delle strategie geopolitiche risulterebbero da subito concettualmente interconnesse e non meramente giustapposte. Molto più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. Nell’attesa di una teoria del genere è comunque possibile dar vita ad analisi che, appunto, non si limitino ad aggiungere una dimensione all’altra, ma studino quantomeno le interazioni fra le due sfere: ed è quello che Sciortino fa egregiamente in questo libro. Il ritardo teorico a cui ho appena fatto cenno (ritardo imputabile non certo al nostro autore, ma semmai a tutti noi) rende peraltro inevitabili i rischi di economicismo, o di politicismo, che si evidenziano soprattutto quando si abbozzano definizioni generali.

Faccio un solo esempio. In quella che è solo una nota, ma proprio per questo è sinteticamente esplicativa (pag. 77), Sciortino considera la geopolitica come “economia concentrata allo stadio del capitalismo imperialista” che sarebbe cosa del tutto diversa da una “politica di potenza nazionale determinata dalla geografia, dalla civiltà o da qualunque altro fattore essenzializzato a variabile indipendente”, perdendo così nella definizione del concetto quella interazione fra piani che lui stesso attua invece nella pratica. Infatti la “nostra” geopolitica non può essere analisi economica opposta a quella “interstatuale”, ma dimostrazione del loro nesso: altrimenti ci impediremmo di capire proprio quello che oggi diviene vieppiù essenziale, ossia, ripeto, quelle caratteristiche di tipo storico-geografico (si pensi, ad esempio, per la guerra in Ucraina, all’assenza di barriere naturali sul confine occidentale della Russia) che se non spiegano le cause delle guerre ne spiegano però le modulazioni, ossia l’origine, la conduzione, e la conclusione. Ripeto, si tratta solo di una nota in calce, né si può dire che Sciortino ne segua linearmente le indicazioni. Ma quelle poche righe mostrano, credo, oltre alla pignoleria del recensore, anche le incertezze teoriche che ancora condizionano tutti noi.

Comments

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gio
Tuesday, 25 April 2023 14:52
Sul multipolarismo si potrebbe riflettere partendo da una analisi storica diversa da Sciortino e Porcaro. Il multipolarismo è insito nella separatezza dell’evoluzione della Cina Popolare rispetto all’economia finanziariamente globalizzata, dalla quale attinge soltanto capitale produttivo praticando la repressione finanziaria. La multipolarità è una sua esigenza, e si basa sull’estensione a livello multinazionale della valorizzazione del capitale produttivo, che nella globalizzazione si scontra con il capitale finanziario dominante.
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Franco Trondoli
Wednesday, 26 April 2023 11:37
Il Capitale produttivo non può continuare all'infinito. Si scontra con i suoi limiti interni ed esterni. Per questo che in Occidente c'è l'incremento "infinito" della finanza, i margini di profittabilita' si sono ridotti. Il Capitalismo si e' espanso e si espande in tutto il globo finché è possibile. La Cina incontra gli stessi problemi dell'Occidente prima o poi. Ce li ha già. Hanno giganteschi problemi ambientali. Acqua in primis. È un sistema mondiale basato sulla distruzione /alterazione della natura, compreso gli esseri viventi. Non dovrebbero esserci dubbi su questo. Tutto è uno. Il Mondo, " il capitalismo ", l'occidente e l'oriente, la natura e gli esseri viventi. Non esiste il multiplo c'è solo un unicoverso.
Cordiali Saluti
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Alfred
Sunday, 23 April 2023 10:46
Non ho letto il libro di Sciortino, scusate. Commento un commento. Ancora una volta.
Lo commento da ignorante.
Alcune cose.
Al di la di come si sia innestato il marxismo in Cina, quella nazione ha una base culturale millenaria e un imperativo di fondo legato alla sopravvivenza di unita' nazionale in condizioni di sovrapopolamento. Tutti i poteri che hanno portato stabilita' e pace interna sono stati graditi ai cinesi e denominati in antico come conformi al mandato del cielo. Ieri come oggi chiunque sia a capo della Cina deve tenere conto di sovrapopolazione, alimentazione, pace sociale e sviluppo. Attualmente potere condito in salsa socialista-confuciana, ma non in un socialismo statico e dogmatico. Forse in sintonia con una Cina che non ha mai avuto assoluti religiosi. Nella storia niente ha impedito ai cinesi di frequentare templi buddisti, ricorrere a taumaturghi taoisti e seguire Confucio, contemporaneamente.
Le menti del nostro mondo sono state forgiate su assoluti, ne siamo infarciti, spesso senza neanche rendercene conto.
Parto da questo per dire che i cinesi partiranno dai loro imperativi interni (unita' della nazione, pace interna, cibo e sviluppo) per muoversi duttilmente sia nel marxismo che nei rapporti geopolitici.
Lo sviluppo ha portato a grandi sconvolgimenti interni, ha portato molto, ma ha ridotto autonomia alimentare (prima dell' arrichitevi compagni era vietato cementificare le basi alimentari del territorio).
La Cina (e i suoi capitali) non muovono guerre, cercano di ridurre i conflitti e investono nelle loro vie della seta a seguito di loro interessi in primis materiali .... in salsa socialista? anche, laddove utile, laddove non utile trovano soluzioni pragmatiche.
Sopra ci si chiede se gli Usa vogliono dissolvere la Cina come con l'urss. I cinesi che governano la Cina (marxisisti, oggi) hanno visto all'opera gli Usa. Credo che a studiare (oltre che spiare con discrezione) le mosse di quella nazione (e dei poteri economici che esprime) abbiano dedicato e dedichino forze che noi non possiamo neanche immaginare. Non perche' siamo stupidi, semplicemente sottovalutiamo le loro reali forze e capacita' nonche' dimensioni fisiche e di popolazione. Dall'idea che mi sono fatto se non stanno fermi in attesa di mosse altrui e si muovono vuol dire che sanno di essere un passo avanti agli altri e che non avranno ostacoli. Anche se costretti a reagire da impulsivi attacchi altrui la reazione e' sempre commisurata alla forza che sanno di poter esprimere.
Embe'?
sono scaltri e studiano seriamente, ma hanno anche molti punti deboli, lo sanno e ... mediano, contrattano, cercano relazioni cosidette win win perche' convengono anche a loro.
Cosi facendo erodono lo spazio politico della maggiore potenza mondiale.
A noi non viene in mente di porci la domanda: cosa vogliono fare degli Usa i cinesi? No a noi viene sempre e solo in mente cosa gli Usa e i loro capitalisti vogliono fare di Taiwan e della Cina, ma e' piu probabile che sara' la Cina e le sue tessiture di relazioni a fare qualcosa degli Usa...
in senso social comunista? ... se la Cina determinera' il mondo non e' detto che ... restera' marxista confuciana ...

La lotta di classe, la lotta di classe ha bisogno di lettori e narratori sociali che la tengano viva, di proselitismo e di masse che ci si riconoscano.
Abbiamo visto tempi in cui e' stato possibile, ma abbiamo visto che non esistono dogmi nell' identificarsi ... un po' come con l'approccio cinese alle religioni .
Quindi lotte di classe pragmatiche e opportuniste?
ma a partire da quale inseminazione sociale?
non esiste un marxismo per generazione spontanea,
esistevano rivolte contro il potere anche prima e ne sono esistite anche dopo senza relazione con questo pensiero o consapevolezza.
Mi chiedo anche, soprattutto, come si pongono problemi simili su marxismo, lotta di classe e geopolitica un cinese o un indiano o un indonesiano .. non e' banale... noi siamo parte di una parte minoritaria della terra e lo saremo sempre di piu' ...
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