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Le quattro fasi dell’era post sovietica

di Fulvio Bellini

Immagine per home articolo Bellini.jfif Premessa: i tre livelli di lettura de “La fine della storia e l’ultimo uomo”

Nel 1992 venne pubblicato un libro particolare, che immediatamente suscitò un acceso dibattito dividendo il campo tra dichiarati avversari e segreti estimatori: La Fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama. Nonostante il successo di pubblico, si trattava di un libro dedicato alla classe dirigente occidentale, ed in particolar modo statunitense, celebrativo della “presunta” vittoria, e spiegheremo perché presunta, del cosiddetto mondo libero sull’Unione sovietica e sul blocco del socialismo reale. Negli anni novanta le élite occidentali furono pervase da un autentico delirio d’onnipotenza che Fukuyama ebbe lo spirito cortigiano ma anche un innegabile coraggio di tradurre in un libro allo scopo d’ammantarlo in una nobile veste tessuta di filosofia della storia. Il politologo statunitense, in nome e per conto delle élite occidentali, annunciava “urbi et orbi” che la Storia universale dell’uomo, non intesa come concatenazione cronologica di avvenimenti, ma come movimento complessivo dell’umanità espresso nel termine tedesco di Weltanschauung, era finalmente giunta al suo epilogo. Questa tesi del libro, ma attenzione non l’unica, si concentrava sull’analisi delle ragioni che avevano determinato le sconfitte in tutto il mondo da un lato del “totalitarismo comunista” e dall’altro dei regimi dittatoriali di destra, disfatte che avevano aperto la via, come se le acque del Mar Rosso si fossero nuovamente aperte di fronte a Mosè, all’affermazione mondiale della democrazia liberale e del suo indissolubile “compagno di strada”: il capitalismo del libero mercato. Sottoposto ad una critica marxiana, nel libro di Fukuyama è possibile scorgere tre livelli di lettura: uno che riguarda la distorta interpretazione filosofica della storia degli anni novanta; uno che attiene più propriamente alla delineazione di una ideologia del mondo Occidentale; ed una che individua involontariamente un nuovo ciclo storico.

Dal punto di vista di filosofia della storia il testo di Fukuyama è del tutto opinabile, riguarda l’aspetto celebrativo che nasce da una sequenza di eventi degli anni novanta che potevano dare adito all’interpretazione della vittoria americana nella guerra fredda. Ma a differenza dell’affermazione di Ottaviano Augusto su Marco Antonio, la fine della pluridecennale sfida tra USA ed URSS non fece seguire affatto la “Pax americana”, bensì una brutale serie di regolamenti di conti in puro stile gangsteristico e di conflitti. In altre parole, la vittoria delle democrazie liberali e dell’indissolubile socio, il liberismo senza regole, fu immediatamente portatrice di sciagure sia al di qua che al di là della cortina di ferro. Sul banco degli imputati per lesa maestà nei confronti della Casa Bianca finirono, a vario titolo e con diverse condanne: la Repubblica democratica tedesca, l’Italia, la Jugoslavia, l’Iraq, e sotto un certo punto di vista anche la Gran Bretagna con la controversa morte della principessa del Galles Diana Spencer che fece da viatico ai governi più che collaborazionisti targati Tony Blair e Gordon Brown. Al contrario della sua risibile analisi filosofica e storica, l’impalcatura ideologica fornita da Fukuyama alle bisognose classi dirigenti americane ed in subordine europee è stata quella che ancora oggi pervade la cultura politica del mondo occidentale. Anzi, mai come oggi, nella crisi dell’impero americano, la “Fine della storia e l’ultimo uomo” fornisce cemento ideologico ad una borghesia declinante e per questo sempre più dispotica su entrambe le rive dell’Oceano atlantico. Fukuyama scrive le tavole della legge: la democrazia liberale fondata sui partiti è l’unica forma di rappresentanza della volontà popolare possibile; il sistema capitalistico è l’unica forma d’organizzazione economica affidabile; la salvaguardia di alcune forme di diritti sono la ragione suprema del fare politica. Per il politologo questi diritti sono di tre tipologie, il virgolettato cita il testo: quelli civili “l’esenzione dal controllo (da parte dello Stato N.d.R.) del cittadino per quanto riguarda la sua persona e la sua proprietà”; diritti religiosi “l’esenzione dal controllo per quanto riguarda l’espressione di opinioni religiose e la pratica del culto”; e diritti politici “l’esenzione dal controllo in materie che non riguardano il benessere dell’intera comunità in maniera talmente chiara da rendere necessario il controllo stesso”. Mancano all’appello i diritti economici e sociali e segnatamente quelli del lavoro, di un’equa tassazione, di una corretta redistribuzione del reddito che teoricamente dovrebbero essere i capisaldi di una politica socialdemocratica nell’ambito di un sistema di democrazia liberale. Su questo punto però Fukuyama è chiaro e perentorio: “Quella di premere per il riconoscimento di vari diritti economici di seconda e terza categoria, quali il diritto al lavoro, alla casa e all’assistenza sanitaria, è stata prassi comune a tutti i paesi socialisti. Ma un simile allargamento della lista presenta un grosso problema, e cioè l’incompatibilità del riconoscimento di questi diritti con quello dei diritti di proprietà e di libero scambio”. Questo passaggio fondamentale è alla base del definitivo divorzio tra i diritti civili e sociali, disgiunzione necessaria per elevare i privilegi ed i vizi della classe borghese dominante al rango di diritti civili, fenomeno giunto al suo compimento ai nostri giorni. Un altro concetto di Fukuyama è oggi alla base del processo di mitizzazione del sistema democratico, che non deve essere sostanziale ma solo formale: “La democrazia invece è il diritto universale ad aver una parte del potere politico, ovvero il diritto di tutti i cittadini di votare e di partecipare all’attività politica…. Nel giudicare quali paesi siano democratici, noi ci atterremo ad una definizione della democrazia strettamente formale. Un paese è democratico se permette ai propri cittadini di scegliersi il governo che vogliono attraverso elezioni periodiche, pluripartitiche e a scrutinio segreto in base a suffragio universale ed eguale”. Votare non è più il mezzo di espressione della volontà popolare per far prevalere una determinata linea politica, ma è semplicemente un atto fine a sé stesso in quanto l’elettore si trova a scegliere partiti dai programmi sostanzialmente identici. Ecco la ragione per la quale è corretto affermare che la democrazia liberale incentiva l’astensione. Fermiamoci qui per quanto attiene a questo articolo. Resta solo da far notare che, a puro titolo di esempio ed al di là delle distinzioni meramente folkloristiche, questi principi ideologici in Italia uniscono i Neocon di Giorgia Meloni ed i Radical Chic di Elly Schlein, che nel teatro della politica nostrana vengono mandati in scena con i costumi di destra neo o postfascista e di sinistra socialdemocratica; inganno esiziale che perdura nel tempo come procede speditamente la trasformazione dell’Italia in un paese sudamericano dello scorso secolo, cambiamento promosso dagli Stati Uniti tramite il proprio legato Mario Draghi. Il terzo livello di lettura de “La fine della storia” è finalmente l’oggetto del presente articolo. Fukuyama, conscio del fatto che i numerosi padri nobili della democrazia liberale e del liberismo in economia sono stati più volte smentiti dalla teoria e dalla prassi, richiama continuamente i grandi pensatori ed i rivoluzionari del campo avverso a cominciare dallo stesso Hegel, per continuare con Marx, con Lenin e con il prodotto dell’azione rivoluzionaria di quest’ultimo: l’Unione Sovietica. Questa strana necessità dell’autore ci induce a considerare il 25 dicembre 1991, data del definitivo ammaina bandiera sovietica al Cremlino, come una sorta di anno zero per una certa visione della storia recente, nella quale si è assistito all’imposizione di una determinata ideologia, quella appunto contenuta nel libro di Fukuyama e che oggi spadroneggia nel solo mondo occidentale. Tuttavia, essendo solo ideologia, non ha potuto arginare altre visioni della storia che si sono affermate, e vi è una ragione precisa perché visioni plurali si sono avute già a cavallo tra i due secoli in quanto dentro “La fine della storia e l’ultimo uomo” è nascosta una grande bugia che finalmente sta venendo alla luce: gli Stati Uniti non hanno mai vinto la Guerra Fredda.

 

La prima fase: l’illusione occidentale della vittoria

Il 20 marzo 2023, data della visita del Presidente cinese Xi Jinping a quello russo Vladimir Putin a Mosca, è iniziata la quarta fase della storia post sovietica del nostro pianeta. Se siamo entrati nella quarta fase significa che ve ne sono state tre precedenti e per spiegarle in modo sintetico ma il più chiaro possibile, useremo l’interessante divisione degli avvenimenti in differenti fasi usata da Fosco Giannini nei suoi incontri pubblici: la prima nella quale gli Stati Uniti sembrarono affermare la propria egemonia su tutto il mondo e che permise loro di regolare i conti con tutti coloro che non si erano “comportati bene” durante i precedenti decenni di Guerra fredda; la seconda nella quale vi fu un’inaspettata reazione alla “non Pax americana” da parte di un gruppo di paesi sudamericani, dalla Russia del nuovo corso impresso da Vladimir Putin e dall’affermarsi del socialismo con caratteristiche cinesi; la terza nella quale gli Stati Uniti reagirono duramente contro queste forme d’insubordinazione; la quarta, recentissima e proposta da chi scrive, contraddistinta dalla definizione di un “casus belli” possibile. Un’ultima notazione: confini precisi ed uniformi delle prime tre fasi storiche non è possibile definire, se abbiamo una data d’inizio, il passaggio alle successive è contraddistinto da sovrapposizioni temporali e differenziazioni geopolitiche. Per essere più chiari: mentre in Sud America erano in corso le esperienze socialiste che vedremo appartenere alla seconda fase, negli Stati Uniti, Europa e di rimando in Cina si era già entrati nella terza, quella della reazione americana. Gli anni novanta sono legati alla prima fase, e tutt’ora sono anni poco studiati, ammantati appunto da un alone mitico datogli proprio dall’impronta ideologica propugnata da un mondo intellettuale e politico che si è mosso all’unisono con Francis Fukuyama. Se in Italia, a titolo di esempio, gli Stati Uniti pretesero la fine dell’economia mista, e quindi dei partiti che la proteggevano, Democrazia Cristiana innanzitutto, nemmeno il Partito Comunista Italiano fu graziato, semplicemente la sua esecuzione capitale fu affidata a dirigenti interni e collaborazionisti piuttosto che alla Procura della Repubblica di Milano come accaduto per la DC e per il PSI. Si tratta di sentenze di morte a sistemi politici ed economici che si attuarono in diverse modalità innanzitutto nei due principali “paesi canaglia” dell’epoca della Guerra Fredda: l’Italia appunto, colpevole di aver creato un sistema economico eversivo all’interno del capitalismo, e la DDR, colpevole di aver creato un sistema di socialismo reale potenzialmente attraente per il mondo occidentale. Nel caso tedesco, sempre a titolo di esempio, si rimanda al famoso assassinio del Presidente della Deutsche Bank Alfred Herrhausen avvenuto il 4 dicembre 1989, attribuito alla Rote Armee Fraktion ma probabilmente ispirato dai servizi segreti di Bonn. L’interesse del governo tedesco risiedeva nell’eliminare la mente della strategia d’unificazione imperniata sul principio di “uno stato – due sistemi” a favore della linea di Helmuth Kohl di liquidazione della DDR e della sua annessione alla Repubblica federale “manu militari”. L’assassinio di Herrhausen è stato un punto di svolta fondamentale per la storia europea, in quanto il modello di annessione adottato in Germania fu sostanzialmente replicato nei confronti di tutti gli altri paesi del blocco ex sovietico. Tale modello di annessione, che prevedeva la totale cancellazione dell’organizzazione produttiva e sociale dei paesi dell’est e la loro brutale ed immediata assimilazione ai sistemi occidentali, rendeva però obsoleta ed inadeguata la vecchia organizzazione della Comunità europea e fu questa la ragione che determinò i 12 governi della vecchia CEE ad adottare d’urgenza il trattato di Maastricht il 7 febbraio 1992. L’Europa occidentale voleva partecipare al banchetto del patrimonio industriale dei paesi orientali, lasciando agli Stati Uniti il desco principale: la Russia di Boris Eltsin. Grazie a questo tacito accordo, la Germania riunita fu in grado di costruire la sua poderosa organizzazione industriale che l’ha resa locomotiva d’Europa fino ad oggi. L’acquisizione a prezzi di saldo dei complessi industriali orientali, come il caso della ceca Skoda entrata nel gruppo Volkswagen già nel 1991 unitamente ai suoi operai qualificati, permise ai tedeschi di delocalizzare la filiera dei semi lavorati e della componentistica in paesi efficienti ma dal lavoro a basso costo, concentrando le produzioni ad alto valore aggiunto in Germania dove il costo della manodopera era più alto. Questo schema coinvolse anche il nord Italia, le cui piccole e medie imprese, perduti per sempre i grandi committenti pubblici, dovettero rivolgersi ai nascenti conglomerati teutonici, e per fare questo dovettero comprimere il costo della loro manodopera, processo subito iniziato con l’abolizione della scala mobile avvenuta il 31 luglio 1992. Non appagata dalla realizzazione di questa catena del valore industriale, già a partire dal 1998 Berlino pensò di dotarsi di vie per l’importazione diretta del conveniente gas naturale russo con il quale fornire di abbondante energia la sua struttura manifatturiera. Questo progetto si concretizzò il 6 settembre del 2011 con la messa in esercizio del North Stream 1, al quale la cancelliera Angela Merkel cercò di far seguire subito il North Stream 2 in modo da rendere ancora più performante l’industria tedesca, e difatti il North Stream 2 era pronto ad entrare in esercizio già agli inizi del 2022. Ma il governo tedesco nel frattempo era cambiato e pure gli interessi degli Stati Uniti, ed il sabotaggio di entrambi i gasdotti effettuato dagli americani nel settembre dello scorso anno ha messo la parola fine al sistema di creazione di valore “mitteleuropeo”. Gli anni novanta furono invece fulgidi per la Germania unita e per il suo sistema continentale, non più CEE e non ancora Unione Europea, tanto da guadagnarsi, suo malgrado, lo scomodo titolo di “perla” dell’Impero americano. Una breve digressione in merito. Col termine di “perla” di un impero s’intende un paese che per svariate ragioni, economiche innanzitutto, ma anche strategiche e geopolitiche, rappresenta il cuore pulsante di tutto un sistema di dominio, a prescindere dalla sua estensione. La perdita della “perla” determina anche la perdita dello status di “egemone”, cioè di paese al centro di un potere politico, finanziario ed economico diffuso sia direttamente nei territori dominati, sia indirettamente nei confronti di paesi terzi. Facciamo alcuni esempi storici: la perla dell’impero veneziano (di ridotte dimensioni perché aderente al modello fenicio) fu l’isola di Creta, la cui perdita nel 1689 determinò il tramonto definitivo della Serenissima quale attore rilevante nella politica europea. La perla dell’Impero spagnolo, e potrebbe essere sorprendente notarlo, non furono mai i suoi estesi domini americani oppure le Filippine, bensì le Fiandre, e la loro perdita avvenuta con la pace di Utrecht del 1713 determinò la fine del ruolo egemone della Spagna in Europa ed il definitivo passaggio del testimone a favore della Gran Bretagna. Le colonie inglesi in nord America non rappresentarono mai la “perla” dell’impero inglese, ed infatti la loro perdita avvenuta nel 1776 non determinò alcuna crisi nel crescente ruolo egemone di Londra. La perla dell’Impero britannico era l’India ed infatti la sua perdita avvenuta il 15 agosto 1947 determinò la liquidazione di tutti i domini inglesi ed il trasferimento del ruolo di egemone agli Stati Uniti. Anche Washington ha la sua “perla” ed è appunto la Germania: la difesa di tale possesso ha determinato la politica americana del dopoguerra, a cominciare dalla scelta del fronte da chiudere a seguito della fondamentale sconfitta militare in Vietnam. Non è un caso che l’allora Segretario di stato USA Heinz Alfred Kissinger, detto Henry, nato a Fürth in Baviera non ebbe alcun dubbio sul chiudere il fronte cinese e concentrarsi in Europa contro l’URSS fino alla “vittoria” del 1991 grazie all’uso massivo dell’arma “dollaro inconvertibile”. Eppure su questa vittoria vi è un mistero da approfondire. Se gli Stati Uniti avevano sconfitto l’URSS ed alleati, se il dollaro aveva conquistato nuovi mercati di trasformazione in materie prime e beni di consumo ed era riuscito a mettere le mani sull’immenso patrimonio sovietico attraverso Eltsin ed ex funzionari pubblici corrotti divenuti oligarchi, perché i tre principali indicatori macro economici americani peggiorarono in quel decennio di “successi” planetari. Il debito pubblico federale nel 1990 ammontava a 3.233 miliardi di dollari, nel 1995 era salito a 4.973 miliardi, raggiungendo 5.556 miliardi nel 1999; la bilancia commerciale nel 1990 era negativa per 77,58 miliardi di dollari, nel 1995 negativa per 89,76 miliardi ed alla fine del 1999 in rosso per la ragguardevole cifra di 259,55 miliardi; Infine la bilancia dei pagamenti nel 1990 era negativa per 78,95 miliardi, nel 1995 negativa per 113,56 miliardi ed infine nel 1999 raggiunse i 286,62 miliardi di deficit. Negli anni novanta si palesò la contraddizione di un paese formalmente vincitore di un aspro conflitto con l’altra super potenza, che tuttavia si ritrovava performance di bilancio da paese “quasi sconfitto”, sulla falsariga di quanto era avvenuto alla Gran Bretagna alla fine della seconda guerra mondiale. Eppure i benefici di questa “vittoria” si potevano verificare nel sostanziale raddoppio del PIL americano di quel decennio: dai 5.963 miliardi di dollari del 1990 ai 9.631 miliardi del 1999. Come si poteva spiegare questa contraddizione? Forse gli Stati Uniti non avevano vinto la Guerra fredda con l’URSS, ma si era realizzata una pace separata tra le due super potenze, separata rispetto agli interessi dei reciproci alleati. Per ragioni diverse, sia Washington che Mosca avevano interesse a chiudere quel capitolo della storia europea eccessivamente costoso per entrambi. Così, mentre Fukuyama e tutta l’intellighenzia e la politica occidentale celebravano la vittoria sul socialismo reale, in quel decennio gli Stati Uniti dovettero abbozzare sui principali scenari strategici: in Europa, permettendo alla Germania riunificata un attivismo politico superiore al tollerabile; in Asia, concedendo a Pechino d’iniziare la lunga marcia che l’avrebbe portata a diventare l’attuale officina del Mondo; e sorprendentemente anche in America latina, considerato il proprio giardino privato.

 

La seconda fase: l’America Latina non è più il “cortile di casa” di Washington

Senza scomodare la famigerata dottrina Monroe per la quale gli Stati Uniti si erano già autodefiniti protettori di tutto il continente nel 1823, è indubbio che nel corso del XIX secolo gli USA indussero direttamente oppure indirettamente le vecchie potenze coloniali europee: Spagna, Gran Bretagna ed in misura minore Francia a lasciare il controllo delle Americhe ai soli Stati Uniti. Tuttavia gli USA non fecero altro che sostituirsi ai vecchi padroni europei nel medesimo rapporto di sfruttamento attraverso il controllo di governi locali più o meno corrotti, dispotici e spesso criminali, ma soprattutto privi di una propria politica estera che non fosse dettata da Washington. Al di là dell’esperienza della rivoluzione messicana del 1910, la vera rottura storica con questo sistema fu indubbiamente la rivoluzione socialista a Cuba di Fidel Castro del 1959. Ma gli Stati Uniti di allora riuscirono a tenere circoscritta questa “infezione” rispetto al resto dell’America latina fino all’esperienza di Daniel Ortega in Nicaragua del quinquennio 1985-1990, che però riguardava un piccolo paese marginale. Alla fine degli anni novanta ed agli inizi del duemila, in un momento quindi di teorica massima forza dell’imperialismo americano, si ebbero invece numerose esperienze “socialiste” in Sud America iniziate da Hugo Chavez in Venezuela dal 1999 al 2013, seguite da quelle di Lula da Silva in Brasile dal 2003 al 2011 (tornato in carica nel 2023), da Evo Morales in Bolivia dal 2006 al 2019, e da Rafael Correa in Ecuador dal 2007 al 2017. Per un breve periodo, persino uno stato tradizionalmente nazistoide come il Paraguay conobbe un esperimento “socialista” con la presidenza di Fernando Lugo dal 2008 al 2012, prontamente destituito. L’esperienza di questi uomini politici segnò profondamente la storia del Sud America, soprattutto perché furono in grado di convincere la casta militare, tradizionale serbatoio di golpisti al soldo degli Stati Uniti, che per loro poteva esserci un ruolo superiore a quello di semplici “Carabineros de Gringos”. I “socialisti sudamericani” offrirono ai vertici militari l’opportunità di assumere un ruolo nella nuova classe dirigente votata al perseguimento degli interessi nazionali ed in grado di elevare quei paesi a ruoli di sempre maggiore rilievo nello scacchiere internazionale. Questa è la ragione fondamentale per la quale un Chavez poté provenire dall’esercito venezuelano e nessun generale brasiliano pensò di rovesciare Lula da Silva. In altre parole, i leader socialisti di quei paesi riuscirono a rompere il secolare sodalizio tra alte gerarchie delle forze armate e la grande borghesia locale, rappresentante e cinghia di trasmissione degli interessi di Washington, portando i primi dalla loro parte. A permettere questa spaccatura, però, non va trascurato l’appannamento del controllo statunitense sull’America latina a cavallo tra i due secoli; gli Stati Uniti degli anni settanta avrebbero immediatamente messo un Augusto Pinochet in Venezuela, in Brasile, in Bolivia ed in Equador. Altro segnale della flessione del potere americano degli anni novanta, nascosto dalla grandeur della vittoria sul socialismo reale, risedette nella modalità colla quale il Sud Africa uscì dal regime dell’Apartheid; sistema sociale simile a quello in voga negli stati del Sud dell’Unione negli anni sessanta e settanta, e tutt’ora in vigore, con modalità estremamente più repressive e sanguinarie, in Israele. Già dal 1994 all’ombra di Nelson Mandela, il Partito comunista del Sudafrica entrò subito nell’Alleanza Tripartita con il Congresso Nazionale Sudafricano ed il Congresso delle Trade Unions, rimanendo stabilmente in maggioranza e partecipando ai governi di Pretoria. Il ruolo dei comunisti è stato poi determinante nella scelta effettuata dal Sud Africa di aderire ad una particolare associazione di Stati, nata in alternativa ai G7 occidentali, denominata BRICS, acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica appunto. Questi paesi hanno iniziato a “frequentarsi” più assiduamente e con uno spirito di marcata collaborazione a partire dal settembre 2006 a New York, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU. Successivamente i ministri degli esteri dei paesi BRIC, a partire dalla riunione tenuta nel maggio 2008 in Russia, si incontrarono periodicamente sempre in occasione dell’Assemblea generale dell’ONU. È in questa sede che, nel settembre 2010, si convenne d’invitare il Sudafrica a partecipare alle riunioni BRIC, modificando conseguentemente l’acronimo in BRICS. La prima posizione comune rilevante in sede internazionale si ebbe con la significativa astensione in Consiglio di Sicurezza sulla Libia nel marzo 2011, mentre il primo incontro a livello di Capi di Stato e di governo si svolse a Toyako (Giappone) il 9 luglio 2008, durante un G8. Questa tipologia di relazioni internazionali speciali e fuori dal controllo americano rappresentò un ulteriore campanello d’allarme per Washington sulla necessità di scrollarsi di dosso l’appannamento che abbiamo descritto e di passare ad una forte e decisa controffensiva su tutti i fronti mondiali.

 

La terza fase: la controffensiva USA e l’indebitamento senza fine

Come abbiamo detto in premessa, la scansione delle tre fasi non è omogenea, e se nel resto del mondo la fase due è durata fino alla fine degli anni dieci, in Europa la fase tre è iniziata già agli inizi degli anni duemila, in quanto teatro principale della controffensiva americana sia per riaffermare il controllo sulla “perla” del proprio impero, la Germania, sia perché scontenti del nuovo corso preso dalla Russia di Vladimir Putin divenuto presidente il 7 maggio 2000. Va riconosciuto che l’operazione svolta dagli Stati Uniti in Europa è stata magistrale, incardinando un meccanismo per il quale Washington ha potuto conseguire tre risultati strategici con una manovra unica: ricondurre l’eccessivo attivismo politico tedesco entro ambiti accettabili; sostituire la propria influenza politica a quella dei paesi europei occidentali nei confronti dei regimi formalmente democratici e sostanzialmente fascistoidi ed anti russi dell’Europa orientale; avanzare minacciosamente i confini della NATO verso la frontiera russa. Negli anni novanta, i signori di Bruxelles avevano fatto i conti senza l’oste a stelle e strisce. Già a partire da quel decennio era iniziato l’allargamento dell’Unione Europea verso la Russia sulla direttrice baltica (ingressi di Svezia e Finlandia del 1995). Ma è a partire dal 2004 che gli Stati Uniti incardinano un meccanismo che prevedeva l’ingresso dei paesi dell’ex blocco orientale nella NATO, con la promessa di essere mantenuti dalle ricche nazioni occidentali, Francia e Germania innanzitutto. Sotto questo profilo le date sono chiarificatrici della strategia USA: Polonia e Repubblica ceca entrano nella NATO nel 1999 e nella UE nel 2004; Repubbliche baltiche, Ungheria, Slovacchia e Slovenia aderiscono alla NATO ed alla UE nel medesimo anno, sempre il 2004; Bulgaria e Romania entrano nella NATO nel 2004 e nella UE nel 2007. Missione compiuta: la Comunità europea conosciuta fino alla fine dello scorso secolo non esisteva più, al suo posto era sorta l’Unione europea, una pletora di paesi disuniti su quasi tutto, con poca stima reciproca ed ancor meno comprensione, ma accomunati dalla ligia osservanza al potere imperiale americano e costretti nella camicia di forza della NATO. La controffensiva in Europa era stata un successo eppure anche in questa occasione non vi era stato nessun beneficio per gli indicatori macroeconomici USA. Il debito pubblico americano nei primi sette anni del nuovo secolo era passato dai 5.674 miliardi di dollari nel 2000 ai 9.007 miliardi del 2007; debito quasi raddoppiato in un settennato. Il 2008 è l’anno decisivo, Washington coglie al balzo la crisi dei Subprime innescata dal fallimento della banca Lehmann Brothers per rovesciare contro la Cina le terribili conseguenze della violenta contrazione dei mercati mondiali che hanno seguito il crack finanziario. Gli strateghi di Washington contano sulla forte interdipendenza tra le esportazioni cinesi negli USA, la creazione di maggior debito da parte del Tesoro per poter pagare, ed il ruolo sempre cinese di principale sottoscrittore dei bond americani. Secondo Washington, Pechino non sarebbe stata in grado di gestire il collasso degli ordini dagli States, la conseguente crisi industriale, economica e quindi finanziaria, similmente a quanto stava accadendo in Europa. La Cina, invece, dimostrò di essere in grado di superare la crisi rivolgendosi allo sviluppo del proprio mercato interno, investendo circa 600 miliardi di dollari in opere ed infrastrutture domestiche. Il sistema di programmazione economica, elemento distintivo del socialismo, diede alla Cina gli strumenti necessari ed utili per respingere l’attacco al mittente, determinando un danno irreparabile agli Stati Uniti: una produzione smodata e senza più controllo di dollari per sostenere prima l’attacco a Pechino e poi le conseguenze del suo fallimento. I numeri della crescita del debito federale degli anni successivi alla crisi dei subprime sono impressionanti: 10.024 miliardi di dollari nel 2008, 13.561 miliardi nel 2010, 18.150 miliardi nel 2015, 22.719 miliardi nel 2019 alla vigilia della pandemia da Covid-19. I dati dell’aumento del debito USA nell’ultimo triennio sono addirittura clamorosi: dalla fine del 2019 alla fine del 2022, cioè nei due anni di pandemia e nell’anno di conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti hanno fatto nuovi debiti per 8.209 miliardi attestando il debito federale a quota 30.928 miliardi di dollari. Utilizzando un termine elegante, gli USA sono in un’evidente condizione di default, ma guardando in faccia alla realtà i dati suggeriscono una definizione decisamente più prosaica ma adeguata: bancarotta e pure fraudolenta. Perché bancarotta? Perché nessun dollaro degli attuali 31.703 miliardi di debiti verrà mai restituito; perché fraudolenta? Perché per essere sicuri che il tema non venga nemmeno posto da qualche creditore internazionale gli ultimi tre anni sono stati caratterizzati da continue e terribili crisi: due anni di Covid-19 in tutto il mondo ed una di guerra per procura in Ucraina, crisi che non potranno più cessare fino a quando il mondo non avrà risolto il suo rapporto con il dollaro.

 

La quarta fase: la processione alla Città Proibita

Secondo Fukuyama la storia è lineare ma non in eterno, la sua fine è giunta con la caduta del Muro di Berlino. Sappiamo che non è affatto vero, ma è vero che vi sono date epocali che danno una svolta al corso degli eventi storici. Una di queste date si è appena verificata: il 20 marzo 2023, inizio della visita di Stato del Presidente Xi Jinping a Mosca, nella quale si è annunciato al mondo l’amicizia e sostanziale alleanza tra Russia e Cina. Per le classi dirigenti occidentali la campana di Ernest Hemingway ha iniziato a suonare, e colte dal panico stanno cercando di capire a chi appartiene quella che suona per prima. Che vi sia stato un forte spavento nelle file dei vassalli europei degli Stati Uniti è provato dall’immediata processione che quest’ultimi hanno fatto a Pechino, nella speranza di ottenere comprensione e perdono per le loro marachelle atlantiste da parte del Presidente cinese Xi Jinping che ai loro occhi, spaventati e stralunati, è diventato “celeste imperatore”. Non è affatto trascurabile che il primo a bussare al portone della Città Proibita sia stato il capo del governo spagnolo Pedro Sanchez il 30 marzo, senza lasciare nemmeno il tempo al trafelato Xi di disfare le valige di ritorno da Mosca. Illuminante è il giudizio che la stampa spagnola da del viaggio di Sanchez a Pechino, un opinione che rivela forse inconsciamente il rapporto di naturale reverenza che un leader di un paese minore dell’Europa nutre nei confronti del celeste sovrano: “Per il quotidiano El País, “il periplo di Sánchez”, che passerà dal Forum asiatico di Boao nell’isola di Hainan prima di atterrare a Pechino, “deve essere interpretato in chiave spagnola per il cronico e crescente deficit commerciale di fronte al più grande esportatore mondiale, lo scarso peso degli scambi spagnoli di valore aggiunto, l’accesso al mercato cinese o la riapertura del turismo…..Dal punto di vista cinese, invece, … la Spagna “è un Paese simpatico, relativamente grande dentro l’Unione europea, ma che non è coinvolto troppo su temi come i diritti umani. Per questo, ci ricevono dalla porta principale”, come riferisce Formiche del 30 marzo 2023. El Pais pecca di eccessiva modestia, non bisogna confondere la Spagna con l’Italia, il vero paese occidentale che non conta più nulla. Il premier spagnolo, invece, era reduce dal ventottesimo vertice delle Americhe tenutosi a Santo Domingo il 24 marzo 2023, presenti i capi di stato e governo dei 22 paesi di lingua e cultura iberica, compreso il Re di Spagna Filippo VI. Che la politica atlantista, anche se non volgare e sguaiata come quella di Roma, non faccia bene a Madrid nei suoi rapporti con l’America latina lo si è capito dall’assenza dei presidenti del Brasile Lula da Silva e del Messico Obrador. Attraverso i paesi latinoamericani la Spagna ha colto immediatamente il mutamento di clima nella politica internazionale dovuta al summit di Mosca che si stava tenendo nei medesimi giorni. Subito dopo la visita di Sanchez a bussare al portone della Città Proibita si è presentato il Presidente francese Emmanuel Macron, anche lui in cerca di comprensione e benedizione da parte del “celeste” Xi sia per essere un leader in costante ricerca di un “centro di gravità permanente”, come avrebbe detto Franco Battiato, avendo cambiato idea e posizione sulla guerra in Ucraina svariate volte, sia per essere poco amato in patria, per usare un eufemismo, a seguito del colpo di mano ai danni del Parlamento in occasione della recente approvazione della riforma pensionistica. Evidentemente folgorato sulla via di Pechino: “Macron di ritorno dalla Cina: “Gli europei non devono essere vassalli degli Usa, bisogna evitare di essere coinvolti in crisi altrui ….L’Europa deve ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti ed evitare di essere trascinata in uno scontro tra Cina e Stati Uniti su Taiwan: il presidente francese Emmanuel Macron, in un’intervista a Politico.eu e a due giornalisti transalpini sul suo aereo di ritorno da una visita di stato di tre giorni in Cina, ha sottolineato la sua teoria di “autonomia strategica” per l’Europa, presumibilmente guidata dalla Francia, per diventare una “terza superpotenza”. “Se le tensioni tra le due superpotenze si surriscaldano… non avremo il tempo né le risorse per finanziare la nostra autonomia strategica e diventeremo vassalli “, sono le parole del presidente francese”, ci informa il Fatto Quotidiano del 10 Aprile scorso; si attende il prossimo cambiamento della sua posizione. Anche gli atlantisti duri e puri sono comunque andati al cospetto del “celeste” Xi, se non altro per ribadire la loro assoluta e cieca fedeltà a Washington. Lo ha fatto il Presidente della commissione europea Ursula von Der Leyen, che era in compagnia di Macron ma nessuno se ne è accorto, come riferito da Italia Oggi del 12 aprile 2023: “Ue che piace a Macron: Ursula umiliata a Pechino dal protocollo, contraddetta da Xi Jinping e costretta a tornare con un aereo di linea… Mentre Macron, al suo arrivo, è stato accolto con tutti gli onori da Xi Jinping in persona, a ricevere Ursula si è presentato il ministro dell’Ambiente di Pechino, che non è un suo pari grado. Inoltre, mentre Macron ha incontrato più volte Xi Jinping, fino ad avere con lui un colloquio di quattro ore a tu per tu, con la sola presenza degli interpreti, von der Leyen ha preso parte soltanto al colloquio a tre, assumendo su Taiwan una posizione contrastata da Xi e non condivisa appieno da Macron. La divaricazione tra i due esponenti europei è diventata clamorosa nel viaggio di ritorno: Ursula ha preso un regolare volo di linea, mentre Macron ha viaggiato a bordo del Cotam Unité, l’Air Force One francese, sul quale ha rilasciato a 3 giornalisti l’intervista sulla necessità di un’autonomia strategica dell’Ue in chiave anti Usa, risultata ovviamente molto gradita dalla Cina”. D’altronde sentirsi ripetere in modo pappagallesco la posizione del dominus americano da parte della Von Der Leyen su Taiwan era evidentemente scontato ed irritante per Xi Jinping ed imbarazzante per il mutevole Macron. Quando si accennava al fanatismo ideologico che pervade “La fine della storia e l’ultimo uomo” che oggi contraddistingue le borghesie occidentali sempre più spaventate, incattivite e dispotiche, ci si riferisce anche alla successiva visita del Ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock del 14 aprile. Pochi accenni per la scarsa importanza politica della visita della Baerbock, per noi è rilevante sottolineare il suo preoccupante estremismo come riportato dai seguenti organi d’informazione tutti del 14 aprile scorso: si va da: “Dite alla Russia di fermare la guerra… È positivo che la Cina abbia espresso il suo impegno per una soluzione, ma devo dire francamente che mi chiedo perché la posizione cinese sinora non includa un appello alla Russia, l’aggressore, per porre fine alla guerra” Euronews; oppure “Baerbock a Pechino evoca lo “scenario horror” se la Cina attacca Taiwan” Le Formiche; infine “Ho spiegato al mio omologo, nelle nostre discussioni bilaterali, che siamo preoccupati di vedere che gli spazi di libertà della società civile in Cina continuano a ridursi e che i diritti umani vengono ridotti” Il Sole 24Ore. Insomma un rosario d’insulti, ordini ed osservazioni sgradevoli tanto da costringere il compassato ministro degli Esteri cinese a rimbrottare la collega: “Ciò di cui non abbiamo assolutamente bisogno sono i maestrini dell’Occidente”, La Repubblica. A chiosa dello show della leader dei verdi tedeschi occorre notare che anche in Germania si sta realizzando la pericolosa saldatura tra Neocon e Radical Chic, di cui la Baerbock è illustre rappresentante, sui principi dettati da Francis Fukuyama.

 

La quarta fase: la fuga dal dollaro ed il problema del “casus belli”

Il giornalista Pepe Escobar, riportato su l’Anti Diplomatico del 13 aprile, ci riferisce dell’ultimo libro pubblicato dall’economista americano Michael Hudson, “The Collapse of Antiquity”, in cui analizza il ruolo del debito nella decadenza delle grandi civiltà antiche greca e romana. Evidentemente ispirato dal suo libro appena uscito, Hudson spiega in modo sintetico ma significativo l’attuale stato di cose nella politica internazionale: “L’America ha realizzato una rivoluzione di colore ai vertici, in Germania, Olanda, Inghilterra e Francia, essenzialmente, dove la politica estera dell’Europa non rappresenta i loro interessi economici (…) L’America ha semplicemente detto: – Siamo impegnati a sostenere una guerra di (ciò che chiamano) democrazia (con cui intendono l’oligarchia, compreso il nazismo dell’Ucraina) contro l’autocrazia (…) L’autocrazia è qualsiasi paese abbastanza forte da impedire l’emergere di un’oligarchia creditrice, come la Cina ha impedito l’oligarchia creditrice.” Hudson pone il problema del ruolo del debito come causa, indipendente dalle volontà delle classi dirigenti sia americane che europee, dell’inevitabile destituzione del dollaro dal ruolo di moneta di riserva mondiale. Ma non è solo il tema debito fuori controllo a minare il ruolo del biglietto verde; almeno altri due fattori legati al conflitto in Ucraina hanno ulteriormente contribuito a tale indebolimento. Il sito del Consiglio europeo nell’articolo “Spiegazione delle sanzioni UE nei confronti della Russia” illustra con una certa prosopopea che “L’Unione europea ha vietato tutte le operazioni con la Banca centrale nazionale russa relative alla gestione delle riserve e delle attività della Banca centrale russa. A seguito del congelamento dei beni della Banca centrale, quest’ultima non può più accedere alle attività detenute presso banche centrali e istituzioni private nell’UE. Nel dicembre 2022 l’UE ha aggiunto la Banca di sviluppo regionale russa all’elenco delle entità di proprietà dello Stato russo o controllate dallo stesso che sono oggetto di un divieto totale di effettuare operazioni. Nel febbraio 2022 le riserve internazionali della Russia ammontavano a 643 miliardi di USD (579 miliardi di EUR) … A causa del divieto di effettuare transazioni dall’UE e da altri paesi, si stima che più della metà delle riserve russe siano congelate. Il divieto è stato imposto anche da altri paesi (come gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito) che detengono altresì una quota delle riserve estere della Russia”. Il Consiglio europeo ci informa, come se fosse una cosa normale, che la sola Unione Europea ha sequestrato circa 320 miliardi di dollari di proprietà della Banca centrale russa, e che lo ha fatto per ottemperare a criteri di giustizia che si è data da sola, anche lei ispirata da “La fine della Storia”. La UE, però, non ha minimamente preso in considerazione il fatto che questa determinazione è stata attentamente valutata, certamente non in modo positivo, anche da altri grandi operatori finanziari come Cina e stati del golfo persico. Se le democrazie liberali decidono, dalla mattina alla sera, che Pechino oppure Riad oppure ancora Teheran hanno superato qualche limite decretato motu proprio e senza contraddittorio alcuno in termini di rispetto dei diritti umani oppure civili (ma ad Israele non si contesta mai nulla), allora è possibile applicare sanzioni congelando ed anche confiscando depositi ed investimenti d’istituzioni finanziarie pubbliche e private di quei paesi presenti nel sistema bancario occidentale. Nel caso russo in questione, quindi, per i paesi occidentali si è trattato di congelamento a seguito di sanzioni relative al conflitto ucraino; per i legittimi proprietari dei capitali si è trattato semplicemente di dare all’operazione il suo nome corretto: furto di più di 320 miliardi di dollari. Siccome depositi ed investimenti d’ingenti capitali si fondano sulla fiducia, difficile che lo “spettacolo” offerto da Unione e banche europee sia stato ignorato dai grandi investitori citati, e non solo loro, difficile credere anche che molti di loro non si siano premurati iniziando a richiamare il proprio denaro prima che una Baerbock qualsiasi decida che Pechino sia il nuovo impero del male e che sia giusto rapinargli, pardon congelargli, i fondi depositati in Germania, nella UE oppure in Svizzera. Risultato della strategia di Bruxelles? Titola la Stampa del 9 febbraio 2023: “Credit Suisse, perdita di oltre 7 miliardi nel 2022”, oppure “Ubs compra Credit Suisse: salvataggio da 3 mld. Azzerati bond per 16 mld. Accordo fatto per il salvataggio: sul tavolo anche 100 miliardi di liquidità straordinaria e garanzie pubbliche su cause e minusvalenze”, Il Sole 24Ore del 19 marzo 2023; oppure ancora: “Crisi bancaria, anche Deutsche Bank trema. Sui mercati plana l’effetto-domino?” titola Valori del 24 marzo scorso. Ci stiamo limitando al sistema bancario europeo, alziamo ora lo sguardo oltre oceano. Il Sussidiario.net del 17 aprile titola “Egemonia mondiale del dollaro a rischio. Yellen: “Colpa delle sanzioni imposte. Il dominio mondiale del dollaro potrebbe essere a rischio, così come ha fatto sapere nella giornata di ieri da Janet Yellen, segretaria del Tesoro degli Stati Uniti. Tutta colpa delle numerose sanzioni che sono state imposte dall’Occidente alla Russia nell’ultimo anno dopo lo scoppio del conflitto, così come ad altri Paesi come Cina, Corea del Nord e Iran. Parlando con i microfoni dell’emittente americana CNN, Yellen ha confessato: “C’è il rischio, quando usiamo sanzioni finanziarie legate al ruolo del dollaro, che nel tempo potrebbero minare l’egemonia del dollaro… Certo, crea un desiderio da parte della Cina, della Russia, dell’Iran di trovare un’alternativa”. Risultato della strategia di Washington? “Xi-Putin, dopo l’incontro a Mosca prende corpo l’ipotesi yuan moneta per l’Africa” MilanoFinanza del 22 marzo; oppure: “Lula vola da Xi Jinping: il progetto di sostituire il dollaro con la moneta cinese. Il leader di Pechino accoglie con cordialità il presidente brasiliano: sul tavolo accordi commerciali e crisi in Ucraina. Ma anche il piano per superare la “dipendenza” dal dollaro con il Novo Banco de Desenvolvimento, la banca dei Brics, guidato da Dilma Rousseff”. Infine, ed ancora più clamoroso: “Arabia Saudita e Cina studiano come usare lo yuan nella vendita del petrolio. La novità avrebbe conseguenze notevoli per il mondo del petrolio globale che da sempre usa la valuta statunitense come moneta ufficiale. Sarebbe l’alleanza tra il maggior importatore di petrolio, la Cina con il più grande esportatore, l’Arabia Saudita con il conseguente passaggio dai petrodollari ai petroyuan”. Non si è affatto elencato dei titoli di giornali ma degli autentici “casus belli” che gli Stati Uniti vantano nei confronti di Russia, Cina, Brasile ed Arabia Saudita. È iniziato un processo per il quale il dollaro, pura carta accettata solo perché sponsorizzata dalla U.S. Army, viene progressivamente rifiutato in quanto vengono preferite altre divise. La strategia americana nel 2022, che prosegue tutt’ora, è stata quella di scaricare sulla zona Euro le sue tensioni inflattive con il pretesto delle sanzioni alla Russia, ma lo scorso anno le intenzioni di questi grandi player internazionali di cessare l’utilizzo del dollaro non erano ancora così esplicite. Quest’anno lo sono diventate e possono determinare quell’esplosione inflazionistica del biglietto verde che è potenzialmente molto più devastante della crisi del Papier Mark del 1923. Gli Stati Uniti sono quindi di fronte ad un bivio fatale: accettare il rischio che prima o poi, ed all’improvviso, il dollaro si dissolva in una crisi inflattiva, trascinando nel baratro economia e società americana; oppure raggiungere finalmente l’obiettivo di scatenare un conflitto esteso e significativo, possibilmente una terza guerra mondiale, senza però pagarne il conto ma raccogliendone solo i benefici, come successo nei due conflitti del XX secolo. C’è un pericolo terribile nella prima opzione e molto velleitarismo nella seconda, ed alla Casa Bianca si stanno proprio dibattendo in questo dilemma. Eppure quale strategia il gabinetto Biden voglia approcciare nei prossimi mesi è possibile scorgere ed un ruolo importante lo svolgerà il proseguo della guerra in Ucraina. Gli ucraini da arruolare e mandare al macello stanno iniziando a mancare: Avvenire del 25 marzo, per nulla tenero con i russi, deve ammettere: “Anche Kiev deve fare i conti i militari che a partire dall’autunno potrebbero cominciare a scarseggiare. Per ovviare, vengono già precettati ragazzi di 17 anni, convocati nei campi di addestramento in attesa di venire impiegati in battaglia dopo che saranno maggiorenni. Per molte famiglie è un vero dramma. E a Odessa come in altre città più volte si è vista la polizia militare in azione per convincere, con le buone e con le cattive, chi di andare a combattere e tornare invalido o in una bara non ne vuol sapere. In alcuni mercatini fino allo scorso mese venivano vendute ingessature per le gambe, con cui fingere di essere momentaneamente inabili all’addestramento e scongiurare l’arruolamento”. Sul tavolo della stanza ovale probabilmente si sta discutendo di una nuova strategia che prevede l’impiego di forze armate europee ma non in ambito NATO, in modo da non coinvolgere gli Stati Uniti, tramite accordi bilaterali, per esempio, tra Kiev e singole capitali quali Varsavia, Sofia, Bucarest. Questi paesi invierebbero soldati regolari travestiti da milizie volontarie, esentando la NATO da ogni coinvolgimento, almeno in un primo momento. Non è da escludere però l’ulteriore trascinamento di qualche paese dell’Europa occidentale per allargare ulteriormente il conflitto mantenendo sempre il delicato assetto di coinvolgimento non coinvolgimento dell’Alleanza atlantica. Andrebbe però selezionato un paese che si presterebbe ad enormi rischi di sicurezza nazionale. Allo stato dell’arte due sono gli indiziati, dotati di governi assolutamente proni ai voleri della Casa bianca e che di fare la guerra alla Russia ci hanno già provato durante la seconda guerra mondiale. Personalmente nutro dubbi che dopo gli shock di due sconfitte militari del XX secolo i tedeschi abbiano voglia di sacrificarsi per gli Stati Uniti, ma il governo di Olaf Scholz sarebbe assolutamente disponibile ed entusiasta. Nutro invece meno dubbi circa il coinvolgimento del paese maggiormente influenzato politicamente da Washington, in eguale misura nelle figure del capo del governo e di quello dell’opposizione, e non ha nessuna rilevanza che siano donne. Parliamo del paese il cui stato di decadenza lo espone a qualsiasi avventura per conto terzi, un paese dove la sua Costituzione è stata di fatto sospesa, e sempre disattesa: l’Italia. Fantapolitica? Speriamo di sì. Il tema per gli Stati Uniti però è sul tavolo: il casus belli è già presente, la necessità di una guerra estesa, anche nucleare, pure. Il problema è come attuare questa strategia limitandone al massimo il coinvolgimento ed a mio avviso è il tema fondamentale di quest’anno perché il tempo lavora contro gli americani, la fuga dal dollaro è già iniziata e l’inevitabile conseguenza è la dissoluzione del dollaro per iper inflazione.

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