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Grande crisi nella globalizzazione

Ernesto Screpanti

Le cause di fondo della crisi attuale sono di natura reale e vanno rintracciate negli effetti prodotti dalla globalizzazione sullo sviluppo economico e la distribuzione del reddito nei principali paesi capitalistici. L’imperialismo globale contemporaneo è basato su un patto implicito tra il grande capitale dei paesi avanzati e il grande capitale dei paesi emergenti. Il primo ha ottenuto gli accordi TRIPS, con cui si è assicurato un potere monopolistico sui prodotti della ricerca scientifica e tecnologica, per la quale si trova all’avanguardia rispetto al resto del mondo. Questo potere monopolistico è stato usato per ridistribuire reddito dal Sud al Nord del mondo. Il grande capitale dei paesi emergenti ha ottenuto la liberalizzazione dei mercati e l’abbattimento di gran parte delle barriere protezionistiche dei paesi più ricchi. In questo modo ha potuto sfruttare il vantaggio competitivo sul costo del lavoro e avviare dei processi di sviluppo trainato dalle esportazioni.

La concorrenza ha spinto molte imprese tradizionali dei paesi avanzati a ridurre la produzione e a delocalizzare gli investimenti.

Ciò ha determinato una riduzione della domanda di lavoro che, insieme all’aumento dell’offerta dovuto all’immigrazione, ha indebolito la forza contrattuale dei movimenti sindacali e favorito una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Il processo è rinforzato dal fatto che nel Nord del mondo gli investimenti, pur ristagnanti, incorporano un progresso tecnico tendente a risparmiare lavoro dequalificato e a intensificare l’uso del lavoro altamente qualificato. La quota salari è andata diminuendo negli ultimi trent’anni in gran parte dei paesi capitalistici avanzati.

La domanda aggregata quindi non poteva essere trainata né dagli investimenti né dai consumi e di conseguenza lo sviluppo economico di molti di quei paesi, Europa e Giappone in testa, è stato piuttosto debole. Nell’Euro-zona e in Giappone inoltre le politiche economiche hanno teso a rinforzare gli effetti depressivi della concorrenza. Sono state adottate politiche fiscali e monetarie restrittive che sono servite a tenere bassa la domanda interna e quindi a mantenere le bilance commerciali in surplus. In tal modo si è cercato di rinforzare l’Euro e lo Yen con lo scopo di affiancare il Dollaro come moneta di riserva internazionale. Nello stesso tempo è stata depressa ulteriormente la domanda di lavoro, e quindi si sono messi in ginocchio i movimenti operai.

Gli Usa non potevano permettersi un ristagno dell’economia, dato il loro ruolo preminente nel sistema dell’imperialismo globale. Hanno dunque forzato la crescita interna attraverso una politica monetaria espansiva e un aumento della spesa pubblica in deficit (anche per finanziare le spese militari). Inoltre, sotto la spinta delle lobby finanziarie, hanno deregolamentato il sistema bancario e finanziario favorendo l’indebitamento dei consumatori e la diffusione di comportamenti speculativi (a partire dai mercati immobiliari) anche tra le classi medie e ampi strati delle classi lavoratrici. Il loro sviluppo non poteva essere trainato dagli investimenti, che crescevano poco, né dalle esportazioni, visto che la bilancia commerciale era in disavanzo. Non sarebbe stato trainato neanche dai consumi di massa se questi fossero stati sostenuti solo dalla crescita salariale, dal momento che i salari non aumentavano adeguatamente. È stato trainato dal debito. La crescita della spesa per consumi è stata sostenuta da un indebitamento crescente delle famiglie. La grande bolla speculativa che ha preceduto la crisi si è gonfiata insieme al debito privato.

La Cina e altri paesi emergenti hanno favorito la realizzazione di questa politica. Il deficit commerciale USA ha permesso loro di espandere le esportazioni e accumulare enormi riserve di dollari. Le loro politiche di controllo dei cambi hanno mirato a impedire l’apprezzamento delle valute nazionali rispetto al dollaro, in modo da mantenere la competitività delle loro merci. Le riserve di valuta poi sono state investite nell’acquisto di titoli di stato e privati americani, contribuendo così da una parte a finanziare le spese militari USA, dall’altra a consolidare la politica monetaria espansiva della Fed. In altri termini, l’indebitamento dello Stato, delle famiglie e delle imprese americane, che in parte è stato sostenuto dall’espansione del credito bancario interno, in buona parte è stato finanziato anche dalla Cina e altri paesi emergenti con i risparmi resi possibili dai bassi livelli salariali. In un certo senso si potrebbe dire che i lavoratori cinesi e indiani hanno stretto la cinghia per consentire a quelli americani di allentarla più di quanto sarebbe stato consentito dai loro salari. Nello stesso tempo i bassi salari nei paesi avanzati ed emergenti hanno consentito ai capitalisti di tutto il mondo di fare enormi profitti, mentre la speculazione sui mercati finanziari gli ha permesso di accumulare guadagni di capitale oltre il livello che sarebbe giustificabile dagli investimenti reali.

La crisi è scoppiata dopo che la Fed ha avviato una politica di rialzo dei tassi d’interesse, politica forse determinata dalla volontà di porre fine al deprezzamento del Dollaro rispetto all’Euro e allo Yen. Il rifinanziamento del debito privato è diventato difficile e costoso. Molti debitori sono stati incapaci di far fronte agli impegni di pagamento. La banche hanno espropriato e cercato di vendere le case ipotecate, i cui prezzi hanno cominciato a diminuire. Dopo di che la crisi si è trasmessa ai mercati finanziari delle azioni e dei derivati. È una crisi di deflazione del debito. Ha determinato un impoverimento generale e quindi ha innescato degli effetti ricchezza negativi che hanno fatto diminuire consumi e investimenti e hanno trasmesso il crollo dal settore finanziario all’economia reale.

Appena è scoppiata la crisi i governi e le banche centrali dei principali paesi capitalistici hanno reagito con politiche monetarie espansive che sono servite a salvare molte banche dal fallimento e a porre un freno al tracollo dei mercati finanziari. Negli Stati Uniti e soprattutto in Cina sono state adottate anche politiche fiscali espansive, che hanno posto un argine alla crisi industriale. In Europa e in altri paesi avanzati invece le politiche fiscali sono state piuttosto timide. La conseguenza è che la crisi delle economie reali è stata molto forte in Giappone e in buona parte dell’Europa (il tasso di crescita del PIL nel 2008 e nel 2009 è stato del –0,7% e del –5.4% in Giappone, dell’1,2% e del –6,3% in Germania, del –1.0% e del –5.1% in Italia). È stata un po’ meno forte negli Usa (0,4% e –2,7) e in Francia (0.3% e –2.4%; mentre la Cina ha continuato a crescere a ritmi sostenuti (9.0% e 8.5%). Per il 2010 il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita dell’1,5% in USA, dell’1,7% in Giappone, dello 0,3% in Germania, dello 0,9% in Francia, dello 0,2% in Italia e del 9,0% in Cina.
Tra le conseguenze più rilevanti della crisi ce n’è una che riguarda il cambiamento dei rapporti di forza tra grandi aree geopolitiche dell’imperialismo globale. L’Europa è nettamente perdente, gli Usa sono in affanno, la Cina è vincente.

L’Europa sembra ormai senza speranza. Le istituzioni economiche e l’ideologia che si è data l’hanno stretta in una camicia di forza che le impedisce di crescere e che restringe sempre più gli spazi dell’azione democratica. I governi non sono in grado di adottare coraggiose politiche fiscali espansive. La produzione industriale è al tracollo, la disoccupazione aumenta drammaticamente, i debiti pubblici crescono in rapporto al PIL. E i cosiddetti “mercati” scommettono contro l’Europa. Una prima conseguenza si è vista con la crisi greco-spagnola del febbraio 2010, i connessi crolli delle borse e il deprezzamento dell’Euro rispetto al Dollaro. A quanto pare, infine la Fed ha vinto la battaglia contro l’Euro.

Gli Stati Uniti sono messi un po’ meglio dell’Europa, ma non molto. Nonostante le buone intenzioni di Obama, il governo non è riuscito a capire le ragioni di fondo della crisi e a innescare un vero processo di rinnovamento radicale della politica. I salvataggi delle banche da parte del governo hanno fatto aumentare di molto il debito pubblico, per cui si sono ristretti i margini di manovra della politica fiscale, che pure è stata abbastanza coraggiosa nel 2008 e nel 2009. Le classi lavoratrici si sono impoverite ancora di più e, dato il peso del debito pregresso, è aumentata la loro propensione al risparmio. Quindi la ripresa economica non può essere trainata né dall’aumento dei consumi né da quello della spesa pubblica. L’iniziativa economica resta in mano alla Fed, che non ha saputo fare altro che riproporre un modello di crescita trainato dalla speculazione e dall’indebitamento. La crisi economica, il rallentamento della domanda interna e il deprezzamento del Dollaro nel 2009 hanno favorito la riduzione del deficit della bilancia delle partite correnti, che in quell’anno è diventato un surplus del 2,5%. Nel 2010 il Dollaro si è rivalutato rispetto all’Euro e sembra ormai stabilizzato.

Il problema dell’economa americana è che la sua crescita, dato il rallentamento dei salari causato dalla crisi, sembra essere di nuovo dipendente dall’indebitamento. Questa volta gli speculatori hanno trovato conveniente indebitarsi in Dollari, vista la forte espansione dell’offerta di moneta, l’abbassamento dei tassi d’interesse e la tendenza al deprezzamento nel 2009. Poi hanno lanciato la speculazione nei mercati finanziari dando avvio a ciò che pare una nuova bolla speculativa. Tra il gennaio 2009 e il gennaio 2010 l’indice MSCI delle borse mondiali è passato da un valore di circa 700 a uno di 1195, il prezzo dell’oro a Londra da circa 800 Dollari a uno 1050. Se in America le autorità monetarie e il grande capitale finanziario non sanno fare di meglio che riproporre un modello di sviluppo trainato dalla speculazione e dal debito, vuol dire che non hanno voluto o potuto risolvere i problemi di fondo della globalizzazione. E dunque c’è da aspettarsi che tali problemi riemergano sotto forma di crollo economico. Se non ci sarà un approfondimento della crisi attuale nel 2010-11, evento che non è affatto da escludere, è possibile che scoppi uno altro grave crash finanziario e industriale nel prossimo futuro, forse nella seconda metà del decennio.

La Cina invece ha proposto una novità di rilievo. Non poteva permettersi una profonda crisi industriale. Ogni anno deve creare almeno 20.000.000 di nuovi posti di lavoro per far fronte all’immigrazione dalle campagne. Un forte aumento della disoccupazione industriale e urbana creerebbe grossi problemi di stabilità politica, problemi che non sarebbero facilmente risolvibili con la repressione militare come lo sono le rivolte contadine locali. E per creare tutta quella nuova occupazione industriale l’economia deve crescere almeno all’8% l’anno. Così, di fronte alla diminuzione delle importazioni dei paesi avanzati, la Cina non ha più potuto contare sulle esportazioni per sostenere la propria crescita. Il governo ha reagito con una massiccia manovra fiscale che si può senz’altro definire ultra-keynesiana: ha aumentato molto la spesa pubblica negli investimenti e nei servizi sociali. In tal modo ha riconvertito il processo di sviluppo, che è ora diventato auto-sostenuto. È riuscito a evitare la crisi industriale. Anzi oggi la Cina sta svolgendo il ruolo di locomotiva dello sviluppo di molti paesi emergenti. Nel 2008 per la prima volta le esportazioni di questi paesi verso la Cina sono state superiori a quelle verso gli USA. Probabilmente il vincitore che uscirà dalla lotta fra il Dollaro e l’Euro sarà la Cina, che ha già proposto di sostituire queste due monete (quali strumenti di riserva internazionale) con una moneta composita emessa da un Fondo Monetario Internazionale in cui il peso della Cina stessa sarebbe determinante.

Il riaggiustamento dei rapporti di forza imperiali è inevitabile ed è già in corso. Bisogna però stare attenti a come lo si interpreta. Non si tratta dell’esplosione di contraddizioni inter-imperialistiche insanabili, come quelle che portarono alla prima e alla seconda guerra mondiale. L’imperialismo globale contemporaneo ha fatto emergere un interesse fondamentale comune del grande capitale dei vari blocchi geopolitici. Oggi i capitalisti di ogni singolo paese non mirano più all’espansione di imperi nazionali gli uni alle spese degli altri. Oggi il grande capitale si incarna in imprese multinazionali che già operano nel mondo intero come in un unico mercato. Tali imprese sono in competizione oligopolistica tra loro, ma hanno tutte un interesse comune all’abbattimento delle frontiere economiche nazionali e all’apertura di ogni paese all’accumulazione capitalistica. I grandi capitali americani, cinesi, europei, russi, giapponesi già agiscono come capitali oligopolistici globali. Ciò di cui hanno bisogno è un mercato globale con imperium ma senza imperatore, un sistema di relazioni internazionali organico non monocratico in cui vengano comunque svolte tre funzioni fondamentali di governance, quella di sceriffo, quella di locomotiva e quella di banchiere del mondo.

Negli ultimi quindici anni queste tre funzioni sono state assunte dagli USA. Quella di sceriffo il governo americano l’ha svolta, insieme ai suoi alleati minori (secondo il modello Sheriff and posse teorizzato dalla vecchia Segretaria di Stato Madeleine Albright), instaurando un regime di guerre locali permanenti miranti all’apertura dei paesi recalcitranti alla globalizzazione. Quella di locomotiva l’ha svolta adottando un meccanismo di crescita trainata dal debito con cui ha mantenuto un grosso e sistematico deficit delle partite correnti che ha trainato l’accumulazione dei paesi emergenti. Quella di banchiere infine l’ha svolta pagando il deficit con carta. I vantaggi che ne ha ricavato sono molti, non ultimo il potere di consumare al di sopra delle proprie capacità produttive sfruttando il signoraggio di cui gode sull’emissione della moneta internazionale.

Nel prossimo futuro le tre funzioni verranno scisse. Gli USA continueranno a svolgere il ruolo di sceriffo (e i paesi europei quello della posse). Il ruolo di locomotiva sarà assunto dalla Cina e altri paesi emergenti. Quello di banchiere verrà attribuito a un Fondo Monetario Internazionale in cui sarà ridimensionato il peso degli USA e ancor più quello dell’Europa e del Giappone, mentre diventerà rilevante quello della Cina.

L’imperialismo globale sembra trionfante. Quali problemi pone alla sinistra internazionale? Si dice che la globalizzazione ha limitato la possibilità di portare avanti le politiche democratiche, in quanto ha allontanato i centri decisionali dai parlamenti nazionali. Ciò è vero, ma non vuol dire che è diminuita l’efficacia dell’azione politica. Intanto è aumentato il potere delle élite dominanti delle grandi nazioni. In Cina il ruolo svolto dalla dirigenza del PCC (Partito Capitalista Cinese) nel governare le politiche industriali, commerciali e valutarie è stato esaltato dalla necessità di governare lo sviluppo trainato dalle esportazioni. Negli USA è stato enorme il potere della Fed e delle lobby finanziarie nell’innescare e sostenere il processo di sviluppo trainato dal debito. In Europa è aumentato molto il ruolo della Banca Centrale e quello del governo tedesco, mentre sono diminuiti i poteri degli altri governi nazionali nelle politiche fiscali e sociali.

È anche vero d’altra parte che gli spazi per la partecipazione politica delle masse popolari nelle istituzioni statali si sono andati progressivamente restringendo. La conseguenza la vediamo nella sistematica tendenza alla riduzione dei salari, all’aumento della disuguaglianza e della povertà, alla contrazione dello stato sociale, all’aggravamento del degrado ambientale, all’impoverimento della vita sociale e culturale. Nel breve periodo siamo tutti fregati, se continuiamo a illuderci sull’efficacia delle mediazioni politiche istituzionalizzate.
E nel lungo periodo? Forse no, purché rinunciamo a quella illusione. Forse i cambiamenti epocali determinati dalla globalizzazione capitalistica stanno creando le condizioni per il riemergere del “principio-speranza”. L’accumulazione mondiale sta esasperando le due grandi contraddizioni del capitalismo. La prima è la contraddizione tra Nord e Sud del mondo, tra una classe di capitalisti delle metropoli imperiali sempre più ricca e sempre più potente e un territorio mondiale che viene sistematicamente depredato della gran massa delle risorse umane e naturali. La seconda è l’opposizione fondamentale di ogni sistema capitalistico, quella tra capitale e proletariato. Ebbene queste due contraddizioni si stanno accentuando; ma soprattutto si stanno fondendo, e lo stanno facendo a ritmi vertiginosi man mano che procede la penetrazione capitalistica e lo sviluppo nei paesi emergenti. Oggi si sta realizzando in pieno una situazione prevista da Marx come conseguenza dell’accumulazione capitalistica nel mercato mondiale: un impoverimento relativo crescente delle classi lavoratrici e un’enorme concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani del grande capitale. Si viene così formando una classe operaia mondiale sempre più numerosa e sempre più omogenea in termini di condizioni di lavoro, di reddito e di rabbia sociale.

Nello stesso tempo la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rende possibile attivare processi di integrazione culturale, condivisione delle conoscenze, deliberazione democratica e mobilitazione politica su scala internazionale che erano impensabili trent’anni fa. Sono le condizioni per una grande esplosione sociale globale, passaggio obbligato per l’avvio di un vero processo di rinnovamento. Quando accadrà? Ovviamente non si possono fare previsioni. Una scommessa però sì: intorno al 2020, al picco dell’attuale onda lunga.

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