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Quando la guerra è “giusta”

Stefano Di Ludovico

Il recente ritiro dall’Iraq e quello prossimo annunciato dall’Afghanistan da parte delle forze americane e dei loro alleati segnano per molti aspetti la fine di un ciclo ventennale di guerre, quello apertosi nel 1991 con la guerra del Golfo o quanto meno la fine di una sua fase - quella più recente legata al presunto pericolo islamo-terrorista –, in vista di guerre prossime venture che già sembrano profilarsi all’orizzonte (vedi le continue minacce e i preannunciati attacchi all’Iran in merito alla questione nucleare). Si tratta delle cosiddette guerre “umanitarie”, delle cosiddette guerre “giuste”, ovvero delle guerre “moderne” per eccellenza, le guerre figlie del tramonto del nomos che per secoli, almeno fino all’Ottocento, aveva retto le sorti dei rapporti tra gli Stati europei e che nel secolo XX solo il bipolarismo della Guerra fredda aveva per molti versi congelato per poi esplodere in modo dirompente a partire dagli anni Novanta con il crollo di uno dei due blocchi.

È stato infatti in seguito a tale crollo che gli ordinamenti sovranazionali affermatisi a livello planetario già con la fine della prima guerra mondiale quale portato del cosmopolitismo giuridico e sovrastruttura normativa della nascente globalizzazione economica hanno iniziato a funzionare effettivamente secondo lo spirito e la prassi ad essi congeniali e quindi ad imporre la nuova concezione della guerra e della regolamentazione delle controversie internazionali di cui i conflitti di quest’ultimo ventennio – dalla già ricordata guerra del Golfo fino ai recenti attacchi all’Iraq e all’Afghanistan passando per quello contro la Jugoslavia del 1999, solo per citare i maggiori e più eclatanti – sono stati espressione.

Prima dell’affermarsi di tali ordinamenti, nell’Europa degli stati nazionali la guerra era riconosciuta tra i diritti inalienabili degli stati stessi, quale inevitabile conseguenza della loro piena “sovranità”, essendo lo stato nazionale innanzi tutto quello stato che superiorem non recognoscit, che non riconosce cioè alcuna autorità o volontà nelle sue relazioni con gli altri stati se non le proprie. Non essendoci alcuna norma sovranazionale universalmente riconosciuta che fissasse il torto e la ragione nelle controversie tra i diversi stati, il concetto di “guerra giusta”, proprio del mondo medievale fondato sull’universale respubblica christiana, non poteva trovare spazio nell’ambito dello jus publicum europaeum, e la guerra in altro modo non era vista se non come espressione della sovrana volontà politica di ciascuno stato esplicantesi verso l’esterno (se non come “la continuazione della politica con altri mezzi”, secondo la celebre espressione di Clausewitz). In tal senso nessuno stato poteva arrogarsi il diritto di definire “giusta” la propria eventuale iniziativa bellica, essendo tale iniziativa riconosciuta quale diritto proprio di ciascun altro stato, per cui “giusto” era considerato non il conflitto, bensì il “nemico” stesso (da qui il concetto di justus hostis, tipico del diritto pubblico europeo), in quanto titolare del medesimo diritto; concezione questa inconcepibile all’interno della sopra richiamata visione medievale, dove il nemico era tale per essersi evidentemente posto al di fuori dei principi e dei valori universalmente riconosciuti e non potendo di conseguenza rivendicare più alcun diritto nei confronti dell’altro belligerante.

La guerra premoderna si risolveva così, essenzialmente, in una sorta di “duello” tra pari, in uno scontro regolato da tutte una serie di norme e prescrizioni che entrambi i contendenti si impegnavano a rispettare in base a quel reciproco riconoscimento che era posto a fondamento della relazione conflittuale; guerra legittimata quindi non tanto – come nel diritto medievale – da un presunto jus ad bellum, ma quanto dallo jus in bello, ovvero quel diritto che aveva il compito di regolare il conflitto non quale legge universale di giustizia con la pretesa di stabilire unilateralmente il torto e la ragione, ma come norma atta a fissare i comportamenti che entrambi i belligeranti erano tenuti a mantenere perché lo scontro fosse corretto, leale, esplicandosi appunto nell’ambito del rispetto e del riconoscimento reciproci. La guerra quindi, essendo guerra “normata”, regolata, era per ciò stesso una guerra “limitata”, innanzi tutto negli effettivi protagonisti di essa; guerra tra eserciti regolari, da svolgersi, proprio come nel duello, in spazi appositamente predisposti dove appunto vigeva quel particolare jus, e che quindi lasciava “in pace” le popolazioni e gli spazi “civili”, popolazioni e spazi sottratti a quel diritto. E limitata perché il nemico, essendo “giusto”, titolare dei medesimi diritti, doveva essere trattato con lo stesso riguardo che si pretendeva per se stessi: da qui le norme che regolavano le operazioni belliche, l’uso degli armamenti, il trattamento dei prigionieri; da qui quello spirito “cavalleresco” che ha da sempre improntato la cultura militare tradizionale, in base a cui nel nemico era da vedersi un altro se stesso e per cui agli sconfitti andavano tributati gli stessi onori dei vincitori fin quando essi avessero lealmente combattuto. In tal senso il conflitto era “limitato” anche perché non poteva che riguardare i relativi e specifici contendenti: non era affare di altri, che avevano tutto il diritto a rimanere “neutrali”, a non schierarsi, non essendoci principi universali, validi di per sé, a cui richiamarsi a prescindere dai particolari motivi del contendere riguardanti evidentemente solo quei belligeranti. Il conflitto era sempre, quindi, un conflitto “locale”, limitato territorialmente e geograficamente. E come in ogni duello che si rispetti, la guerra non poteva che terminare con una “pace”, ovvero con un “trattato” che sigillava “trattative” in cui l’inevitabile realtà di un vincitore e un vinto non precludeva il diritto di quest’ultimo a partecipare a quelle, diritto che in primis il vincitore era tenuto a riconoscere. In un simile contesto erano proprio i paesi “neutrali” che potevano magari essere chiamati a “mediare” tra le parti, appunto come neutrali, ovvero come giudici “terzi” e quindi imparziali di fronte ai motivi del contendere. 

Questa impostazione viene a saltare completamente con l’affermarsi, nel corso del XX secolo, degli ordinamenti giuridici internazionalistici, eredi della tradizione cosmopolita illuminista, ordinamenti che tendono progressivamente a limitare la sovranità dei singoli stati in nome di principi universali ai quali tutti i paesi devono gioca forza adeguarsi. È la visione giusnaturalista secondo cui al di sopra della concreta realtà storico-territoriale rappresentata dalla pluralità degli stati nazionali si erige l’universale astratto costituito dall’insieme dei cosiddetti “diritti umani”, visione che, secondo quanto esemplarmente evidenziato innanzi tutto dalla riflessione di Carl Schmitt, segna la fine del “politico” e l’affermarsi di una prospettiva meramente “morale” della convivenza e delle relazioni umane, presentandosi il diritto naturale quale risvolto giuridico dell’etica razionalistica proclamata dalla filosofia dei lumi contro le tradizioni e l’eticità propria di ciascuna comunità storicamente determinatasi. All’interno di tale nuova visione la guerra è messa al bando quale atto di per sé violatore dei presunti ed universali “diritti umani”, e il sogno della “pace perpetua”, ovvero di una comunità sovranazionale che abbracci l’intera umanità sotto l’egida del diritto naturale cosmopolitico, diventa l’obiettivo ed il fine ultimo dell’agire etico – e a questo punto a-politico – di ciascun individuo “illuminato”. Se una qualche forma di “guerra” è ancora ammissibile, questa potrà essere solo quella contro i “nemici” di tale obiettivo, ovvero i nemici del progetto di “pace” universale stesso; un nemico che non potrà più essere visto come justus hostis, bensì quale “criminale” colpevole di mancato rispetto del diritto naturale, diritto che l’intervento armato ha il compito di riaffermare contro chi si è reso responsabile della sua violazione. Visto ciò, non è nemmeno più il caso di parlare di “guerra” – termine da mettere esso stesso al bando quale espressione di un’epoca di barbarie che l’età dei lumi vuole totalmente lasciarsi alla spalle – ma di semplice “operazione di polizia internazionale” volta ad assicurare i “criminali” alla giustizia: non più “guerre” tra stati sovrani titolari di eguali diritti e doveri, ma interventi di ordine pubblico “internazionale” decretati dall’unica autorità universalmente riconosciuta contro il “criminale” di turno. Di fatto, è il ritorno alla medievale “guerra giusta”: in nome di principi che si ritengono validi per tutti, ci si arroga il diritto di muovere guerra a chi in tali principi non si riconosce. È la logica della guerra giacobina contro “i nemici dei diritti dell’uomo e del cittadino”, la logica di Versailles contro Guglielmo II reo di “oltraggio supremo alla morale internazionale”, la logica della “guerra umanitaria” degli Stati Uniti contro chiunque si riveli essere d’impaccio alla diffusione planetaria della american way of life elevata a unico modello di civiltà possibile ed immaginabile.

Lungi dall’eliminare la guerra dalla faccia della terra secondo il sogno di un mondo “pacificato” dal rispetto dei “diritti umani”, tale logica in realtà ha finito per instaurare una situazione di guerra continua e permanente, come la serie ininterrotta di “operazioni di polizia internazionale” di quest’ultimo ventennio ha ampliamente dimostrato, perché di fronte ad un mondo ancora multipolare e disomogeneo, continue e permanenti non possono che essere le resistenze all’omogeneizzazione planetaria che si vorrebbe imporre, e ad ogni “nemico” dei diritti umani che viene abbattuto ecco che se ne presenta immediatamente un altro. Non solo: della guerra una simile logica ha finito per moltiplicarne gli esiti più nefasti e “disumani”: se il nemico non è più lo justus hostis con pari diritti ma il “criminale” che si è posto fuori dal diritto, è chiaro che ad esso nulla è dovuto e nessun compromesso è con esso possibile, tutti i mezzi essendo leciti per chi opera a tutela della legge contro chi invece ha deciso di violarla. Il riaffermarsi dello jus ad bellum implica di per sé il tramonto dello jus in bello, così che la guerra giusta diventa una “guerra totale”, che legittima l’uso di armi improprie (armi chimiche, bombe a frammentazione, mine anti-uomo), il ricorso ad operazioni “sporche” (attacchi non dichiarati, eliminazioni mirate), il mancato rispetto dei prigionieri di guerra (vedi i casi di Abu Ghraib o di Guantanamo), fino al coinvolgimento nelle operazioni belliche della popolazione e delle infrastrutture civili mediante bombardamenti “indiscriminati”, mandando in frantumi uno dei fondamenti cardine delle guerre tradizionali: la distinzione tra belligeranti e non. Visto il presupposto “morale” che sta alla base di una simile concezione, la guerra, da leale duello tra contendenti che si riconoscono – e quindi rispettano – a vicenda, diventa uno scontro tra “bene” e “male” (vedi le definizioni degli avversari quali “stati canaglia”, “asse del male”, “impero del male” oggi così in voga), per cui ogni mezzo è lecito per sradicare ed annientare quest’ultimo, e sarebbe inconcepibile – addirittura esso stesso “criminale” –  il solo ipotizzare di concedere ad un nemico così concepito parità di condizioni e di trattamento nel corso del conflitto.

La guerra contro il “male” non può che essere così, in quanto guerra totale, una guerra senza confini, senza frontiere, superando completamente la logica interstatale delle guerre tradizionali: se il nemico è il negatore dei diritti umani, esso va stanato e combattuto ovunque, anche in violazione di un altro dei pilastri fondamentali del vecchio diritto internazionale, quello della non ingerenza negli affari interni di uno stato in nome della sua inviolabile sovranità. Mentre la guerra tradizionale era sempre una guerra locale, circoscritta ad uno spazio e ad un territorio specifici – quindi guerra “limitata” – la guerra moderna è all’opposto una guerra de-localizzata, de-territorializzata, perché de-localizzati e de-territorializzati sono i “diritti umani” in nome dei quali viene combattuta; quindi guerra “illimitata”, guerra dell’epoca della globalizzazione senza limiti, dell’epoca del “mare” che ha sopraffatto l’epoca della “terra”, per usare le celebri metafore di Schmitt.

E se la guerra è una lotta tra bene e male, essa non può concepire “neutrali”: di fronte ad una simile contesa, non si può rimanere alla finestra, bisogna schierarsi. Chi non lo fa è automaticamente arruolato tra i “nemici”, quindi con il “male”, perché in ogni caso ne farebbe indirettamente il gioco. A maggior ragione la guerra giusta è di per sé una guerra totale e senza confini, una guerra “globale”: tutti ne sono gioco forza coinvolti, nessuno può permettersi il lusso di rimanerne fuori. Così come non ci si può permettere il lusso di far terminare una simile guerra con un “trattato di pace”, visto che con il “male”, con il “criminale”, non è ammissibile trattativa alcuna: la guerra non può che concludersi con la sua resa incondizionata, e alla resa non può che seguire un “processo” che giudichi i crimini commessi e commini le pene dovute. Da qui i cosiddetti “tribunali internazionali” che, come quello istituito all’Aja per la ex Jugoslavia o in Iraq contro Saddam, hanno sancito la fine delle moderne guerre giuste: lungi dall’essere organismi super partes chiamati a mediare tra i contendenti e a trovare possibili punti di intesa e di accordo, questi tribunali, sulla falsariga di quello di Norimberga, altro non rappresentano che strumenti di punizione dei vinti da parte dei vincitori, formati come sono da “giudici” anziché terzi nominati direttamente o indirettamente da una delle parti in causa per giudicare l’altra. Se la guerra tradizionale, con i trattati di pace che la concludevano, era la politica continuata in altro modo, simili tribunali, con le sentenze unilaterali che emanano, altro non sono che la guerra continuata in altro modo. 

Lo stato di conflittualità permanente che sembra così caratterizzare l’epoca del “mare” conosce poi un’ulteriore radicalizzazione a partire dal fatto che soggetti convinti di incarnare al meglio i presunti valori universali sui quali dovrebbe regolarsi il consesso umano possono ritenere gli stessi organismi internazionali istituiti a tutela di questi valori incapaci o impossibilitati – per carenze strutturali o scarsa volontà politica - a tener fede pienamente a tale loro mandato, per cui questi soggetti si reputano autorizzati ad agire autonomamente in loro vece; di fatto, quindi, al di fuori di ogni legittimazione internazionale: è il caso ad esempio dell’attacco contro la Jugoslavia del 1999 o, caso ancor più clamoroso, della guerra irachena del 2003, quando gli Stati Uniti si sono decisi per l’intervento nonostante l’esplicito dissenso del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (anche l’intervento in Afghanistan è stato fondato su basi giuridiche molto labili e in ogni caso completamente superate dal successivo evolversi del conflitto e quindi delle sue motivazioni iniziali). È il presupposto giusnaturalista proprio della concezione della guerra giusta a rendere inevitabile tale esito: se le istituzioni chiamate a tutelare il diritto si dimostrano inadeguate allo svolgimento di tale funzione, in nome della legge morale naturale - superiore a quella positiva - risulta legittima la resistenza ad esse e quindi l’azione autonoma svincolata dal consenso delle istituzioni internazionali medesime. In questo modo il carattere “etico” della guerra viene ancor più ad accentuarsi, per assumere connotazioni quasi “religiose”, “sante”, rispondendo i suoi fautori alla sola loro coscienza, autolegittimando l’intervento sulla base di loro ragioni particolari spacciate per ragioni universali indipendentemente da ogni norma scritta e codificata. La guerra della legalità contro il crimine diventa così sempre più una guerra del bene contro il male, della luce contro le tenebre, in modo che l’attaccante da semplice tutore della legalità si trasforma in un vero e proprio “giustiziere”, in un “crociato della civiltà”, mentre il nemico, da semplice criminale, arriva ad assumere le sembianze del folle, del barbaro, dell’incarnazione stessa del demonio (vedi come la propaganda occidentale ha sempre dipinto i vari Saddam, Milosevic, Ahmadinejad, ovvero come pazzi pericolosi, psicopatici o novelli Hitler).

In tal modo, proprio in base al suo fondamento “giusto”, “umanitario”, la guerra viene ad  assumere un carattere completamente arbitrario, ognuno potendosi arrogare il diritto di stabilire ciò che è giusto o sbagliato, ciò che è bene o male, a suo totale insindacabile giudizio (“alla base di ogni umanitarismo, la pretesa: chi è uomo, lo decido io” – afferma ironicamente Schmitt), andando a distruggere quella legalità internazionale istituita proprio a tutela della pace e dell’ordine fondato su quei valori morali che pur si pretende di difendere. Il paradosso a cui la logica delle guerre giuste va incontro è che alla fine sono proprio i soggetti che si erigono a difensori del bene, della legge e dei diritti umani che vanno a porsi al di fuori della legge e del diritto, ritrovandosi essi stessi nel ruolo di sovvertitori della legalità internazionale. È evidente come stando a questa molte delle iniziative belliche intraprese dagli Stati Uniti e dai loro alleati nell’ultimo ventennio - ma il discorso si potrebbe estendere anche agli interventi della Russia in Cecenia o agli attacchi scatenati recentemente da Israele contro il Libano o la striscia di Gaza - in altro modo non possono essere qualificate che come “guerre di aggressione”, e come tali dovrebbero essere sanzionate dalle istituzioni internazionali che tale qualifica hanno giuridicamente definito. Per guerra di aggressione si intende infatti un attacco militare sferrato unilateralmente da uno stato o da una alleanza di stati contro l’integrità territoriale di un altro stato sovrano o di una nazione che aspira legittimamente a diventarlo; di conseguenza l’uso della forza non autorizzato da un’esplicita decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU o di altra autorità internazionalmente riconosciuta determina quello che già il Tribunale di Norimberga ebbe a definire e sanzionare in merito alla Germania nazista come “crimine internazionale supremo”, ovvero come “crimine contro la pace”. Così, se le guerre sopra ricordate sono state spesso giustificate e propagandate dalle potenze occidentali quali guerre “sanzionatorie” contro le violazioni (dei “diritti umani”, dei “principi democratici”, ecc.) di cui gli stati aggrediti si sarebbero macchiati, in realtà in base al diritto da esse stesse riconosciuto dovrebbero essere proprio tali potenze ad essere portate davanti alla giustizia internazionale e sanzionate per crimini contro la pace, l’indipendenza e la sovranità di altre nazioni. Per contro, sono le azioni delle forze insurrezionali locali – quelle sorte ad esempio in Iraq come quelle talebane in Afghanistan – che, in base alla legge internazionale, vengono a configurarsi come atti legittimi, in questo caso atti di “legittima resistenza”, riconoscendo tale legge anche a forze non inquadrate militarmente il diritto di operare contro una forza di occupazione straniera, sempre che tali operazioni siano compiute contro obiettivi militari e nel generale rispetto delle convenzioni di guerra.

Sullo sfondo di un simile scenario, de-territorializzato, aperto, “liquido” - per dirla con Bauman - e regno del più totale arbitrio, si erige oggi, quale contraltare e dichiarato “nemico” pubblico numero uno del progetto di ordine globale perseguito dalle potenze occidentali, una potenza altrettanto “arbitraria”, de-territorializzata e “liquida” qual è il cosiddetto terrorismo internazionale di matrice islamica, ovvero un nemico che ha anch’esso abbandonato le tradizionali logiche statuali e nazionali per presentarsi con gli stessi caratteri internazionalisti e globalisti dell’ordine che intende combattere. Se i “diritti umani” e la “democrazia” sono principi validi universalmente e quindi da tutelare ed “esportare” ovunque superando le vecchie barriere rappresentate dalle sovranità nazionali, anche il terrorismo islamista si arroga il diritto di colpire sempre e in ogni dove quale rete globale autoreferenziale non legata ad alcuna specifica realtà istituzionale internazionalmente riconosciuta. Il terrorista islamico si inserisce così perfettamente nella logica del “mare” contrapposta a quella della “terra”, moderno rappresentante del “partigiano”, del “rivoluzionario” senza patria – sempre per rifarsi a nozioni schmittiane - perché portavoce di valori e principi transnazionali ed impegnato in uno scontro che ha il mondo intero come suo terreno d’azione. Anche per il terrorista la lotta non è certo una lotta “politica” come tradizionalmente intesa, lotta tra due soggetti che si riconoscono vicendevolmente e dunque con pari diritti, ma uno scontro tra bene e male, scontro quindi “totale” che non ammette “neutrali” e che autorizza il ricorso a qualsiasi mezzo, anche a quelli inammissibili per la visione bellica tradizionale, quali armi improprie (lo stesso uso dei kamikaze) e soprattutto il coinvolgimento dei civili. Lo sviluppo del fenomeno terrorista si presenta così come perfettamente speculare all’affermarsi della moderna concezione della “guerra giusta” e del progetto globalista a guida statunitense che vi sta dietro, tanto che, al di là dell’apologetica e della propaganda occidentaliste interessate ovviamente a marcare le differenze, anche a livello di dibattito teorico e di codificazione giuridica non poche sono le difficoltà che si presentano quando si voglia distinguere con nettezza il primo dalla seconda.

Com’è evidente, è anche questa una questione di non poco conto, visto che è proprio sulla base di una propria specifica nozione di terrorismo che i paesi occidentali hanno giustificato alcune delle guerre di aggressione sopra richiamate o anche soltanto il mancato riconoscimento di organizzazioni politiche soprattutto di ispirazione islamica definite appunto come “organizzazioni terroristiche” (vedi il caso della palestinese Hamas o della libanese Hezbollah). Se, stando alla nozione generalmente riconosciuta a livello internazionale, terroristico sarebbe qualsiasi atto violento perpetrato contro civili o infrastrutture civili da soggetti o gruppi non inquadrati militarmente per motivazioni politico-ideologiche al fine di coartare in qualche modo un governo o qualsivoglia istituzione, tale nozione, nella sua genericità ed astrattezza, può facilmente prestare il fianco alle più svariate interpretazioni e letture di fatti e situazioni propri della lotta politica di natura non pacifica, giustificando sì “operazioni di polizia internazionale” contro eventuali atti violenti del tipo descritto, potendosi però benissimo applicare, a guardar bene, a quelle stesse “operazioni di polizia” o quanto meno ai loro inevitabili effetti. Come definire altrimenti i cosiddetti e sempre più devastanti “danni collaterali”, ovvero uccisioni di civili e bombardamenti di infrastrutture civili, che sistematicamente accompagnano le guerre moderne e messi preventivamente – e quindi deliberatamente - nel conto di ogni attacco militare? Uno dei limiti più evidenti della definizione suddetta è in effetti costituito dal fatto che essa va a qualificare come terroristici solo gli atti di soggetti non appartenenti a forze militari, escludendo quelli compiuti dagli eserciti regolari, le cui operazioni contro i civili e le infrastrutture civili vengono appunto derubricate da chi se ne rende responsabile a semplici “danni collaterali”. Non è un caso così che molti studiosi non appiattiti sulle logiche occidentaliste (quali ad esempio il tunisino Yadh Ben Allun o l’italiano Danilo Zolo) e molti paesi come quelli aderenti alla Conferenza Islamica o all’Organizzazione dell’Unità Africana considerano parziale e unilaterale la definizione di terrorismo sopra richiamata, anche perché essa non tiene conto dei contesti politico-sociali in cui lo stesso terrorismo si ritrova spesso ad operare, che sono contesti di lotta di liberazione o di resistenza verso potenze occupanti (atti questi, come già sottolineato, riconosciuti quali legittimi dal diritto internazionale), in cui il terrorismo si presenta a volte quale “ultima risorsa” in mano ai resistenti in condizioni di totale disparità e asimmetria delle forze in campo. E a proposito di asimmetria, non è un caso che in simili contesti e condizioni le vittime o i danni materiali dei cosiddetti attentati terroristici sono sempre di numero e di portata di gran lunga inferiore rispetto ai morti o alle distruzioni relative ai danni collaterali delle “guerre giuste”: una ragione in più per estendere la nozione di terroristiche anche alle operazioni belliche che tali effetti comportano, così che molti osservatori arrivano a parlare in merito a queste di vero e proprio “terrorismo di Stato”, e a sostenere per contro l’opportunità di riconoscere a soggetti che si rendano responsabili di atti terroristici ma che operino in circostanze di occupazione o aggressione le attenuanti della “legittima difesa”, le attuanti di essere atti compiuti da cosiddetti freedom fighters.

Capovolgendo la concezione dominante, secondo cui sarebbero gli appartenenti alle forze militari protagoniste delle “guerre giuste” a meritare “attenuanti” dato il carattere di mero effetto collaterale dei loro “danni”, in base a questa prospettiva è invece proprio a tali militari e ai loro superiori politici che alcuna attenuante andrebbe concessa, perché sono proprio le loro azioni a caratterizzarsi come atti di aggressione unilaterale – e dunque illegittima – con tanto di morti e distruzioni civili consapevolmente messi in conto. Come già evidenziato, secondo quest’ottica a ritrovarsi nella “legalità” sarebbero paradossalmente proprio simili organizzazioni ritenute terroristiche, quanto meno nei fini anche se non certamente nei mezzi, mentre le potenze occidentali responsabili delle “guerre giuste” si troverebbero dalla parte del torto sia riguardo ai mezzi sia riguardo ai fini. Del resto, al di là di ciò che viene solitamente propagandato in Occidente, a leggere le motivazioni con cui lo stesso terrorismo islamico di matrice internazionalista giustifica per lo più i suoi atti criminosi non troviamo certo il proposito di imporre tramite questi ai paesi occidentali i propri valori e la propria visione della vita, ma unicamente l’obiettivo di difendere e vendicare il mondo islamico contro quella che esso vede come un’aggressione, non solo militare o politica, ma anche e soprattutto “culturale”, ideologica, da parte dei paesi occidentali stessi; ciò a differenza di quanto invece sbandierato manifestamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati quale movente principe delle loro guerre, ovvero l’intento di “esportare” la democrazia, i diritti umani e in genere la propria way of life nei paesi islamici come dovunque.

Se proprio tale intento, con l’afflato umanitaristico che lo sottende, ha determinato alla lunga uno stato di belligeranza continua e permanente che, quasi per una sorta di nemesi storica, va a contraddire proprio l’obiettivo della pace universale che avrebbe voluto realizzare (“chi dice umanità, cerca di ingannarti”, afferma Schmitt sulla falsariga di Proudhon), il recupero di approcci pluralistici e localistici nella gestione e la risoluzione dei conflitti internazionali può rappresentare una possibile e concreta alternativa per conseguire se non l’utopica quanto improbabile “pace perpetua” almeno una realistica condizione di maggiore stabilità ed equilibrio globali. Approcci che tornino a valorizzare, contro l’ottica etico-giusnaturalista propria della prospettiva universalistica, una dimensione più specificatamente “politica” delle relazioni internazionali, sia essa di tipo statuale tradizionale sia essa inerente a possibili nuove forme di articolazione comunitaria, e che riaffermino una lettura del mondo non più visto come “universo”, mondo quindi omogeneo e organizzato attorno ad un unico parametro e ad un unico “centro”, bensì quale “pluriverso”, ovvero insieme disomogeneo di realtà e sistemi di vita autonomi e sovrani rispetto a qualsiasi pretesa monocratica. In tale contesto pluralistico, caratterizzato dall’emergere di diversi “centri”, di diversi “spazi” e poli geopolitici di attrazione e di riferimento, anche la guerra potrebbe recuperare, quale mezzo di risoluzione delle controversie e della naturale conflittualità politica, la sua tradizionale dimensione di scontro tra justi hostes, di scontro “regolato” e dunque “limitato”; oseremmo dire la sua dimensione “umana”, a voler sottrarre tale termine all’uso arbitrario ed autoreferenziale che ha preteso di farne l’universalismo di matrice illuminista, con i paradossali esiti che si sono visti di guerre senza regole e “illimitate”, queste sì davvero “disumane”.  

Contro l’affermarsi di un apparato istituzionale internazionale sempre più autocratico e dei connessi bracci militari e giudiziari sempre più tentacolari, è proprio la costituzione di un sistema multipolare e decentrato che andrebbe quindi favorita, dove la flessibile politica di alleanze di soggetti con interessi convergenti e gli interventi di mediazione di realtà comunemente riconosciute quali “potenze” regionali possano svolgere quella funzione di arbitrato e quindi di pacificazione ogni qualvolta questa si renda opportuna e necessaria. Un sistema che metta quindi tutti gli stati, le realtà politiche, gli universi di valori ed i modelli di civiltà che lo costituiscono su un piede di parità, attraverso quel reciproco riconoscimento e quell’uguaglianza di condizioni e diritti che anche in caso di controversie o conflitti andranno ad orientare l’azione di ciascuno di essi, secondo un modus operandi radicalmente diverso rispetto a quello di un’organizzazione totalizzante che pretende di ingabbiare l’intero pianeta all’interno di un unico universo di valori e di un unico modello di civiltà, tacciando come “criminale”, “canaglia” o incarnazione del “male” chiunque non vi si adegui. Eppure entro tale universo ed unico modello continua a muoversi gran parte delle posizioni e degli orientamenti politici del nostro tempo, attraverso dibattiti e diatribe che, anche in relazione a simili questioni, sembrano ridursi alla solita falsa alternativa tra “destra” e “sinistra”: se la prima risulta fare irremovibilmente affidamento sulle virtù salvifiche dell’azione unilaterale ovvero muscolare della superpotenza a stelle e strisce, la seconda continua a riporre la sua fiducia nel concerto internazionale, nel rafforzamento e nella maggiore democratizzazione dell’ONU perché diventi l’ONU dei “popoli” contro quello delle superpotenze anche secondo gli auspici della sua variante “pacifista”. Come si vede, si tratta di due facce della stessa medaglia, quella appunto dell’occidentale way of life, da “esportare” comunque e dovunque al di là dei mezzi e dei modi più idonei per riuscirci - siano essi quelli sbrigativi e crudi dei bombardamenti “umanitari” o quelli più longanimi e soft della diplomazia, della cooperazione e degli “aiuti allo sviluppo” – sui quali si può continuare pure a divedersi e a battibeccare. È precisamente da una simile falsa alternativa, da un simile monolitico paradigma che bisognerebbe invece uscire, individuando proprio nella pretesa universalistica dell’ideologia occidentalista e la conseguente illusione di pacificare il mondo attraverso l’edificazione di uno “Stato mondiale” unico detentore del monopolio della forza la vera causa dei problemi, dei mali e dei conflitti che affliggono l’umanità e riaffermando per contro il valore del pluralismo, della diversità e del libero confronto-scontro tra universi differenti: come afferma Schmitt, “se confrontata con il nichilismo di un ordine centralizzato, che prevale servendosi dei moderni mezzi di distruzione di massa, l’anarchia può apparire all’umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rimedio efficace”.

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