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Circa David Brooks, “La globalizzazione è finita”

Ovvero, ancora del “fardello dell’uomo bianco”

di Alessandro Visalli

luomo bianco diventa il fardelloNel 1899 nella rivista “McClure’s” Rudyard Kipling pubblicò la poesia “The White Man’s Burden” il cui sottotitolo era “The United States and the Philippines Islands”, con riferimento alle guerre di conquista che la potenza americana aveva compiuto rispetto alle colonie spagnole[1].

“Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esili
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Cercare l’altrui vantaggio,
E produrre l’altrui guadagno.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Le barbare guerre della pace–
Riempi la bocca della Carestia
E fa’ cessare la malattia;
E quando più la mèta è vicina,
Il fine per altri perseguito,

Osserva l’Ignavia e la Follia pagana
Annientare la tua speranza.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Non sgargiante governo di re,
Ma fatica di servo e di spazzino
La storia delle cose comuni.
I porti in cui non entrerai
Le strade che non percorrerai
Le costruirai con i tuoi vivi,
E le contrassegnerai con i tuoi morti.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco-
E ricevi la sua antica ricompensa:
Il biasimo di coloro che fai progredire,
L’odio di coloro su cui vigili–
Il pianto delle moltitudini che indirizz
(Ah, lentamente!) verso la luce:
"Perché ci ha strappato alla schiavitù,
La nostra dolce notte Egiziana?"
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco
Non osare piegarti a un compito inferiore–
E non invocare troppo forte la Libertà
Per nascondere la tua stanchezza;
Che tu gridi o sussurri,
Che tu agisca oppure no,
I popoli silenziosi, astiosi
Soppeseranno te e i tuoi Dei.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Dimentica i giorni dell’infanzia–
L’alloro offerto con leggerezza
L'encomio facile, concesso di buon grado.
Viene ora a esaminarti, nell’età adulta,
Per tutti gli anni ingrati,
Freddo, affilato da saggezza costata cara,
Il giudizio dei tuoi pari!”

Rudyard Kipling[2], 1899

Lo spirito espresso in questa poesia rivive nello sconcertato articolo[3] che David Brooks[4] scrive per The New York Times. Il senso generale del testo è che la “fine della storia[5], e con essa la globalizzazione, sta ripiegando sotto la spinta di più profondi sentimenti umani e sociali e quella di forme politiche incompatibili. Davanti a questo fatto la generazione divenuta matura intorno alla caduta del muro di Berlino, che aveva accolto come definitiva l’affermazione di un set di valori universali, deve constatare dolorosamente che si sta ritornando alla contrapposizione tra aree ed a ‘guerre culturali globali’. Tramonta l’affermazione globale dei valori incarnati nell’occidente universale e la pace del ‘dolce commercio’[6]. Occorre, dunque, riprendere il ‘fardello’.

Quel che, tuttavia, traspare nel testo è ben altro. Malgrado l’apparente consapevolezza della fine di un’epoca, il movimento del pensiero dell’intellettuale resta tutto interno al perimetro della contrapposizione tra ‘civiltà’ e dell’affermazione dell’eccezionalismo americano[7]. Malgrado qualche passaggio che riconosce l’evidente rifiuto dei ‘principi universali’ anglosassoni da parte della maggioranza del mondo, questi sono in ultimo riaffermati nella conclusione che non riesce, ne può, uscire da sé stessa. Ovvero, dalla proiezione narcisistica del fanatismo puritano che maschera la strutturale violenza verso ogni diverso da sé dell’imperialismo statunitense[8].

I valori universali di “libertà”, “uguaglianza”, “dignità personale”, “pluralismo” e “diritti umani”, tutti concepiti esclusivamente nella ristretta antropologia liberale[9], lamenta il testo, non sono più quel fattore intorno al quale l’intero pianeta converge. La “teoria della modernizzazione” (versione rivista della classica postura illuminista), sembra dunque confutata dagli eventi. Si tratta di quella teoria secondo la quale, cito, “man mano che le nazioni si fossero sviluppate, sarebbero diventate più simili a noi occidentali, quelli che si erano già modernizzati”.

Per avere idea di una diversa prospettiva in un discorso del 2014[10], Xi Jimping ha ricordato che la visione cinese della ricerca della “armonia senza conformità[11] riconosce che “le civiltà diventano più ricche e variopinte attraverso gli scambi ed il mutuo apprendimento”, che rappresenta la forza motrice per il progresso dell’umanità. Apprendimento che implica tra principi: le civiltà sono varie e rappresentano, ciascuna, la memoria collettiva dei diversi paesi, tutte sono frutto del progresso dell’umanità. Le civiltà sono eguali nel valore e ciascuna ha punti di forza e debolezza, “non esiste al mondo una civiltà perfetta, né una priva di merito. Le civiltà non si dividono in superiori e inferiori, buone o cattive”[12]. Solo l’inclusione rende grandi, se ogni civiltà è unica la cieca imitazione è estremamente dannosa, “tutti i traguardi delle diverse civiltà meritano rispetto, tutti devono essere tenuti in gran conto”. Quindi bisogna concluderne che i popoli di tutto il mondo sono interdipendenti, “io sono in te, tu sei in me” e formano un “destino comune”.

Il pensiero strategico cinese è pieno di questa concettualizzazione; invece di agire per dominare (e uniformare il mondo) punta a che tutto, secondo la sua propensione, si trasformi (hua). Cerca di restare “sotto il cielo” per individuare “dove va la luce”, accompagnando la situazione al suo massimo potenziale ed effetto. Nel concetto di tianxia (spesso tradotto in “la via del cielo”) è incluso questo particolare universalismo concreto, che implica una dialettica dell’inclusione, e concepisce la razionalità come prorompere da una situazione collettiva accettata senza coercizione (anziché essere radicata nel cogito individuale), e la verità come prodotto dell’armonia. È in questo senso che il mondo è di tutti, 大道之行也天下為公, “quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti”, un verso del testo confuciano “I riti”, ripreso da Qing Kang Youwei e dal Sun Yat-sen nell’espressione “Tian xia wei gong”.

Figlio della tradizione occidentale, Brooks, invece concepisce il ‘razionale’ e ‘vero’ come attributi oggettivati dell’essere, anziché come prodotti del ‘vivente’ in una totalità di relazioni. Con un’apprezzabile sintesi Brooks ancóra questa “teoria (della modernizzazione)” alla convinzione, propria di quegli anni, che le nazioni di tutto il mondo in fondo ammirino il successo delle democrazie occidentali e quindi si risolvano ad imitarle, diventando più ‘borghesi’, ‘consumiste’, ‘pacifiche’. Anche “pacifiche”, quasi incredibile sentirlo dire da un americano che è stato in guerra nel Novecento due anni su tre[13] e qualcosa come il novantatré per cento del tempo, da quando sono una nazione indipendente. Ma c’è un punto teorico, connesso con una lunga tradizione qui. Riprendendo, forse consapevolmente, un caposaldo seicentesco del pensiero liberale, questa attitudine alla pace deriverebbe infatti dalla centralità del commercio e dalla brama di ricchezza, la quale sostituirebbe quella all’onore ed al prestigio (oscurando la fonte della violenza).

Il fatto è che questa visione ottimistica, di progresso e convergenza, che ha prevalso nell’era della globalizzazione, è stata comunque per Brooks falsificata dagli eventi: il commercio mondiale è diminuito di cinque punti rispetto al Pil, i flussi migratori sono rallentati (non in Europa), i flussi globali di investimenti dimezzati, gli investimenti tra Cina e Usa che erano di 30 miliardi all’anno, sono scesi a 5 miliardi. Con il senno dell’oggi più che la “fine”, quella del periodo dell’unipolarismo americano è stata quindi una “vacanza dalla storia”, ed è durata più o meno un decennio. Il mondo ora si sta dividendo in due o tre blocchi commerciali, relativamente sconnessi; quindi “la globalizzazione come logica guida degli affari mondiali sembra essere finita”. Al suo posto sorgono rivalità economiche, politiche, morali e via dicendo, in una sorta di “guerra culturale globale”.

Seguendo la direzione di molte sue pubblicazioni, per Brooks la ragione è che gli esseri umani sono guidati da molte cose diverse, rispetto al solo interesse personale, queste sono:

  • Le esigenze di essere rispettati, apprezzati. Quando non avviene si sentono ingiustamente trattati e reagiscono con indignazione. Ora, tutta la globalizzazione, ammette, ha funzionato (e non per caso, ma per progetto) come una “massiccia macchina per la disuguaglianza sociale”. La cosa non è solo avvenuta entro ogni nazione, ma anche trasversalmente, alcune parti, che nomina come “élite urbane” hanno preso quasi tutto, le grandi maggioranze si sono sentite guardate dall’alto in basso ed umiliate. I leader populisti hanno sfruttato questo sentimento, dandogli voce; si tratta, a livello interno, di Trump, Modi in India, Le Pen in Francia, e Bolsonaro in Brasile (l’elenco è lungo), e, a livello di paese, Xi Jimping (denunciando la prosecuzione della oppressione coloniale delle ‘guerre dell’oppio’), o Putin.
  • La lealtà verso il proprio paese e nazione. Chi ha sentito che il proprio ambiente è stato lasciato indietro, ed è diventato una periferia, e l’onore della nazione è stata compromessa, ha reagito riprendendo toni nazionalisti (e qui sorprende non veda che il migliore esempio è l’eroica Ucraina[14], ma si limita agli esempi politicamente corretti e beneducati della Turchia, Inghilterra della brexit, India).
  • L’attaccamento morale ai propri valori. Chi sente il disprezzo per i propri valori, e la propria cultura, reagisce aderendo ad essa come a sé stesso. La globalizzazione ha condotto tale attacco, ed è stato percepito in questo modo. L’estensione del modello culturale occidentale (ed in esso di quello americano) è stata percepita come invasione e colonialismo. Il fatto è che, ammette, “i valori occidentali non sono i valori del mondo”. Anzi, quelli occidentali sono l’anomalia (in questa formula si cela una versione particolarmente inconsapevole del famoso “eccezionalismo” americano). E lo sono sempre più, l’Europa protestante (che è l’archetipo al quale pensa) è sempre meno condivisa nel mondo. Si registra una sorta di divergenza su questo set di valori idealtipici (individualismo, liberalismo in materia di sessualità, famiglia, genere) con il resto del mondo su una linea di divisione (che attraversa anche i paesi “occidentali”) basata sul reddito.
  • L’orientamento per l’ordine. Molte società prediligono una società ordinata ad una nella quale sia pronunciata la libertà individuale, vista come anarchica e pericolosa.

Centrando il punto Brooks individua quindi la percezione crescente che il modello occidentale non funzioni, sia instabile, tradisca le promesse di ricchezza individuale, mentre altri modelli appaiono oggi più stabili, funzionali, capaci di garantire sia una crescita di ricchezza aggregata maggiore sia, e conta di più, una migliore distribuzione media. Inoltre, e questo rompe un altro preconcetto, riconosce che la Cina ha dimostrato non solo di crescere di più e di elevare dalla povertà più persone, quanto di essere anche tecnologicamente competitiva con l’occidente. Insomma, non di ripercorrere la strada del fallimento sovietico.

Quindi “i regimi autocratici sono ora seri rivali economici dell’Occidente”, e la democrazia nel modello anglosassone sembra in ritirata nel mondo. Tutto va in direzione diversa da quanto atteso.

Invece di convergere progressivamente, quel che succede è che i “regimi illiberali” (ovvero quelli che non condividono la centralità dei valori americani), si stanno alleando tra di loro, ed alla stessa maniera i “governi democratici” (quelli che la condividono). La mondializzazione si trasforma perciò nella “lotta globale tra le forze dell’autoritarismo e le forze della democratizzazione[15].

Una lotta globale che non è solo economica o politica, ma riguarda per Brooks parimenti la cultura, la moralità e religione, e che separa in ultimo quei paesi nei quali “la dignità personale” (dei ricchi e colti abitanti delle metropoli) prevale sulla “coesione comunitaria” da quelli che, al contrario, vedono quest’ultimo valore come centrale. Uno dei punti chiave è che qui vien riconosciuto che la maggior parte del mondo è sul secondo carro; ma non solo, che anche la maggior parte della popolazione dei paesi occidentali è nella stessa direzione. Ciò è visto come deplorevole. L’autore vede chiaramente che il risentimento si manifesta in un crescente rifiuto dell’individualismo, del pluralismo, dell’eguaglianza di genere (a causa del tradimento della più basica eguaglianza di status e di risorse), e via dicendo, e lo teme. Alla fine, e lucidamente, riconosce che la guerra culturale globale nasce in questo complesso insieme di linee di frattura, interne ed esterne, determinate tutte dalla crescita senza controllo delle ineguaglianze tra ceti, territori e nazioni. Ma ne conclude che diventa tanto più necessaria la nuova crociata della lotta globale tra le forze dell’autoritarismo e le forze della democratizzazione. 

Gli dei accecano chi vogliono perdere, per cui invece di puntare piuttosto lo sguardo sulle ragioni per le quali l’eccesso di individualismo e le basi concettuali malate della forma di vita americana (a partire dalla hybris di governare da soli il mondo, pensando di possedere verità e ragione), disgregano dall’interno l’Occidente e allontanano tutto il resto del mondo, si torna semplicemente a riaffermare la propria superiorità. Insomma, pur dopo questa lunga presa di consapevolezza, il W.E.I.R.D.[16] (occidentale, istruito, industrializzato, ricco, democratico) cittadino del paese centrale dell’Occidente ricco riprende il sopravvento e ripropone “il fardello dell’uomo bianco”.

Nelle righe finali ammette che le critiche all’Occidente, ed alla cultura americana, hanno senso, ma resta comunque solo un compito: convincere il resto del mondo che “il nostro modo di vivere è il migliore”[17]. Ovvero, che esiste UN solo modo migliore di vivere per tutti, e che questo è, ovviamente, quello di chi scrive.

Alla fine, per Brooks tutti lo capiranno, perché tutte le persone[18] “vogliono distinguersi e adattarsi” (ovvero, diventare ricche e prevalere). Ma vogliono anche “sentire che le proprie vite hanno dignità, che sono rispettate per quello che sono”; vogliono “sentirsi membri di comunità morali”. Ed anche se “in questo momento si sentono mancate di rispetto dall’Occidente”, dovranno, alla fine, riconoscere che “solo democrazia e liberalismo si basano [davvero] sul rispetto della dignità di ogni persona”.

Notevolissima cecità acquisita.

È esattamente perché il liberalismo e la democrazia meramente formale e svuotata in tecnocrazia e oligarchia dell’Occidente mancano di rispetto, in primo luogo ai propri cittadini, e li privano delle condizioni reali per avere dignità, che questi non si sentono affatto membri di comunità morali e sanno che la promessa è stata tradita. È per questo che milioni di persone che vedono, anno su anno, ristretta la propria base di esistenza economica, che vedono gli ambienti urbani e rurali nei quali vivono degradare continuamente e perdere ogni qualità, che assistono al disprezzo reso palese che le élite culturali gli riservano, mentre passano da un lavoretto mal pagato ad un altro, o da una minaccia armata all’altra[19], non ci credono più. È qui che bisognerebbe lavorare.

E’ tutto vero, ma non fa niente (in fondo tutte quelle brutte cose, pur necessarie, sono solo “il fardello dell’uomo bianco”, che si esplica sia all’esterno come all’interno); come scrive il nostro, non ci sono alternative, “alla fine della giornata, solo questi sistemi e le nostre visioni del mondo offrono il massimo appagamento per le pulsioni e i desideri che ho cercato di descrivere”. Saranno quindi “le idee e i sistemi morali” che l’Occidente ha ereditato (e non quelle che hanno ereditato dalla loro millenaria tradizione i cinesi, ad esempio, o gli arabi, o praticamente tutti), ad essere le uniche giuste.

Insomma, per concludere, questa posizione, talmente fondamentalista da non riuscire in alcuna maniera a guardarsi neppure in un articolo che ne accumulerebbe tutte le condizioni, dichiara in modo abbastanza incredibile di non essere essa stessa una “designazione etnica” tra le altre, ma un “risultato morale” che estende a tutti i suoi doni. Superiore quindi a tutte le altre e insuperabile. Necessaria, come gli Stati Uniti[20].

Una cosa, perciò, da estendere nei decenni a venire.

Se ascoltata con le orecchie degli umiliati ed offesi della grandissima parte del mondo, si tratta di una minaccia chiara. E per tale sarà compresa.


Note
[1] - E’ l’episodio che dà avvio all’imperialismo americano, nel 1898 la nave da guerra Maine esplode nel porto dell’Avana. Si tratta del casus belli che dà avvio alla guerra tra Stati Uniti e Spagna. Nello stesso anno, con il Trattato di Parigi la Spagna cede Cuba, le Filippine e le isole di Porto Rico e Guam. La cosa parte con i reportage di William Hearst e Joseph Pulizer che, letteralmente, inventarono una sanguinosa repressione spagnola dei ribelli cubani che non era affatto in corso. Quando la Maine esplose, forse per un incidente, nel porto dell’Avana, Hearst lanciò lo slogan (Remenber the Maine – to hell whit Spain). Fu proposta una indagine indipendente dagli spagnoli (che non volevano una guerra e che sostenevano la nave fosse esplosa dall’interno e non per una mina), ma gli americani la rifiutarono. La guerra durò solo tre mesi.
[2] - Joseph Rudyard Kipling nasce a Bombay, nell’India sotto dominazione inglese, nel 1865 e muore a Londra nel 1936. Autore di opere notissime, come “Il libro della giungla” (1894) e “Capitani coraggiosi” (1897). La sua formazione avviene in Inghilterra, nella tarda età vittoriana, ma dovette tornare prima in Pakistan e poi, dal 1882 di nuovo in India, dove lavorò come giornalista. Dopo aver visitato la Birmania, Cina, Giappone e Corea, oltre agli Stati Uniti, si stabilì a Londra diventando una delle voci culturali più ascoltate dell’imperialismo inglese.
[3] - David Brooks, “La globalizzazione è finita. Sono iniziate le guerre culturali globali”, New York Times, 8 aprile 2022.
[4] - David Brooks, 60 anni, è un ex critico cinematografico, giornalista e redattore di diversi giornali, tra i quali il New York Times, The Washington Times, The Wall Street Journal, e The Atlantic. Di ispirazione conservatrice moderato, un repubblicano che si impegna con l’agenda liberale.
[5] - Ovviamente il riferimento è al libro di Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, Bur, 2009. In realtà il libro è spesso mal compreso e poco letto. La conclusione è ottimista, ma la costruzione lo è meno, l’autore riconosce che le democrazie liberali “non sono autosufficienti”, e deve intervenire anche una qualche forma di “vita comunitaria” (ivi, p. 339). Gli uomini non sono solo individui isolati, razionali, che pensano solo al proprio interesse personale, ma c’è una tensione tra il liberalismo e la necessità della vita comunitaria. E c’è, nelle società Occidentali una tendenza al suo declino (che dall’epoca del libro è enormemente cresciuto). Il modello analitico proposto è una tensione interna tra i “primi uomini”, che sono impegnati in lotte per il prestigio – il timos – e “ultimi uomini”, razionali ma incapaci di qualsiasi sforzo timotico “più alto”. Dunque, alla fine se non interviene la capacità di mobilitazione e costruzione di senso della guerra (e qui ci siamo, in effetti), è necessario che la democrazia liberale si appoggi su forme di riconoscimento premoderne e non universali, di una società civile spontanea e non razionalizzata. La prosperità si deve appoggiare su una forte etica del lavoro e dell’onore che il capitalismo naturalmente dissolve, essa è “legata a fantasmi di credenze religiose scomparse, quando non addirittura a quelle stesse credenze, oppure ad una fede nella nazione o nella razza” (ivi., p.348). Tutto sommato la fiducia nel fatto che la carovana dell’umanità, fatta tutta nello stesso modo, sia destinata alla medesima destinazione viene dalla forza del progresso scientifico, “il meccanismo imponente della scienza, mosso da un desiderio senza limiti e guidato dalla ragione” che crea continuo dinamismo economico e tecnologico. E dal fatto “che è più facile ottenere la sicurezza economica con il libero scambio che con la guerra”. Un regime, quindi, che può essere considerato più giusto se non “in teoria”, almeno “nella pratica”.
[6] - Termine adoperato da Montesquieu ne “Lo spirito delle leggi”, 1748, sottolinea come il “doux commerce”, a differenza della guerra, non richiede l’uso delle armi per dominare e amministrare i vinti al fine di estrarre ricchezza dai loro territori. Il commercio è altresì fonte di virtù: ingentilisce i modi, suscita laboriosità, moderazione, prudenza, tranquillità e ordine. Ma già Voltaire riteneva che il mercato promuovesse la convivenza pacifica tra le diverse culture, nelle “Lettere filosofiche”, 1734, scrive “Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le nazioni. Là, il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero”. Nel Novecento può essere ricordato “l’Assioma di non aggressione” di Murray Rothbard, per il quale nessuno in una società libera aggredirà il prossimo. Ciò perché una società libera è un ordine di rapporti volontari che muovono necessariamente dal rispetto dell’altro e delle sue proprietà.
[7] - Si intende per “eccezionalismo americano” la convinzione di essere investiti di un ruolo e missione che nessun altro popolo o nazionale ha. John Winthrop, il pastore puritano che si imbarcò nel 1630 per colonizzare le coste americane costruì questa visione teologica, con evidente funzione autoconsolatoria e motivante in una situazione di grande difficoltà e rischio, della “città sulla collina”. La civiltà designata da Dio per essere posta al cospetto dell’umanità intera e salvarla, dominandola. Si tratta del mito fondativo, promessa di un rinnovamento antropologico radicale, che giustifica ogni violenza in quanto redentrice (come dichiarato da Truman nello sganciare le atomiche sul Giappone). Ma non si tratta di un mito sepolto nella storia, viene recuperato praticamente ad ogni discorso di insediamento di un nuovo Presidente (es. George W. Bush nel secondo mandato, o Bill Clinton, per il quale l’America ha una missione speciale ed un destino di trionfi eccezionali, per il bene di tutti.
[8] - Due libri possono essere consultati sulla natura senza scrupoli e contemporaneamente ipocrita dell’imperialismo statunitense: Daniele Ganser, “Breve storia dell’impero americano”, Fazi editore, 2021 (ed. or. 2020); Daniel Immerwarhr, “L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America”, Einaudi, 2020 (ed. or. 2019).
[9] - Per una messa in discussione delle premesse antropologiche dell’uomo liberale si può guardare, tra i tantissimi, il testo classico di Michael Sandel “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, Feltrinelli (ed. or. 1982). Nella tradizione contrattualista liberale (Kant), la legge morale deve essere fondata sull’essere fine in sé. Ovvero non nell’essere ancorata a qualche fine o scopo buono per qualcuno di specifico. Solo così diventa possibile una società nella quale “le esigenze di ciascuno siano in armonia con i fini di tutti”. Si tratta di trovare una base antecedente a tutti i fini concreti e particolari. Proprio perché scaturisce da un soggetto che è capace di volontà autonoma, o, come scrive Sandel, un “soggetto che precede i suoi fini”. L’unico modo di essere libero è quello di essere antecedente e indipendente dall’esperienza (sempre particolare). Per Sandel questa concezione in primo luogo è impossibile, ogni volta che si individuano dei diritti e dei valori, come universali, si è inevitabilmente soggetti ad un autoinganno, si tratta infatti sempre di alcuni valori di qualcuno. La relazione storicamente fondata del liberalismo con l’egemonia della forma di vita borghese occidentale, e con l’immediatamente presente colonialismo (con conseguente accumulazione originaria e creazione delle condizioni di esistenza ed affermazione del capitalismo), poi tradotto in imperialismo, e sempre in sciovinistica affermazione della presunta superiorità della forma di vita occidentale sulle altre, è parte e movente di questa illusione. D’altra parte, il liberalismo in sostanza non capisce la natura “sociale” dell’uomo. E quindi attribuisce una priorità all’individuo, e quindi ai valori individualisti, che necessariamente determina la neutralizzazione dei più importanti valori di altruismo e benevolenza propri della natura sociale dell’uomo. L’uomo non è, come voleva Hume, un mero e semplice “fascio di percezioni”. D’altra parte, la mossa economizzatrice e parsimoniosa del liberalesimo si fonda sempre sulla ipotesi antropologica (di derivazione Hobbesiana) che gli uomini siano portati verso l’egoismo, che si tiene a freno con l’interesse economico e la conseguente cooperazione di mercato. un’antropologia filosofica che presume una pluralità ed individualità delle persone e per questo necessita di postulare l’Io come “soggetto di possesso” e capace del più radicale “disinteresse reciproco” (p.68). Un soggetto di possesso, individuato antecedentemente e che si trova anche sempre ad una certa distanza dai suoi interessi. Un individuo per il quale “nessun impegno dovrebbe coinvolgermi così profondamente da non potermi riconoscere senza di esso”. Ciò significa che la teoria liberale deontologica non ammette tutti i fini, ma esclude anzi in anticipo qualsiasi fine “la cui adozione o il cui perseguimento possa impegnare o trasformare l’identità dell’io, e respinge in particolare la possibilità che il bene della comunità possa consistere in una dimensione costitutiva di questo genere”. Ciò nega in radice la stessa possibilità di una comunità sociale che sia sopra l’individuo, postulando, per Sandel, un’esistenza separata di ciascuno.
[10] - Xi Jimping, “Gli scambi ed il mutuo apprendimento rendono le civiltà più ricche e variopinte”, discorso al quartier generale dell’Unesco, 27 marzo 2014, in Xi Jimping, “Governare la Cina”, Giunti Editore 2016.
[11] - Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si veda anche Lunyu 13,24, “he er bu tong”, dove “he” indica la corrispondenza tra i suoni, nella quale ognuno esprime pienamente la propria potenzialità articolandosi in perfetta sintonia con gli altri, questa parola implica consenso (gongshi) che tiene tutti in gioco. Esclusione e conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’ (una traduzione possibile di “he”) che implica l’impegno di mediazione tra tutte le parti in gioco allo scopo di realizzare una società che incontri il massimo consenso di tutti, dando ascolto anche ad istanze diverse e contraddittorie, senza indulgere né nell’autoritarismo di sceglierne una né nel libertarismo di lasciarle senza armonia. La tensione tra ordine (zhi) e disordine (luan), sia a livello sociale sia individuale e spirituale, è alla radice del perseguimento dell’armonia nella ricerca costante del miglior punto di equilibrio tra le forze in gioco.
[12] - Xi Jimping, cit., p. 324
[13] - Quindici volte in cento anni, per restare agli episodi maggiori. L’elenco è: Prima guerra mondiale, 1917-18; guerra civile russa, 1917-22; Seconda guerra mondiale, 1941-45; guerra di Corea, 1950-53; guerra in Vietnam, 1953-75; invasione della Repubblica Domenicana, 1965; invasione di Grenada, 1983; invasione di Panama, 1990; prima guerra del golfo, 1990-91; Somalia, 1992-94; Bosnia, 1994; Kosovo, 1999; Afganistan, 2001-2021; seconda guerra del golfo, Iraq, 2003-2011; Libia, 2011, bombardamenti in Siria, Yemen, Pakistan, Somalia. Guerre avviate da tutti i presidenti americani, nessuno escluso (Ford e Carter ci provarono). Dalla indipendenza sono stati in guerra 222 anni su 239, includendo le moltissime e terribilmente violente guerre indiane (ovvero l’unico genocidio obbiettivamente perseguito nell’epoca moderna).
[14] - Non c’è proprio nessuna contraddizione tra l’essere eroici e l’essere motivati da sentimenti reattivi di tipo nazionalista e sciovinista. Si tratta di un potente dispositivo di mobilitazione, e di una delle radici della grande capacità di resistenza, obiettivamente eroica, della Germania nazista.
[15] - Si veda su questo il post “Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”.
[16] - Riferimento al libro di Joseph Heinrich, “W.E.I.R.D. La mentalità occidentale e il futuro del mondo”, Il Saggiatore, 2022 (ed. or. 2020).
[17] - Naturalmente, nella migliore tradizione americana e per non rovinare il record, la ‘persuasione’ può arrivare anche a mezzo di bombe e missili (che così si aiuta anche l’economia).
[18] - Inavvertitamente qui slitta dal tematizzare società, culture, stati, identità collettive all’individuo che, solo, vede la cultura statunitense.
[19] - Da una qualche operazione di polizia internazionale, una missione di pace, un bombardamento ‘chirurgico’, un avanzamento delle basi militari, qualche ‘esercitazione’ al confine all’altro.
[20] - Guarda caso, che fortuna eccezionale, è capitato solo qui di trovare il paradiso in terra, ciò che non può più essere superato, la perfezione.

Comments

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Alfred*
Tuesday, 19 April 2022 14:33
Volevo commentare, poi ho avuto notizia della morte di Valerio Evangelisti.
Sono troppo triste

Scusate se uso in maniera impropria questo spazio che comunque propone interventi interessanti da Carmilla online
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