Circa David Brooks, “La globalizzazione è finita”
Ovvero, ancora del “fardello dell’uomo bianco”
di Alessandro Visalli
Nel 1899 nella rivista “McClure’s” Rudyard Kipling pubblicò la poesia “The White Man’s Burden” il cui sottotitolo era “The United States and the Philippines Islands”, con riferimento alle guerre di conquista che la potenza americana aveva compiuto rispetto alle colonie spagnole[1].
“Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esili
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Cercare l’altrui vantaggio,
E produrre l’altrui guadagno.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Le barbare guerre della pace–
Riempi la bocca della Carestia
E fa’ cessare la malattia;
E quando più la mèta è vicina,
Il fine per altri perseguito,
Osserva l’Ignavia e la Follia pagana
Annientare la tua speranza.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Non sgargiante governo di re,
Ma fatica di servo e di spazzino
La storia delle cose comuni.
I porti in cui non entrerai
Le strade che non percorrerai
Le costruirai con i tuoi vivi,
E le contrassegnerai con i tuoi morti.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco-
E ricevi la sua antica ricompensa:
Il biasimo di coloro che fai progredire,
L’odio di coloro su cui vigili–
Il pianto delle moltitudini che indirizz
(Ah, lentamente!) verso la luce:
"Perché ci ha strappato alla schiavitù,
La nostra dolce notte Egiziana?"
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco
Non osare piegarti a un compito inferiore–
E non invocare troppo forte la Libertà
Per nascondere la tua stanchezza;
Che tu gridi o sussurri,
Che tu agisca oppure no,
I popoli silenziosi, astiosi
Soppeseranno te e i tuoi Dei.
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Dimentica i giorni dell’infanzia–
L’alloro offerto con leggerezza
L'encomio facile, concesso di buon grado.
Viene ora a esaminarti, nell’età adulta,
Per tutti gli anni ingrati,
Freddo, affilato da saggezza costata cara,
Il giudizio dei tuoi pari!”
Rudyard Kipling[2], 1899
Lo spirito espresso in questa poesia rivive nello sconcertato articolo[3] che David Brooks[4] scrive per The New York Times. Il senso generale del testo è che la “fine della storia”[5], e con essa la globalizzazione, sta ripiegando sotto la spinta di più profondi sentimenti umani e sociali e quella di forme politiche incompatibili. Davanti a questo fatto la generazione divenuta matura intorno alla caduta del muro di Berlino, che aveva accolto come definitiva l’affermazione di un set di valori universali, deve constatare dolorosamente che si sta ritornando alla contrapposizione tra aree ed a ‘guerre culturali globali’. Tramonta l’affermazione globale dei valori incarnati nell’occidente universale e la pace del ‘dolce commercio’[6]. Occorre, dunque, riprendere il ‘fardello’.
Quel che, tuttavia, traspare nel testo è ben altro. Malgrado l’apparente consapevolezza della fine di un’epoca, il movimento del pensiero dell’intellettuale resta tutto interno al perimetro della contrapposizione tra ‘civiltà’ e dell’affermazione dell’eccezionalismo americano[7]. Malgrado qualche passaggio che riconosce l’evidente rifiuto dei ‘principi universali’ anglosassoni da parte della maggioranza del mondo, questi sono in ultimo riaffermati nella conclusione che non riesce, ne può, uscire da sé stessa. Ovvero, dalla proiezione narcisistica del fanatismo puritano che maschera la strutturale violenza verso ogni diverso da sé dell’imperialismo statunitense[8].
I valori universali di “libertà”, “uguaglianza”, “dignità personale”, “pluralismo” e “diritti umani”, tutti concepiti esclusivamente nella ristretta antropologia liberale[9], lamenta il testo, non sono più quel fattore intorno al quale l’intero pianeta converge. La “teoria della modernizzazione” (versione rivista della classica postura illuminista), sembra dunque confutata dagli eventi. Si tratta di quella teoria secondo la quale, cito, “man mano che le nazioni si fossero sviluppate, sarebbero diventate più simili a noi occidentali, quelli che si erano già modernizzati”.
Per avere idea di una diversa prospettiva in un discorso del 2014[10], Xi Jimping ha ricordato che la visione cinese della ricerca della “armonia senza conformità”[11] riconosce che “le civiltà diventano più ricche e variopinte attraverso gli scambi ed il mutuo apprendimento”, che rappresenta la forza motrice per il progresso dell’umanità. Apprendimento che implica tra principi: le civiltà sono varie e rappresentano, ciascuna, la memoria collettiva dei diversi paesi, tutte sono frutto del progresso dell’umanità. Le civiltà sono eguali nel valore e ciascuna ha punti di forza e debolezza, “non esiste al mondo una civiltà perfetta, né una priva di merito. Le civiltà non si dividono in superiori e inferiori, buone o cattive”[12]. Solo l’inclusione rende grandi, se ogni civiltà è unica la cieca imitazione è estremamente dannosa, “tutti i traguardi delle diverse civiltà meritano rispetto, tutti devono essere tenuti in gran conto”. Quindi bisogna concluderne che i popoli di tutto il mondo sono interdipendenti, “io sono in te, tu sei in me” e formano un “destino comune”.
Il pensiero strategico cinese è pieno di questa concettualizzazione; invece di agire per dominare (e uniformare il mondo) punta a che tutto, secondo la sua propensione, si trasformi (hua). Cerca di restare “sotto il cielo” per individuare “dove va la luce”, accompagnando la situazione al suo massimo potenziale ed effetto. Nel concetto di tianxia (spesso tradotto in “la via del cielo”) è incluso questo particolare universalismo concreto, che implica una dialettica dell’inclusione, e concepisce la razionalità come prorompere da una situazione collettiva accettata senza coercizione (anziché essere radicata nel cogito individuale), e la verità come prodotto dell’armonia. È in questo senso che il mondo è di tutti, 大道之行也天下為公, “quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti”, un verso del testo confuciano “I riti”, ripreso da Qing Kang Youwei e dal Sun Yat-sen nell’espressione “Tian xia wei gong”.
Figlio della tradizione occidentale, Brooks, invece concepisce il ‘razionale’ e ‘vero’ come attributi oggettivati dell’essere, anziché come prodotti del ‘vivente’ in una totalità di relazioni. Con un’apprezzabile sintesi Brooks ancóra questa “teoria (della modernizzazione)” alla convinzione, propria di quegli anni, che le nazioni di tutto il mondo in fondo ammirino il successo delle democrazie occidentali e quindi si risolvano ad imitarle, diventando più ‘borghesi’, ‘consumiste’, ‘pacifiche’. Anche “pacifiche”, quasi incredibile sentirlo dire da un americano che è stato in guerra nel Novecento due anni su tre[13] e qualcosa come il novantatré per cento del tempo, da quando sono una nazione indipendente. Ma c’è un punto teorico, connesso con una lunga tradizione qui. Riprendendo, forse consapevolmente, un caposaldo seicentesco del pensiero liberale, questa attitudine alla pace deriverebbe infatti dalla centralità del commercio e dalla brama di ricchezza, la quale sostituirebbe quella all’onore ed al prestigio (oscurando la fonte della violenza).
Il fatto è che questa visione ottimistica, di progresso e convergenza, che ha prevalso nell’era della globalizzazione, è stata comunque per Brooks falsificata dagli eventi: il commercio mondiale è diminuito di cinque punti rispetto al Pil, i flussi migratori sono rallentati (non in Europa), i flussi globali di investimenti dimezzati, gli investimenti tra Cina e Usa che erano di 30 miliardi all’anno, sono scesi a 5 miliardi. Con il senno dell’oggi più che la “fine”, quella del periodo dell’unipolarismo americano è stata quindi una “vacanza dalla storia”, ed è durata più o meno un decennio. Il mondo ora si sta dividendo in due o tre blocchi commerciali, relativamente sconnessi; quindi “la globalizzazione come logica guida degli affari mondiali sembra essere finita”. Al suo posto sorgono rivalità economiche, politiche, morali e via dicendo, in una sorta di “guerra culturale globale”.
Seguendo la direzione di molte sue pubblicazioni, per Brooks la ragione è che gli esseri umani sono guidati da molte cose diverse, rispetto al solo interesse personale, queste sono:
- Le esigenze di essere rispettati, apprezzati. Quando non avviene si sentono ingiustamente trattati e reagiscono con indignazione. Ora, tutta la globalizzazione, ammette, ha funzionato (e non per caso, ma per progetto) come una “massiccia macchina per la disuguaglianza sociale”. La cosa non è solo avvenuta entro ogni nazione, ma anche trasversalmente, alcune parti, che nomina come “élite urbane” hanno preso quasi tutto, le grandi maggioranze si sono sentite guardate dall’alto in basso ed umiliate. I leader populisti hanno sfruttato questo sentimento, dandogli voce; si tratta, a livello interno, di Trump, Modi in India, Le Pen in Francia, e Bolsonaro in Brasile (l’elenco è lungo), e, a livello di paese, Xi Jimping (denunciando la prosecuzione della oppressione coloniale delle ‘guerre dell’oppio’), o Putin.
- La lealtà verso il proprio paese e nazione. Chi ha sentito che il proprio ambiente è stato lasciato indietro, ed è diventato una periferia, e l’onore della nazione è stata compromessa, ha reagito riprendendo toni nazionalisti (e qui sorprende non veda che il migliore esempio è l’eroica Ucraina[14], ma si limita agli esempi politicamente corretti e beneducati della Turchia, Inghilterra della brexit, India).
- L’attaccamento morale ai propri valori. Chi sente il disprezzo per i propri valori, e la propria cultura, reagisce aderendo ad essa come a sé stesso. La globalizzazione ha condotto tale attacco, ed è stato percepito in questo modo. L’estensione del modello culturale occidentale (ed in esso di quello americano) è stata percepita come invasione e colonialismo. Il fatto è che, ammette, “i valori occidentali non sono i valori del mondo”. Anzi, quelli occidentali sono l’anomalia (in questa formula si cela una versione particolarmente inconsapevole del famoso “eccezionalismo” americano). E lo sono sempre più, l’Europa protestante (che è l’archetipo al quale pensa) è sempre meno condivisa nel mondo. Si registra una sorta di divergenza su questo set di valori idealtipici (individualismo, liberalismo in materia di sessualità, famiglia, genere) con il resto del mondo su una linea di divisione (che attraversa anche i paesi “occidentali”) basata sul reddito.
- L’orientamento per l’ordine. Molte società prediligono una società ordinata ad una nella quale sia pronunciata la libertà individuale, vista come anarchica e pericolosa.
Centrando il punto Brooks individua quindi la percezione crescente che il modello occidentale non funzioni, sia instabile, tradisca le promesse di ricchezza individuale, mentre altri modelli appaiono oggi più stabili, funzionali, capaci di garantire sia una crescita di ricchezza aggregata maggiore sia, e conta di più, una migliore distribuzione media. Inoltre, e questo rompe un altro preconcetto, riconosce che la Cina ha dimostrato non solo di crescere di più e di elevare dalla povertà più persone, quanto di essere anche tecnologicamente competitiva con l’occidente. Insomma, non di ripercorrere la strada del fallimento sovietico.
Quindi “i regimi autocratici sono ora seri rivali economici dell’Occidente”, e la democrazia nel modello anglosassone sembra in ritirata nel mondo. Tutto va in direzione diversa da quanto atteso.
Invece di convergere progressivamente, quel che succede è che i “regimi illiberali” (ovvero quelli che non condividono la centralità dei valori americani), si stanno alleando tra di loro, ed alla stessa maniera i “governi democratici” (quelli che la condividono). La mondializzazione si trasforma perciò nella “lotta globale tra le forze dell’autoritarismo e le forze della democratizzazione”[15].
Una lotta globale che non è solo economica o politica, ma riguarda per Brooks parimenti la cultura, la moralità e religione, e che separa in ultimo quei paesi nei quali “la dignità personale” (dei ricchi e colti abitanti delle metropoli) prevale sulla “coesione comunitaria” da quelli che, al contrario, vedono quest’ultimo valore come centrale. Uno dei punti chiave è che qui vien riconosciuto che la maggior parte del mondo è sul secondo carro; ma non solo, che anche la maggior parte della popolazione dei paesi occidentali è nella stessa direzione. Ciò è visto come deplorevole. L’autore vede chiaramente che il risentimento si manifesta in un crescente rifiuto dell’individualismo, del pluralismo, dell’eguaglianza di genere (a causa del tradimento della più basica eguaglianza di status e di risorse), e via dicendo, e lo teme. Alla fine, e lucidamente, riconosce che la guerra culturale globale nasce in questo complesso insieme di linee di frattura, interne ed esterne, determinate tutte dalla crescita senza controllo delle ineguaglianze tra ceti, territori e nazioni. Ma ne conclude che diventa tanto più necessaria la nuova crociata della lotta globale tra le forze dell’autoritarismo e le forze della democratizzazione.
Gli dei accecano chi vogliono perdere, per cui invece di puntare piuttosto lo sguardo sulle ragioni per le quali l’eccesso di individualismo e le basi concettuali malate della forma di vita americana (a partire dalla hybris di governare da soli il mondo, pensando di possedere verità e ragione), disgregano dall’interno l’Occidente e allontanano tutto il resto del mondo, si torna semplicemente a riaffermare la propria superiorità. Insomma, pur dopo questa lunga presa di consapevolezza, il W.E.I.R.D.[16] (occidentale, istruito, industrializzato, ricco, democratico) cittadino del paese centrale dell’Occidente ricco riprende il sopravvento e ripropone “il fardello dell’uomo bianco”.
Nelle righe finali ammette che le critiche all’Occidente, ed alla cultura americana, hanno senso, ma resta comunque solo un compito: convincere il resto del mondo che “il nostro modo di vivere è il migliore”[17]. Ovvero, che esiste UN solo modo migliore di vivere per tutti, e che questo è, ovviamente, quello di chi scrive.
Alla fine, per Brooks tutti lo capiranno, perché tutte le persone[18] “vogliono distinguersi e adattarsi” (ovvero, diventare ricche e prevalere). Ma vogliono anche “sentire che le proprie vite hanno dignità, che sono rispettate per quello che sono”; vogliono “sentirsi membri di comunità morali”. Ed anche se “in questo momento si sentono mancate di rispetto dall’Occidente”, dovranno, alla fine, riconoscere che “solo democrazia e liberalismo si basano [davvero] sul rispetto della dignità di ogni persona”.
Notevolissima cecità acquisita.
È esattamente perché il liberalismo e la democrazia meramente formale e svuotata in tecnocrazia e oligarchia dell’Occidente mancano di rispetto, in primo luogo ai propri cittadini, e li privano delle condizioni reali per avere dignità, che questi non si sentono affatto membri di comunità morali e sanno che la promessa è stata tradita. È per questo che milioni di persone che vedono, anno su anno, ristretta la propria base di esistenza economica, che vedono gli ambienti urbani e rurali nei quali vivono degradare continuamente e perdere ogni qualità, che assistono al disprezzo reso palese che le élite culturali gli riservano, mentre passano da un lavoretto mal pagato ad un altro, o da una minaccia armata all’altra[19], non ci credono più. È qui che bisognerebbe lavorare.
E’ tutto vero, ma non fa niente (in fondo tutte quelle brutte cose, pur necessarie, sono solo “il fardello dell’uomo bianco”, che si esplica sia all’esterno come all’interno); come scrive il nostro, non ci sono alternative, “alla fine della giornata, solo questi sistemi e le nostre visioni del mondo offrono il massimo appagamento per le pulsioni e i desideri che ho cercato di descrivere”. Saranno quindi “le idee e i sistemi morali” che l’Occidente ha ereditato (e non quelle che hanno ereditato dalla loro millenaria tradizione i cinesi, ad esempio, o gli arabi, o praticamente tutti), ad essere le uniche giuste.
Insomma, per concludere, questa posizione, talmente fondamentalista da non riuscire in alcuna maniera a guardarsi neppure in un articolo che ne accumulerebbe tutte le condizioni, dichiara in modo abbastanza incredibile di non essere essa stessa una “designazione etnica” tra le altre, ma un “risultato morale” che estende a tutti i suoi doni. Superiore quindi a tutte le altre e insuperabile. Necessaria, come gli Stati Uniti[20].
Una cosa, perciò, da estendere nei decenni a venire.
Se ascoltata con le orecchie degli umiliati ed offesi della grandissima parte del mondo, si tratta di una minaccia chiara. E per tale sarà compresa.
Comments
Sono troppo triste
Scusate se uso in maniera impropria questo spazio che comunque propone interventi interessanti da Carmilla online