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Foreign Affairs

Storici al capezzale della ricchezza delle nazioni

di Pierluigi Fagan

glob2E’ proprio dei momenti di profonda crisi, interrogarsi sulla struttura di ciò che è in crisi per capire il perché e soprattutto come evolverà, la cosa in crisi.

Questo articolo di Foreign Affairs a firma di Jeremy Adelman, segnala il manifestarsi di questa interrogazione, attraverso l’analisi di tre testi di indagine storica usciti su questo argomento. I tre testi sono i due volumi del The Cambridge History of Capitalism di Larry Neal e Jeffrey G. Williamson, il The Enlightened Economy di Joel Mokyr e l’Empire of Cotton di Sven Beckert ma l’articolista ricorda, come sfondo di uno spirito del tempo, anche i due recenti volumi di F.Fukuyama (che profeta il fatto che il futuro potrebbe non provenire dai luoghi che svilupparono il liberismo e la democrazia, cioè l’Occidente moderno), il Perché le nazioni falliscono di D. Acemoglu e J.  Robinson e il T. Piketty del Capitale del XX° secolo  cui si aggiunge uno studio McKinsey Global Institute (2012) sullo spostamento del centro di gravità del movimento economico planetario che sta virando repentinamente dall’asse Atlantico verso l’Asia. Se l’analisi sull’origine del nostro modo di stare al mondo tende al positivo, ottimistica sarà la previsione del decorso, se l’analisi è più problematica ne conseguirà pessimismo sulle sorti del capitalismo occidentale.

La narrazione standard sull’origine racconta che da un mondo sostanzialmente piatto (più o meno uguale, isomorfo, dal Mar della Cina alla costa pacifica delle Americhe, procedendo in senso orario via Europa/Africa) emerse il gruppo degli europei del nord, protestanti, che trovarono un positivo feedback accrescitivo tra il loro individualismo e la produttività o anche che, più o meno casualmente, inciamparono in un buon equilibrio tra buon governo ed interesse personale. Origine geo-storica del sistema fu l’Inghilterra, da questa all’Europa, da questa alle Americhe e poi al vasto mondo sino alla globalizzazione.

Ma per il duo di Cambridge, prodromi di capitalismo, si trovano sin alle origini dell’umano vivere associato in società complesse, solo che non erano “sistema”. Il sistema che rende l’ismo di capital-ismo, ha origine nei borghi italiani medioevali attraverso l’istituzione di un potere che legifera in favore dell’estensione e l’intensificazione di un fare economico mosso dalla certezza della proprietà, dalla circolazione di capitali e dallo scambio di mercato. Questa natura politica oltre che economica, porterebbe più ad un concetto di econocrazia che non di capitalismo. Capitalismo è un termine che disegna le technicalities alla base di un certo modo di fare economico ma se questo modo è antico come l’uomo, fu solo quando la politica creò la legge ovvero il quadro della condizioni di possibilità di sviluppo ed unica affermazione di quel modo economico, che avemmo il sistema, l’ismo.

Le società europee strutturalmente dedite tanto all’interrelazione quanto alla competizione hanno poi preso ad imitarsi l’un l’altra nello sviluppo di quella rivoluzione industriosa del XV° secolo, che poi approderà  alla rivoluzione industriale del XIX°. Parallelamente, il sistema venne esportato ed imposto al mondo a seguire l’espansione imperial-colonialista europea ma la diversa natura geo-storico-culturale dello spazio extra-europeo provocò dal rigetto alla distorta applicazione. Solo il Giappone che resistette fisicamente alla colonizzazione ma copiando ed applicando a modo suo il sistema adattandolo al suo contesto, mostra un felice trapianto.

Joel Mokyr, legge invece la faccenda con lenti culturaliste. Progressivamente, si affermò una mentalità, la mentalità poi illuministica (ragione-scienza) lungo il corso che va dal XVII° al XVIII° secolo, tale per cui il circolo virtuoso tra fare economico e protezione ed ordinamento istituzionale si rese possibile. Sono le idee se non a muovere il mondo, a permetterne il movimento. Mokyr però incorre nel circolo dell’uovo-gallina e disegna un meccanismo che basato sull’interrelazione virtuosa tra curiosità, avidità, ambizione ed altruismo non si sa bene da dove provenga e su quali fondamenta storiche si basi. It was happen, sembra la risposta ma così più che analisi si fa narrazione (che poi si fa narrazione comunque).

Queste due storie, sono giudicate dall’articolista di tipo “internalista”. Il sistema è auto- poietico, cioè auto-fondato ed auto-organizzato per cui le cause sono i suoi effetti che retroagiscono di nuovo sul piano delle cause, un tipico loop accrescitvo. C’è forse un inizio ma è sostanzialmente ininfluente, l’importante è che da un “la” si sia sviluppata una sinfonia e la sinfonia si è sviluppata perché le sue regole di composizione (individualismo industrioso, legge e potere d’imporla, potenza e creatività intellettuale) portavano a questo. Queste regole sono proprietà indigene dell’Occidente e tali rimangono, per cui se c’è burrasca è solo perché il tempo della storia ha la sua variabilità. Alla fine, tutto tornerà come è sempre stato e l’Occidente tornerà motore del mondo. A breve … su i nostri schermi .

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La via internalista -giustamente- non convince l’articolista che così ci introduce a quella esternalista che sarebbe meglio definire relazionale. Quella che pone il sistema come ambientato in un contesto, il testo eurocentrico vs il resto planetario, the west vs the rest. L’ordine di questa relazione è asimmetrico e gerarchico, dato da sfruttamento e sottomissione, il che ci porta al terzo testo, quello di Beckert. Il libro è basato su una tripla tesi concatenata:  “si insiste sul fatto che la rivoluzione industriale non sarebbe mai accaduta senza il commercio estero, che l’aumento dell’industrializzazione e del lavoro in fabbrica non si sarebbe mai sviluppato senza la diffusione del lavoro degli schiavi, e che il cotone (che non è certo una materia prima indigena inglese o britannica) era un bene che ha fatto un impero e quindi l’economia mondiale. In altre parole, il capitalismo è nato globale perché ha richiesto un impero per tenersi a galla. 

Nella ricerca della causa materiale  del sistema, molti storici si fissarono sullo zucchero,  K. Pomeranz l’ha trovata nel carbone (The Great Divergence, in italiano per Il Mulino 2012, recensito qui) e D. Landes (The Unbound Prometheus 1969 , Prometeo liberato in italiano per Einaudi 1978 ma vale anche il La ricchezza e la povertà delle nazioni per Garzanti  2000) nel tino di grasso. Per Beckert la causa materiale della rivoluzione industriale fu il cotone. Beckert battezza il sistema come “capitalismo di guerra”, schiavizzare neri trasportati come merce da qui a lì dell’Atlantico, espropriare terre ai nativi americani ed ai caraibici, costringere poi gli indiani a vendere cotone sottocosto, innaffiare il tutto con capitali europei: “Un’ondata di esproprio di terra e lavoro ha caratterizzato questo momento, a testimonianza delle origini illiberali del capitalismo”, sostiene Beckert che è docente ad Harvard. Poi il protezionismo: ” a testimonianza . . . dell’enorme importanza del ruolo dello stato per la ‘grande divergenza’ tra paesi industrializzati e quelli che si trascinavano dietro. Alla vigilia della Rivoluzione americana, il Parlamento britannico ha decretato che il panno di cotone per la vendita nel mercato domestico era possibile solo per quelli realizzati nel Regno Unito. Gli altri governi europei fecero lo stesso”. E dopo il protezionismo una sorta di commercio forzoso, anticipato dall’imposizione del famigerato ‘libero mercato’ (libero per chi esporta ovviamente) per dare sfogo all’eccesso produttivo europeo. Così per gli inglesi, poi britannici, poi per gli americani, nel mentre Brasile, India, Egitto e Giappone accodandosi al business cotoniero hanno lentamente eroso la leadership assoluta del sistema europeo che, senza la sottomissione dell’intero globo per la crescita interna, non sarebbe mai nato e mai si sarebbe sviluppato. “Foreign affairs” allora, non è solo il titolo della rivista che ospita il pezzo in oggetto ma la natura propria di un sistema basato su questi “affari esteri”, un sistema che sottomette l’esterno al suo funzionamento e benessere interno.

Il nostro commentatore, sebbene faccia trasparire una moderata simpatia per la versione Beckert, chiosa che tanto la versione internalista autopoietica che quella esternalista di sottometti e rapina soffrono di circolarità causale. Adelman alla fine propende per un  “e-e” al posto del disgiuntivo “o-o”. Il locale si comprende nel rapporto con il globale, l’interno con l’esterno, il testo col contesto. Quale insegnamento però ne tragga alla fine non è chiaro.

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Avendo letto Pomeranz, Landes, Piketty ma anche i non apertamente citati Marx, Weber, Polanyi e il fondamentale Braudel (e Cipolla) ma anche Veblen, Schumpeter, Arrighi e Wallerstein, Gerogescu Roegen. Ingham e Ruffolo ma anche Bairoch e la tanto vasta, quanto nauseante auto-narrazione anglosassone e molti altri, va da sé che l’argomento è di quelli che mi hanno sempre appassionato. Studiato per lungo tempo, l'”origine del sistema”, ha preso forma dell’inizio di un voluminosissimo libro che ho scritto e riscritto più volte senza mai dargli la gioia della pubblicazione. E’ rimasto però “dottrina non scritta” (o meglio scritta ma non pubblicata) a cui continuamente attingo nel lavoro di questo blog.

Il punto più rilevante, a mio avviso, è proprio quello della differenza tra tesi internaliste ed esternaliste. L’internalismo è uno sorta di idealismo miope, per altro molto diffuso nella cultura occidentale e non solo nella cultura umanistica bensì anche in quella scientifica. Si mette a fuoco il testo e si isola dal contesto, si tagliano le interrelazioni, si fa chiuso un sistema aperto, si postula un determinismo genetico per il quale buoni geni producono ottimi sistemi che poi si affermano su quelli inferiori.  Da questo punto di vista, la tesi detta esternalista non è  il simmetrico contrario come mostra l’articolista poiché  spiega il sistema  considerando le sue forze interne ma le mette poi in relazione  con l’esterno non solo per dire che lo ha dominato perché era fatto di buoni geni ma perché ha rubato, barato, coartato e sottomesso il fuori di lui per alimentare la propria crescita ed il benessere che ne è conseguito internamente. La stufa riscalda la casa ma solo perché brucia legna che è nel bosco. E’ questa dipendenza dal contesto che mostra come al cambiamento di questo contesto, cambia necessariamente anche la natura stessa del sistema.

Questa tesi della dipendenza dal contesto, è diversa da quella leninista che vedeva l’imperialismo fase ultima del capitalismo. Il capitalismo non sarebbe mai nato come sistema e sicuramente non si sarebbe mai affermato se non facendo leva su questa asimmetria tra il suo dentro ed il suo fuori. Non è uscito fuori quando aveva consumato tutto il dentro, è nato e cresciuto divorando il fuori per ordinare il dentro. Esso è, tra le varie definizioni che se ne possono dare (essendo un ente complesso risente della dipendenza dal punto di vista), proprio una macchina che divora differenze. La sua nemesi, per l’Occidente, è che poiché funziona molto bene, il suo destino è quello di equalizzare le differenze e come ogni sistema termodinamico, giungere all’entropia finale. L’attuale contrazione occidentale a fronte della dilatazione asiatica è l’effetto di questa equalizzazione.

Altresì l’utilizzo di termini quali “rapina”, “coartazione”, “sottomissione”, “sfruttamento” non vanno intesi come giudizi morali ma come notazione funzionali, non sono frutto di ideologismo ma di pragmatico realismo. Nel senso che, se lo straordinario successo occidentale del meccanismo econocratico basato su una economia che chiamiamo capitalismo (e su una non meno importante politica che è stata ed è tuttora democrazia delle élite che ne crea le condizioni di possibilità) ha avuto una forte dipendenza strutturale da questi modi di relazionarsi con lo spazio esterno, laddove ciò non è più possibile, laddove chi prima subiva ora pone resistenza, laddove la spensieratezza di caccia e raccolta ora deve fare i conti con dei limiti, dei divieti, dei vicoli ciechi, con i confini, va da sé che la retroazione scombina l’intero funzionamento di tutto il meccanismo. Non capire quanto siamo stati dipendenti dal controllo totale e senza limiti, diretto ed indiretto del fuori di noi (natura, terre e popoli extra-occidentali), significa non capire perché oggi il sistema tenda a non funzionare più. Almeno qui da noi…

Venendo alla tesi propria del cotone, ricordo il racconto di un viaggio di un paio di navi inglesi, molto prima dell’aggressione dell’oppio e della rivolta dei boxer, in Cina. Credo fosse a metà del XVIII° secolo addirittura. Ebbene, questi intrepidi commercianti inglesi approdarono felici sulle coste meridionali dell’Impero di Mezzo e con avido orgoglio, già pregustando la moltiplicazione dei valori dello scambio proposto, mostrarono i loro fantastici panni-lana, l’unica cosa che l’Inghilterra, patria di pecore, produceva in gran quantità. I cinesi, si sa, son gente cortese e sorridente e fecero un sacco di inchini e di sospiri ammirati ma è facile immaginare pensassero in silenzio –ma questi idioti non si rendono conto che noi viviamo in un clima sub-tropicale? cosa diavolo dovremmo farci della lana che oltretutto punge la pelle e quando poi abbiamo la seta? mah…– . Gli inglesi ovviamente rimasero coi loro bei panni-lana nella stiva e non conclusero alcuno scambio, perché non avevano nulla da scambiare. L’aneddoto mi ha sempre molto divertito perché il profluvio di idee e congetture col quale molti studiosi hanno riempito lo spazio esplicativo del come funziona il sistema, ha sempre quella matrice distorta che possiamo definire idealismo, il primato dell’idea che risponde a se stessa della sua consistenza, una idea a cui repelle la materia. Addirittura anche i materialisti ufficialmente definiti tali, usano tale definizione per dire che l’idea di economia è più basilare dell’idea di Spirito (Marx vs Hegel) ma quando vengono interrogati su cosa è questa “idea di economia” riproducono una forma identica di idealismo in un turbinio di valore-plusvalore, modi di produzione, mezzi di produzione, proprietà privata, alienazione, feticismo della merce. A volte, lo strutturalismo marxista non è poi molto più concreto dell’idealismo che voleva combattere.

L’assenza della materia nelle narrazioni esplicative ha il caso clamoroso dell’assenza della geografia laddove si parla di economie-nazioni che vengono trattate come omologhe che siano grandissime o piccolissime, su isole o continentali quindi con confini di terra o di acqua, che siano immerse in aree di civilizzazione di un tipo o di un altro, che abbiamo o non abbiano e quali, materie prime o che abbiano o non abbiano una demografia sufficiente a sviluppare ad esempio un rilevante mercato interno (che è poi ciò che in parte spiega perché l’economia di capitale già del tutto sviluppata in Olanda non è diventato un –ismo se non in Inghilterra e che contribuisce a spiegare perché dalla Gran Bretagna si trasferì in USA e perché ora si sta trasferendo dagli USA alla Cina), che abbiano o non abbiano terre coltivabili o acqua o accessi di costa. Lo stesso termine “capitalismo” allude ad un sistema che potenzialmente non ha luogo, aleggia, innerva il corpo del mondo costituendone l’ordine sulla base di una sua mirabile meccanica auto-sostenuta da leggi newtoniane tutti interne. L’assenza della realtà concreta, in sostanza, è la precondizione perché i continenti delle idee possano prosperare rigogliosi dandoci l’illusione di aver capito il fenomeno. Ne parlammo qui. Per altro, questo invito ad materialismo realista non va inteso come un determinismo riduzionista poiché i sistemi umani che sono in rapporto a questo universo materiale e termodinamico, chimico e fisico, biologico e geografico se da tutto ciò sono contestualizzati, lo sono anche dalle proprie immagini di mondo, dalle proprie ideologie e tradizioni, dalla storia, dalle religioni ed ad occhio, la tesi di Mokyr, ancorché non esaustiva, deve far parte della descrizione as well as  il concreto richiamo alla materia.

Insomma, quanto ai tre libri considerati, essi dovrebbe essere compresi in un unico sforzo di pluralismo esplicativo in quanto è vero che le singole componenti di una economia di capitale sono esistite da lungo tempo e sono diventate la base di un –ismo– solo quando sono diventate “il sistema” e che lo sono diventate per via istituzionale, così come è vero che la logica protestante ed un illuminismo liberato nell’ambiente culturale più scevro di condizionamenti cattolici (l’Inghilterra) sono state pre-condizioni rilevanti a tutt’ora influenti ma considerando anche come zucchero, spezie e sopratutto cotone sono state la causa materiale senza la quale nessuna causa formale si sarebbe sviluppata e di come tutto ciò non è fenomeno nell’iperuranio delle Idee ma storia concreta di spazi definiti geograficamente. Materia, istituzioni, cultura, questo è l’impasto a cui il lievito del capitale ha dato forma. Oltre la dicotomia interno-esterno, s’incontra quella tra causa semplice e causa complessa,  tra sistema semplice e sistema complesso. Ed infine, nonostante la nostra legittima verve critica sul sistema, occorre ammettere che tutto ciò -ha funzionato- (per ragioni che oggi, perdendo possibilità di contesto, determinano la negatività del suo malfunzionamento) e che qualcos’altro che preferiremmo avere come sistema in cui vivere deve altrettanto funzionare e non solo nel mondo levigato e logico dei nostri pensieri idealizzati da aspettative spesso fantastiche.

Tornando al cotone, leggendo l’agiografia britannica della Rivoluzione industriale mi è sempre sorta la domanda: -si ma tutto questo trionfo di spolette e telai, questa proliferazione d’ingegno industrioso, questo sferragliare alacre nei capannoni delle prime farms, se non ci fosse stato il cotone che notoriamente non è un prodotto delle Highlands, su cosa si sarebbe esercitato?-. E le navi, le falegnamerie e le fonderie, il know how di navigazione da cui molto sviluppo tecno-scientifico, i moli delle decine di porti che spuntarono sulla costa inglese e le locande per ospitare i viaggiatori commercianti, la rete fluviale interna, le strade e poi le carrozze ed i carri, le armi, i cannoni, i fucili, i magazzini, gli arsenali, la ressa per finanziare “spedizioni”, cosa sarebbe stato tutto ciò e la circolazione di capitale da ciò scaturita e da ciò alimentata, se non si fosse vista l’opportunità di andare a prendere questa materia leggera, vestente, proteggente, lavabile facilmente ed altrettanto facilmente asciugabile, alla portata di tutti, che tutti volevano e che gli anglo-britannici non avevano a casa? E come sono andati a prenderla? Sono entrati nel libero mercato della borsa di Calcutta o di Port au Prince ed hanno sborsato il dovuto regolato dalla libera contrattazione e piena circolazione delle informazioni tra agenti economici razionali ? Hanno dato in cambio valore contro valore ? Hanno scambiato lana con cotone ai 35°C dei Caraibi ?

Ed ancora. L’econocrazia che chiamiamo capitalismo, non sarebbe mai esistita senza le leggi. Feci una lunga ricerca su tutte le leggi inglesi e poi britanniche deliberate dal parlamento dalla sua instaurazione del 1689. Pensare che esista una essenza del meccanismo che si sarebbe affermata in forza della sua intrinseca potenza è puro idealismo. Quando nel Manifesto del ’48, Marx dice: “…la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghesesembra dire che il sistema e la sua classe si affermarono in funzione del modo di produzione e solo dopo usarono lo stato per “amministrare gli affari comuni”. Ma non è così che è andata, basta rileggersi gli eventi dalla Gloriosa Rivoluzione in poi. Addirittura la recinzione dei commons e l’affidamento delle lettere di corsa ai pirati sono atti dell’aristocrazia Tudor di fine ‘500 di cui la “borghesia” parteciperà solo dopo. Senza la cascata di leggi del XVIII° secolo, senza gli stanziamenti in armi, eserciti, navigli, in ricerca scientifica e tecnica, senza una accorta logistica, senza l’aver sostenuto direttamente lo sviluppo banco-finanziario, senza la diplomazia, le autorità coloniali, le protezioni di mercato mai e poi mai sarebbe arrivato quello che poi Marx osservò il secolo successivo. Da cui la storica debolezza della teoria dello stato nel marxismo. Da cui l’erronea convinzione, convinzione che accomuna marxisti e liberali, vi sia una forza intrinseca (i primi la giudicano demoniaca, i secondi salvifica) nel sistema e non un preciso governo stato-nazionale che favorisce ed etero-dirige il suo sviluppo anche quando sembra astenersi del tutto da un aperta politica economica di tipo socialdemocratico o socialista.

Togliete il public spending, i marines e la U.S. Navy, togliete il dollaro e la Fed, l’infrastruttura pubblica interna ed estera a globale  supporto dell’interesse americano, il peso decisivo in istituzioni come IMF e WB, BIS o BRI, l’investimento pubblico in ricerca e sviluppo (o i 1200 mld a sovvenzione del disastrato sistema banco finanziario che stava fallendo per intero dopo lo shock Lehman)  e poi ditemi cosa rimarrebbe del Pil americano. Meno stato = meno mercato altro che slogan pubblicitari la cui funzione storica è quella di far apparire logico ed evidente,  l’illogico e l’apparente. Il capitalismo finanziario mai sarebbe diventato quello che è diventato se un parlamento non avesse abrogato il Glass-Steagall Act dopo sessantasei anni e quando Clinton firmò l’atto, secondo voi, agiva sotto pressione degli interessi capitalistici o sotto pressione dell’interesse supremo del suo Paese che di quel capitalismo finanziario è il maggior beneficiario come lo è Westminster con la City? Dalla cosificazione del “capitalismo” e l’oblio del volgare interesse delle nazioni nasce anche quella malapianta del pensiero che postula l’esistenza di una lobby di banchieri che dominano il mondo quando questa lobby altro non è che il gruppo che svolge la funzione centrale, come furono gli imprenditori, come furono i corsari, come furono gli aristocratici ed in certe fasi i militari. Scambiare questi gruppi come causa quando sono effetto, porta la comprensione fuori dai binari del concreto. Così, accelerare il superamento della fase storica econocratica in Occidente, pone la necessità di pensare al contempo un nuovo contenitore geo-politico in grado di resistere all’egemonia anglosassone che è origine e protettore di quel sistema. Un contenitore più possibile dell’irrealizzabile unità di tutti gli europei e più consistente e competitivo del ritorno al francobollo stato-nazionale.

La lunga fase mercantilista del sistema, in parte, questo esattamente era, un sistema protetto per far crescere la creatura e quando A. Smith, nel 1776, s’azzarda a scrivere contro questo sistema (L’ Indagine sulla natura e le cause della Ricchezza delle Nazioni del 1776, questo è, una lunga requisitoria contro il mercantilismo) ed in favore del libero mercato, rimase ignorato ancora per decenni. Del resto, nella sua perorazione oltreché dello scambio, del lavoro, Smith, dimenticava che il rito inglese delle 5 p.m. era fatto tutto di materia presa da fuori: tè, cioccolata, caffè, porcellana, zucchero e cotone di tovagliette e tovaglioli nonché l’argento di cucchiaini e coltellini. Era proprio perché le materie erano tutte esotiche che le élite esibivano il rito. Il sistema prevalentemente di mercato, sono in molti a ritenere sia stato in vigore, in pratica, solo quando convenne ai britannici ovvero all’apice della loro fase imperiale (vedi P. Bairoch), come gli contestò l’economista tedesco (per altro liberale), F. List, e quindi solo dopo la lunga fase mercantilista che ne aveva determinato la posizione dominante. Il giochiamo a chi è più forte vince è sempre un invito fatto dal più forte.

L’oblio della funzione parlamentare, del potere politico che creò le indispensabili condizioni di possibilità per lo sviluppo di un sistema che sarebbe morto nelle sue stesse fasce ancor prima di far il primo sorriso a papà e mamma, ha portato anche la grave sottovalutazione e non comprensione di cosa fu la democrazia delle élite e di quanto questa forma genetica del nostro sistema politico (il rappresentativo) sia rimasta funzionalmente intatta nei secoli successivi, incluso il periodo in cui sembrò aprirsi ad una onesta partecipazione popolare ed incluso il riflusso in cui oggi sembra piombata dal momento che è costretta, di nuovo, a fare leggi assurde pur di mantenere in vita il paziente in fase terminale. Terapia di cui scorgiamo l’assurdità ed a prescindere le nostre inclinazioni ideologiche, sin da quando è scoppiata la crisi e politici imbarazzati prima hanno chiamato i tecnici a far lo sporco lavoro di cui non volevano macchiarsi le mani, poi hanno dovuto farlo in prima persona ma appellandosi al “lo vuole…l’Europa? I mercati? Il benessere? La crescita? Il futuro?” in una ridicola progressione che ricorda il John Belushi di Blues Brothers che cercava di scusarsi per non essersi presentato in chiesa il giorno del suo matrimonio.

L’imbarazzante spettacolo di una ex-sinistra che finisce col fondersi con la destra in salvezza del “sistema” è figlia di questa forma politica, strutturalmente dedita a governare le condizioni di possibilità per la perpetuazione del sistema economico che però senza il politico, sarebbe morto già da un pezzo liberandoci così dalla sua lenta agonia. Avrebbe certo un costo alto anche la fine del tipo “colpo apoplettico” ma come si dice in questi casi: meglio una spaventosa fine che uno spavento senza fine.

Insomma, la festa è finita. Nato recintando i commons interni, il sistema economico occidentale sta morendo perché quelli che vivono fuori delle sue terre, stanno recintando quelli che noi ritenevamo commons esterni, anzi, più nostri che loro. La legna nel bosco, ora, ci tocca pagarla e non con specchietti e collanine. Nato replicando l’atteggiamento di caccia e raccolta per cui siamo andati in giro per il mondo a depredare “liberamente” natura e popoli, ora deve subire la conversione ad una nuova fase concettualmente agricola dove ognuno si organizza un suo spazio continuo e rispettoso di quello vicino con il quale semmai scambiare sul piano del semplice diritto di reciprocità ed in consonanza con l’ambiente. Una nuova civiltà dovrebbe nascere da ciò come quella delle prime società complesse sopravvenne alle tribù seminomadi. Il pensiero è la nostra prima e forse unica facoltà adattativa. Pensare meglio cosa sono stati questi tre-quattro secoli della nostra recente storia può farci capire meglio come e perché sono destinati a terminare e cosa occorrerebbe cominciare ad impiantare nel campo delle idee, e della politica che le trasforma in fatti, per darci un futuro.

Le civiltà e le civilizzazioni sono degli “olon” dei tutti-interi, si adattano e vengono cancellati dal tempo che passa nella loro sistemicità secondo il tribunale dell’adattamento alle condizioni di contesto vigenti. Servono nuovi dei e nuovi sacerdoti o forse solo imparare a vivere nel diritto valido per tutti (e nella capacità che non sempre abbiamo) di partecipare -tutti- alla decisione di come vivere assieme alle nuove condizioni date. E’ ora di scrivere una nuova Indagine sulla natura e le cause di un nuovo modo di stare al mondo.

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