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contropiano

Il posto della Cina “rossa” nell’ordine economico internazionale

di Giorgio Gattei


cina1. A mezzo degli anni ’60 del Novecento Mario Tronti aveva spedito Marx a Detroit perchè «solo negli USA le relazioni tra capitale e lavoro si presentano come oggettivamente marxiane» (M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, p. 30). Oggi però sappiamo che Marx a Detroit non c’è mai arrivato, è rimasto nel vecchio continente dove ha finito (almeno così sembra) per perdersi. All’inizio del XXI secolo Giovanni Arrighi ci riprova spedendo questa volta, con più robuste ragioni, Adam Smith a Pechino (Feltrinelli, 2008). L’invocazione è consegnata ad un libro bello, ma impossibile. Troppo lungo (più di 500 pagine), troppe divagazioni, troppe citazioni, troppe note. Tutto congiura per renderlo odioso ad un lettore che non sia più che paziente. Invece quel libro va letto (io l’ho perfino riletto) perchè ciò di cui tratta è importante. E così nel poco spazio che mi ritrovo proverò a darne una “scorciatoia di lettura”.

Intanto va detto che la Parte seconda  (pp. 135-194), una lunga polemica con Robert Brenner sulla crisi americana degli anni 1973-1993 già pubblicata in inglese sulla “New Left Review” nel 2003 e qui allargata e tradotta in italiano, si può tralasciare non essendo più d’attualità. Invece nella Parte terza (pp. 195-306) si narra come gli Stati Uniti, usciti vincitori dal confronto della Guerra Fredda con l’URSS, si siano trovati “da soli al comando” con l’idea di fare del XXI secolo un altro secolo americano. Invece hanno combinato un tal pasticcio che nel 2005 il “Financial Times” ha potuto scrivere che «in fin dei conti gli Stati Uniti sono una nazione di cui si può fare a meno» (cit. a p. 292). E’ stato soprattutto il fallimento della “guerra al terrorismo”, platealmente promossa a Bush “il piccolo” nel 2001, a far «scattare la crisi terminale della loro egemonia» (p. 208) perchè quel mondo, diventato “uno”, ha progressivamente scoperto che, invece di proteggere, gli USA portano soltanto guai. Infatti l’intenzione militare di Washington di spostare sempre più dentro l’Eurasia le proprie basi (alla maniera del gioco del rugby americano dove si conquista progressivamente territorio fino a raggiungere la “meta”) è tanto costosa che Washington ha provato a scaricarne in parte l’onere indebitandosi verso gli alleati europei e giapponesi ma poi, per alleggerire il peso del debito, ha dovuto svalutare il dollaro col rischio che i possessori di Treasury Bond vengano a ripudiarli per l’«insolvenza furtiva che farà evaporare migliaia di miliardi di dollari dalla capitalizzazione in mano agli investitori stranieri» (“The Economist”, 2004, a p. 223). Allora la Federal Reserve ha aumentato il tasso d’interesse (c’è convenienza ad acquistare T-Bond americani – era il messaggio), ma Arrighi avverte (il libro è stato scritto prima della “crisi dei mutui”) che «da un forte rialzo dei tassi d’interesse c’è da aspettarsi non un miglioramento, ma un peggioramento nel ridimensionamento dell’economia americana» (p. 227), che è quanto poi è successo. Così la guerra irakena, «invece di rappresentare il primo atto di un nuovo secolo americano, sarà molto probabilmente l’ultimo atto dell’unico e solo secolo americano: il “lungo” ventesimo secolo» (p. 213).

Ma c’è anche di peggio perchè, nella loro provata incapacità di governare un mondo unipolare, gli Stati Uniti non sono riusciti ad impedire che si formasse «un potenziale centro alternativo dell’economia e politica mondiale» (p. 229) quale è, naturalmente, la Cina “rossa”. E dire che ancora nel 1996 «un ben noto economista americano» assegnava piuttosto alla Russia ex-sovietica la palma di «avere intrapreso il giusto percorso di riforma» verso l’economia di mercato (p. 26), mentre il governo cinese con i “fatti di piazza Tien an Men” del 1989 aveva mostrato di volersi aprire al mercato, ma senza democrazia. Eppure quella repressione brutale (allora da tanti biasimata, me compreso) non ha impedito alla Cina di essere accolta nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel dicembre 2001 quale prezzo che gli Stati Uniti hanno pagato perché partecipasse con loro alla “guerra al terrorismo”. E così, mentre la Russia resta ancora fuori dal WTO, è stato accettato quale partner commerciale internazionale un sistema economico ibrido che qualcuno ha chiamato di «mercato–leninismo» (p. 27) e di cui non è chiara la “natura sociale” (come si sarebbe detto una volta). Ci sarà tempo e luogo per studiare; qui basta raccogliere l’osservazione di Samir Amin che comunque in Cina la partita del comunismo non è affatto conclusa perchè «le lotte sociali sono ancora un evento quotidiano e si contano a migliaia, spesso sono violente e non sempre finiscono in una sconfitta» (cit. a p. 29). D’altronde in un vecchio libro gauchiste sullo sviluppo economico della Cina di Mao leggo che, «a differenza della Russia in cui tutto il periodo staliniano si è fondato su un indebolimento della lotta di classe, il processo di accumulazione del capitale in Cina si scontra spesso con una intensificazione della lotta di classe» (C. Reeve, La tigre di carta, Edizioni la Fiaccola, 1974, p. 18), come è successo durante il Grande Balzo in Avanti e poi al tempo della Rivoluzione Culturale (cfr. K. Mehnert, A sinistra di Mao, Mondadori, 1970). E non è detto che non si ripeta ancora.

2. Ma torniamo, con Arrighi, alle origini. Due Avvisi fa avevo ricordato che nel 1776 Adam Smith aveva scommesso sulla Cina, invece che sull’Europa, nella vittoria nello “sviluppo industrioso” (manifatturiero) se mai «i cinesi (che) hanno scarsa considerazione del commercio estero,... aggiungessero a quel grande mercato interno il mercato estero di tutto il resto del mondo» (cit. a p. 72). La Rivoluzione industriale ha però stravolto la gara e portato l’Europa al successo, con la Cina ridotta per un secolo (1842-1949) alla dominazione imperialistica  da cui si è riscattata con la rivoluzione maoista. Poi la “guerra fredda” l’ha confinata dietro una cortina di bambù (equivalente asiatico della “cortina di ferro”) in un controverso processo d’industrializzazione interna da cui è uscita trionfalmente con quella stupefacente ammissione al WTO. Che comunque non è stata digerita facilmente se nel 2002 c’era ancora chi ammoniva gli USA a «tagliare le gambe alla Cina, proprio come hanno tagliato le gambe alla Germania imperiale nella Prima guerra mondiale, all’impero giapponese nella Seconda guerra mondiale e all’Unione sovietica nella Guerra fredda» (cit. a p. 230). Ma, che a Washington non ci abbiano pensato o non ci siano riusciti, resta il fatto che nel 2004 già si prevedeva l’avvento di un secolo cinese: «se mai gli Stati Uniti avranno un successore nel ruolo di comando del mercato mondiale, questo sarà la Cina» (cit a p. 235).

Ma davvero? Al proposito Arrighi recupera (alle pp. 257-279) l’idea dello spostamento geografico del centro imperialista di Fernand Braudel. In sintesi si sostiene che il “centro” è dapprima solidamente industriale e quindi domina, ma quando poi si fa finanziario è maturo per passare le consegne ad un altro. Ciò è stato vero per gli olandesi, che passarono la supremazia agli inglesi quando attorno al 1740 si trasformarono nei banchieri d’Europa, poi per la Gran Bretagna che alla fine dell’Ottocento si votò alla finanza per farsi superare dagli Stati Uniti, e ora sta succedendo agli americani giunti al termine della loro traiettoria imperiale essendo entrati in quello «stadio dell’espansione finanziaria che possiamo concepire come un chiaro segnale autunnale dello sviluppo» (F. Braudel, cit. a p. 260).

Tuttavia, abbandonando la produzione industriale a favore delle attività finanziarie), gli Stati Uniti si sono ridotti a dipendere dalle manifatture altrui: nel 2004 (sono le ultime cifre che conosco) su di un consumo di 3070,7 miliardi di dollari di manufatti il 49,7% derivava dalle importazioni, di cui il 27,4% provenienti al di fuori dell’Europa, Giappone e Canada. E’ stata questa svolta degli scambi internazionali che ha consentito prima alle “tigri asiatiche”di Corea del Sud, Filippine, Indonesia e poi anche all’India e alla Cina “rossa” di scaricare sui mercati del ”centro” le proprie esportazioni manifatturiere. Per la Cina è stato l’adempimento della profezia di Adam Smith, avendo finalmente aggiunto al mercato interno anche «il mercato estero di tutto il resto del mondo»!

E per gli Stati Uniti? Lungo tutto il XX secolo essi si sono battuti per una politica della porta aperta all’esportazione dei loro manufatti all’estero. Scomparsa l'Unione Sovietica e portata la Cina nel WTO, si può dire che abbiano raggiunto anche l’ultimo obiettivo, ma con un paradossale effetto controproducente perchè adesso loro non esportano più manufatti, mentre è la Cina «a chiedere sbocchi commerciali negli Stati Uniti» (p. 310) e «a competere strategicamente con gli Stati Uniti per l’accesso alle risorse scarse del pianeta» (P. Krugman, cit. a p. 311). Insomma, a “porta aperta” realizzata è la Cina “rossa” che si presenta sul mercato mondiale a vendere manufatti e ad acquistare materie prime alla maniera dell’Inghilterra dell’imperialismo del libero scambio (vedi Avviso n. 41). Che dedurne allora? Che, «proprio come gli Stati Uniti furono alla fine i veri vincitori della Seconda guerra mondiale,... così oggi tutto sembra indicare nella Cina il vero vincitore della guerra al terrorismo» (pp. 291-292).

 Quindi Arrighi passa a descrivere (pp. 313-337) le tre strategie alternative che gli Stati Uniti hanno cercato di opporre all’ascesa economica della Cina: “venirne a patti” (implorando la rivalutazione dello yuan), “mostrando i muscoli” (imponendo dazi sulle loro esportazioni), “farne a meno” (ripristinando una produzione manifatturiera interna almeno nei settori strategici). Ma con poco costrutto se nei fatti la politica di Washington si è «ridotta ad un incoerente miscuglio di tutte e tre» (p. 312). E nell’incoerenza americana la Cina “rossa” ha proseguito la propria crescita manifatturiera interna e la propria espansione commerciale esterna, riparata dalle curiosità straniere da «una grande muraglia di incognite» (cit. a p. 343).

E siamo così giunti a pagina 344, ma il libro di Arrighi non è ancora terminato e soprattutto Smith a Pechino non s’è ancora visto.

E’ solo a p. 345 di Adam Smith a Pechino  che Giovanni Arrighi affronta lo specifico della Cina. Non sono un sinologo e quindi non posso giudicare se la dice tutta giusta. Però la dice interessante e quindi annoto puntualmente.

Come al solito, si parte alla lontana, da una lunga storia economica che aveva mostrato uno stile di sviluppo divergente da quello europeo perché di «natura introversa» (p. 357) invece che estroversa. Infatti, se dal Cinquecento in poi gli stati europei hanno mostrato una tendenza alla competizione militare e all’espansione geografica, in Cina nulla di ciò. Dalla dinastia Ming (1368-1644) a quella Qing (1644-1911) la Cina ha goduto di un «pace dei 500 anni» (p. 352), affidata alla sicurezza della Grande Muraglia e volgendo le spalle al mare (nonostante la precoce, ma abortita, esplorazione oceanica dell’ammiraglio Zheng He tra 1405 e 1433). Ai governanti cinesi premeva soprattutto integrare il paese «in un’unica economia nazionale a base agricola» (p. 360), così da consolidare quella «più grande economia di mercato dei loro tempi» (p. 357) che Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni (1776) segnalava come il «modello esemplare del percorso “naturale” alla ricchezza» (p. 364) perché capace di assicurare ai suoi abitanti una condizione alimentare migliore di quella europea.

E’ però col passaggio dell’Europa al capitalismo che a luogo d’incontro tra asiatici ed europei si sostituisce «la frontiera del mare al posto di quella della steppa» (cit. a p. 365). Tuttavia i governanti cinesi non sono in grado «di “vedere” il salto di qualità che il livello di violenza nella regione si apprestava a compiere ad opera degli aggressivi “barbari” in arrivo via mare... Così, quando l’assalto arrivò, ebbe come conclusione scontata l’incorporazione dell’Oriente asiatico in posizione subordinata all’interno del sistema europeo in fase di globalizzazione» (p. 372). I giochi si aprono tra XIX e XX secolo: dall’aggressione imperialistica britannica delle “guerre dell’oppio” (1840-42 e 1856-1860), con inframezzo la mastodontica rivolta contadina dei Taiping (1849-1864) che ha fatto 25 milioni di morti, alle mire imperialistiche giapponesi che, dalla guerra del 1894, conducono all’occupazione della Manciuria nel 1931 e quindi all’invasione militare (1937-1945). Si capiscono allora le ragioni della tenace resistenza antimperialista del Partito Comunista di Mao Zedong che porta alla sua vittoria nel 1949 ed inaugura la storia della Cina “rossa”.

A tutto questo, che è noto, Arrighi aggiunge la vicenda della diaspora dei cinesi d’oltremare, da lungo tempo presente sui mercati del Sud-est asiatici, che si alimenta per la fuga dal comunismo. Coccolati da americani e giapponesi, con cui hanno fatto ottimi affari al tempo della Guerra Fredda, questi cinesi d’oltremare sono «emersi sempre più come una delle più potenti reti capitalistiche della regione, mettendo in ombra per molti aspetti perfino le reti organizzate dalle multinazionali americane e giapponesi. Ma le opportunità maggiori per incrementare la loro ricchezza e il loro potere sono arrivate negli anni ottanta, con la reintegrazione della Cina continentale nei mercati regionali e globali. Da questo punto di vista è stata cruciale l’apertura del Partito comunista al commercio estero e agli investimenti stranieri che con i loro successi hanno aperto... la fase del ritorno della Cina al centro dell’economia della regione» (p. 386). Sono infatti i capitali cinesi di Honk Kong e Taiwan che dal 1978 (con Deng al posto di Mao) ritornano per essere investiti in Cina, e non tanto per l’abbondanza di manodopera a basso prezzo (come si crede) quanto per «l’alta qualità della sua forza-lavoro in termini di salute e istruzione e margini d’autonomia» (p. 387). Si realizza così una convergenza d’interessi economici tra Partito comunista ed investitori cinesi “stranieri” che non viene scalfita dalla crisi di piazza Tien-an-men, tanto che quando anche i capitalisti occidentali prendono ad investire, quelli cinesi «stavano investendo ancor di più» (p. 389). Eppure non c’è da temere - esultava un’agenzia americana nel 2003 - perché c’era guadagno per tutti davanti ad un mercato potenziale di «un miliardo e duecento milioni di consumatori» (cit. a p. 389).

Contemporaneamente la Cina comincia ad esportare verso il “centro” imperialistico (Stati Uniti ed Europa), fino ad essere ammessa ufficialmente nel WTO nel dicembre 2001. E’ la data che per Giulio Tremonti (La paura e la speranza, Mondadori, 2008, p. 32) segna il fatto che, «dopo il muro di Berlino, è caduto anche il muro di Pechino», con la differenza però che il muro di Berlino è franato politicamente travolgendo l’URSS e gli stati satelliti, mentre quello di Pechino è solo svanito economicamente e la Cina “rossa” è rimasta sempre lì, impegnata a rovesciare sul mercato mondiale le sue merci low cost. E così essa ha potuto «combinare i vantaggi di un processo d’industrializzazione orientato all’esportazione, in gran parte sostenuto dagli investimenti stranieri, con quelli di un’economia nazionale concentrata invece sul consumo interno, protetta, in modo informale, dalla lingua e dalle usanze e strutturata in reti e istituzioni che rimangono accessibili agli stranieri solo attraverso la mediazione d’intermediari locali» (p. 393). Era questa peraltro la via peculiare dello sviluppo che le aveva auspicato Smith nel 1776, basata su di un vasto mercato interno su cui cresce il commercio estero. E qui c’è da sfatare la leggenda che l’economia cinese sia dipendente dalle esportazioni e quindi più che sensibile alle vicende del commercio internazionale. La prova è cercata nella incidenza delle esportazioni sul PIL che dal 10% del 1990 sono salite al 40%, ma si tratta appena di un equivoco statistico perché il PIL e le esportazioni non sono grandezze confrontabili tra loro.

Nella contabilità nazionale a fronte del PIL vanno poste le esportazioni al netto delle importazioni, dopo di che ne risulta che il saldo commerciale netto cinese non supera il 10% del PIL al punto che, con un mercato interno che pesa sul PIL per il 90%, l’economia cinese è domestic-led quasi esattamente come gli Stati Uniti (cfr. J. Anderson, Is China export-led?, “Asian Focus. UBS Investment Research”, 27.9.2007).

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