Print
Hits: 2658
Print Friendly, PDF & Email
punto rosso

I campi di battaglia prescelti dall’imperialismo contemporaneo: condizioni per una risposta efficace dal Sud del mondo

Samir Amin

Nell’arte della guerra ogni belligerante sceglie il terreno di battaglia più favorevole per sferrare l’attacco e cerca di imporlo al suo avversario perché questo si metta sulla difensiva. Lo stesso avviene in politica, a livello nazionale e nelle battaglie di carattere geopolitico.

Attualmente, più o meno negli ultimi 30 anni, le potenze che costituiscono la Triade dell’imperialismo collettivo (Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone) hanno individuato due campi di battaglia: “la democrazia” e “l’ambiente”.

Questo scritto vuole prima di tutto esaminare dal punto di vista concettuale e sostanziale i due temi scelti dalla Triade, analizzandoli criticamente dal punto di vista dei popoli , delle nazioni e degli stati a cui essi sono indirizzati, i paesi del Sud, dopo quelli dell’ex-Oriente. Ci occuperemo, inoltre, del ruolo degli strumenti utilizzati dalle strategie imperialiste per condurre la loro battaglia: la globalizzazione ‘liberale’, con l’ideologia che ne è alla base (l’economia tradizionale), la militarizzazione della globalizzazione, ‘il buon governo’, ‘gli aiuti’, ‘la guerra al terrorismo’ e la guerra preventiva con l’ideologia che ne è al seguito (il post-modernismo culturale). Di volta in volta indicheremo le condizioni per una risposta efficace, da parte dei popoli e degli stati del Sud, alla sfida della ristrutturazione dell’imperialismo della “Triade”.

 ‘Democrazia’, quale ‘democrazia’?

E’ stato un colpo di genio della diplomazia dell’alleanza atlantica quello di scegliere come campo la ‘democrazia’ per sferrare l’offensiva che fin dall’inizio mirava allo smantellamento dell’Unione Sovietica e alla riconquista dei paesi dell’Europa Orientale. Tale decisione risale agli anni ’70 e poco alla volta si è cristallizzata nella Conferenza per l’Organizzazione della sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) fino alla ratifica degli Accordi di Helsinki nel 1975. Jacques Andreani, nel suo libro dal titolo evocativo Le Piège , Helsinki et la chute du communisme (La trappola, Helsinki e la caduta del comunismo), spiega come i Sovietici, che si aspettavano un accordo sul disarmo della NATO e una vera e propria distensione, molto semplicemente furono tratti in inganno dai loro partners occidentali. 1

E’ stato un colpo di genio, dal momento che la ‘questione della democrazia’ era un problema reale e nessuno poteva dire che il regime sovietico fosse nei fatti una ‘democrazia’, comunque si considerasse il problema . Al contrario, i paesi dell’Alleanza atlantica potevano essere definiti ‘democratici’, nonostante i limiti e le contraddizioni presenti nella loro effettiva pratica politica, subordinata alle richieste della riproduzione capitalistica.. Il paragone tra i due sistemi deponeva a loro favore.

Il discorso sulla ‘democrazia’ è stato gradualmente sostituito da quello condiviso dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati: la ‘coesistenza pacifica”, con il ‘rispetto’ per le pratiche politiche delle due parti e la ‘non interferenza’ nei loro affari interni.

Il discorso della coesistenza aveva registrato momenti importanti. Ad esempio, negli anni ’50 l’Appello di Stoccolma richiamava la reale minaccia nucleare contenuta nella aggressiva attività diplomatica degli Stati Uniti fin dalla Conferenza di Potsdam (1945), accresciuta dal bombardamento atomico del Giappone, avvenuto solo pochi giorni dopo la conferenza. La scelta di tale strategia (coesistenza e non-interferenza) era comunque utile - oppure poteva tornare utile, a seconda delle circostanze - alle potenze dominanti sia a Est che a Ovest, poiché consentiva a ciascuna delle realtà definite rispettivamente dai termini ‘capitalista’ e ‘socialista’ di essere riconosciute sia dai paesi dell’Est che dell’Ovest, cancellando qualsiasi seria contestazione sulla vera natura dei due sistemi: cioè, sull’analisi del capitalismo effettivamente esistente nel nostro tempo (il capitalismo degli oligopoli) e sulla realtà del socialismo . Le Nazioni Unite (con il tacito accordo delle potenze dei due mondi) cambiarono i termini ‘capitalismo’ e ‘socialismo’ con ‘economia di mercato’ e ‘pianificazione centralizzata dell’economia’ ( ovvero, a voler essere maliziosi, con ‘economia amministrata’).

I  due termini - ciascuno dei quali è falso ( o vero solo in modo superficiale) – ha reso talvolta possibile la ‘convergenza dei sistemi’- convergenza imposta dalla moderna tecnologia (una teoria -anch’essa falsa- derivata da una concezione monistica, tecnicistica della storia). Essa accettava anche la coesistenza per facilitare questa convergenza ‘naturale’, oppure, al contrario, a un certo punto della guerra fredda, enfatizzava l’irriducibile opposizione tra il modello ‘democratico’ (collegato all’economia di mercato) e il ‘totalitarismo’ (prodotto dall’economia ‘amministrata’).

La scelta di concentrare la battaglia sulla ‘democrazia’ consentiva di optare per la ‘inesorabilità’ dei sistemi ed offrire ai paesi dell’Est, come unica prospettiva, quella di capitolare ritornando al sistema capitalista (il ‘mercato’) che naturalmente avrebbe creato le condizioni per la democratizzazione. Che ciò non si sia verificato (nella Russia post-sovietica) o abbia assunto forme palesemente caricaturali ( per i gruppi etnici sparsi nell’Europa orientale) è un’altra questione.

Il  discorso ’democratico’ dei paesi dell’Alleanza Atlantica, infatti, è recente. Fin dagli inizi la NATO si è perfettamente adeguata al Portogallo di Salazar, ai generali turchi e ai colonnelli greci. Mentre le diplomazie della Triade sostenevano ( e spesso instauravano) le peggiori dittature che l’America Latina, l’Africa e l’Asia abbiano mai conosciuto.

Inizialmente il discorso democratico fu affrontato con grande reticenza. Molte tra le principali autorità politiche dell’Alleanza atlantica si resero conto dei problemi che avrebbero potuto turbare la ‘realpolitik’ da loro preferita. Soltanto con la nomina di Carter alla Presidenza degli Stati Uniti (quasi come per Obama oggi) si comprese il sermone ‘morale’ connesso con la democrazia. Fu Mitterand in Francia a rompere con la tradizione gollista di rifiutare la ‘divisione’ imposta all’Europa dalla strategia della guerra fredda gestita dagli Stati Uniti. In seguito, l’esperienza di Gorbaciov in Unione Sovietica fece capire che sostenere quel discorso avrebbe sicuramente portato alla catastrofe.

Così il nuovo discorso ‘democratico’ portò i suoi frutti. All’opinione di ‘sinistra’ in Europa sembrava abbastanza convincente sostenerlo. Il che avvenne non solo per la sinistra elettorale (i partiti socialisti) ma anche per coloro che erano di tradizione più rivoluzionaria, dei quali erano eredi i partiti comunisti. Con l’’eurocomunismo’ il consenso divenne generale.

Le classi dominanti della Triade imperialistica appresero la lezione dalla loro vittoria. Decisero allora di continuare con la strategia di far convergere il dibattito sulla ’questione democratica’. La Cina non viene rimproverata per aver aperto la propria economia al mondo esterno, ma perché è gestita da un partito comunista. Non si dà alcun credito alle conquiste sociali di Cuba, che non hanno eguali in tutta l’America Latina, ma viene costantemente stigmatizzato il suo sistema monopartitico. Lo stesso vale per la Russia di Putin.

L’obbiettivo di una simile strategia è dunque il trionfo della democrazia? Bisogna essere molto ingenui a pensarlo. L’unico scopo è quello di imporre ai paesi recalcitranti ‘l’economia di mercato’, aperta e integrata nel cosiddetto sistema mondiale ‘liberale’.

Il quale in realtà è imperialista ed ha come unico fine quello di ridurre quei paesi allo stato di periferie sottomesse al sistema. Obbiettivo, questo, che, una volta raggiunto, diviene un ostacolo all’avanzamento della democrazia nei paesi che ne sono vittime,e non rappresentare in alcun modo un progresso della ‘questione democratica’.

Le possibilità di progresso democratico nei paesi del ‘ socialismo reale’ (per lo meno all’inizio) sarebbero state molto superiori nel medio termine se non nell’immediato. La dialettica delle lotte sociali sarebbe stata abbandonata a favore di uno sviluppo interno, rendendo possibile il superamento dei limiti del ‘socialismo reale’ (per altro parzialmente deformato da una certa adesione all’economia liberale) per arrivare ‘in fondo al tunnel’.

Nei fatti il tema ‘democratico’ viene invocato solamente contro quei paesi che non vogliono aprire all’economia liberale globalizzata. Vi è meno interesse per i regimi molto autocratici, di cui l’Arabia Saudita e il Pakistan, ma anche la Georgia (che è favorevole dell’Alleanza atlantica) e molti altri sono un esempio evidente.

Inoltre la formula ‘democratica’ quasi non supera, al meglio, la caricatura di ‘elezioni multi-partitiche’ che non solo ignorano totalmente i bisogni del progresso sociale, ma sempre - o quasi sempre - registrano un regresso che il dominio del capitalismo esistente ( quello degli oligopoli) richiede e produce. Questa formula ha già ampiamente minato la democrazia, con la quale alcuni popoli profondamente confusi, hanno sostituito i riferimenti religiosi ed etnici del proprio passato.

Ora più che mai è dunque necessario inasprire la critica della sinistra radicale (e sottolineo radicale per distinguerla dalla critica della sinistra, che è generica e crea confusione). In altri termini, deve trattarsi di una critica che, invece che distaccarsene, collega la democratizzazione della società (e non solo la sua gestione politica) con il progresso sociale in una prospettiva socialista. In una critica di questo tipo la lotta per la democratizzazione e quella per il socialismo sono la stessa cosa. Non vi è socialismo senza democrazia, ma non vi è neppure progresso democratico senza una prospettiva socialista.

 

‘L’ambiente’, ovvero la prospettiva socialista del valore d’uso? La questione dell’ecologia e il cosiddetto sviluppo sostenibile,

Anche qui, il punto di partenza è il riconoscimento di un problema reale, la distruzione dell’ambiente naturale e la stessa sopravvivenza della vita sul pianeta attuata dalla logica dell’accumulazione di capitale.

Anche qui, la questione risale agli anni ’70, e più precisamente alla Conferenza di Stoccolma del 1972,. Eppure è stata a lungo un problema di minore entità, posto ai margini in tutti i discorsi e le pratiche dominanti che riguardano la gestione economica. Solo di recente essa è stata posta in primo piano come questione centrale della strategia dominante.

Perciò solo più avanti il lavoro dei Wackernagel e Rees (la cui prima edizione in inglese risale al 1996) produsse una riflessione importante e di nuovo tipo intorno al pensiero sociale di stampo radicale sulla costruzione del futuro. 2

Wackernagel e Rees portarono alla ribalta una nuova categoria, quella dell’orma ecologica, e non solo. Essi elaborarono un sistema per misurarla, definito in termini di ‘ettari globali’, mettendo a confronto la bio-capacità di società e paesi (la loro capacità di produrre e riprodurre le condizioni di vita del pianeta) con il consumo delle risorse a loro disposizione grazie a questa bio-capacità.

Gli autori pervennero a una conclusione inquietante. La bio-capacità del nostro pianeta, in termini umani, è di 2,1 ettari globali (gha) pro capite – in altri termini, 13,2 miliardi di gha per una popolazione di 6,3 miliardi di persone. Comunque, il livello medio delle risorse a livello mondiale raggiungeva già – a metà degli anni novanta – 2,7gha. Il termine ‘medio’ nasconde una enorme disparità: la media dei paesi della Triade aveva già quadruplicato la media mondiale. Gran parte della bio-capacità delle società del Sud era stata assorbita dal centro per il proprio profitto. In altri termini, l’espansione del sistema capitalista in atto sta distruggendo il pianeta e il genere umano, mentre il persistere della logica di tale espansione richiede un vero e proprio genocidio dei popoli del Sud che ne sono coinvolti, o per lo meno, il loro permanere in uno stato di povertà sempre crescente. Si sta costituendo una corrente eco-fascista che tende a legittimare questo tipo di soluzione del problema.

L’interesse di questo studio va al di là delle sue conclusioni, poiché fa il calcolo ( e sottolineo il calcolo, non il discorso) del valore d’uso delle risorse del pianeta, che viene misurato in ettari globali (gha) e non in dollari.

In tal modo si dimostra che è possibile calcolare il valore d’uso sociale in modo assolutamente razionale. Questa prova ha un impatto decisivo, poiché il socialismo è definito come società basata sul valore d’uso e non sul valore di scambio. E i paladini del capitalismo come fine-della-storia hanno sempre sostenuto che il socialismo è un’utopia priva di senso reale poiché, secondo loro, il valore d’uso non può essere misurato se non in relazione con il valore di scambio (basato sulla ‘utilità’ dell’economia volgare).

Tenere conto del valore d’uso ( di cui l’orma ecologica costituisce il primo buon esempio) comporta che il socialismo deve essere ‘ecologico’, e non può essere altro che ‘ ecologico’. Come ha osservato Altvater “Socialismo solare” o “Nessun socialismo”.3 Ciò implica , come vedremo, che è impossibile per un sistema capitalista di qualsiasi tipo, anche se ‘riformato’, tenerne alcun conto.

Ai suoi tempi, Marx non ebbe solo il sospetto che esistesse il problema. Aveva già elaborato una rigorosa distinzione tra valore e ricchezza, che furono poi confusi dall’economia volgare. Egli disse esplicitamente che l’accumulazione capitalista distruggeva le basi naturali su cui si fonda la vita : l’essere umano (il lavoratore alienato, sfruttato, oppresso) e la terra (simbolo della ricchezza naturale donata all’umanità). Pur con tutti i limiti, tale espressione - prigioniera, come sempre, del suo tempo - mostra veramente una lucida consapevolezza del problema (ben al di là dell’intuizione) che dovrebbe esserle riconosciuta.

Per questo è un vero peccato che gli ecologisti del nostro tempo, Wackernagel e Rees compresi, non abbiano letto Marx. Ciò li avrebbe aiutati a spingere oltre le loro affermazioni, comprendendone meglio l’impatto rivoluzionario fino a superare Marx, su questo tema, naturalmente.

Questa carenza dell’ecologia moderna rende più facile che essa venga adottata e fatta propria dall’economia volgare che si trova in posizione preminente nel mondo contemporaneo. Tale appropriazione è già in atto – ed è anche molto avanti.

L’ecologia politica, come quella proposta da Alain Lipietz, fu dapprima patrimonio della sinistra “pro-socialista”. Poi il movimento dei ‘verdi’ (e, in seguito, il partito dei ‘verdi’), furono definiti di centro sinistra per la evidente simpatia per la giustizia sociale e internazionale, per la critica dei ‘rifiuti’ e per l’empatia con i lavoratori delle popolazioni ‘povere’. Ma, al di là delle diversità di questi movimenti tra loro, nessuno di essi ha stabilito una rigorosa relazione tra un’autentica dimensione socialista necessaria per rispondere alla sfida e l’altrettanto necessaria dimensione ecologica. Riuscire a farlo, trovando la distinzione tra valore e ricchezza, come posta da Marx, non è cosa da da poco.

L’assunzione dell’ecologia da parte dell’economia volgare agisce a due livelli: riducendo il calcolo del valore d’uso a un calcolo ’migliorato’ del valore di scambio e integrando anche la sfida ecologica nell’ideologia del ‘consenso’. Entrambe queste operazioni impediscono di raggiungere una lucida consapevolezza del fatto che ecologia e capitalismo sono antagonisti nella loro essenza più profonda.

L’economia volgare sta recuperando a passi da gigante il calcolo ecologico. Sia negli Stati Uniti che in Europa sono stati mobilitati a questo scopo migliaia di giovani ricercatori .

I ‘costi ecologici’ vengono in tal modo assimilati a fatti esteriori. Il comune metodo di analisi di costi/benefici per misurare il valore di scambio (che a sua volta è confuso con il prezzo di mercato) viene allora utilizzato per arrivare a un ‘prezzo giusto’, integrando l’economia esterna e le ‘diseconomie’. E il gioco è fatto!

Naturalmente il lavoro, che è squisitamente matematico, quando viene compiuto secondo il metodo tradizionale dell’economia volgare non dice quanto il ‘prezzo giusto’ che è stato calcolato possa divenire quello del mercato effettivo. Ci si immagina che vi saranno incentivi fiscali o d’altro tipo abbastanza efficaci da produrre la convergenza. Però non vi sono prove che ciò possa verificarsi.

Di fatto, come si può vedere, gli oligopoli si sono appropriati della questione ecologica per giustificare l’apertura a nuovi campi della loro espansione distruttiva. François Houtart ne fornisce un esempio eccellente nel suo libro sugli agro-combustibili.4 Il capitalismo ‘verde’ è oggi all’ordine del giorno per le potenze della Triade (sia a destra che a sinistra) e per i dirigenti degli oligopoli. Naturalmente l’ecologismo in questione si adegua a una cosiddetta ‘sostenibilità debole’ – per usare il gergo corrente – cioè, al marketing dei ‘diritti di accesso alle risorse del pianeta’. 5 Tutti gli economisti tradizionali si sono precipitati senza problemi su questa posizione, proponendo “l’appalto delle risorse mondiali (diritti di pesca, permessi di inquinare, ecc.)”. Questa è un’affermazione che semplicemente sostiene l’ambizione degli oligopoli di ipotecare ulteriormente il futuro dei popoli del Sud.

L’appropriazione del discorso ecologista rende un servizio assai utile all’imperialismo. Essa consente di marginalizzare, se non di eliminare, il tema dello sviluppo. Sappiamo bene che tale questione non è entrata nell’agenda internazionale fino a quando i paesi del Sud sono strati in grado di imporla autonomamente, costringendo i paesi della Triade a negoziare e fare concessioni. Ma una volta conclusa l’era di Bandung, non si è più trattato di una questione di sviluppo, bensì dell’apertura dei mercati. E l’ecologia, come la intendono i paesi dominanti, non fa altro che prolungare questo stato di cose.

L’assunzione del discorso ecologista attraverso la politica del consenso (espressione necessaria del concetto di capitalismo come fine della storia) è andato avanti, nonostante tutto.

Appropriarsene è stato facile, poiché esso rappresenta una risposta alle alienazioni e alle illusioni di cui si alimenta la cultura dominante, che è quella capitalista. È stato facile perché questa cultura in realtà non esiste, è insita nella mente della maggior parte degli esseri umani, nel Sud come nel Nord. Per contro appare difficile esprimere i bisogni di una contro-cultura di tipo socialista. Essa non è qui, di fronte a noi, rappresenta il futuro e deve essere inventata, è un progetto di civiltà aperto alla creatività. Le formule del tipo “socializzazione attraverso la democrazia e non attraverso il mercato” e “dominio culturale invece che economico fornito dalla politica” non bastano, nonostante il successo ottenuto all’inizio del processo di trasformazione. Poiché si tratterà di un lungo percorso ‘secolare’: la ricostruzione della società sulla base di principi diversi da quelli del capitalismo, sia a Nord che a Sud , non può essere ‘rapida’. Eppure la costruzione del futuro, sebbene lontana nel tempo, inizia oggi.

 

L’economia convenzionale: uno strumento ideologico basilare per la riproduzione capitalistica.

Il discorso dell’economia convenzionale definisce l’attuale sistema come ‘economia di mercato’. Esso è inadeguato e persino ingannevole: come abbiamo già detto chiaramente, potrebbe altrettanto bene descrivere l’Inghilterra del diciannovesimo secolo, la Cina e le dinastie Ming e Sung e le città del Rinascimento italiano.

La teoria della ‘economia di mercato’ è sempre stata la spina dorsale della ‘economia volgare’. Tale teoria esclude come prima cosa il nucleo essenziale della realtà - i rapporti sociali di produzione (in particolare , la proprietà come espressione immediata di quei rapporti, elevata a principio sacro). Esso viene sostituito da un’ipotesi di società composta da ‘individui’ (che, in ultima analisi, diventano agenti attivi nella riproduzione del sistema e della sua evoluzione). Tali individui (homo economicus) sono astorici, identici a quelli che, fin dalle origini dell’umanità (Robinson Crusoe) possiedono le stesse, immutate qualità (egoismo, capacità di calcolare e operare scelte a loro personale beneficio). Pertanto costruire la ‘economia di mercato’ su queste basi non costituisce necessariamente una seria formulazione del capitalismo reale e storico, ma crea un sistema immaginario entro il quale non vengono introdotti quasi del tutto gli essenziali elementi costituti vi della realtà capitalista.

Il Capitale di Marx smaschera la natura ideologica (nel senso funzionale della parola) di questa costruzione dell’economia volgare a partire da Fréderic Bastiat e Jean-Baptiste Say, la cui funzione è stata semplicemente quella di legittimare l’ordine sociale esistente, rendendolo simile a un ‘ordine razionale e naturale’. Le successive teorie del valore – l’utilità e l’equilibrio economico generale, elaborate come risposta a Marx negli ultimi trent’anni del XIX secolo, oltre a quelle della loro erede , l’economia matematica contemporanea, descritte come classiche, neoclassiche, liberiste, neoliberiste (il nome in realtà non ha importanza) – non divergono molto dai principi dell’economia volgare.

Il discorso dell’economia volgare aiuta a favorire i bisogni della produzione e della riproduzione del capitalismo attuale.

Esso fa il panegirico della ‘concorrenza’ sopra ogni altra cosa quale condizione essenziale per il ‘progresso’ e nega alla solidarietà questo attributo (nonostante gli esempi forniti dalla storia), riducendola entro la camicia di forza della compassione e della carità. Può trattarsi di concorrenza tra ‘produttori’ (cioè i capitalisti, senza considerare la forma oligopolistica di produzione capitalista contemporanea) o tra ‘lavoratori’ (il che presume che i disoccupati o i ‘poveri’ siano responsabili della loro situazione). L’esclusiva della ‘concorrenza’ viene sottolineata dal nuovo linguaggio (‘partners sociali’ invece che classi in conflitto) come pure dalle pratiche del Tribunale dell’amministrazione statale dell’Unione europea, tra gli altri, che è acceso sostenitore dello smantellamento dei sindacati come ostacolo alla concorrenza tra i lavoratori.

L’adozione della concorrenza come principio esclusivo è anche un invito alla società a sostenere la creazione di un ‘consenso’ che non consente di immaginare il progetto di un’ ‘altra società’ fondata sulla solidarietà. L’ideologia della società del consenso che sta per essere adottata in Europa, distrugge la potenzialità di cambiamento insita nel messaggio democratico e si fa portatrice del messaggio libertario della destra che considera lo Stato - di qualsiasi tipo esso sia – ‘nemico della libertà’ ( ossia nemico della libertà dell’impresa capitalista), mentre la pratica della democrazia viene espulsa dal progresso sociale.

 

Vi sono problemi reali nel mondo contemporaneo, al di là dell’economia volgare.

L’economia volgare cancella semplicemente dal campo delle sue ‘analisi’ i principali problemi reali posti dalla diffusione del capitalismo storico nel corso della sua conquista del mondo. Ora ne richiameremo brevemente la natura.

 

Al centro del problema attuale: il capitalismo degli oligopoli che è stato generalizzato, globalizzato e finanziarizzato.

Il capitalismo ha raggiunto un livello di centralizzazione e di concentrazione di capitale che supera qualsiasi paragone con quanto esisteva solo 50 anni fa e quindi io lo descrivo come capitalismo degli oligopoli generalizzati. ‘I monopoli’ (o meglio, gli oligopoli) non sono davvero una nuova invenzione nella storia moderna. La novità sta nel numero limitato di oligopoli registrati, che arriva a circa 500, se si considerano soltanto i colossi, e in un elenco completo va da 3000 a 5000. Con le loro decisioni oggi essi determinano l’intera vita economica del pianeta e ben di più. Questo capitalismo degli oligopoli generalizzati rappresenta dunque un balzo in avanti nell’evoluzione complessiva del sistema capitalista.

Motivo di questa evoluzione – di solito è l’unico – è ritenuto essere il progresso tecnologico. Ciò è vero solo in parte - e tuttavia è importante precisare che le invenzioni tecnologiche sono a loro volta richieste dalla concentrazione e dal gigantismo. Per buona parte della produzione l’efficienza non solo non richiede il gigantismo, bensì imprese ‘piccole’ o ‘medie’. È il caso della produzione agricola, nella quale l’ agricoltura moderna, a gestione famigliare, si è dimostrata più efficiente. Ma ciò è vero anche per molti altri tipi di produzione di merci e servizi subordinati agli oligopoli, i quali decidono le condizioni della loro sopravvivenza.

Di fatto la vera ragione è la ricerca del massimo profitto che va a beneficio di potenti gruppi che hanno accesso prioritario ai mercati del capitale. La concentrazione è sempre stata la risposta del capitale alle lunghe e profonde crisi che ne hanno segnato la storia. In tempi recenti è avvenuto per la prima volta dopo la crisi che ha avuto inizio nel 1870 e per la seconda volta esattamente un secolo dopo, negli anni ’70.

La concentrazione sta all’origine della ‘finanziarizzazione’ del sistema, poiché è così che gli oligopoli dirottano il valore del surplus globale proveniente dal sistema di produzione, un ‘monopolio di rendita’ che permette ai gruppi oligopolistici di accrescere notevolmente il loro tasso di profitto. L’imposta è ottenuta grazie all’accesso esclusivo degli oligopoli ai mercati finanziari e monetari, che diventano così i mercati dominanti.

La ‘finanziarizzazione’ non è davvero il risultato di una spiacevole deriva conseguente alla ‘deregulation’ dei mercati finanziari, e tanto meno è dovuta a ‘incidenti’ (come i subprimes) su cui l’economia volgare e il suo discorso politico di accompagnamento concentrano l’attenzione popolare. Si tratta di un’esigenza necessaria alla riproduzione del sistema degli oligopoli generalizzati. In altri termini, fintantoché il loro status privato non è messo in discussione, non vi è modo di affrontare una coraggiosa ‘regolazione’ dei mercati finanziari.

Il capitalismo degli oligopoli generalizzati e finanziarizzati è anche globalizzato.

Inoltre la ‘globalizzazione’ non è affatto una nuova caratteristica del capitalismo, che è sempre stato ‘globalizzato’. Io mi sono spinto più avanti nella descrizione della globalizzazione capitalista, sottolineandone l’insita natura ‘polarizzante’ (che produce un divario crescente tra i centri ‘sviluppati’ del sistema e le sottomesse periferie). Ciò si è verificato in tutti gli stadi dell’espansione capitalista nel passato e nel presente e così pure avverrà in un prevedibile futuro. Ho anche avanzato la tesi che la nuova fase della globalizzazione fosse necessariamente collegata all’emergenza dell’imperialismo collettivo della Triade’.

La nuova globalizzazione è di per sé inseparabile dal controllo esclusivo dell’accesso alle risorse naturali del pianeta da parte dell’imperialismo collettivo. Ne deriva che la contraddizione centro/periferia - in termini correnti, il conflitto tra Nord e Sud – è centrale in qualsiasi trasformazione possibile del capitalismo esistente nel nostro tempo. E in modo ancor più accentuato che in passato ciò richiede il ‘controllo militare del pianeta’ da parte del centro imperialista collettivo.

Le diverse ‘crisi sistemiche’ che sono state studiate e analizzate - lo sperpero dell’energia che è insito nella natura del sistema produttivo, la crisi agricola e alimentare e via dicendo – sono strettamente connessi alle esigenze della riproduzione capitalista degli oligopoli generalizzati, finanziarizzati e globalizzati. Se non si mette in discussione lo status di questi oligopoli, qualsiasi strategia politica mirante a risolvere la ‘crisi sistemica’ – le formule dello ‘sviluppo sostenibile’-finiranno per essere solo chiacchiere.

Il capitalismo degli oligopoli generalizzati, finanziarizzati e globalizzati è quindi diventato un sistema ‘obsoleto’, nel senso che la socializzazione degli oligopoli, ossia l’abolizione del loro status privato, a questo punto dovrebbe diventare l’obbiettivo strategico essenziale in qualsiasi analisi critica del mondo reale. Se questo non avviene il sistema di per sé può solo produrre distruzioni sempre più barbare e criminali e persino l’annientamento dello stesso pianeta. Di certo comporterà la devastazione delle società delle periferie : quelle dei cosiddetti ‘paesi emergenti ‘ ed anche di quelle dei paesi marginalizzati.

Il carattere obsoleto del sistema in questo stadio della sua evoluzione è di per sé inseparabile dai cambiamenti nella struttura delle classi di governo (‘la borghesia’), della pratica politica, dell’ideologia e della cultura politica. La borghesia storica sta scomparendo dalla scena per essere sostituita dalla plutocrazia dei ‘capi’ degli oligopoli. La deriva della pratica di una democrazia svuotata di ogni contenuto e l’emergere di manifestazioni ideologiche ultra-reazionarie sono il necessario corredo del carattere obsoleto del capitalismo contemporaneo.

Il dominio degli oligopoli si esercita all’interno della Triade imperialista in condizioni diverse e con mezzi diversi da quelli usati nelle periferie del sistema. Si tratta di una differenza sostanziale, indispensabile per identificare le maggiori contraddizioni del sistema ed immaginare poi la possibile evoluzione del conflitto Nord/Sud, che probabilmente si acuirà.

La Triade imperialista collettiva comprende gli Stati Uniti e le sue province esterne (il Canada e l’Australia), l’Europa centrale e orientale e il Giappone. I monopoli globalizzati sono frutto della concentrazione del capitale nazionale entro gli Stati della Triade. I paesi dell’Europa dell’Est , persino quelli che ora fanno parte dell’Unione Europea, non hanno neppure i loro oligopoli ‘nazionali’ e perciò rappresentano unicamente un campo d’espansione degli oligopoli dell’Europa occidentale (in particolare dalla Germania). Essi sono ridotti allo status di periferie . Il loro rapporto impari con l’Europa occidentale è, mutatis mutandis, analogo a quello che lega l’America latina agli Stati Uniti (e, per inciso, all’Europa occidentale e al Giappone).

Nella Triade gli oligopoli occupano l’intera scena nelle decisioni economiche . Il loro dominio si esercita in modo diretto su tutte le società che producono merci e servizi, come istituzioni (banche e altro) che il loro potere genera. E si esercita in modo indiretto su tutte le imprese piccole e medie (in agricoltura come in altri campi di produzione), che spesso sono ridotti allo status di subappaltatori, continuamente subordinati alle restrizioni imposte dagli oligopoli ad ogni livello della loro attività. Gli oligopoli della Triade operano nei paesi della periferia usando vari metodi che descriveremo più avanti.

Gli oligopoli non dominano soltanto la vita economica dei paesi della Triade. Essi monopolizzano il potere politico a loro vantaggio, poiché i partiti politici che si presentano alle elezioni (sia di destra che di sinistra) sono loro debitori. Nel prossimo futuro la situazione sarà accettata come ‘legittima’, nonostante il danno che essa provoca alla democrazia. E continuerà indisturbata fino a quando, un bel giorno, forse, dei ‘fronti anti-plutocratici’ non potranno mettere in agenda l’abolizione della gestione privata degli oligopoli e la loro socializzazione in forme complesse ed elaborate con trasparenza.

Gli oligopoli esercitano il loro potere nelle periferie con modalità del tutto differenziate. È pur vero che la completa delocalizzazione e la pratica sempre più diffusa dei subappalti hanno conferito agli oligopoli della Triade un certo potere di intervento nella vita economica di vari paesi. Ma essi continuano a essere paesi indipendenti dominati da classi di governo locali attraverso cui gli oligopoli della Triade sono costretti ad operare. Esistono formule di ogni tipo che ne regolano i rapporti e vanno dalla diretta sottomissione delle classi di governo locali nei paesi ‘compradorizzati’ (‘ricolonizzati’), specie nelle periferie ‘marginalizzate’ (in particolare, ma non solo, in Africa) alle trattative talvolta ardue (con reciproche concessioni, obbligatorie) con le classi di governo, principalmente nei paesi ‘emergenti’ – in particolare la Cina.

Esistono oligopoli anche nei paesi del Sud. Si tratta dei grandi enti pubblici presenti nei sistemi exsocialisti ancora esistenti (in Cina, naturalmente, come in Unione Sovietica, ma anche, in scala ridotta, a Cuba e in Vietnam). Come anche in India , in Brasile e in altre zone del ‘Sud capitalista’: alcuni di questi oligopoli avevano uno status pubblico o semi-pubblico, mentre altri erano privati. Con l’estendersi del processo della globalizzazione , certi oligopoli, pubblici e privati) iniziarono ad operare oltre i confini assumendo i metodi usati dalla Triade. E tuttavia gli interventi oltre confine degli oligopoli del Sud sono - e resteranno a lungo – marginali se confrontati con quelli del Nord. Inoltre gli oligopoli del Sud non hanno preso il potere politico nei loro paesi a proprio esclusivo beneficio. In Cina la ‘statocrazia’ dello Stato-Partito rappresenta ancora la parte sostanziale del potere. In Russia, la mescolanza di oligarchie private/statali ha restituito allo Stato quel potere autonomo che dopo il crollo dell’Unione Sovietica per qualche tempo era andato perso. In India, in Brasile e in altri paesi del Sud il peso dell’oligarchia privata non è esclusivo : il potere è in mano ad ampi blocchi egemoni, tra cui la borghesia nazionale, la classe media, i proprietari di moderni latifondi e di contadini benestanti.

Tali condizioni rendono impossibile confondere lo Stato nei paesi della Triade (che funziona ad uso esclusivo dell’oligarchia ed è tuttora legittimo) e lo Stato nelle periferie. Queste non hanno mai avuto la stessa legittimazione come nel centro e potrebbero facilmente perdere quel poco che resta loro. Quelle che hanno potere sono di fatto fragili e vulnerabili di fronte alle lotte politiche e sociali.

È senza dubbio errata l’ipotesi- persino per i paesi emergenti – che tale vulnerabilità sia ‘transitoria’ e che possa diminuire con lo sviluppo del capitalismo locale, a sua volta integrato nella globalizzazione, come prevista dalla concezione lineare dei ‘gradi di sviluppo’ (formulata da Rostow nel 1960). Ma il pensiero convenzionale e l’economia volgare non possiedono gli strumenti intellettuali per capire che la ‘ripresa’ del sistema è impossibile e che il divario tra centro e periferia non potrà scomparire ‘gradualmente’.

Gli oligopoli e i poteri politici al loro servizio nei paesi della Triade continuano a perseguire l’unico scopo ‘di sollevarsi dalla crisi finanziaria’ e restaurare sostanzialmente il sistema com’era un tempo. Vi sono buone ragioni per credere che questa restaurazione – se avrà luogo, il che non è da escludere, anche se sarà molto più difficile di quanto si pensi – non può essere sostenibile, poiché implica il ritorno all’espansione della finanza, che è essenziale agli oligopoli se essi devono appropriarsi della rendita monopolistica unicamente a proprio vantaggio. Non è dunque da escludere un nuovo crollo della finanza ancor più sensazionale di quello del 2008. Ma queste considerazioni, oltre alla restaurazione dei sistemi per consentire la ripresa dell’espansione delle attività degli oligopoli, significherebbero l’aumento del processo di accumulazione mediante la spoliazione dei popoli del Sud (con l’appropriazione delle loro risorse naturali, tra cui i terreni agricoli). E il discorso ecologista dello ‘sviluppo sostenibile’ non prevarrà sulla logica di espansione degli oligopoli, che a parole sono ben capaci di fingere di ‘adottare’ quei paesi– come stiamo vedendo.

Le principali vittime della restaurazione saranno le nazioni del Sud, sia i paesi ‘emergenti’ che gli altri.

Per questo è molto probabile che in futuro i conflitti ‘Nord/Sud’ siano destinati ad estendersi. Le risposte che il ‘Sud’ darà a queste sfide potrebbero essere cruciali nella messa in discussione del sistema globalizzato. Il che non vorrà dire mettere in discussione il ‘capitalismo’ in modo diretto, ma sicuramente significherà mettere in discussione la globalizzazione guidata dagli oligopoli dominanti.

Fondamentalmente le risposte del Sud devono essere volte ad aiutare i loro popoli ad armarsi per far fronte all’aggressione degli oligopoli della Triade, ad agevolare il loro ‘distacco’ dal sistema di globalizzazione esistente e a promuovere alternative di cooperazione tra gli Stati del Sud.

La sfida allo status privato degli oligopoli da parte degli stessi popoli del Nord (il ‘fronte antiplutocratico’) rappresenta indubbiamente un obbiettivo strategico nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Obbiettivo che non è ancora politicamente maturo e non è facile da realizzare in un prevedibile futuro. Frattanto i conflitti tra Nord e Sud probabilmente si avvicineranno a una fase cruciale.

 

Il Capitalismo, una parentesi della storia.

Il principio dell’accumulazione infinita che è proprio del capitalismo è sinonimo di crescita esponenziale e questa, come il cancro, finisce con la morte. Stuart Mill, che lo aveva capito. pensava che tale processo irrazionale sarebbe stato fermato a uno ‘stato stazionario’. Keynes condivideva questo ottimismo della Ragione. Ma né l’uno né l’altro riuscirono a capire come si sarebbe imposto il necessario superamento del capitalismo. Mentre Marx, nell’assegnare alla nuova lotta di classe il suo compito, immaginò il superamento del potere della classe capitalista, che oggi si concentra nelle mani dell’oligarchia.

L’accumulazione, altra parola per dire impoverimento, costituisce l’obbiettivo di fondo delle lotte contro il capitalismo. Però essa si realizza soprattutto attraverso il contrasto crescente tra l’opulenza delle società del centro che beneficia delle rendite imperialiste e la miseria delle società delle periferie dominate. Questo conflitto diviene in tal modo il tema centrale dell’alternativa ’socialismo o barbarie’.

Storicamente, ‘il capitalismo esistente oggi si è attuato in forme successive di accumulazione mediante la spoliazione , non solo nella fase iniziale (‘accumulazione primitiva’), ma ad ogni stadio del suo sviluppo. Una volta costituitosi, il capitalismo ‘atlantico’ è partito alla conquista del mondo e alla sua ricostruzione con la spoliazione permanente delle regioni conquistate, che sono così divenute le periferie dominate del sistema’.6

La ‘vittoriosa’ globalizzazione si è dimostrata incapace di imporsi in modo durevole. Neanche mezzo secolo dopo il suo trionfo, che avrebbe persino potuto sembrare l’inaugurazione della ‘fine della storia’, ha subito la sfida della semi-periferia russa e delle vittoriose lotte di liberazione in Asia e in Africa che hanno segnato la storia del XX secolo – la prima ondata di lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.

L’accumulazione mediante spoliazione è proseguita sotto i nostri occhi nel capitalismo dei contemporanei oligopoli. Nel centro, i monopoli alla ricerca di rendita, di cui beneficiano i plutocrati oligopolisti, sono l’equivalente della spoliazione dell’intera base produttiva della società. Nelle periferie , questa vorace spoliazione viene rappresentata dall’espropriazione dei contadini e dal saccheggio delle risorse naturali della regione interessata. Queste due pratiche costituiscono i puntelli essenziali delle strategie d’espansione del successivo capitalismo degli oligopoli.

È in questo contesto che io pongo al centro della sfida del XXI secolo la ‘nuova questione agraria’. La spoliazione dei contadini (asiatici, africani e latino-americani) costituisce la principale forma contemporanea di tendenza all’impoverimento (nel senso dato da Marx a questa ’legge’) che si accompagna all’accumulazione. La cui attuazione non può essere separata, da parte degli oligopoli, dalla conquista dell’imperialismo della rendita, con o senza agro-carburanti. Ne deduco che lo sviluppo delle lotte per i terreni coltivabili, la risposta che attraverso di esse verrà data al futuro delle società agricole del Sud (quasi metà del genere umano) determinerà la capacità dei lavoratori e dei popoli di progredire verso una civiltà autentica, liberata dal dominio del capitale, per la quale io non trovo altro nome che ‘socialismo’. 7

Il saccheggio delle risorse naturali del Sud rende necessario il perseguimento di un consumo rovinoso ad esclusivo vantaggio delle società ricche del Nord e distrugge qualsiasi prospettiva di uno sviluppo degno di questo nome per i popoli del Sud, costituendo in tal modo l’altra faccia della medaglia, cioè l’impoverimento a livello mondiale. Di conseguenza la ‘crisi energetica’ non è causata dalla scarsità di alcune risorse necessarie alla produzione (il petrolio, naturalmente), e non è neppure il risultato degli effetti distruttivi delle attuali forme di produzione e di consumo basate su di un vorace spreco di energia.. Essendo pura realtà, esse rappresentano soltanto la prova evidente del problema. Invece questa è una crisi prodotta dal desiderio degli oligopoli di un imperialismo collettivo per garantirsi il monopolio di accesso alle risorse naturali del pianeta, più o meno rare che siano, al fine di appropriarsi della rendita imperialistica, sia che l’utilizzo di tali risorse rimanga oppure no, come oggi (basato sullo spreco e sul consumo rovinoso dell’energia) oppure le risorse saranno soggette a nuove politiche ecologiche ‘correttive’. Prevedo quindi che la ricerca di una strategia d’espansione da parte del tardo capitalismo degli oligopoli necessariamente finirà per scontrarsi con una resistenza sempre crescente da parte delle nazioni del Sud.

 

Da una lunga crisi all’altra

La crisi attuale non è né finanziaria e non è neppure un insieme di più crisi sistemiche, bensì è la crisi del capitalismo degli oligopoli, il cui supremo ed esclusivo potere rischia di essere messo alla prova , ancora una volta, dalle lotte di tutte le classi popolari e da quelle dei popoli e delle nazioni delle periferie subalterne, che sembrino ‘emergenti’ oppure no. Ed è al tempo stesso una crisi dell’egemonia statunitense. Il capitalismo degli oligopoli, il potere politico delle oligarchie, la globalizzazione barbara, la finanziarizzazione, l’egemonia degli Stati Uniti, la gestione militarizzata di una globalizzazione al servizio degli oligopoli, il declino della democrazia, la razzia delle risorse del pianeta, l’abbandono di una prospettiva di sviluppo del Sud: tutto ciò è indissolubilmente collegato.

La vera sfida quindi è la seguente: riusciranno le lotte a convergere aprendo la strada, o le strade, verso la lunga transizione al socialismo mondiale? Oppure resteranno separate l’una dall’altra, entrando anche in conflitto tra loro, divenendo in tal modo inefficaci e lasciando l’iniziativa al capitale degli oligopoli?

Vale la pena tornare alla prima lunga crisi del capitalismo, che ha segnato il XX secolo, dato che il parallelo tra i livelli di sviluppo in queste due crisi è davvero strabiliante.

Il capitalismo industriale trionfante nel XIX secolo entrò in crisi nel 1873. Il saggio di profitto crollò, per le ragioni dimostrate da Marx. Il capitale reagì in due modi : con la concentrazione e con l’espansione globale. I nuovi monopoli s’impossessarono della rendita imposta sul valore di tutto il surplus derivante dallo sfruttamento del lavoro e accelerarono la conquista coloniale del pianeta. Queste trasformazioni strutturali fecero sì che si avessero nuovi vertiginosi profitti e aprirono la strada alla ‘Belle Epoque’ – nel periodo tra il 1890 e il 1914 – il che significò il dominio globalizzato del capitale da parte dei monopoli finanziari. A quel tempo il discorso dominante glorificava la colonizzazione (la ‘missione civilizzatrice’) e definiva la globalizzazione come garanzia di pace. La democrazia sociale dei lavoratori europei aderì a questo discorso.

Eppure la ‘Belle Epoque’, definita ‘la fine della storia’ da parte delle ideologie dominanti a quel tempo, sfociò in una guerra mondiale, come soltanto Lenin aveva previsto. E la fase che ne seguì, fino al periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, doveva essere un’epoca di ‘guerre e rivoluzioni’. Nel 1920, essendo stata isolata la Rivoluzione Russa (‘l’anello debole’ del sistema), dopo la sconfitta delle speranze rivoluzionarie nell’Europa centrale, il capitale dei monopoli finanziari ripristinò la ‘Belle Epoque’ , al di là di ogni previsione. Questo periodo di restaurazione, al tempo denunciato da Keynes, fu alle origini del crollo finanziario del 1929 e delle successive depressioni che continuarono fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Il ‘lungo XX secolo’ – dal 1873 al 1990 – vide dunque imperversare la prima profonda crisi sistemica del tardo capitalismo (tanto che Lenin pensava che quel capitalismo monopolista costituisse il ‘più alto stadio del capitalismo’), oltre alla prima ondata trionfante delle rivoluzioni anti-capitaliste (Russia, Cina) e delle lotte anti-imperialiste dei popoli dell’Asia e dell’Africa.

La seconda crisi sistemica del capitalismo ebbe inizio nel 1971, quando il dollaro perse la sua convertibilità con l’oro, esattamente quasi un secolo dopo la prima crisi. Il saggio di profitto e la crescita si ridussero molto (e non tornarono più agli stessi livelli di cui si erano giovati dal 1945 al 1975). Il capitale rispose alla sfida come nelle crisi precedenti: con un doppio movimento di concentrazione e globalizzazione. In tal modo ripristinò la struttura che doveva essere definita la seconda ‘Belle Epoque’ – dal 1900 al 2008 – di globalizzazione finanziaria che permetteva ai gruppi oligopolistici di mantenere la rendita di monopolio. Essa fu corredata dallo stesso discorso : il ‘mercato’ garantiva prosperità, democrazia e pace – era la ‘fine della storia’. E, come in precedenza, i socialisti europei si strinsero intorno al nuovo liberalismo. Eppure la nuova ‘Belle Epoque’ fu segnata, fin dall’inizio, dalla guerra del Nord contro il Sud, cominciata nel 1990. E così come la prima globalizzazione finanziaria aveva condotto al 1929, la seconda produsse il 2008. Ora siamo giunti al punto cruciale in cui è probabile una nuova ondata di ‘guerre e rivoluzioni’. Tanto più che i poteri non sanno concepire altro che la restaurazione del sistema per riportarlo allo stato in cui si trovava prima del crollo finanziario,

L’analogia tra lo sviluppo di queste due lunghe crisi sistemiche del tardo capitalismo è stupefacente. Vi sono, tuttavia, alcune differenze, dalle importanti implicazioni politiche.

 

La seconda ondata di emancipazione dei popoli: si tratterà di una ripetizione del XX secolo o di un progresso?

Il mondo contemporaneo è governato dalle oligarchie . Vi sono oligarchie finanziarie negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, che dominano non solo il mondo economico ma la politica e persino la vita quotidiana. Vi sono oligarchie russe che le imitano e che lo stato russo cerca di controllare. In Cina vi è una statocrazia. Vi sono, inoltre, autocrazie (a volte mascherate da una parvenza di democrazia elettorale di ‘bassa intensità’) che costituiscono parte del sistema mondiale in altre parti del pianeta. La gestione della globalizzazione contemporanea da parte delle oligarchie è ora in crisi.

Le oligarchie del Nord contano di restare al potere una volta che la crisi sarà passata. Non si sentono minacciate. D’altro canto la fragilità dei poteri delle autocrazie del Sud è del tutto evidente. Di conseguenza la globalizzazione attuale è vulnerabile e sarà messa in crisi dalla rivolta del Sud come è accaduto nell’ultimo secolo? È probabile, ma non basta. Poiché per intraprendere la strada del socialismo, unica alternativa al caos, l’umanità dovrà liberarsi dalle oligarchie, dai loro alleati e dai loro servitori, sia al Nord che al Sud.

Il capitalismo è ‘liberale’ per sua natura, vale adire che se per ‘liberalismo’ si intende non il grazioso appellativo che ispira il termine, ma l’esercizio completo del dominio del capitale, non solo sul lavoro e sull’economia, ma su tutti gli aspetti della vita sociale. Non esiste ‘economia di mercato’ (il modo corrente di definire il capitalismo) senza una ‘società di mercato’. Il capitale persegue inesorabilmente il suo obbiettivo – fare soldi. L’accumulazione per l’accumulazione. Marx, ma anche altri pensatori critici dopo di lui, come Keynes, lo avevano capito perfettamente. Ma non i nostri economisti convenzionali, compresi quelli di sinistra.

Questo dominio totale ed assoluto del capitale era stato imposto in modo inesorabile dalle classi di governo durante tutto il lungo periodo della precedente crisi fino al 1945. Soltanto la tripla vittoria della democrazia, del socialismo e la liberazione nazionale dei popoli ha reso possibile, dal 1945 al 1980 la sostituzione di questo modello permanente di ideale capitalista con la coesistenza conflittuale di tre modelli sociali regolati, il Welfare State della democrazia sociale occidentale , il socialismo dei paesi dell’Est e il nazionalismo populista del Sud. La perdita di slancio e il conseguente crollo di questi tre modelli ha permesso il ritorno del dominio esclusivo del cosiddetto capitale neoliberista.

Il disastro sociale scatenato dal liberalismo – ‘l’utopia permanente del capitale’ come l’ho definita – ha inevitabilmente ispirato una grande nostalgia del passato, sia recente che remoto. Ma la nostalgia non ha facilitato la formulazione di una risposta alla sfida, poiché essa è stata il prodotto dell’immiserimento del pensiero critico teoretico che poco a poco ha impedito di capire le contraddizioni interne e i limiti del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, le cui erosioni, i cui spostamenti e i cui crolli sono apparsi come inattesi cataclismi.

Tuttavia nel vuoto creato dal declino del pensiero critico teoretico è riuscita a svilupparsi una nuova consapevolezza della crisi sistemica di civiltà. Mi riferisco qui agli ecologisti. Ma i Verdi, che pretendevano di distinguersi dai Blu (i conservatori e i liberali) e dai Rossi (i socialisti) sono rimasti invischiati in un impasse per non avere integrato la dimensione ecologica con una critica radicale del sistema.

Il tutto contribuì a garantire il trionfo – di fatto temporaneo, ma ritenuto definitivo – dell’alternativa della cosiddetta ‘democrazia liberale’. Un modo di pensare meschino . un vero e proprio non-pensiero – che non tiene in alcun conto le critiche determinanti di Marx alla borghesia democratica ignorando il fatto che coloro che decidono non sono quelli su cui ricadono le decisioni. Chi decide, approfittando della accresciuta libertà di controllo della proprietà, sono oggi i plutocrati del capitalismo degli oligopoli e gli Stati che sono loro debitori. Naturalmente i lavoratori e i popoli coinvolti sono poco più che vittime. Eppure quelle illusioni avrebbero potuto apparire credibili, almeno per un certo tempo, per la deriva dei sistemi post-bellici, la cui origine i dogmatici non si sono sentiti autorizzati a comprendere. Fu così che la democrazia liberale poté apparire come ‘il migliore dei sistemi possibili’.

Attualmente, i poteri, non avendo a loro volta previsto nulla, stanno facendo del loro meglio per restaurare lo stesso sistema. Il loro eventuale successo, come quello dei conservatori del 1920 – che all’epoca Keynes denunciò senza che nessuno lo appoggiasse – non potrà far altro che esacerbare le condizioni che sono state la causa del crollo del 2008.

Il recente incontro del G20 (Londra, aprile 2009) non ha promosso alcuna ‘ricostruzione del mondo’ . E non è un caso che sia stato seguito da quello della NATO, braccio armato dell’imperialismo contemporaneo e dal rafforzamento della sua occupazione militare dell’Afghanistan. La guerra permanente del ‘Nord’ contro il ‘Sud’ deve proseguire.

Abbiamo già visto come i governi della Triade – Stati Uniti, Europa e Giappone – perseguano l’esclusivo obbiettivo di restaurare il sistema come esso era prima del settembre 2008. Ma, fatto ancor più interessante, i leaders dei ’paesi emergenti’ che erano stati invitati sono rimasti zitti. Una sola frase intelligente è stata pronunciata durante il Grande Circo dal Presidente cinese Hu Jintao, che ha obbiettato, en passant, senza insistenza e con un sorriso (di scherno?) che bisognava finirla di prevedere un sistema finanziario mondiale basato sul dollaro. Alcuni rari osservatori hanno immediatamente - e a ragione – fatto un collegamento con le proposte di Keynes nel 1945.

Quest’ultima osservazione ci richiama alla realtà : che la crisi del sistema del capitalismo degli oligopoli è indissolubilmente legata a quella dell’egemonia degli Stati Uniti, che sta diventando incontrollabile. Ma chi li sostituirà? Certamente non l’Europa, che non esiste se non per l’atlantismo e non ha alcuna ambizione di indipendenza, come ha mostrato ancora una volta l’incontro della NATO. La Cina? Questa ‘minaccia’, sbandierata continuamente dai media (come ‘il pericolo giallo’) è infondata. Le autorità cinesi sanno che il loro paese non ne ha i mezzi e loro non hanno ambizioni. La strategia della Cina si accontenta di operare in direzione di una nuova globalizzazione senza egemonie. Il che è inaccettabile da parte degli Stati Uniti e dell’Europa.

Le possibilità di un eventuale sviluppo in quella direzione sono dunque in mano unicamente ai paesi del ’Sud’.

 

Un nuovo internazionalismo dei lavoratori e dei popoli è necessario e possibile

Il capitalismo storico, o come volete chiamarlo, è tutt’altro che sostenibile. Rappresenta solamente una breve parentesi della storia Metterlo in discussione dalle fondamenta – cosa che i pensatori contemporanei non sanno immaginare come ‘possibile’ o ‘desiderabile’ – è comunque la condizione essenziale per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli sottomessi (quelli delle periferie, vale a dire l’80% dell’umanità). E le due dimensioni della sfida sono inseparabili. Non è possibile por fine al capitalismo a meno che e a condizione che queste due dimensioni della stessa sfida non siano collegate tra loro. Non è ‘sicuro’ che ciò avvenga, nel qual caso il capitalismo sarà ‘superato’ dalla distruzione della civiltà ( che è ben più il disagio della civiltà, come lo definiva Freud) e forse anche di ogni forma di vita sulla terra. Rimane perciò lo scenario di una probabile riedizione del XX secolo, ma ciò che verrà totalmente a mancare il bisogno che l’umanità si impegni in una lunga transizione verso il socialismo mondiale. Il disastro liberale rende necessaria una rinnovata critica radicale del capitalismo. La posta in gioco è come costruire , o ricostruire l’internazionalismo dei lavoratori e dei popoli per affrontare al cosmopolitismo del capitale oligarchico.

La costruzione di questo internazionalismo può avvenire solo se si avranno degli avanzamenti di tipo rivoluzionario (come quelli avviati in America Latina e in Nepal) che possono aprire la strada al un superamento del capitalismo.

Nei paesi del Sud, la lotta di Stati e nazioni per una globalizzazione negoziata senza egemonie – l’attuale forma di autonomia – sostenuta dalle organizzazioni di protesta delle classi popolari- può arrivare a circoscrivere e limitare il potere degli oligopoli della Triade imperialista. Le forze democratiche dei paesi del ‘Nord’ devono appoggiare questa lotta. Il discorso ‘democratico’ che esse propongono, accettato da gran parte dei movimenti di sinistra (come avviene oggi) , prevede interventi ‘umanitari’ e patetiche campagne di ‘aiuti’ e ignora totalmente questa sfida.

Nei paesi del ‘Nord’ gli oligopoli sono già evidentemente ‘merce comune’ la cui gestione non può essere consegnata soltanto agli interessi privati (dati i risultati disastrosi della crisi). Una sinistra autentica deve avere il coraggio di affrontare le nazionalizzazioni come primo essenziale passo verso la loro socializzazione con una più incisiva pratica democratica. L’attuale crisi consente di pensare una possibile coagulazione delle forze politiche e sociali che metta insieme tutte le vittime del potere esclusivo delle oligarchie imperanti.

La prima ondata di lotte per il socialismo, quella del XX secolo, ha mostrato i limiti delle democrazie europee sociali, dei comunismi della terza internazionale e dei nazionalismi popolari dell’era di Bandung: un’occasione persa a cui è seguito il crollo delle ambizioni socialiste. La seconda ondata, quella del XXI secolo, deve trarne insegnamento. In particolare deve far convergere la socializzazione della gestione economica con un’accentuazione della democrazia nella società. Non vi sarà socialismo senza democrazia, ma parimenti non vi sarà alcun progresso democratico al di fuori di una prospettiva socialista.

Gli obbiettivi strategici richiedono una riflessione da parte delle classi dominate e sfruttate su come costruire la’convergenza nella diversità’ (per citare un’espressione del Forum Mondiale delle Alternative), delle varie forme di organizzazione e di lotta. E non intendo condannare né escludere fin da ora quelle forme che, a modo loro, si collegano alla tradizione delle democrazie sociali, dei comunismi e dei nazionalismi popolari.

Mi sembra necessario riflettere sul rinnovamento che porti a un marxismo creativo. Marx non è mai stato tanto utile e necessario come oggi per comprendere e trasformare il mondo odierno, forse ancor più che in passato. Essere marxisti, secondo un metodo concepito e praticato dal marxismo storico nel secolo scorso, significa allontanarsi da Marx, non restare con lui, o con un altro Lenin o con un altro Mao. Il marxismo creativo deve contribuire all’arricchimento di quel pensiero critico per eccellenza. Non deve aver paura di integrare tutti i contributi provenienti dalla riflessione teoretica in ogni campo, compresi quelli che sono stati a torto considerati ‘estranei’ dai dogmatici del marxismo storico del passato.

 

In conclusione: l’impotenza dell’economia volgare.

Nei momenti di ‘crisi’ come quello attuale appare evidente l’impotenza dell’economia volgare.

Il quotidiano Le Monde ha posto maliziosamente una domanda: “Come mai i cervelloni di Harvard non hanno previsto la crisi…?” Sono forse degli imbecilli? No di certo. Ma la loro intelligenza è totalmente assorbita dagli unici percorsi accettati dall’economia volgare e dalla falsa teoria di un ‘capitalismo immaginario dei mercati generalizzati’. Proprio come le belle menti di un’altra epoca credettero che il dibattito sul sesso degli angeli potesse contribuire a una migliore comprensione del mondo!

L’economia volgare, concentrata sull’analisi dei mercati che operavano sulla base di una ‘informazione imperfetta’ , è costretta a sostituire l’analisi della realtà capitalista con un gioco infinito di ipotesi sulle ‘anticipazioni’ ( in cui la matematica diviene indispensabile). Ipotesi che lasciano prevedere tutto e niente, come la acuta e realistica intelligenza di Keynes aveva colto così bene.

Di quali ‘anticipazioni’ si tratta? Soltanto di una serie di imbrogli. Le anticipazioni di coloro che vendono il loro lavoro? Questi sfortunati sanno di non avere scelta, Sanno anche di non poter migliorare le condizioni di vendita della loro forza lavoro senza organizzazione alcuna e senza una lotta di classe collettiva. Le anticipazioni dei consumatori che ‘scelgono’ (i loro ‘supermercati’?) e ‘scelgono’ qualsiasi investimento finanziario sappiano fare? I poveretti sono costretti a seguire i consigli dei banchieri, che sono i soli a decidere. Le anticipazioni degli imprenditori che decidono se investire oppure no? La storia dimostra, come Marx e Keynes avevano capito, che i cicli di forte investimento portano a un deprezzamento del capitale. Le anticipazioni dei possessori di capitali che scelgono tra un investimento a rischio e la liquidità? Si sono verificate bolle a ripetizione, le cui ragioni e i cui meccanismi sono stati perfettamente analizzati, ancora una volta da Marx, insieme alla scoperta da lui fatta dell’assoluta alienazione degli economisti volgari (‘denaro crea denaro’, ‘D crea D’, senza passare attraverso la produzione). Tutto ciò resterà sempre al di fuori del pensiero degli economisti convenzionali. Le anticipazioni degli speculatori di Borsa? Sappiamo bene che la posizione migliore è quella presa dai pecoroni che seguono la tendenza generale, il che non fa che accentuare le fluttuazioni.

Il naufragio nell’oceano delle anticipazioni porta inevitabilmente a ridurre la società a una sequela di individui e a una deliberata ignoranza delle realtà più importanti su cui si fonda il capitalismo (le classi, la proprietà privata, lo Stato, le nazioni, ecc.). Questa è una formulazione ideologica nel senso negativo del termine che è estremamente funzionale alla legittimazione delle pratiche reali del capitale dominante. Gli economisti volgari che pretendono di attribuire valore scientifico al loro lavoro non si rendono neppure conto di quello che fanno. Non riescono a rendersi conto che per produrre un lavoro scientifico, per avvicinarsi a una comprensione della realtà oggettiva, alla base del ragionamento deve esserci una critica radicale Gli economisti convenzionali non sono pensatori critici. Al massimo sono ‘tecnocrati’. Per riferirmi a loro mi piace usare il termine anglo-sassone di ‘executive’: essi sono agenti esecutivi , un tempo agli ordini del capitale, oggi agli ordini degli oligopoli.

Ecco perché le ‘critiche’ che essi muovono al sistema sono sempre marginali e le proposte di riforma che considerano ‘realistiche’ sono di fatto del tutto ‘irrealistiche’. E quando per qualche ragione morale la realtà li sconvolge (‘troppa povertà’- infatti, ‘troppa disuguaglianza’), la deriva diventa inevitabile e la politica ricorre agli auspici e ai sermoni pietosi.

Il bestseller di un premio Nobel dell’Economia (‘rigorosamente riservato agli economisti volgari) è a dir poco un lavoro mediocre. Quello di Joseph Stiglitz, dal pomposo titolo di Un altro mondo ne è un buon esempio.8

Stiglitz ‘scopre’ nel 2002 che il Washington Consensus non funzionava; scopre la verità sul comportamento del Fondo Monetario Internazionale, dell’Organizzazione del Commercio Mondiale, ecc. Più di metà delle 550 pagine di questo sovrastimato saggio sono dedicate alle ‘rivelazioni’ che altri avevano scoperto 30 o 40 anni fa! Stiglitz pensa di essere il primo a farlo, non avendo mai letto il lavoro dei pensatori critici ( e probabilmente non lo ha fatto). Non si tratta neppure di arroganza, ma soltanto di ignoranza. Un esempio spassoso: Stiglitz ‘scopre’ che nel 1990 c’è stato un accordo sui prezzi da parte di alcuni oligopoli! Fantastico! E che cosa propone per ricuperare la ‘concorrenza’? Una legge anti-trust e il ricorso ai tribunali, in puro stile statunitense!

Nel suo libro Stiglitz non si occupa della finanziarizzazione, di cui non dice quasi nulla e che considera inoffensiva, persino utile. Il pregevole lavoro del compianto Giovanni Arrighi sulla finanziarizzazione come ultimo stadio delle egemonie in declino è, ovviamente, del tutto ignorato.9 Evidentemente Stiglitz è stato colto di sorpresa dal crollo del 2008, sulla cui minaccia non si trova neppure una riga. Eppure altri (me compreso) nello stesso periodo avevano analizzato il sistema liberale globale definendolo instabile per sua natura, condannato quindi a crollare con una crisi finanziaria (il tallone di Achille del sistema, così lo chiamo io). Stiglitz evidentemente non ne sapeva niente.

L’immagine che egli dà di sé come colui che ‘rivela al mondo’ i ‘difetti’ del sistema è ridicola.

Perciò non sorprende che quanto ho chiamato ‘il rapporto Stiglitz’ non vada oltre l’ortodossia reazionaria e convenzionale. È stato il prodotto della commissione designata dall’allora Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Padre Miguel D’Escoto e successivamente affidata a Stiglitz, che nella versione definitiva del documento probabilmente ha imposto la sua superficiale e limitata percezione dei problemi.10

Il ‘fallimento’ che ne è derivato – il fatto che i paesi del Sud abbiano deciso di non essere rappresentati all’Assemblea Generale di giugno al livello richiesto – in effetti non è stato un buon segnale, mi pare. Ciò presuppone che i paesi del Sud avessero capito che quel rapporto – con il pretesto di essere un ‘consenso globale’ e ‘realistico’ – aderiva alla strategia del Nord sulla ‘risposta alla crisi’ e che le proposte erano ‘accettabili’ dagli oligopoli. Cambiare il mondo? Stiamo scherzando!

 

Globalizzazione, militarizzazione, ‘aiuti’, post-modernismo

Per mantenere la rendita di monopolio gli oligopoli non possono accontentarsi di defalcare soltanto le loro imposte dalle ‘economie nazionali’ La loro dimensione globalizzata consente loro di detrarre ancor più dalle economie delle periferie dominate, emergenti e marginalizzate. La rapina delle risorse dell’intero pianeta e il supersfruttamento dei lavoratori a forniscono in sostanza la rendita imperialista. A sua volta, ciò crea le condizioni del consenso sociale che poi si realizza nelle opulente società del Nord.

I discorsi sulla democrazia e l’ecologia sono solo maschere per nascondere i veri obbiettivi.

L’economia volgare è la chiave di volta dell’ideologia capitalista, come si sarebbe dovuto capire fin dalla comparsa della ‘critica dell’economia politica’ (sottotitolo del Capitale di Marx). L’economia volgare, riferendosi alla ‘non realtà’ (i mercati generalizzati) non merita di essere qualificata come scientifica come vorrebbe. Essa ha funzione sociale che assomiglia a quella della magia dei tempi antichi. Come quest’ultima fa ricorso a un linguaggio deliberatamente incomprensibile per i cittadini, mirando all’eliminazione del loro potere decisionale bombardandoli di ‘verità’ che si pretendono ‘oggettive’. Per contro, il linguaggio dell’autentico pensiero sociale rimane chiaro, come quello degli scritti di Marx, anche i più difficili: essi vogliono educare..

 

Sconfiggere il controllo militare del pianeta da parte degli imperialisti

La vera sfida che il popolo deve affrontare come prima cosa è la militarizzazione della globalizzazione. Infatti il controllo militare del pianeta da parte degli Stati Uniti e dei loro subalterni (NATO e Giappone) è divenuto l’unico modo, l’ultima possibilità, per estorcere la rendita imperialista senza la quale il sistema non sopravviverebbe. L’Impero del Caos, come io lo chiamo fin dal 1991, e la guerra permanente contro i popoli del Sud sono esattamente la stessa cosa. Per questo uno dei primi obbiettivi strategici delle forze democratiche e progressiste sia del Nord che del Sud, deve essere la sconfitta delle forze armate della Triade, per costringere gli Stati Uniti ad abbandonare le basi sparse per tutti i continenti e smantellare la NATO.11

Probabilmente è questo l’obbiettivo del ‘Gruppo di Shanghai’ che ha si rifà allo spirito di ‘non allineamento’, nel senso di ‘non allineamento alla globalizzazione imperialista e al progetto politico e militare della Triade.’

Credo che vi sia un parallelo con la storia di Bandung. Anche prima della conferenza con questo nome (1955) e prima del ‘non allineamento’ (1960), alcuni gruppi di pensatori radicali si mobilitarono per individuare una possibile ed efficace contro-strategia per i popoli dei paesi afroasiatici che costringesse l’imperialismo di quel tempo ad arretrare. L’autore del presente saggio ebbe l’onore e il piacere di partecipare a uno di quei gruppi per il Medio Oriente fin dal 1950. Oggi manca un’iniziativa del genere.

 

Gli ‘aiuti’, strumento complementare di controllo dei paesi vulnerabili.

Gli ‘aiuti internazionali’, spacciati come indispensabili per la sopravvivenza dei ‘paesi sotto – sviluppati’ (terminologia usata dalle Nazioni Unite per identificare molti paesi africani e alcuni altri) hanno un preciso ruolo. Poiché il loro vero obbiettivo, rivolto ai paesi più vulnerabili della periferia, è quello di creare un ulteriore ostacolo alla loro partecipazione a un fronte alternativo del Sud.12

Il concetto di ‘aiuti’ risulta stretto in una camicia di forza. Le strutture sono state definite dalla Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degli aiuti (2005), stilata dalla OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) e poi sono state imposte ai beneficiari. La condizione generale, l’allineamento ai principi della globalizzazione liberale, è onnipresente. A volte viene detto in modo esplicito: promuovere la liberalizzazione, aprire i mercati, diventare ‘attraenti’ all’investimento straniero privato. Talvolta viene espresso indirettamente: rispetto delle regole del WTO (World Trade Organization). Un paese che rifiuta di sottoscrivere questa strategia – definita unilateralmente dal Nord (la Triade) – perde il diritto di essere scelto per gli aiuti. Per questo la Dichiarazione di Parigi rappresenta un passo indietro – e non in avanti – se paragonata alle pratiche dei ‘decenni dello sviluppo’, gli anni 1960-70 – quando veniva riconosciuto ai paesi del Sud il principio della libera scelta nel seguire il sistema economico e le politiche sociali.

In tali condizioni le politiche degli aiuti e gli evidenti obbiettivi immediati non possono essere separati dalle strategie geopolitiche dell’imperialismo, dato che le diverse regioni del mondo non svolgono le stesse funzioni nel sistema liberale globalizzato. Non basta richiamare il loro comune denominatore (la liberalizzazione degli scambi commerciali, l’apertura ai mercati finanziari, le privatizzazioni).

L’Africa Sub-Sahariana è molto ben integrata nel sistema globale e non è affatto marginalizzata come inopinatamente si afferma fin troppo spesso ,. Il commercio estero rappresenta il 45 % del suo PIL , contro il 30% dell’Asia e dell’America Latina e il 15 % di ciascuna regione facente parte della Triade. L’Africa è dunque quantitativamente ‘più’ integrata e non ‘meno’, ma in modo diverso.13

La geo-economia della regione dipende da due sistemi produttivi che determinano la sua struttura e definiscono la sua posizione all’interno del sistema globale: a) l’esportazione di prodotti agricoli ‘tropicali’: caffè, cacao, cotone, noccioline, frutta, olio di palma, ecc., e b) idrocarburi e minerali: rame, oro, metalli rari, diamanti, ecc. I primi servono alla ‘sopravvivenza’ ( se si esclude il cibo consumato dai contadini locali), finanziano la trasposizione dello Stato nell’economia locale e, mediante la spesa pubblica, il riprodursi delle’classi medie’. Questo tipo di produzione interessa più le classi di governo locali che l’economia dominante, la quale è estremamente concentrata sui prodotti derivanti dalle risorse naturali del continente. Oggi sono gli idrocarburi e i minerali rari, domani saranno le riserve per lo sviluppo degli agro carburanti, il sole (quando nel giro di una ventina d’anni sarà reso possibile il trasporto dell’energia solare sulle lunghe distanze ), l’acqua (quando si potrà ‘esportarla’ in modo diretto o indiretto).

Nelle zone rurali dell’America Latina è iniziata la corsa alla produzione degli agro-carburanti. La cosa è già cominciata in Madagascar con la concessione di vaste zone nella parte occidentale del paese. L’applicazione del Codice rurale congolese nel 2008, ispirato dagli aiuti provenienti dal Belgio e dalla FAO , sicuramente farà sì che l’’agrobusiness’ subentri alle coltivazioni agricole su vasta scala per ‘sfruttarle’, esattamente come il Codice minerario ha già permesso l’accaparramento delle risorse minerarie nella ex-colonia. Saranno gli ‘inutili’ contadini a pagarne il prezzo e la crescita della miseria che li attende forse in futuro richiederà assistenza umanitaria e programmi di ‘aiuti’per ridurre la povertà! Negli anni ’70 ho appreso di un vecchio sogno coloniale per il Sahel che prevedeva l’espulsione della popolazione (degli inutili saheliani) per costruire degli enormi ranch in stile texano per l’allevamento di bestiame destinato all’esportazione.

La nuova fase storica apertasi è segnata dall’inasprimento dei conflitti per l’accesso alle risorse naturali del pianeta. La Triade intende riservare per sé l’esclusiva dell’accesso a questa Africa ‘utile’ (quella delle riserve di risorse naturali) impedendolo ai paesi ‘emergenti’ i cui bisogni in questo senso sono fin da ora grandi e sono destinati a crescere. Garantirsi l’accesso esclusivo significa controllo politico e riduzione dei paesi africani allo stato di ‘stati clienti’.

Pertanto non è sbagliato ritenere che l’intento degli aiuti è di ‘corrompere’ le classi di governo. A parte l’appropriazione finanziaria (ben nota, ahimé, e della quale vogliamo pensare che i donatori non siano responsabili in alcun modo), gli ‘aiuti’ sono diventati ‘indispensabili’ come importante fonte di finanziamento e svolgono una funzione politica. È necessario, dunque, che gli aiuti siano intesi come flusso permanente e che vengano eliminati da un serio impegno per lo sviluppo. È importante che essi non vengano consegnati esclusivamente e totalmente alle classi al potere, al ‘governo’, ma devono andare anche alle ‘opposizioni’ che sono capaci di sostituirle. In questo caso sta alla cosiddetta società civile e a certe organizzazioni non-governative (le OGN) a doversi attivare. Gli aiuti in questione, per essere davvero politicamente efficaci devono anche favorire l’ingresso dei contadini nel sistema globale, come ulteriore fonte di rendita per lo Stato, contribuendo a potenziare la ‘modernizzazione ‘dei raccolti per l’esportazione. La critica della destra agli aiuti parte dal concetto che liberarsi da questa dipendenza aprendo ancor più al capitale straniero è compito dei paesi interessati. Questa è stata la sostanza del discorso di Sarkozy a Dakkar e quello di Obama ad Accra. Un appello di questo genere ignora la questione reale, poiché gli aiuti, in quanto parte integrante della strategia imperialista, sono di fatto intesi a marginalizzare i popoli dell’Africa, inutili e fastidiosi, per proseguire al meglio la rapina delle loro risorse!

La critica degli ‘ingenui riformatori’ di sinistra, che poi è quella di molte ONG, accetta che i ‘donatori’ onorino i loro impegni, limitandosi a chiacchiere senza senso sulla ‘capacità di assorbimento’, sulla ‘performance’ e il ‘buon governo’ suggerite dalla società civile e chiedendo aiuti ‘migliori e più consistenti’!! Per contro, la critica radicale è favorevole allo sviluppo autonomo. In questo contesto ci si immagina che gli aiuti derivino dalla solidarietà internazionale, in contrapposizione e al cosmopolitismo del capitale.

 

Povertà, società civile, buon governo: la debole retorica del discorso dominante

La pretesa è quella di avere come obbiettivo la ‘riduzione, se non l’eliminazione della povertà’ sostenendo la ‘società civile’ perché si sostituisca con un ‘governo buon’ quello che è ritenuto ‘cattivo’.

Di per sé il termine ‘povertà’ è frutto di un linguaggio vecchio come il mondo, quello della carità (di origine religiosa o altro). Un retaggio del passato che non appartiene al presente e tanto meno al futuro, che mutua il linguaggio del pensiero sociale moderno e cerca di accreditarsi come scientifico – utile, cioè, a scoprire i meccanismi che producono un fenomeno visibile da tutti.

La debordante mole di produzione letteraria sulla povertà verte esclusivamente – o quasi – sulla ‘definizione’ e quantificazione del problema. Non si pone domande del tipo ’quali meccanismi producono la povertà di cui parliamo?’ Esiste qualche legame con le regole fondamentali (come la concorrenza) che governano i nostri sistemi? In particolare, per quanto riguarda i paesi del Sud che ricevono aiuti, vi è qualche relazione tra le strategie di sviluppo e le politiche ad esso finalizzate?

Il concetto di ‘società civile’, pur se inteso in modo serio (e non in modo generico) , è stato elevato a livelli tali da poter rientrare in un dibattito serio che abbia dignità scientifica?

Così come viene proposta, la ‘società civile’ rientra nell’ideologia del consenso. Un duplice consenso: a) non esiste alternativa all’’economia di mercato’ (che a sua volta è un ‘espressione generica utile a sostituire l’analisi del ‘capitalismo attuale’); b) non c’è alternativa alla democrazia rappresentativa che si basa su elezioni multi-partitiche ( ritenuta ‘la democrazia’) che vuole sostituire il concetto di democratizzazione della società in quanto processo senza fine.

Invece la storia delle lotte ha visto emergere le culture politiche del conflitto che si fondano sul riconoscimento del contrasto tra interessi nazionali e sociali e che cambia il significato dei termini di ‘sinistra’ e ‘destra’. Alla democrazia creativa viene attribuito il diritto e il potere di immaginare diverse alternative e non una sola alternativa all’esercizio del potere ( cambiando il nome per fare la stessa cosa).

Hanno inventato il termine ‘governance’ come sostituto a quello di ’potere’. La contrapposizione tra due aggettivi qualificativi – buona o cattiva governance – evoca un pensiero manicheo e moralista che sfugge a un’analisi della realtà il più scientifica possibile. Ancora una volta questa è una moda proveniente dall’altra parte dell’Atlantico dove il sermone morale ha spesso dominato il discorso politico. La ‘buona governance’ necessita che ‘colui che decide’ sia ‘giusto’, ‘obbiettivo’ (capace di trovare la ‘soluzione migliore’), ‘neutrale’ ( capace di accettare una presentazione equilibrata degli argomenti del dibattito) e sopratutto ‘onesto’ ( comprendendo nel termine il significato più blando, di natura finanziaria, della parola). Se si legge la letteratura prodotta su questo tema dalla Banca Mondiale, a giudicare dal tono lamentoso – di solito appannaggio degli uomini di chiesa o di legge (e di poche donne) – ci si trova rimbalzati nell’Oriente dei tempi antichi, quello del ‘despota giusto’ (e neppure illuminato!).

L’ideologia sottesa viene chiaramente usata semplicemente per liquidare la questione reale: quali interessi sociali rappresenta o difende il potere al governo, qualunque esso sia? Il cambiamento di potere, così come si presenta, in che modo può procedere fino a divenire poco alla volta strumento della maggioranza e soprattutto delle vittime del sistema? Va da sé che sotto questo punto di vista la ricetta elettorale multi-partitica mostra i suoi limiti.

 

Il discorso ‘post-modernista’

Chiude il discorso il post-modernismo, da alcuni chiamato ‘nuovo spirito del capitalismo’, mentre sarebbe meglio definirlo l’ideologia del tardo capitalismo degli oligopoli. Un recente libro di Nkolo Foe offre una impressionante descrizione di come esso serva assai bene a servire gli interessi reale dei poteri dominanti.14

Il Modernismo ebbe inizio in Europa con l’Illuminismo nel XVIII secolo, unitamente al trionfo della forma storica del capitalismo europeo e dell’imperialismo che lo segue di pari passo e che ha poi conquistato il mondo. Esso soffre di limiti e contraddizioni. La sua ambizione di universalità trova definizione nella dichiarazione dei diritti dell’uomo (ma non necessariamente della donna!), che in realtà sono i diritti dell’individualismo borghese. Il capitalismo reale a cui viene associata questa forma di modernità è inoltre un imperialismo che nega i diritti dei popoli non europei conquistati e subordinati alle imposizioni della forma di rendita capitalista.

Si rende dunque necessaria una critica della modernità borghese e capitalista. Marx ha affrontato efficacemente questa critica radicale, che è necessario aggiornare e studiare con sempre maggiore profondità.

La nuova Ragione riteneva di servire all’emancipazione; e così fu, al punto da liberare la società dall’alienazione e dall’oppressione dell’Ancien Régime. Essa fu dunque garanzia di progresso, ma di una forma di progresso limitata e contraddittoria , poiché, in definitiva, era il capitale a gestire la società.

Il Post-modernismo non intraprende questa critica radicale per promuovere l’emancipazione degli individui e della società con il socialismo. Propone invece un ritorno alle alienazioni pre-moderne, pre-capitaliste. Le forme di socialità che propone sono necessariamente in linea con l’adesione a una identità di tipo ‘tribale’, per comunità (para-religiose e para-etniche ), esattamente l’opposto di quanto si richiede per perfezionare la democrazia, divenuta sinonimo di ‘tirannia del popolo’ che osa mettere in discussione la saggia gestione degli esecutivi, i quali sono al servizio degli oligopoli. Le critiche espresse dal post-modernismo delle ‘grandi narrazioni’ (l’Illuminismo, la democrazia, il progresso, il socialismo, la liberazione nazionale) non guardano al futuro ma tornano a un passato falso e immaginario, estremamente idealizzato. In tal modo viene facilitata la frammentazione della maggioranza della popolazione, facendo passare la logica del dominio degli oligopoli imperialisti. Tale frammentazione non preoccupa minimamente il potere; anzi, gli facilita il compito.

L’individuo non diventa agente consapevole, lucido della trasformazione sociale, ma schiavo della mercificazione dominante. Il cittadino scompare per cedere il posto al consumatore/speculatore, non più cittadino in cerca dell’emancipazione, ma insignificante creatura che accetta la sottomissione.

 

APPENDICE

Risposte alla attuale crisi da parte dei poteri dominanti del Nord

Le risposte da parte dei poteri dominanti (gli oligopoli e i loro servitori politici) alla ‘crisi’ iniziata con il crollo finanziario del 2008 si possono trovare nelle politiche nazionali dei paesi della Triade e nelle decisioni collettive del G7 e dell’Unione Europea. Il rapporto della commissione presieduta da J.Stiglitz, presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riunitasi dal 24 e il 26 giugno 2009 completa l’insieme dei documenti. Il loro obbiettivo, come ho detto in precedenza, è quello di ristabilire il sistema di globalizzazione liberale finanziarizzata, considerato sano nel suo complesso, non appena verranno adottate alcune misure collettive onde evitare problemi in futuro. Sono questi gli errori che stanno all’origine del crollo del 2008 – e questo è tutto, più o meno.

Tale obbiettivo si limita a esprimere tutti i pregiudizi tipici dell’economia convenzionale.

 

Primo pregiudizio

Questa crisi è di carattere finanziario, è prodotta dagli ‘eccessi’ dell’espansione finanziaria (Essi stessi facilitati da troppa ‘deregulation’). L’osservazione si basa su prove immediate e banali. Poiché dietro agli eccessi stanno i caratteri essenziali della logica espansionistica degli oligopoli. Gli economisti convenzionali non possiedono gli strumenti intellettuali per capirlo. Per questo il crollo finanziario del 2008, conseguenza inevitabile del dipanarsi della lunga crisi iniziata negli anni ’70 – e non solo degli eccessi finanziari degli ultimi anni – ha sorpreso tutti gli economisti volgari.

Ne consegue che la crisi in atto è ritenuta una crisi congiunturale, pur riconoscendo l’esistenza di ‘problemi strutturali’che ne sono alla base. Si tratta di una crisi a forma di V, per la quale è possibile prevedere una rapida soluzione. La crescita che ne conseguirà trarrà forza dell’espansione finanziaria, come è avvenuto prima del crollo del 2008. L’unica precauzione sarà quella di impedire probabili aberrazioni dell’espansione in futuro. Il sistema globalizzato deve riprendere la crescita all’interno della medesima struttura ‘aperta’ di natura liberale che la contraddistingue da una trentina d’anni, evitando reazioni ‘protezionistiche’ alle difficoltà attuali, che sono temporanee. Questo punto di vista si avvicina molto a quello della CIA decritto nel rapporto The World in 2010 (Il mondo nel 2010), (in altra sede ho già raccomandato di leggere in modo critico questo documento). La sua analisi convenzionale non tiene conto degli ‘sconvolgimenti’, ma solo dell’accresciuto peso della Cina e di altri paesi emergenti. Il quale potrebbe essere agevolato dal legame esclusivo al dollaro come valuta di riserva internazionale. La riforma del sistema dovrebbe avere questo come obbiettivo.

E dunque, per lasciarsi la crisi alle spalle sarà sufficiente stabilire come prioritaria la ripresa del sistema finanziario, la cui riforma, secondo gli esperti del G7, deve essere programmata in modo tale da evitare qualsiasi ricaduta. Comunque sia, tali esperti non sono in grado di capire che in un modo o nell’altro le riforme saranno aggirate dagli oligopoli fino a quando essi conserveranno il loro ‘status’ privato, garantiranno la loro gestione esclusivamente per favorire i loro interessi privati. Il discorso ‘moralizzatore’ e la sostituzione dell’analisi politica con il sermone rimarranno, come sempre, senza effetto.

 

Secondo pregiudizio

I  mezzi di protezione del sistema economico e finanziario dalle aberrazioni e dalle ‘crisi’ si possono individuare con una ricerca approfondita dell’efficienza del mercato. Gli economisti convenzionali si concentrato quasi unicamente su questo tipo di ricerca. L’ipotesi sottesa è che il mercato si auto-regola (punto di vista dogmatico del liberalismo), o può farlo con accorgimenti appropriati. Non è mai stato dimostrato, in realtà, che tale tendenza fondamentale esista, o possa essere creata. Ma gli economisti volgari sono costretti a credere in questo assioma sbagliato per dovere professionale, poichè se i mercati non si autoregolassero, o non potessero neppure rientrare nel sistema capitalista gli economisti convenzionali non avrebbero più nulla da dire e dovrebbero chiudere i battenti!

Nel capitalismo reale il funzionamento del sistema e dei mercati, il peso delle lotte sociali e dei conflitti internazionali, oltre alle stesse regolamentazioni, interagiscono, facendo procedere il sistema da una instabilità all’altra (al massimo con una fase temporanea di equilibrio). Coloro che si muovono nell’interesse dei lavoratori e dei popoli dovrebbero rifiutare di sottomettersi alle richieste del cosiddetto ‘equilibrio’ (o di una parvenza di equilibrio) che li danneggia, imponendo invece un altro ‘equilibrio’ (o disequilibrio) che vada più a loro favore. Questa fondamentale scelta di metodo dovrebbe far parte del nostro progetto alternativo.

 

Terzo pregiudizio

Il  ripristino dei fondamenti del sistema della globalizzazione allo stato in cui si trovavano in precedenza è auspicabile, perché offre occasioni di sviluppo per i popoli del Sud.

Tale pregiudizio, comune a ogni tipo di economista volgare che parte da un punto di vista lineare e semplicistico, se preso nelle sue manifestazioni estreme, quelle dello ‘sviluppo per gradi’ (alla Rostow) impedisce di capire la natura del costante fallimento storico del ‘Sud’ (le periferie) nel suo tentativo di ‘raggiungere‘ il ‘Nord’ (il centro) , lasciandosi coinvolgere sempre più nel capitalismo globalizzato. L’idea che il prodursi e il riprodursi del loro fallimento sia da attribuirsi all’accumulazione di capitale globalizzato a loro risulta molto strana, quasi incomprensibile.16

A ciò si deve l’ignoranza forzata della pauperizzazione insita nel perseguimento dell’accumulazione globalizzata da parte degli economisti convenzionali, che invece teorizzano su di un fenomeno avvertito unicamente come ad essa ‘adiacente’: la povertà. Certe realtà sono attribuite a ‘errori’ strategici, passibili di correzione senza che si ponga la questione della logica del processo di accumulazione. Gli sforzi impiegati nella definizione di ‘programmi per ridurre la povertà’ hanno comunque ottenuto magri risultati. Qualsiasi resistenza, ribellione e impegno delle società dei paesi del ‘Sud’ di muoversi in altre direzioni appaiono, a quegli economisti, ‘irrazionali’, provocate da ‘deboli’ opzioni ideologiche (come ‘le nazionalizzazioni estreme’, ecc.). Si riesce così a indebolire le resistenze alternative e l’impegno che tuttavia sono destinati ad avere una posizione di primo piano negli affari mondiali.

 

Quarto pregiudizio

I gravi problemi che l’umanità deve affrontare (i metodi di produzione con enorme dispendio di energia, l’esaurimento di alcune risorse naturali, l’insufficienza dei sistemi di produzione alimentare e via dicendo) sono ‘problemi adiacenti’ separati fra loro e indipendenti dal sistema nel suo complesso. Tanto che le soluzioni si possono trovare nel sistema così com’è ora, nei suoi fondamenti essenziali.

L’economia volgare ignora le questioni ecologiche , che vanno al di là della sua comprensione, diversamente da Marx che distingueva il valore dalla ricchezza. I nuovi ‘ecolo-economisti’ cercano di occuparsene ricorrendo a metodi di calcolo ereditati dagli economisti convenzionali. Risulta loro impossibile far quadrare i conti e tuttavia permette a tutti coloro che hanno potere, sia uomini che donne (di destra e di sinistra) e a chi sta a capo degli oligopoli, di vestire di verde l’economia, seguendo la moda, come ho già detto.

Infatti i ‘problemi strutturali’ che rientrano nelle analisi degli economisti volgari escludono le tre ‘grandi famiglie di questioni’ che definiscono la massima sfida al sistema attuale.

La prima di queste famiglie riguarda l’organizzazione della produzione. Ad esempio, raramente si parla della’crisi (della fine) del fordismo’, alla quale si deve peraltro la lunga crisi di oltre un trentennio, senza cui non si spiegherebbe - tra l’altro - il fallimento dell’industria automobilistica. Ignorare la crisi strutturale dell’accumulazione fordista non consente di capire in qual modo essa abbia creato le condizioni per un attacco al lavoro e perché la finanziarizzazione ne sia stato lo strumento. Ma, come già detto, gli economisti liberali ortodossi non sono attrezzati per integrare questo tipo di problemi nella loro ‘economia di mercato’.

La seconda famiglia di questioni ignorate è lo stato in cui versa la gestione delle imprese (del capitale). Non si prende in considerazione l’esistenza di gruppi oligopolistici, se non per qualche proposta insignificante intorno alla ‘revisione della gestione d’impresa’! Eppure, a differenza delle posizioni liberali ortodosse della destra ( in effetti assolutamente reazionarie), esiste ormai in un vasto settore dell’opinione pubblica la consapevolezza che è necessario mettere in discussione la gestione privata di tali gruppi. Nella professione medica, per esempio, in generale si avverte l’esigenza di subordinare la gestione dell’industria farmaceutica ai bisogni sociali, se non di nazionalizzarla.

La terza serie di ‘grandi questioni’ riguarda la disparità all’interno del sistema globalizzato tra i ‘paesi sviluppati’ (il Nord) e i ‘paesi in via di sviluppo’ (il Sud). In un rapporto dell’ONU, come in ogni rapporto che riguardi la globalizzazione, non è possibile dimenticare tale distinzione. Ma gli economisti del sistema non si distaccano mai dalla visione semplicistica dello ‘sviluppo graduale’ (Rostow) del liberalismo ortodosso, che nei fatti ignora del tutto questo tema.

 

Il G7 – entro i limiti già citati – sostiene un’uscita ‘top-down’ dalla crisi.

Ha quindi raccolto un numero di proposte ritenute sufficienti ed efficaci per una globalizzazione ‘corretta’ da sommare a quelli che considera vantaggi indiscutibili del capitalismo globalizzato (che consentirebbero lo sviluppo dei paesi sia del Nord che del Sud) e ai ‘rimedi’ per correggerne le falle e gli errori: riduzione dei rischi finanziari, ’governance’ democratica delle istituzioni internazionali, riduzione della povertà e un accenno – lieve se non insignificante - ai ‘problemi adiacenti’. Si tratta forse del timido inizio di un sistema finanziario non più esclusivamente vincolato al dollaro.

In questo tipo di analisi non si allude alla possibilità di prendere decisioni autonome da parte dei paesi del ‘Sud’. L’idea di autonomia è molto strana per il concetto di ‘globalizzazione’ come lo intende l’ortodossia liberale . La ragione addotta per accettare come essenziale l’idea di un consenso globale è semplicistica : la crisi è globale e tale deve esserne la soluzione! Neppure una parola sul fatto che il Nord utilizza questo apparente consenso per imporre unilateralmente il suo punto di vista. In effetti la ricostruzione di una globalizzazione che favorisca il popolo va preceduta dallo smantellamento degli oligopoli.

Non vi è dubbio che si stanno facendo evidenti concessioni alla richiesta di ‘un trattamento differenziato dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo’ secondo cui i primi sono invitati ad ‘aprire i mercati alle esportazioni provenienti dal Sud’. Tale concessione viene fatta come dono di alcuni anni di ‘trattamento di favore’, chiedendo esplicitamente la conclusione del ciclo di Doha, che non prevede nient’altro che questo. Si dimostra una ignoranza assoluta – e anche sfiducia – delle dure e comprensibili critiche mosse al WTO da parte di Jacques Berthelot e da via Campesina, le cui analisi devastanti riguardano il modo in cui vengono affrontati i temi della produzione agricola e alimentare. 17 Non si fa neppure cenno alle controproposte avanzate da alcuni gruppi del Sud. Infatti l’insistenza sull’apertura del Nord alle esportazioni del Sud, ritenuta dall’ortodossia liberale la via principale verso lo sviluppo, elimina immediatamente l’eventualità di un’altra via, quella che vede come prioritario l’ampliamento del mercato interno (sia a livello individuale che collettivo) e la relativa riduzione delle loro esportazioni verso il Nord.

Il grave problema del debito estero di alcuni paesi del Sud produce soltanto proposte per una ‘moratoria laddove il debito è troppo gravoso’. Non si prende minimamente in esame l’analisi del debito e della sua natura predatoria e spesso immorale. Totalmente ignorata anche la richiesta di una verifica di tale debito e della formulazione di una legge internazionale degna di questo nome.

Alcune proposte ‘nuove’ sul Fondo Monetario Internazionale potrebbero suggerire l’idea che si stia pensando a nuove soluzioni, come quella di ‘acquisire l’emissione di SDR (Diritti speciali di prelievo) approvati dal Fondo Monetario (nel 1997!). In questo caso non considera il fatto che, in base alle regole che governano queste emissioni, sono soprattutto i paesi più ricchi a beneficiarne (in particolare quelli del Nord), mentre le cifre che potrebbero agevolare i paesi poveri del Sud sono insignificanti. In generale i principi che governano le condizioni poste dal Fondo monetario non vengono messi in discussione, benché si accenni alla necessità di attenuare i suoi effetti ‘prociclici’. Il Fondo Monetario rimane quello che è : l’autorità di gestione coloniale delle valute dei paesi del Sud, a cui vanno ora aggiunte quelle dell’Europa dell’Est. Ne sono un esempio i recenti interventi del Fondo monetario in Ungheria e in Lettonia.

Qualche volta vengono riconosciuti i legittimi diritti dei paesi del Sud di gestire i propri capitali , se non proprio di ‘controllare i propri flussi finanziari’.In linea con tali concessioni è la priorità data alla legislazione (liberale, naturalmente) dei paesi ospiti invece che dei paesi di origine delle istituzioni bancarie. Ma qui si chiede solamente al Fondo monetario di tornare ai suoi principi originari, abbandonati alla fine degli anni ’90 dietro fortissima pressione del dogmatismo liberale. Come si vede, la resistenza della Cina, la quale continua a rifiutare la libertà finanziaria globalizzata, è da ritenersi un raro esempio di realismo politico.

Ma in generale continua a prevalere l’ortodossia liberale estrema, la quale rifiuta di mettere in dubbio il principio degli scambi flessibili, la definizione dei tassi d’interesse da parte del ‘mercato’ (di fatto, da parte del capitale finanziario), se non addirittura di operare ‘a prezzo di mercato’ (comune a tutti gli economisti anglo-sassoni, compreso Stiglitz). A tali condizioni non si sa bene se la proposta di ‘allargare i Diritti Speciali di Prelievo (SDR) promuoverà un ‘nuovo’ strumento di riserva internazionale diverso da quello attuale, basato sull’uso dominante di una moneta nazionale (in questo caso il dollaro) come valuta di riserva internazionale. Le autorità cinesi hanno iniziato a muoversi in questo senso negli accordi stipulati con alcuni partners del Sud. Anche se al momento tali accordi riguardano solo una piccola parte del commercio con la Cina (il 5%), questo è un esempio di quello che può fare il Sud senza cercare un ‘consenso globale’ (cioè un accordo da parte del Nord) che autorizzi la pratica. Gli accordi dell’ALBA (Alleanza Boliviana per le Americhe) e del Banco Sur (in America Latina) sono su questa linea, anche se non sono stati ancora attuati su vasta scala.

Per concludere, la proposta di istituire un organismo economico di sicurezza (il Consiglio economico di coordinamento globale delle Nazioni Unite) è, a queste condizioni, ambigua. Si troverà un altro ostacolo ai legittimi diritti del Sud di decidere autonomamente sulla propria partecipazione alla globalizzazione, con l’imposizione di un ‘consenso globale’? Il sospetto è legittimo. Così come si può avere il sospetto che, se per caso ( disgraziatamente per gli economisti liberali), i paesi del Sud cercheranno di porre quell’istituzione al servizio della loro idea di sviluppo, vedremo i paesi del Nord marginalizzare il proprio ruolo, come hanno fatto con la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) e con molte altre istituzioni che sfuggono al loro controllo unilaterale?

 

Tale progetto non è per niente realista

Non è realista perché la semplice idea che il sistema , se ricondotto ai suoi principi essenziali, ridurrà il conflitto tra Nord e Sud è priva di fondamento. Si tratta di un’idea contraddetta dai fatti anche perché le proposte in campo non possono essere attuate se non con l’assenso degli oligopoli, il che è davvero improbabile.

Credo che il desiderio di annunciare la possibilità di un’uscita ‘top-down’ dalla crisi non sia solo poco realista , ma pericoloso, perché alimenterà delle illusioni.

C’è una notevole analogia tra il modello di soluzione ‘top-down’ del capitalismo proposta dagli economisti convenzionali, e una soluzione ‘top-down’ attraverso una rivoluzione di tipo socialista suggerita da altri. In entrambi i casi è una questione di Rivoluzione Sociale, dopo di che i problemi saranno risolti. Non è così che funziona la storia: essa procede a tentoni reagendo alle sfide immediate, specie attraverso i conflitti internazionali Nord/Sud. Per non parlare delle reazioni a queste sfide – che sono sempre parziali – conseguenti alle lotte sociali tra Nord e Sud. Interagendo tra loro esse condurranno l’umanità sulla lunga strada verso il progresso (e secondo me questa diventerà la transizione al socialismo) oppure a un regresso verso la barbarie. La proposta di ‘un’uscita top-down dal capitalismo’ non impedirà di precipitare verso il disastro. Ed è ovvio che il richiamo ad azioni rivoluzionarie a favore della Rivoluzione Sociale non avrà alcun effetto.

L’eccellente libro Sortir de la crise globale 18, curato recentemente da Jean-Marie Harrribey e Dominique Plihon per ATTAC, dimostra come le posizioni reazionarie del G7 siano un assoluto disastro, sia dal punto di vista sociale che per il tipo di relazioni internazionali che prospettano. Gli autori scrivono (p.35) : “La finanziarizzazione non è un fattore autonomo, si è sviluppato per contrastare la caduta dei salari e la mancanza di opportunità di investimento sufficientemente vantaggiose. Ecco perché l’aumento delle diseguaglianze sociali (all’interno di ciascun paese e tra le regioni dell’economia mondiale ) è una caratteristica fondamentale del funzionamento del capitalismo odierno. “

L’obbiettivo dei poteri in campo non è altro che quello di far ripartire il sistema e di riprendere la finanziarizzazione, come descritto da ATTAC. La scelta di una società sempre più diseguale viene accettata sia sul piano nazionale che a livello mondiale, distruggendo così tutte le belle affermazioni sulla ‘riduzione della povertà’.

Questa è la scelta della classe dirigente statunitense nel suo complesso e dei suoi incrollabili sostenitori. Questo modello, infatti, (le ‘disuguaglianze sociali ed internazionali connesse con la finanziarizzazione’) è l’unico che permette agli Stati Uniti di conservare la propria egemonia. Il che avviene in due modi: da un lato esso consente di sostituire la carenza di domanda mediante il super sfruttamento del lavoro con una rivitalizzazione del debito, d’altro canto fa sì che il debito esterno degli Stati Uniti venga finanziato dall’apertura alla globalizzazione finanziaria. Come scrivono gli autori di ATTAC : “La regolamentazione della finanza è un rimedio necessario ma non sufficiente… La finaziarizzazione si alimenta con la caduta dei salari dei lavoratori e con gli squilibri dell’economia mondiale.” (p.41).

Tuttavia né gli Stati Uniti né i loro subalterni alleati europei accetteranno di chiudere quei rubinetti. Poiché chiudere il rubinetto che , attraverso il debito esterno degli USA, alimenta il mercato finanziario vorrebbe dire importare la crisi sociale mondiale negli Stati Uniti. Ecco perché la crisi, a mio modo di vedere, è duplice: c’è quella del capitalismo degli oligopoli e quella dell’egemonia degli Stati Uniti. Le due dimensioni sono indissolubili. Le ipotesi degli economisti del sistema non sono realistiche e, prima o poi essi saranno chiamati in causa dalla riconquistata autonomia di decisione da parte dei paesi del Sud, che sono le principali vittime del sistema.

Il modello reazionario delle ‘soluzioni top-down’ della crisi ‘finanziaria’ e del doppio ripristino del brutale dominio degli oligopoli e dell’egemonia statunitense, come si raccomanda,.non è certamente l’unico possibile. Forse non è neppure il più realistico, benché si rivolga alle amministrazioni che si succedono a Washington e quindi ai governi subalterni dell’Europa atlantica.

C’è un altro gruppo di proposte di ‘soluzioni top-down’ raccomandate dagli economisti convenzionali, ma che comunque sono interessati a mettere a punto un piano serio di riforma del capitalismo mondiale. Non ha importanza alcuna che si chiamino ‘keynesiani’, ‘neo-keynesiani’ o altro.

Le crescenti diseguaglianze sociali non vengono accettate come ‘fatidico prezzo del progresso’ , ma sono l’effetto delle strategie del capitale degli oligopoli, il quale elabora le condizioni favorevoli per sé ( frammentazione del lavoro ed estensione della concorrenza internazionale tra i lavoratori ). Queste strategie sono alla base della lunga crisi di accumulazione da loro perpetuata. L’attuale crisi non è dunque a forma di V, ma una lunga crisi a forma di L. Un piano serio che miri alla riduzione delle disuguaglianze potrebbe trasformarla a forma di U.

Il piano è ardito – e tale deve essere. 19 Non viene esclusa la nazionalizzazione (punto di partenza di una possibile socializzazione) specie delle istituzioni finanziarie. La stabilizzazione del prezzo del valore della proprietà a circa il 50% dei prezzi astronomici e artificiali indotti dalla finanziarizzazione non è ritenuto un disastro, bensì una salutare operazione di purificazione. Capovolgere la mercificazione dei servizi sociali (scuola, salute, casa, trasporti pubblici, sicurezza sociale e pensioni) è necessario e obbligatorio. Una crescita massiccia e sostenibile dell’intervento pubblico– a medio termine che permetta di trasformare la L in U – e persino una crescita del deficit pubblico registrato ( ragione per cui il piano è stato definito ‘keynesiano’) non è da ritenersi catastrofica. La ‘ripresa’ conferisce quindi la priorità all’economia produttiva , marginalizzando l’impatto dei mercati finanziari.

Il piano vuole essere universale, ma prevede una globalizzazione negoziata, permettendo a diversi paesi e regioni del mondo (compresa l’Europa) di dare priorità ai mercati interni e regionali. Le strategie per il sistematico supporto delle economie rurali diventano così possibili e rappresentano una saggia risposta alla crisi alimentare. Anche le sfide ecologiche potrebbero essere affrontate in modo serio e non più aggirate dagli oligopoli. Questo piano ha implicazioni politiche che comincerebbero con il rafforzamento delle istituzioni interne e delle leggi interne. È un progetto di ‘globalizzazione senza egemonia’, sia di quella unilaterale degli Stati Uniti sia di quella collettiva della Triade.

Sarebbe comunque un grave errore cercare un ‘consenso globale’ per attuare una soluzione ‘top-down’ in quanto allo stato attuale delle cose il consenso è impossibile. Alimentare una fantasia di questo genere significherebbe allearsi con il reazionario G7, che si sta sostituendo – come viene dimostrato dal linguaggio comunemente usato oggi – alla ‘comunità internazionale’.

Ma se ciò è vero vuol dire che il caos del sistema mondiale non in via di superamento. Al contrario, si procede verso un caos sempre più grande. La migliore risposta alternativa si trova nel rafforzamento delle opportunità che ha il Sud di riconquistare l’autonomia senza, al momento, cercare ,per il momento, di convincere il Nord con un falso ‘consenso’.

Vorrei quindi proporre un metodo diverso per individuare una possibile ( ‘realistica’) ed efficace risposta che ci aiuti a percorrere una nostra via verso il progresso. La convinzione socialista di alcuni (tra cui il sottoscritto) non è qui in discussione. Nel mio libro Sortir de la crise du capitalisme ou sortir du capitalisme en crise ho spiegato il mio punto di vista ( e naturalmente quello di altri), non creando però una ‘frontiera’ che separa noi dai nostri alleati nelle lotte comuni.

L’alternativa sarebbe far sì che i paesi del Sud i non entrino in polemica con quelli del Nord, ma i procedano al loro fianco senza cercare una soluzione da ‘consenso globale’, che sia accettabile da parte del Nord. Questo è l’obbiettivo della nostra proposta alternativa.

 

Per un progetto alternativo di risposta del Sud alla crisi

I paesi del Sud possono elaborare le reazioni alla crisi con mezzi propri, senza preoccuparsi troppo delle reazioni del Nord alle misure da prendere a livello nazionale e, quanto più possibile, a livello dei loro raggruppamenti regionali (quelli già esistenti e quelli futuri) oltre che a livello globale (‘Bandung 2’ o, ancor meglio, ‘Tricontinentale 2’).

Lo scopo di un progetto alternativo sarebbe quello di formulare proposte specifiche su queste basi. Per fortuna esiste un buon numero di studi critici di grande qualità che formano un’eccellente raccolta di riferimenti bibliografici da usare all’uopo. Citerò, tra gli altri, il recente rapporto stilato da UNCTAD (il Congresso delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) nell’aprile 2009 21 che è di gran lunga superiore a quelli del G7 e a quello della commissione presieduta da Stiglitz. C’è anche il lavoro di Jacques Berthelot e quello di via Campesina oltre ai numerosi documenti discussi all’Assemblea del Forum Mondiale delle Alternative nell’ottobre 2008 o prodotti successivamente.

Tali proposte rientrano tutte nell’idea di base che, se si guarda strategicamente a un futuro possibile e visibile, il ‘Sud’ può fare a meno del ‘Nord’, mentre non è vero il contrario.

Il Nord – come si presenta oggi (senza prendere in considerazione alcuna alternativa) – non può sopravvivere senza aumentare il saccheggio delle risorse del Sud: risorse naturali, petrolio e gas, prodotti minerari, terreni agricoli, lavoro a basso costo. Così da incrementare, invece di attenuare lo sviluppo diseguale, buttando a mare le speranze dei paesi ‘emergenti’ in modo da distruggere ulteriormente quelli ‘marginalizzati’.

Adesso i paesi del Sud sono in grado di indebolire i mezzi usati dal Nord nell’esercizio del suo dominio, se non proprio di eliminarne la portata. Essi possono recuperare il controllo delle loro risorse naturali, sviluppare le tecnologie più avanzate mettendole al servizio del proprio sviluppo. Possono organizzare le proprie operazioni finanziarie parallelamente, se non completamente al di fuori del sistema globale. Possono ridurre la minaccia di aggressioni militari, che rappresentano l’estrema opzione, l’unico modo – barbaro e criminale – di tenerli sotto controllo. A breve termine tutto ciò può apparire difficile. Ma una strategia di sviluppo rinforzata dall’intensificazione di forme di sviluppo della cooperazione tra Sud e Sud poco alla volta –o anche rapidamente – può ridurre gli effetti distruttivi.

L’economia è sempre politica. E la politica è interna ed estera: a livello della prima i piani devono quindi considerare (se vogliamo essere seri) i rapporti tra i conflitti degli interessi sociali all’interno dei paesi del Sud e la formulazione delle alternative di sviluppo. I piani a livello di politica estera devono tener conto delle necessarie convergenze politiche comuni, costringendo la Triade ad arretrare, se non proprio a ritirarsi, dal progetto di guerra permanente per il controllo militare del pianeta.

Si dovranno discutere le forme e le tappe di attuazione del progetto.

a)   il Forum Mondiale delle Alternative (WFA) e il Forum del Terzo Mondo (TWF) dovrebbero cominciare a elaborare il progetto, costituendo una commissione che stenda il rapporto (per un anno, selezionando con cura una ventina di membri).

b)   Il rapporto finale della commissione deve essere ampiamente diffuso dalle forze politiche interessate e portato all’attenzione dei governi del Sud.

c)   Se l’iniziativa avrà successo potrebbe essere seguita dalla costituzione di un gruppo ‘ufficiale’, che operi, ad esempio, nell’ambito del segretariato del Movimento dei Nonallineati o del Gruppo 77 – Cina e Nazioni Unite. Sarebbe auspicabile che la presidenza del gruppo fosse conferita a una personalità politica di tutto rispetto, come, ad esempio, Nelson Mandela.

 

Bibliografia
1      Jacques Andreani, Le Piège, Helsinki et la chute du communisme; Odile Jacob,
Paris, 2005
2      Mathis Wackernagel and William E. Rees, Our Ecological Footprint: Reducing
Human Impact on the Earth; New Society Publishers, British Columbia, 1996
3      Elmar Altvater, The plagues of capitalism, energy crisis, climate collapse, hunger
and financial instabilities, documento presentato al Forum Mondiale delle Alterbative, Caracas, 2008
4      François Houtart, Agroenergia. Soluzione per il clima o uscita dalla crisi per il capitale?, Edizioni Punto Rosso
5      Aurélien Bontaud and Natacha Gondran, L’empreinte écologique;La Découverte,
Paris, 2009
6      Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, Milano 1998
Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli
Il concetto di accumulazione mediante l’espropriazione introdotto da Arrighi, unitamente a quello di ‘accumulazione permanente primitiva’ da me formulato è tipico del capitalismo storico. È di origine europea e si contrappone ad altri percorsi del capitalismo, inaugurati dalla Cina dei Sung e dei Ming, (corrispondenza tra Arrighi e Amin). 7 v. I lavori di Samir Amin, Sam Moyo, Archie Mafeje e altri in Samir Amin, La crisi. Uscire dalla crisi o uscire dal capitalismo in crisi?, Edizioni Punto Rosso, 2009, Capitoli 2 e 3.
8      Joseph Stiglitz, Another World; W.W.Norton, New York, 2006
9      The Long Twentieth Century; op.cit.
10    I documenti delle Nazioni Unite si trovano sul sito dell’Organizzazione.
11    Samir Amin, L’Empire du Chaos; L’Harmattan, Paris, 1991
29
Samir Amin, L’hegemonie des Etats-Unis et l’effacement du projet européen; L’Harmattan, Paris, 2000
12        Samir Amin, “Aid, for what development?”, breve contributo a un libro (2009) che sarà pubblicato da Fahamu
13       Samir Amin, “Is Africa really marginalized?” in History and Philosophy of Sciences, edited by Helen Lauer; Hope Pub, Ibadan, 2003
14        Nkolo Foe, Post modernisme et le nouvel esprit du capitalisme. Sur une philosophie globale de l’Empire; Codesria, Dakar, 2009;
Samir Amin, Modernité, religion, démocratie, critique des culturalismes ?;
Parangon, 2008;
Samir Amin, La crisi, op. Cit. Capitoli 2 e 3;
Jacques Rancière, La haine de la démocratie; La Fabrique, Paris, 2008
15 Samir Amin, “Beyond Liberal Globalization”, Monthly Review, New York, December 2006
16 Faccio qui riferimento al ‘classico’ lavoro di W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, pubblicato per la prima volta nel 1960. Fu nel 1957 che diedi alle stampe la mia tesi sull’accumulazione a livello mondiale, che si contrapponeva alla concezione lineare che in seguito fu collegata a Rostow.
17 Contributi vari di Jacques Berthelot sul sito dell’autore stesso. Pubblicazioni di Via Campesina
18 Sortir de la crise globale; curato da Jean-Marie Harribey and Dominique Plihon, La Découverte, Paris, 2009
19 Le Cercle des économistes, Fin de monde ou sortie de la crise; curato da Pierre Dockès, Perrin, Paris, 2009;
Christian Saint Etienne, La fin de l’euro; F. Bourin, Paris, 2009
20 Samir Amin, Sur la crise, op.cit.
21 UNCTAD, April 2009, disponibile sul loro sito.
Traduzione di Laura Cantelmo
Web Analytics