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Gli USA di Trump: il tramonto della seconda globalizzazione?

Intervista-recensione di Carlo Formenti

trump picNel merito del dibattito aperto dal nostro ebook pubblicato lo scorso febbraio Gli USA di Trump: il crepuscolo della seconda globalizzazione? raccogliamo volentieri e pubblichiamo il giudizio in proposito di Carlo Formenti, professore aggregato all'Università del Salento e studioso dei movimenti e dei nuovi media, che nei suoi ultimi lavori ha scandagliato il fenomeno populista e lo spazio di possibilità e problematiche che apre nella fase e nella ridefinizione delle attuali categorie politiche e della demarcazione amico/nemico. Il suo intervento continua il dibattito iniziato su numerosi media di movimento quali Radio BlackOut, Radio Onda d'Urto, Radio Onda Rossa e Radio Ciroma, confronto che continuerà su queste pagine e con altre iniziative in programma.

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Che giudizio dai dello sforzo di analisi che la redazione di Infoaut ha compiuto sulla vittoria elettorale di Trump?

Credo che si tratti di un contributo importante: l’ebook di Infoaut contiene un corposo dossier (più di 150 pagine) che raccoglie, fra gli altri materiali, articoli redazionali, interviste e traduzioni di articoli americani, spaziando su un largo ventaglio di argomenti; per citare solo quelli che ritengo più rilevanti: composizione di classe del voto, sconfitta dei media mainstream e delle grandi macchine elettorali di partito, crisi della globalizzazione, interpretazioni contrastanti delle cause della sconfitta da parte delle sinistre, scenari del conflitto politico e sociale nell’America di Trump.

 

Da cosa vogliamo partire?

Partiamo dalla crisi della globalizzazione. All’inizio del dossier viene giustamente richiamata l’attenzione su una curiosa coincidenza storica: l’ascesa al potere parallela di Theresa May (dopo il voto sulla Brexit) e di Trump (anche grazie alla promessa di smantellare il sistema dei trattati internazionali come il TTIP e il TPP) sembra riecheggiare quella di Thatcher e Reagan avvenuta quarant’anni prima. Nel caso attuale, tuttavia, la vittoria delle destre assume un significato totalmente diverso da quello dell’evento precedente: Trump e May non rappresentano un rilancio del ciclo della globalizzazione neoliberista ma ne marcano semmai l’inizio della fine, è come se il loro ruolo storico fosse quello di smontare ciò che i governi liberisti “di sinistra” (da Clinton a Tony Blair) avevano costruito nei decenni precedenti. Capire i motivi di questa svolta non è tuttavia semplice. In alcune parti dell’ebook si stabilisce un parallelo fra la prima e la seconda globalizzazione, in quanto entrambe sono state accompagnate e stimolate da due grandi rivoluzioni industriali (quella dell’elettricità e quella del digitale). Giusto, ma perché la spinta si esaurisce? Io credo che, per capire, occorra ampliare ulteriormente l’orizzonte temporale: in realtà, la globalizzazione (intesa come mondializzazione della produzione, degli investimenti e degli scambi commerciali) è un fenomeno immanente al modo di produzione capitalistico fin dalle sue origini. Ma mondializzazione e globalizzazione non sono esattamente la stessa cosa: il termine globalizzazione non nasce nel primo Novecento, nasce a cavallo fra fine Novecento e inizio del secolo XXI ed è fortemente connotato ideologicamente: si tratta di una narrazione volta a legittimare i processi di ristrutturazione (tecnologica, organizzativa e finanziaria) capitalistici, è parte integrante del dispositivo egemonico ordoliberale. Quello che oggi va in crisi è soprattutto questo dispositivo di legittimazione.

 

E perché va in crisi proprio adesso?

Il dossier di Infoaut ci offre in tal senso alcune indicazioni importanti. Gli Stati Uniti sono un Paese impoverito (i cittadini sotto la soglia di povertà sono 50 milioni cioè uno su sei), un Paese in cui le disuguaglianze hanno raggiunto livelli intollerabili (lo slogan di OWS che oppone l’1% di super ricchi al 99% della popolazione è indubbiamente semplificatorio ma non si allontana poi così tanto dalla realtà). Tutte le attese che erano state suscitate dal doppio mandato di Obama sono andate deluse e la grande maggioranza dei cittadini americani (al pari di quelli inglesi che hanno votato per la Brexit) hanno iniziato a rendersi conto del fatto che la globalizzazione non è affatto un buon affare per tutti, ma ha prodotto, produce e continuerà a produrre finché durerà un drastico peggioramento dei livelli salariali, disoccupazione per alcuni e superlavoro per altri, perdita dei diritti sociali e un peggioramento generale delle condizioni di vita. Di qui quella che Nancy Fraser ha definito una vera e propria “insurrezione elettorale” contro la globalizzazione liberista.

 

È per questo che la poderosa campagna mediatica contro Trump non ha sortito alcun effetto?

Sì, e anche da questo punto di vista nell’ebook vengono evidenziati una serie di fenomeni inequivocabili. Il sistema dei media mainstream (giornali, catene televisive, ecc.) ha orchestrato una campagna di proporzioni mai viste contro Trump, una campagna che ha coinvolto tutto il sistema occidentale dei media, non solo quello americano, una campagna che dura tuttora a più di un mese dall’insediamento del nuovo presidente, e che ha fatto ricorso senza scrupoli alla disinformazione. A proposito di quest’ultimo aspetto sarebbe interessante ragionare sul significato degli schiamazzi sulla “post verità” che le élite politiche e mediatiche tradizionali stanno orchestrando negli ultimi mesi. Sotto accusa sono le fake news veicolate dalle reti online dell’estrema destra che hanno appoggiato la candidatura di Trump (anche di questo si parla ampiamente nel dossier) ma è chiaro che l’obiettivo è quello di “mettere la museruola” ai new media (e quindi a tutte le forme di comunicazione “sovversive”, a partire da quelle dei movimenti antagonisti) per venire in soccorso di un sistema mediatico che appare ogni giorno più impotente a svolgere il ruolo tradizionale di produrre senso comune. Analogo discorso può essere fatto sui sondaggi che, da un lato, appaiono sempre più sputtanati perché tutti hanno ormai capito che il loro compito non è quello di prevedere ma di influenzare un certo risultato (di agire cioè da self fulfilling prophecy), dall’altro lato, le vecchie tecniche di rilevazione appaiono sempre meno in grado di interpretare gli umori di una società stratificata e polverizzata al punto che diventa impossibile costruire campioni attendibili.

 

Veniamo alla composizione di classe del voto…

Qui devo dire che nell’ebook ho trovato, assieme a spunti di analisi condivisibili, qualche elemento problematico. Giustamente si afferma che il risultato delle elezioni Usa incarna la sconfitta di Hillary Clinton più che la vittoria di Trump. Questo in contrappunto a certi giudizi schematici della prima ora, in cui si diceva che gli operai avevano votato per Trump e i ricchi per la Clinton. Dalle analisi approfondite della composizione del voto è emerso un quadro assai più complesso e sfaccettato: è vero che gli operai bianchi delle aree impoverite dalle politiche clintoniane hanno votato per Trump (mentre in precedenza avevano votato Obama), ma è anche vero che l’opposizione sembra essere soprattutto fra grandi città delle due zone costiere e piccole e medie città del centro. Altri spunti di analisi condivisibili riguardano la frattura fra strati di classe legati a cicli economici di tipo territoriale e strati di classe che dipendono da cicli integrati in filiere transnazionali. Infine ho trovato molto interessante il discorso sulle metropoli americane come teatro di processi di gentrificazione legati alla finanza globale e capaci di generare consenso negli strati medio alti delle nuove professioni. Forse era il caso di andare più a fondo e di vedere come questo blocco sociale metropolitano che ha sostenuto la Clinton incarni la confluenza di interessi fra industria hi tech, finanza (banche e assicurazioni), industria creativa (media, Hollywood, industria musicale, moda, ecc.) e nuove professioni emergenti (i cognitari che mandano in sollucchero Negri e allievi). E qui entriamo a piedi uniti sul tema dello scontro ideologico fra populisti e liberisti “progressisti…

 

Già che dire delle letture “antipopuliste” che una certa sinistra ha dato del voto per Trump?

Analizzando il conflitto che si è evidenziato all’interno del blocco che aveva sostenuto Sanders nell’interpretare la vittoria di Trump, nel dossier se ne rintracciano giustamente le radici in quella disconnessione fra lotte operaie e movimenti giovanili (femministe, pacifisti, neri, ecc.) che risale agli anni Sessanta del secolo scorso e che è andata via via accentuandosi con il passare del tempo. I nuovi movimenti si sono fatti sempre meno sensibili alla tematica dei diritti sociali e del lavoro, concentrandosi esclusivamente sulle lotte per i diritti civili e individuali. Non basta, come ha messo in luce Nancy Fraser, c’è una minoranza privilegiata di questa “sinistra” che ha stretto un’alleanza politica con il blocco di potere che descrivevo poco sopra (Silicon Valley, Hollywood, media, ecc.) e che oggi, di fronte alla disfatta, reagisce gettando merda contro il “popolo bue”, quel proletariato ignorante, xenofobo e sessista che ha votato Trump. Un esempio nostrano di tale atteggiamento sono le dichiarazioni di Bifo che ha parlato di “popolo demente” e di “nazional operaismo”. All’estremo opposto c’è un’area di movimenti radicali che hanno criticato Sanders per aver offerto il proprio appoggio alla Clinton dopo aver perso la corsa alla candidatura democratica, mentre avrebbero voluto che si impegnasse a costruire una forza politica esterna ed alternativa ai due grandi partiti di un sistema politico marcescente. Credo che la nostra attenzione debba andare a quest’ultima componente. Mentre non mi dilungo sul tema del populismo (per cui rinvio a quanto scritto nel mio ultimo libro), concludo con una annotazione sul tema della globalizzazione. Credo che in alcune parti del dossier vi sia ancora una certa timidezza nello schierarsi contro la globalizzazione, dalla parte dei luoghi che resistono attivamente ai flussi di merci, denaro, informazioni che li colonizzano. Questo non perché io creda che esistano luoghi “incontaminati” dai flussi (è l’accusa che mi è stata rivolta in relazione all’opposizione dentro/fuori che propongo ne “La variante populista”): sono perfettamente consapevole che viviamo in una realtà a pelle di leopardo dove tutti i processi si ibridano, ma sono anche convinto che l’unica possibilità di condurre una lotta anticapitalista consista nel restituire – quando e laddove è possibile - autonomia e sovranità a determinate aree territoriali, nel praticare – per usare il termine di Samir Amin – il delinking dal mercato globale.

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