giovedì 18 aprile 2024

A ‘nciuria..

Sicilia, 1943. Paolino Rasura ha sette anni. Per sfuggire alle prepotenze di un gruppo di ragazzini, accetta di fare una prova di coraggio: entrare nel Giardino di Filippu, un uomo che vive isolato su una collina e passa il tempo a scolpire teste. Il Giardino è un posto incantato, dove migliaia di teste di pietra convivono fra gli ulivi, testimoni del tempo e delle stagioni. Paolino e Filippu così si conosceranno, e il vecchio diventerà per il bambino amico e consigliere negli anni complessi che vanno dallo sbarco degli americani fino alle prime lotte per le terre. Intorno a loro si muove il paese di Santafarra, un’intera comunità fatta di antichi segreti, rivalità, spinte al cambiamento e riti sempre uguali. Nei quattro anni che lo trasformano da bambino a ragazzo, Paolino, sempre in bilico fra viltà e desiderio di riscatto, conoscerà il tradimento, la morte, l’amore.
Con una lingua che mescola italiano e dialetto a creare un nuovo impasto, plastico e mimetico alla trama, Veronica Galletta ci racconta un periodo della storia siciliana che è meno lontano di quanto appaia, con riferimenti alla tradizione letteraria isolana, nel solco dell’ambiguità fra reale e fantastico che ha già caratterizzato i suoi romanzi precedenti.

(dal risvolto di copertina di: VERONICA GALLETTA, "Pelleossa". MINIMUM FAX, Pagine 345, €18)

Famiglia di terra, famiglia di mare
- di Ermanno Paccagnini -

Campiello Opera Prima con Le isole di Norman (Italo Svevo, 2020), è però con Pelleossa che Veronica Galletto ha esordito, giungendo con il romanzo finalista al Neri Pozza Inediti del 2017. Un inedito sul quale l’autrice è ritornata, come suggerisce il cambio d’ambientazione: non più Sciacca, ma un «paisì», Santaforra, che, da una «collina senza nome, propriamente a metà fra il Monte Cronio e la Cava d’Istrice», «si allungava sul mare come una ciucertola». Un romanzo di maturità, nella struttura narrativa, ma soprattutto nella coraggiosa opzione linguistica, affidando il romanzo a una commistione siculo-italiana, con la quale entri subito in confidenza, ritrovandoti d’un botto nel mondo di Paolino Rasuna, un ragazzo di «sette anni e quattro mesi, che a pensarci bene nun sù accussì picca per afferrare certe cose del mondo, come quelle che sarebbero accadute», in quel «luglio del 1943 quando questa storia accuminciò», con l’arrivo a Santaforra di «L’Americani!». Paolino abita in quella Casa Verde, «una bella casa grande, circondata da un grande portico, da cui si vedeva il mare» e che «si vireva da tutta Santafarra». Una casa ossimoricamente, però, abitata dai Rasuna, una famiglia di pescatori da generazioni che si porta appresso «l’ingiuria» di Pelleossa, che si trova a vivere al proprio interno il disaccordo paesano tra Terragni e Soli (quelli che, come loro, vivono di pesca): perché, mentre Felice, padre autoritario, e «su figghiu Pascali» figurano quasi sempre in barca, il primogenito Calogero, dato a lungo come disperso in guerra e infine persino per morto, e lo stesso Paolino, soprannominato con l’«ingiuria tormentosa» di «Ncantesimo» perché «a volte mi rimango a pensare, e se mi pàrrunu, se accade un fatto... non me n’adduno», e per liberarsi del quale affronta una prova di coraggio, sono terragni; con addirittura Calogero impegnato nelle lotte per la terra contro i latifondisti, eredità (anche fisionomica: capelli biondi e occhi «cilesti») della madre «normanna» Lucia Iodice, dagli «occhi grandi, l’espressione liquida e nervosa» e «bionda e alta come il padre» Silvestro, spirito libero che da «quando era morta la moglie aveva cominciato a girare per i paesi, a vendere i suoi cesti».

Una prospettiva dall’alto che spiega quell’abbraccio narrativo che fa della vicenda un romanzo corale, con ben 8 famiglie e 57 personaggi (più una «gatta gattonzola», la «ciucertola» Fatuzza, due cani e sei Teste di parlanti del Giardino) richiamati nelle iniziali «Coordinate per orientarsi meglio». Un autentico fiorire di personaggi, perché si muovono, accanto ai protagonisti Rasura, figure topiche istituzionali da paese, come pure figure di «irregolari», alle quali Paolino, muovendosi spesso col fratello maggiore Ciccio, il «figlio scimunito» va appoggiandosi, «per trovare un punto attorno al quale fare girare i pinsèri e liberàrisi dei sogni». Ed ecco «Filippu de li Testi, scultore di umanità», il «Pazzo» che nel suo Giardino va scolpendo migliaia di teste d’ogni tipo e dimensione, sei delle quali (Garibaldi, Toro Seduto, Pirandello, Freud, d’Annunzio e Vittorio Emanuele), parlano spesso a Paolino, che in quel Giardino s’è intrufolato per una «prova di coraggio»; ma pure il cieco e sordo Zu Ntoni, che riconosce ogni paesano dall’odore: i due soli che «parevano non aspettari nenti, perché la loro vita era sempre a stissa». E questo mentre il sognatore Paolino «aspettava la parola dei vivi e il ritorno dei morti, in un modo tutto suo, come di chi aspetta senza aspettare, assaggiando la paura, la vergogna del tradimento nei confronti di Giacinto, un tempo suo amico, ma che s’era allontanato», e sentendosi «prigioniero della sua vigliaccheria» al funerale del sindacalista assassinato Angelo Foglia, padre di Natàlia, di cui egli s’innamora. Si tratta di un romanzo di storie nella storia (e nella Storia: una piccola comunità siciliana paesana in tempo di liberazione, referendum, lotte agrarie). Storie vivissime, radicate talora nel dolore e nei rimpianti ai quali comunque reagire creativamente senza rimuoverli: come Filippu, espulso dall’America e col sogno di riunirsi alla sua Meri; Zu Ntoni che vive coi segni della solfara di Finisterre saltata «in aria»; ma pure di Lucia con la storia dell’agricoltore anarchico Cosimo Lena (che fornisce al lettore materiale agnitivo sulla famiglia Rasura). Un racconto nella prospettiva e nel filtro d’un Paolino che in questi quattro anni «stava criscennu, e fra poco tempo si sarebbe trasformato in Paolo, allontanandosi dall’infanzia per sempre». E che s’inserisce a pieno titolo nella tradizione narrativa siciliana, ispirandosi per diversi personaggi — come dichiarato nel conclusivo «A ciascuno il suo» — alla realtà (spesso tragica) di quegli anni, ma pure alla letteratura, in primis a Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia.

- Ermanno Paccagnini - Pubblicato su La Lettura del 29/10/2023 -

mercoledì 17 aprile 2024

Leggere Marx - I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo - 7 -

Il Soggetto Automatico

Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone in ogni dove alla proprietà fondiaria, invariabilmente, nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurario. Tuttavia, non occorre uno sguardo retrospettivo alla storia dell’origine del capitale, per riconoscere che il denaro è la sua prima forma fenomenica. La stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi. Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato – mercato delle merci, mercato del lavoro o mercato del denaro –, in prima istanza come denaro, e ancora e sempre in ultima istanza come denaro, il quale è destinato a trasformarsi, attraverso determinati processi, in capitale. Il denaro come denaro e il denaro come capitale si distinguono, in un primo momento, soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione. La forma immediata della circolazione delle merci è: M - D - M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, del tutto distinta, la forma D - M - D: conversione di denaro in merce e riconversione di merce in denaro, comprare per vendere. Il denaro, che nel suo movimento descrive quest’ultima circolazione, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già per sua destinazione capitale.

Esaminiamo più a fondo la circolazione D - M - D. Come la circolazione semplice delle merci, essa percorre due fasi antitetiche l’una all’altra. Nella prima fase, D - M, compera, il denaro viene trasformato in merce. Nella seconda fase, M - D, vende, la merce viene ritrasformata in denaro. Ma l’unità delle due fasi consiste nel movimento complessivo che scambia denaro contro merce, e questa stessa merce, a sua volta, contro denaro. Il movimento complessivo, ossia la compera di una merce per la sua rivendita, è l’astrazione dalle differenze formali fra compera e vendita, compera di merce con denaro e vendita di merce per denaro. Il risultato nel quale si risolve tutto il processo è: scambio di denaro contro denaro, D - D...
Ora, è del tutto evidente che il processo di circolazione D - M - D sarebbe assurdo e privo di senso, se con un simile giro si volesse scambiare un dato valore in denaro contro l’identico valore in denaro, e quindi, p. es., la somma di 100 lire sterline contro 100 lire sterline. Più semplice e infinitamente più sicuro, senza paragone, rimarrebbe il metodo del tesaurizzatore, il quale tiene strette le sue 100 lire sterline e non le abbandona ai pericoli della circolazione. Del resto, che il commerciante rivenda a 110 lire sterline il cotone comperato a 100 lire sterline o che sia costretto a disfarsene a 100 o addirittura a 50, in ogni circostanza il suo denaro ha descritto un movimento peculiare e originale, di tipo del tutto differente che nella circolazione semplice delle merci, differente p. es. da quello che ha luogo nelle mani del contadino che vende grano e, con il denaro così reso liquido, compera vestiti.

Dunque occorre, innanzitutto, la caratterizzazione delle distinzioni di forma tra i cicli D - M - D e M - D - M. Si otterrà, così, nello stesso tempo, la distinzione di contenuto che sta in agguato, celata, dietro quelle distinzioni di forma. Esaminiamo, prima di tutto, quel che è comune a entrambe le forme.  Entrambi i cicli si scompongono nelle due medesime fasi antitetiche, M - D (vendita) e D - M (compera). In ognuna delle due fasi stanno l’uno di contro all’altro i due medesimi elementi materiali, merce e denaro; e due personaggi, con le corrispondenti maschere economiche caratteristiche, un compratore e un venditore. Ciascuno dei due cicli è l’unità delle medesime fasi antitetiche – l’acquisto e la vendita – e, tutte e due le volte, questa unità viene mediata dall’intervento di tre contraenti, uno dei quali non fa che vendere, l’altro non fa che comprare, mentre un terzo, alternativamente, compera e vende.

Ciò che distingue, tuttavia, a priori i due cicli M - D - M e D - M - D è l’ordine inverso di successione delle identiche e antitetiche fasi della circolazione. La circolazione semplice delle merci comincia con la vendita e finisce con la compera; la circolazione del denaro come capitale comincia con la compera e finisce con la vendita. Là è la merce a costituire il punto di partenza e il punto di arrivo del movimento; qui è il denaro. Nella prima forma, è il denaro che media il ciclo complessivo; nella seconda, invece, è la merce.

Nella circolazione M - D - M, il denaro viene trasformato, alla fine, in merce che serve come valore di uso. Dunque, il denaro è definitivamente speso. Nella forma inversa, D - M - D, invece, il compratore spende denaro, per incassare denaro come venditore. Alla compera della merce, egli getta denaro nella circolazione, per sottrarvelo poi a mezzo della vendita della stessa merce. Sguinzaglia il denaro soltanto con la perfida intenzione di riacciuffarlo. Il denaro è quindi soltanto un anticipo. Nella forma M - D - M, la medesima moneta cambia di posto due volte. Il venditore la riceve dal compratore, e la consegna in pagamento a un altro venditore. Il processo complessivo, che comincia con l’incasso di denaro in cambio di merce, si conclude con il pagamento di denaro in cambio di merce. Il contrario avviene nella forma D - M - D. Qui non è la stessa moneta, bensì la stessa merce, che cambia di posto due volte. Il compratore la riceve dalle mani del venditore e la consegna nelle mani di un altro compratore. Come nella circolazione semplice delle merci, il duplice cambiamento di posto della stessa moneta ha per risultato il suo definitivo passaggio da una mano all’altra, così qui il duplice cambiamento di posto della stessa merce ha per risultato il riafflusso del denaro al suo primo punto di partenza. Il riafflusso del denaro al suo punto di partenza  non dipende dal fatto che la merce sia venduta più cara di quanto sia stata comprata. Quest’ultima circostanza ha effetto solo sulla grandezza della somma di denaro in riafflusso. A sua volta, il fenomeno del riafflusso ha luogo appena la merce comprata è rivenduta, e quindi il giro D - M - D è descritto completamente. La distinzione fra la circolazione del denaro come capitale e la circolazione del denaro come puro e semplice denaro è qui tangibile...

Il ciclo M - D - M parte da un estremo, una merce, e si conclude in un altro estremo, un’altra merce, la quale esce dalla circolazione e finisce nel consumo. Quindi il suo scopo finale è consumo, soddisfazione di bisogni, insomma, mero valore di uso. Il giro D - M - D, invece, parte dall’estremo del denaro e torna, infine, allo stesso estremo. Il suo motivo propulsore e il suo scopo determinante è, dunque, il valore stesso di scambio. Nella circolazione semplice delle merci, i due estremi hanno la stessa forma economica. Entrambi sono merce. E sono anche merci della stessa grandezza di valore. Ma nello stesso tempo sono valori di uso qualitativamente differenti, p.es., grano e abiti. Lo scambio dei prodotti, la permuta delle differenti sostanze nelle quali si manifesta il lavoro sociale, costituisce qui il contenuto e la conclusione del movimento. Altrimenti stanno le cose nella circolazione D - M - D.

A prima vista, essa sembra senza contenuto, perché tautologica. Entrambi gli estremi hanno la stessa forma economica. Entrambi sono denaro, e quindi valori di uso non qualitativamente distinti, poiché il denaro è appunto la figura trasformata delle merci, nella quale i loro valori di uso particolari sono estinti. Scambiare prima 100 lire sterline contro cotone e poi di nuovo lo stesso cotone contro 100 lire sterline – ossia scambiare con un simile giro denaro contro denaro è certamente una operazione tanto inutile quanto assurda. Una somma di denaro si può distinguere da un’altra somma di denaro, in generale, soltanto mediante la sua grandezza. Pertanto, il processo D - M - D deve il suo contenuto non a una distinzione qualitativa dei suoi estremi, poiché essi sono entrambi denaro, ma lo deve unicamente alla loro differenza quantitativa. In fin dei conti, si sottrae alla circolazione più denaro di quanto se ne fosse immesso all’inizio.

Il cotone comprato a 100 lire sterline, p. es., viene venduto una seconda volta a 100 + 10, ossia a 110, lire sterline. La forma completa di questo processo è quindi D - M - D', dove D' = D + delta D, cioè la somma di denaro inizialmente anticipata più un incremento. Questo incremento, ossia questa eccedenza o sovrappiù sul valore originario - io, proprio io - lo chiamo «Mehrwert», plusvalore. Dunque, il valore originariamente anticipato non solo si conserva nella circolazione, ma in essa altera pure la propria grandezza di valore, aggiunge a se stesso un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale. Naturalmente, è anche possibile che in M1 - D - M2 i due estremi, M1 e M2, p. es. grano e vestiti, siano grandezze di valore quantitativamente differenti. Il contadino può vendere il proprio grano al di sopra del suo valore, comprare i vestiti al di sotto del loro valore, oppure può essere gabbato a sua volta dal commerciante di vestiti. Tuttavia, la non uguaglianza dei valori scambiati, per questa forma di circolazione, rimane puramente accidentale. In sé e per sé, essa non perde affatto la sinderesi (senno, capacità di connettere) come invece avviene nel processo D - M - D', qualora i due estremi, nel nostro esempio grano e vestiti, sono equivalenti. Qui, anzi, la loro equivalenza in valore è una condizione necessaria del percorso normale della circolazione. La ripetizione, ossia il rinnovo, della vendita di merci per la compera di altri merci trova la sua misura e il suo fine in uno scopo ultimo al di fuori della circolazione, ovvero il consumo, vale a dire la soddisfazione di determinati bisogni. Nella compera a scopo di vendita, invece, principio e fine sono la medesima cosa: il denaro, il valore di scambio. E già solo per questo, il movimento non ha fine. È vero che D' diviene D + deltaD, e che da 100 lire sterline ne escono 100 + 10. Ma, dal punto di vista semplicemente qualitativo, 110 lire sterline sono la stessa cosa che 100 lire sterline, cioè denaro; mentre dal punto di vista quantitativo, 110 lire sterline sono una somma di valore limitata quanto 100 lire sterline. Se le 110 lire sterline fossero spese come denaro, allora smetterebbero di recitare la loro parte. E cesserebbero di  essere capitale. Ritirate dalla circolazione, esse si pietrificano in un tesoro e non si accrescono neppure di un farthing [centesimo], anche se continuano a rimanere immagazzinate fino al giorno del giudizio universale.

Se dunque lo scopo finale del movimento è la valorizzazione del valore, allora il bisogno di valorizzazione di 110 lire sterline è lo stesso di quello che si sente per 100, poiché 100 e 110 sono entrambe espressioni limitate del valore di scambio e, come tali, vocazione alla stessa tendenza, mediante l’incremento della propria grandezza, più grande possibile, verso la ricchezza assoluta. In realtà, per un momento, il valore di 100 lire sterline, inizialmente anticipato, si distingue dal plusvalore di 10, del quale si accresce nella circolazione, ma questa distinzione svanisce immediatamente. Alla fine del processo, ciò che salta fuori non è il valore originario di 100 lire sterline da una parte e il plusvalore di 10 dall’altra, ma un solo valore di 110 lire sterline. Il risultato di 110 lire sterline si trova nella stessa forma e nelle corrispondenti condizioni delle 100 lire sterline originarie, ossia pronto a ricominciare il processo di valorizzazione.

Al termine del processo, si presenta, ancora, denaro, e quest’ultimo, a sua volta, come suo nuovo inizio. Perciò, la conclusione di ogni giro separato D – M - D', nel quale si compie la compera e la conseguente vendita, costituisce di per sé l’inizio di un altro ciclo. La circolazione semplice delle merci – la vendita per la compera – serve solo come mezzo per un fine ultimo al di fuori della sfera della circolazione, cioè per l’appropriazione di valori di uso, per il soddisfacimento di bisogni determinati. La circolazione del denaro come capitale è, al contrario, fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste solo all’interno di tale movimento senza tregua. Ergo, il movimento del capitale non ha limiti, confini o misura. Il possessore di denaro diventa capitalista nella sua qualità di rappresentante cosciente, di veicolo e pensante, di tale movimento. La sua persona, o piuttosto la sua tasca, è il punto di partenza e il punto di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo della circolazione D - M - D' – ossia la valorizzazione del valore – è il suo fine soggettivo. Ed egli funziona come capitalista, ossia come capitale personificato, dotato di coscienza e di volontà, solamente in quanto l’unico motivo animatore delle sue azioni è la crescente appropriazione della ricchezza astratta. Quindi, il valore di uso non deve essere mai considerato il fine immediato del capitalista, come neppure il singolo guadagno, bensì soltanto il moto incessante del guadagno, sempre rinnovato. Questo impulso irrefrenabile all’arricchimento assoluto, a dismisura, questa caccia appassionata al valore è comune al capitalista e al tesaurizzatore, ma mentre il tesaurizzatore è soltanto un capitalista impazzito, al contrario il capitalista è un tesaurizzatore razionale. L’incremento illimitato e incessante del valore, al quale il tesaurizzatore tende con tutte le forze, quando cerca di salvare il denaro dalla circolazione, il capitalista, più intelligente, lo ottiene ributtando il denaro sempre di nuovo in preda alla circolazione. Le forme autonome, ossia le forme monetarie, che il valore delle merci assume nella circolazione semplice, servono soltanto da mediazione allo scambio di merci e scompaiono nel risultato finale del suo movimento. Invece nella circolazione D - M - D', l’una e l’altra, merce e denaro, funzionano unicamente come differenti modi di esistenza del valore stesso: il denaro, come il suo modo di esistenza generale; la merce, come il suo modo di esistenza particolare e, per così dire, solo un suo travestimento. Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, senza perdersi in questo movimento, e così si trasforma in un soggetto automatico. Se si fissano le forme fenomeniche particolari assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore valorizzatesi, si ottengono le due definizioni: «il capitale è denaro», «il capitale è merce».

Ma, in realtà, qui il valore diventa il soggetto di un processo in cui esso, quando assume di volta in volta la forma di denaro e la forma di merce, altera pure la sua stessa grandezza e, come plusvalore, si stacca da sé, dal suo valore originario. Il valore valorizza se stesso. Poiché il movimento in cui il valore genera plusvalore è il suo proprio movimento, la sua valorizzazione è, allora, la sua auto-valorizzazione. In quanto valore, sembra aver ricevuto la proprietà occulta di partorire valore, di fare figli vivi o, perlomeno, di deporre uova d’oro. Come soggetto dominante di tale processo, nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in questa trasmutazione si conserva e si accresce, il valore ha bisogno prima di tutto di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro. Perciò, il denaro costituisce il punto di partenza e il punto di arrivo di ogni processo di valorizzazione. Era di 100 lire sterline, ora è 110 lire sterline, e così di séguito. Ma qui il denaro, in se stesso, conta solo come una forma del valore, poiché quest’ultimo ne ha due. Se la forma di merce viene messa da parte, il denaro non diventa capitale. Pertanto, il denaro non si presenta qui in antagonismo con la merce, come nella tesaurizzazione...

Se nella circolazione semplice, il valore delle merci, nei confronti del loro valore di uso, riceve tuttalpiù la forma autonoma del denaro, qui lo stesso valore si presenta di colpo come una sostanza in divenire. Una sostanza dotata di movimento proprio, che passa attraverso un suo processo vitale, nel quale merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme. Ma c’è di più. Invece di rappresentare semplicemente le relazioni fra le merci, il valore entra ora, per così dire, in un rapporto privato con se stesso. Si distingue, come valore originario, da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, ma entrambi hanno la stessa età e costituiscono in realtà una sola persona. Infatti, solo mediante il plusvalore di 10 lire sterline, le 100 anticipate diventano capitale, e appena avvenuto ciò – una volta generato e non creato il Figlio e, reciprocamente, per mezzo del Figlio, una volta rigenerato il Padre–, la loro distinzione torna a svanire e tutte e due sono uno: 110 lire sterline.

Il valore diventa, dunque, valore in processo, denaro in processo e, in quanto tale, capitale. Esce dalla circolazione, rientra nella circolazione, si conserva e si moltiplica in essa, ne esce ingrandito e riprende daccapo sempre di nuovo lo stesso giro. D - D', denaro che genera denaro – «money which begets money» –, ecco come suona la descrizione del capitale in bocca ai suoi primi interpreti, i mercantilisti. Comprare per vendere, ossia, in modo più preciso, comprare per vendere a più caro prezzo; D - M - D'  si presenta in realtà come la forma peculiare solo di una specie di capitale, il capitale mercantile (o commerciale). Ma pure il capitale industriale è denaro, che si trasforma in merce e, mediante la vendita della merce, si ritrasforma in più denaro. Le azioni che vengono svolte, che si svolgono, p. es., fra la compera e la vendita, al di fuori della sfera di circolazione, non cambiano alcunché di tale forma di movimento.(...) In realtà, perciò, D - M - D' è la formula generale del capitale, come esso si manifesta prima facie nella sfera della circolazione.


(Karl Marx, da "Il Capitale. critica dell'economia politica". Libro I - Capitolo IV; quarta edizione, 1890)

«Dite a Jim che è nato alla 6 del mattino» !!

Leggere le lettere inviate da James Joyce ad Harriet Weaver costituisce un'esperienza trasformativa (cosa abbastanza frequente in questo genere di letture: i dettagli, la rivelazione talvolta improvvisa di una soggettività, e degli aspetti poco esplorati di tale soggettività): seguendo i dettagli sulle malattie e sulle operazioni agli occhi di Joyce ( i nomi dei medici, le descrizioni delle procedure); i momenti in cui Joyce parla di sé come di un uomo noioso e monotono (e simultaneamente anche come lo scrittore responsabile di quella che è un'opera noiosa e monotona, l'Ulisse); i dettagli sui figli, sulla carriera di Giorgio come cantante, sui problemi mentali di Lucia e anche quelli sul suo lavoro di artista delle miniature. A proposito dell'Ulisse, il 20 luglio 1919 Joyce scrive: «Confesso che è un libro estremamente stancante, ma al momento è per me l'unico libro che sono in grado di scrivere. Durante questi ultimi due anni nei quali ho ricevuto le vostre donazioni ebbi sempre il presentimento ( che si è ora rivelato falso) che ogni capitolo del libro, progredendo, mi avrebbe gradualmente alienato la comprensione delle persone che mi stavano aiutando» (Joyce, Lettere a Harriet, 2018, p. 49). Una delle lettere più interessanti, è quella del 17 gennaio 1932, in cui Joyce scrive per ringraziare Harriet delle condoglianze ( il padre di Joyce era morto il 29 dicembre 1931 ). Joyce scrive a proposito del padre: «Ha pensato a me, e nel suo ultimo momento mi ha nominato ad alta voce» (una nota esplicativa aggiunge: «Dite a Jim che è nato alle sei del mattino”, aveva detto John Joyce sul suo letto di morte. James Joyce gli aveva scritto qualche tempo prima chiedendogli l'ora della sua nascita, perché un astrologo stava facendo il suo tema natale.

fonte: Um túnel no fim da luz

martedì 16 aprile 2024

Lavorare, stanca…

Hannah Arendt ci fa fare quattro risate, mentre gronda aristocrazia, in mezzo a quattro sciocchezze liberali!!

«[...] altrettanto decisivo, è un altro evento non meno temibile, l'avvento dell'automazione, che in pochi decenni vuoterà probabilmente le fabbriche e libererà il genere umano dal suo più antico e più naturale fardello, il giogo del lavoro e la schiavitù della necessità. Anche qui, è in gioco un aspetto fondamentale della condizione umana, ma la ribellione contro di esso e il desiderio di essere liberati dalla "fatica e dall'affanno" del lavoro non sono moderni ma vecchi come la storia che ci è stata tramandata. La libertà dal lavoro in se stessa non è nuova; un tempo era uno dei privilegi più radicati di pochi individui. E da questo punto di vista può sembrare che il progresso scientifico e l'evoluzione della tecnica siano stati impiegati solo per conseguire ciò che tutte le generazioni passate avevano sognato senza poterlo realizzare. Tuttavia è così solo in apparenza. L'età moderna ha comportato anche una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell'intera società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, come avviene nelle fiabe, giunge al momento in cui può essere solo una delusione. E' una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dalle pastoie del lavoro, ed è una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata.  In seno a questa società, che è egualitaria perché tale è il modo in cui il lavoro fa vivere gli uomini, non c'è classe, aristocrazia politica o spirituale da cui possa partire una restaurazione delle altre capacità dell'uomo. Persino i presidenti, i re e i primi ministri considerano le loro funzioni come un lavoro necessario alla vita della società, e anche tra gli intellettuali sono rimasti solo pochi individui isolati a considerare il loro lavoro come un'attività creativa piuttosto che come un mezzo di sussistenza. Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio.»

(da: Hannah Arendt, "Vita Activa. La condizione umana", Bombiani; citata da Robert Kurz in "Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft"; 1999)

L’Evoluzione e il Collasso !!

Contro il metodo
- di Ian Morris -

«Ahimè, un classico», ha detto l'archeologo greco James Whitley nel recensire il libro del mio collega Michael Shanks, "Classical Archaeology of Greece", un'opera per la quale, secondo Whitley, «sia ... l'ammirazione che l'esasperazione sono meritate». [*1] "The Dawn of Everything: A New History of Humanity" ["L'alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità". Traduzione di Roberta Zuppet, Rizzoli] di David Graeber e David Wengrow è, ahimè, ancora più un classico. I motivi di ammirazione sono evidenti. Per gli archeologi, "Dawn" è stato il più grande evento editoriale del decennio. Ha attirato l'attenzione in televisione e alla radio, è stato sezionato nei podcast, ha collezionato recensioni sui principali giornali e riviste ed è diventato rapidamente un bestseller. In tutti questi modi e in altri ancora, è il libro più significativo sulla storia dell'antichità dai tempi di "Sapiens" di Yuval Noah Harari o anche di "Guns, Germs, and Steel" di Jared Diamond. [*2] Eppure è assai diverso da entrambi questi libri. Laddove Harari e Diamond offrivano resoconti evoluzionisti della storia, [*3] Graeber e Wengrow sono esplicitamente anti-evoluzionisti. "Dawn" merita ammirazione per essere la confutazione più estesa e dettagliata dell'evoluzionismo di questo secolo, e provoca esasperazione esattamente per la stessa ragione.

"Dawn" è originale e ambizioso, e fa sì che l'antichità parli della più ampia condizione umana. Poiché le sue argomentazioni abbracciano più millenni e circondano il globo, è un'opera di sintesi; l'originalità di Graeber e Wengrow non sta nell'estirpare nuovi fatti dalla sporcizia, ma nel combinare vecchi fatti in un nuovo quadro. Anche gli autori consegnano le loro tesi con verve, riempiendo la storia di immagini vivide e bei giri di parole. Rendono eccitante il mondo antico. Ho recensito libri per l'AJA per 30 anni, ma questo è il primo che posso dire onestamente è stato divertente da leggere. Ancora più sorprendentemente, combina la sua vivace rivisitazione della preistoria con un apparato accademico massiccio, wissenschaftlich e straordinariamente aggiornato. "Dawn" è effettivamente due libri in uno: le 526 pagine del testo principale - che probabilmente scuoteranno le ipotesi di quasi tutti sulla preistoria - e le 165 pagine della "Conclusione", che danno agli specialisti almeno una parte di ciò di cui hanno bisogno per respingere quel testo principale. Graeber e Wengrow ci dicono che a partire dal XVIII secolo, quasi tutti hanno sbagliato quasi tutto sulla storia antica (504). A quel tempo, suggeriscono, alcuni intellettuali occidentali reagirono alle critiche dei nativi americani alla gerarchia e alla violenza europea inventando una storia che raccontasse come l'umanità si fosse evoluta attraverso una serie di fasi, dai cacciatori-raccoglitori preistorici agli antichi pastori e agricoltori fino ai moderni mercanti (cioè gli stessi europei occidentali). In questa visione della storia, le persone hanno iniziato con molta libertà ma non molta prosperità e hanno finito con molta prosperità ma poca libertà. Per molti autori, questa è stata una buona cosa; per altri, Jean-Jacques Rousseau è il più noto, era brutto. Detto questo, quasi tutti concordavano sul fatto che fosse inevitabile, perché la scala generava automaticamente sia ricchezza che gerarchia; e sebbene gli archeologi del XXI secolo siano molto meglio informati dei sedicenti "storici filosofici" dell'Europa del XVIII secolo, Graeber e Wengrow sostengono di continuare a pensarla allo stesso modo (27-77) – che «il meglio che possiamo sperare è di aggiustare le dimensioni dello stivale che ci calpesterà per sempre la faccia» (8). Ma «E se», si chiedono gli autori, «invece di raccontare una storia su come la nostra specie sia caduta da un idilliaco stato di uguaglianza, ci chiedessimo come siamo arrivati a essere intrappolati in catene concettuali così strette che non possiamo più nemmeno immaginare la possibilità di reinventare noi stessi?» (9). Fare questo, dicono, porta a sostituire la narrazione evoluzionistica con «un'altra storia, più speranzosa e più interessante», che mostra che «avremmo potuto vivere sotto concezioni radicalmente diverse di ciò che è effettivamente la società umana. Significa che la schiavitù di massa, il genocidio, i campi di prigionia, persino il patriarcato o i regimi di lavoro salariato non sono mai dovuti accadere. Suggerisce anche che, anche ora, le possibilità di intervento umano sono molto più grandi di quanto siamo inclini a pensare» (3, 524, corsivo nell'originale). Dovremmo respingere le teorie attuali che prevedono un declino dai cacciatori-raccoglitori egualitari attraverso antiche città-stato e imperi disuguali al moderno capitalismo globale, dicono Graeber e Wengrow, perché queste storie:

1. semplicemente non sono vere;
2. hanno implicazioni politiche disastrose;
3. Rendi il passato inutilmente noioso.
(3)

Il mio senso di esasperazione nei confronti di Dawn è iniziato proprio qui, a sole tre pagine dall'inizio del testo. Personalmente, penso che i resoconti evoluzionisti spesso rendano il passato estremamente interessante; e in 40 anni passati a frequentare gli evoluzionisti, ho scoperto che raramente sono d'accordo su quali siano le implicazioni politiche del loro lavoro, per non parlare del fatto che siano terribili. Ma piuttosto che addentrarmi in quelle tane del coniglio, in questa recensione mi concentrerò sull'affermazione iniziale di Graeber e Wengrow, secondo cui i resoconti evoluzionisti non sono veri. A mio avviso, ci sono tre modi principali per valutarlo. Innanzitutto, ci sono i fatti stessi. Gli autori li azzeccano? Chiunque scriva un libro di così ampio respiro è destinato a commettere errori, quindi la domanda qui non è se ogni dato in “Dawn” sia esattamente accurato. Nessun libro ha mai superato quell'asticella. Piuttosto, è se Graeber e Wengrow commettono così tanti ululati che la loro tesi centrale è invalidata. Gli esperti del settore troveranno senza dubbio errori che io non ho trovato, ma mi sembra che gli autori superino questo test a pieni voti. [*4] Questo è un libro ben documentato. Il secondo criterio è la selezione dei fatti. Dato quanto sappiamo ora sull'antichità, combinato con le enormi lacune che ancora rimangono, gli autori di sintesi globali possono facilmente scegliere i dettagli e organizzarli per raccontare quasi tutte le storie immaginabili. Su questo punto nutro alcune perplessità, sulle quali tornerò; e Graeber e Wengrow, come la maggior parte di noi, a volte scivolano dall'offrire ipotesi provvisorie al trattarle come certezze. [*5] Ma detto questo, raramente mi sono ritrovato a chiedermi «E X?» e a sentire che gli autori avevano semplicemente ignorato prove scomode. [*6] Lo scopo di Dawn, spiegano, è quello di portare più prove, chiedendosi «cosa succede se diamo significato ai 5.000 anni in cui l'addomesticamento dei cereali non ha portato all'emergere di aristocrazie viziate, piuttosto che solo ai 5.000 in cui lo ha fatto?» (523). I miei disaccordi più seri con Graeber e Wengrow riguardano un terzo criterio: la logica. Mi hanno lasciato la sensazione tutt'altro che certa che i fatti siano incoerenti con i resoconti evoluzionistici o più coerenti con la loro alternativa. Tra i molti casi che gli autori offrono, ne prenderò solo una mezza dozzina, ognuno dei quali sembra importante per la tesi di Graeber e Wengrow, ma ognuno dei quali, credo, non è in definitiva convincente.

Stagionalità
In genere, i modelli evolutivi raccontano come i gruppi di foraggiamento egualitari si siano trasformati in società agricole classificate e poi in stati stratificati. Tuttavia, osservano Graeber e Wengrow, gli antropologi hanno regolarmente trovato società che si sono spostate avanti e indietro su questo spettro, a volte molto rapidamente. I gruppi di nativi americani del diciannovesimo secolo nelle Grandi Pianure sono un caso famoso. I Corvi, i Cheyenne e gli altri trascorrevano gran parte dell'anno in minuscole bande di foraggiatori aggressivamente egualitarie, senza alcun capo, ma per diverse settimane ogni autunno si riunivano per massacrare le grandi mandrie di bisonti migratori. Nominarono dei capi e fornirono loro quella che l'antropologo Robert Lowie definì «una forza di polizia», che «impartiva ordini e tratteneva i disobbedienti. Nella maggior parte delle tribù», continuò Lowie, «non solo confiscavano la selvaggina procurata clandestinamente, ma frustavano il colpevole, distruggevano le sue proprietà e, in caso di resistenza, lo uccidevano». [*7] Graeber e Wengrow chiamano tali capi i "re del gioco", il loro potere è in gran parte una questione di "prestazioni", e suggeriscono che «la loro realtà era, in effetti, sporadica. Apparvero e poi si dissolsero» (117, 429). Riconoscere ciò, dicono, mina l'evoluzionismo perché «i Cheyenne o i Lakota del diciannovesimo secolo sarebbero stati visti [dagli evoluzionisti] come evolutisi dal livello di "banda" a quello di "Stato" all'incirca ogni novembre, per poi devolversi di nuovo in primavera. Ovviamente, questo è sciocco. Nessuno suggerirebbe seriamente una cosa del genere. Tuttavia, vale la pena sottolinearlo perché mostra la stupidità assai più profonda di quello che è l'assunto iniziale: che le società debbano necessariamente progredire attraverso una serie di stadi evolutivi per cominciare» (110-11). Eppure gli evoluzionisti non hanno avuto alcun problema reale nell'incorporare queste società flessibili nelle loro tipologie. Prendiamo, ad esempio, il libro di Allen Johnson e Timothy Earle The Evolution of Human Societies, che utilizza il Great Basin Shoshone di un secolo fa come uno dei suoi casi di studio chiave. Come i Cheyenne, gli Shoshone trascorrevano la maggior parte dell'anno in gruppi non classificati, delle dimensioni di una famiglia, ma alcuni di loro concedevano periodicamente ai "capi consiglio" e agli "sciamani antilopi" poteri di vasta portata per coordinare la caccia e la cattura su larga scala. [*8] La maggior parte delle volte, l'aridità del Grande Bacino rendeva l'organizzazione a livello familiare il modo più efficace per cacciare e raccogliere, ma quando si presentava l'opportunità di cacciare i conigli, gli Shoshone mettevano le persone al comando e facevano ciò che serviva per portare a termine il lavoro. Gli Shoshone non divennero così sudditi di uno stato stratificato. I capi e gli sciamani non avevano alcun potere coercitivo al di là della volontà delle persone di seguire il loro esempio nel massimizzare il massacro, sia che ciò significasse ripulire le sterpaglie e stendere centinaia di metri di reti o punire i free rider la cui sregolatezza minacciava lo sforzo condiviso. Nel momento in cui i conigli o i bisonti smisero di correre, Shoshone e Cheyenne, che ora non avevano più bisogno di organizzazioni multifamiliari né possedevano una scorta di cibo abbastanza abbondante per sostenerli, si sparpagliarono per il paesaggio in piccoli gruppi, fino alla successiva stagione di caccia. Graeber e Wengrow hanno ragione quando dicono che i preistorici hanno trascurato la stagionalità, ma hanno torto quando dicono che la stagionalità è incompatibile con l'evoluzionismo.

Sepolture del Paleolitico superiore
Graeber e Wengrow sostengono anche che alla base degli spettacolari ritrovamenti del Paleolitico superiore in Europa vi sia la stagionalità. I preistorici spesso suggeriscono che le magnifiche pitture rupestri di Altamira, Chauvet e dozzine di altri siti siano state prodotte quando c'erano grandi gruppi che si riunivano per la caccia stagionale alle renne. [*9] Ma Graeber e Wengrow vanno oltre, estendendo l'argomento per spiegare un secondo fenomeno: una serie di sepolture notoriamente ricche datate tra il 32.000 e il 13.000 a.C. circa, il che, suggeriscono, è incoerente con i resoconti degli evoluzionisti. E questa è la seconda questione su cui penso che la logica degli autori sia difettosa. Dalla Russia al Galles, gli scavatori hanno trovato ricchi corredi funerari, a volte tra cui migliaia di perline d'avorio di mammut e quelli che sembrano sospettosamente scettri e altre insegne d'ufficio. [*10] Questi ritrovamenti sembrano dimostrare che non possiamo semplicemente supporre che tutti i raccoglitori dell'era glaciale vivessero come i contemporanei! Kung San nel deserto del Kalahari; Ma ciò che li rende ancora più interessanti è che gli scheletri nelle tombe presentavano un numero straordinario di patologie. «Sembra estremamente improbabile», commentano molto ragionevolmente Graeber e Wengrow, «che l'Europa paleolitica abbia prodotto un'élite stratificata che guarda caso consisteva in gran parte di gobbi, giganti e nani» (103). Anche in questo caso, vedono dei «re che giocano», facendo un'analogia con i Nuer precoloniali del Sud Sudan, i quali a volte interpretavano delle persone «che nella nostra società probabilmente verrebbero classificate come qualsiasi altra cosa, da altamente eccentriche o provocatoriamente queer a neuro-divergenti o a malati di mente», come dei «toccati da Dio». Nei momenti di crisi, spiegano, «una persona che altrimenti avrebbe potuto trascorrere la sua vita come qualcosa di analogo allo scemo del villaggio si ritroverebbe improvvisamente ad avere notevoli capacità di lungimiranza e di persuasione». Fino al punto che uno di questi potrebbe anche «proporre visioni del tutto diverse di come potrebbe essere la società Nuer» (98). Per gli autori (104), le ricche sepolture parlano di una giocosità e di una volontà di passare dall'uguaglianza alla gerarchia che l'evoluzionismo non può accogliere. Eppure, anche in questo caso, la loro logica è difettosa. In diversi saggi, a partire dagli anni '90, Brian Hayden ha identificato alcune società di foraggiamento vedendole come "trans-egualitarie", prive di rigide strutture di classe, ma comunque «dotate di proprietà privata, eccedenze, oggetti di prestigio e significative differenze socio-economiche». [*11] Da tempo, gli antropologi sanno che i raccoglitori abbastanza fortunati da trovare dense concentrazioni di risorse prevedibili e affidabili in ambienti altrimenti difficili, tendono a diventare meno mobili, stabilendosi in modo da monopolizzare così l'oasi di abbondanza. [*12] Le ricche sepolture dell'era glaciale provengono per la stragrande maggioranza da dei siti che erano in una posizione superba, per tendere imboscate a mammut o a renne, nelle pianure ghiacciate e altrimenti proibitive d'Europa, e Hayden suggerisce che la necessità di un'organizzazione dall'alto verso il basso – come nelle cacce Cheyenne e Shoshone – le ha trasformate in nicchie dove le società di cacciatori-raccoglitori trans-egualitarie potevano evolversi. Nelle moderne società di foraggiamento, questi capi "ingranditori" (come li chiama Hayden) spesso affermano di essere stati toccati dagli dei. Forse gli scheletri paleolitici patologici appartengono a scemi del villaggio che hanno fatto del bene; o forse la scoperta a Sungir, Dolní Vestonice e Arene Candide di scheletri di giovani uomini con ferite orribili o armi di pietra conficcate nelle ossa rappresentano ingranditori più convenzionali che hanno cooptato gobbi visionari, giganti e nani per sostenere le loro cause. Forse il potere che questi uomini esercitavano era transitorio come quello di un boss coniglio; o forse alcune società dell'era glaciale erano diverse da qualsiasi cosa documentata nella documentazione etnografica. [*13] Entrambe le possibilità ci richiedono di riconoscere che l'evoluzione culturale può funzionare in molteplici modi, ma nessuna delle due ci richiede di rifiutare le sue premesse centrali.

Agricoltura
A partire dagli anni 2000, archeologi e paleobotanici si sono allontanati da tre vecchie teorie sulle origini dell'agricoltura: in primo luogo, la crescita della popolazione dopo la fine dell'era glaciale (intorno al 9650 a.C.) ha guidato esperimenti di giardinaggio e pastorizia che hanno portato all'addomesticamento di piante e animali nel Vicino Oriente; in secondo luogo, che l'addomesticamento è avvenuto in alcune regioni centrali del Vicino Oriente e poi si è diffuso costantemente verso l'esterno; e in terzo luogo, che l'agricoltura ha inesorabilmente guidato processi di sedentarietà, aumentando gli input di lavoro e aumentando la disuguaglianza. Invece, la maggior parte degli esperti ora suggerisce che la relazione tra popolazione e addomesticamento era complicata e variabile; che gli esperimenti di coltivazione delle piante sono stati condotti in più luoghi, in particolare nelle zone umide; che le piante addomesticate hanno preso piede molto lentamente, impiegando 3.000 anni (ca. 9500-6500 a.C.) per passare da meno del 20% degli assemblaggi a oltre l'80%; che la deriva verso le risorse addomesticate è stata regolarmente invertita; che piuttosto che causare sedentarietà, l'addomesticamento ne era spesso la conseguenza; che la sedentarietà e gli esperimenti di coltivazione delle piante iniziarono già nel 21.000 a.C., nel punto più freddo dell'ultima era glaciale; e che ci sono pochi segni di disuguaglianza istituzionalizzata nel Vicino Oriente prima del 5500 a.C. circa. [*14] Da ciò, Graeber e Wengrow concludono che «le persone misero effettivamente alla prova l'agricoltura, per le sue dimensioni, "giocando agli agricoltori" se volete, passando da un modo di produzione all'altro, proprio così come cambiavano avanti e indietro le loro strutture sociali». Piuttosto che costringere gli agricoltori a una crescente disuguaglianza, essi sostengono, «l'agricoltura in realtà ha messo l'umanità, o una piccola parte di essa, su un percorso lontano dalla dominazione violenta» (248, corsivo nell'originale). Ancora una volta, la mia discussione con gli autori non è sui fatti, che sembrano sempre più chiari, ma su ciò che i fatti significano per l'evoluzionismo. Graeber e Wengrow hanno ragione quando dicono che i modi in cui alcuni evoluzionisti hanno descritto la rivoluzione agricola ora sembrano antiquati; Ma questo è generalmente dovuto al fatto che i loro resoconti sono stati scritti prima che le nuove prove fossero disponibili, non perché le nuove prove siano incoerenti con l'evoluzionismo. Nel corso degli ultimi 20 anni, gli evoluzionisti hanno adottato strutture più sofisticate (come la teoria della costruzione di nicchie) per accogliere le nuove scoperte, e il superbo libro di Stephen Shennan First Farmers of Europe fornisce un resoconto evolutivo completo e convincente delle origini e dell'espansione dell'agricoltura. [*15] Non ci vorrebbe molto lavoro per riscrivere le sezioni rilevanti di Diamond's Guns, Germs, and Steel per essere coerenti con gli ultimi 20 anni di scoperte.

Monumenti senza agricoltura
Tra gli archeologi, un tempo era un'ovvietà che gli agricoltori costruissero monumenti, mobilitando enormi quantità di manodopera, ma che i raccoglitori non lo fanno. Questo, ora lo sappiamo, è stato sopravvalutato. L'eccezione più famosa è Göbekli Tepe, uno straordinario gruppo di camere sommerse con massicci pilastri di pietra scolpita vicino al confine turco-siriano. La costruzione iniziò qui nel 9500 a.C., proprio mentre gli esperimenti di addomesticamento stavano iniziando non lontano a sud, ma tutte le prove suggeriscono che i costruttori erano cacciatori e raccoglitori. [*16] Stonehenge, il monumento preistorico più famoso di tutti, fu costruito tra il 3000 e il 2600 a.C. circa da pastori piuttosto che da agricoltori [*17], ma già nell'8000 a.C., nel sito, i raccoglitori avevano allestito una serie di pali monumentali (forse totem). A Locqmariaquer, in Bretagna, intorno al 4500 a.C., i pescatori trascinarono per 5 chilometri una stele di pietra alta 20 metri e pesante 350 tonnellate e poi la eressero su una tomba comune. Nella costa del Perù, altri pescatori iniziarono a costruire tumuli ad Aspero, Caral e Sechin Bajo prima del 3700 a.C. I raccoglitori in Louisiana ammucchiarono giganteschi terrapieni a Watson Brake intorno al 3400 a.C. e altri ancora più grandi, usando un'unità di misura standardizzata, a Poverty Point intorno al 1600 a.C. [*18] Graeber e Wengrow concludono, giustamente, che le società che hanno costruito questi monumenti «sembrano essere quanto di più lontano da piccole "bande" nomadi ed egualitarie si possa immaginare»; ma poi affermano, del tutto erroneamente, che gli evoluzionisti li hanno in gran parte ignorati. «Gli studiosi e i ricercatori di professione», annunciano, «devono effettivamente fare uno sforzo considerevole per riuscire a rimanere così ignoranti» (140, 147). Non è così. Il resoconto di Hayden sulle élite trans-egualitarie che monopolizzano risorse ricche e stabili in oasi di abbondanza si adatta perfettamente ai monumenti dei raccoglitori e dei pescatori, e gli archeologi evoluzionisti Kent Flannery e Joyce Marcus prendono il caso peruviano come primo esempio nel loro libro "The Creation of Inequality". [*19] Ma detto questo, anche se ora conosciamo monumenti di raccoglitori e pescatori provenienti da molte parti del mondo, rimangono estremamente rari rispetto a quelli dei primi agricoltori. L'Inghilterra mesolitica produsse una fila di totem a Stonehenge, ma l'Inghilterra del primo Neolitico era affollata da decine di migliaia di lunghi tumuli e recinti rialzati. [*20] Gli agricoltori non erano le uniche persone in grado di organizzare abbastanza lavoro per spostare grandi quantità di terra e pietra, ma gli evoluzionisti hanno ragione quando dicono che la scala su cui operavano gli agricoltori era di ordini di grandezza superiore a quella dei raccoglitori.

Città senza disuguaglianze
Tutti gli esseri viventi - dalle amebe agli elefanti - aumentano la loro popolazione quando le condizioni sono favorevoli. Quando le scimmie o altri animali si moltiplicano, tuttavia, continuano a vivere in branchi di dimensioni più o meno uguali. Non ci sono città delle scimmie. Noi esseri umani siamo unici nella nostra capacità di espandere i nostri insediamenti permanenti. Per quanto ne sappiamo, non c'erano comunità sedentarie per tutto l'anno, con anche 1.000 residenti, prima di Çatalhöyük, intorno al 7000 a.C.; nessuna era superiore a 10.000 residenti, prima di Uruk, Susa, Tell Hamoukar e Tell Brak nel Vicino Oriente e Majdanetske, Taljanki, Dobrovodi e Nebelivka in Ucraina; tutte intorno al 3500 a.C.. Nessuna superiore a 100.000 prima di Ninive, intorno al 700 a.C.; nessuna superiore al milione prima di Roma, intorno al 50 a.C.; e nessuna superiore ai 10 milioni prima di New York, Londra e altre super-città dell'inizio del XX secolo. [*21] Anche se dal 7000 a.C. abbiamo continuato ad evolverci biologicamente , rimaniamo ancora più o meno gli stessi animali di allora. Ciò che si è evoluto, al di fuori di ogni riconoscimento, sono le nostre istituzioni, che ci hanno dato gli strumenti organizzativi per la cooperazione su scale assai più ampie; e gli antropologi evoluzionisti hanno costantemente concluso che, per la maggior parte della storia, ciò che ha reso possibile tutto questo è stata la gerarchia dall'alto verso il basso. [*22] Tuttavia, come notano Graeber e Wengrow (276-327), il legame tra scala e gerarchia sembra meno ovvio ora di quanto non lo fosse nel 1950, quando V. Gordon Childe pubblicò il suo famoso saggio "The Urban Revolution". [*23] Gli scavi, nella maggior parte delle città antiche, hanno portato alla luce palazzi e tombe reali o aristocratiche, [*24] ma non in tutte. Segni di una massiccia disuguaglianza istituzionalizzata sono difficili da trovare non solo a Çatalhöyük, ma anche nei mega-siti ucraini, nella sumera Uruk, nelle città della valle dell'Indo (occupate tra il 2500 e il 1900 a.C.), a Teotihuacan (intorno al 300 d.C.) e negli insediamenti del I millennio a.C. e in quelli dell'Africa occidentale come Dakhlet el Atrous e Jenné-jeno, per non parlare della maggior parte delle città-stato greche arcaiche e classiche. [*25] Gli specialisti contestano quanto fossero egualitarie alcune di queste città, ma l'osservazione di Graeber e Wengrow secondo cui «il semplice fatto della vita urbana non implica, necessariamente, alcuna forma particolare di organizzazione politica» (277-78) appare ragionevole. Tuttavia, le conclusioni che essi ne traggono lo sono meno. Questi esempi - suggeriscono - si sommano a «un modello sorprendentemente comune» nel quale «ha avuto luogo un drammatico aumento della scala dell'insediamento umano organizzato, senza che però ci fosse alcuna conseguente concentrazione di ricchezza o di potere nelle mani delle élite dominanti» (322). Questo modello, aggiungono, «è abbastanza robusto, non solo da riuscire a capovolgere la narrazione convenzionale, ma anche da aprire i nostri occhi a delle possibilità che altrimenti non avremmo mai considerato» (284). La verità è che non sappiamo perché alcuni sistemi urbani (tra cui quello greco) se la cavassero benissimo senza palazzi o cimiteri d'élite; ma sappiamo che in realtà si trattava solo di pochi sistemi, e che la stragrande maggioranza delle città antiche aveva dei governanti ricchi e potenti. Per essere convincente, una teoria generale deve spiegare sia la tendenza generale verso la gerarchia che le occasionali eccezioni egualitarie; piuttosto che limitarsi a dichiarare che una parte del modello prevale sull'altra. Fortunatamente, sociologi, storici e archeologi stanno già fornendo dei resoconti in proposito. [*26]

Collasso e Resilienza
Per definizione, l'evoluzione non è diretta. Nessuno è al comando; non c'è Telos. In alcune circostanze, le pressioni selettive indicano il modo in cui una maggiore scala e complessità aumenterà la forma fisica di un organismo; in altri, la semplificazione invece aumenterà le probabilità di trasmettere i suoi geni o memi. In linea di principio, gli evoluzionisti socioculturali dovrebbero quindi essere interessati tanto al dimensionamento delle società quanto al loro ridimensionamento. In pratica, tuttavia, l'archeologo Joseph Tainter aveva ragione a dire nel 1988 che «lo sviluppo della complessità politica ha attirato più l'attenzione degli studiosi del collasso, ovvero la sua antitesi». [*27] Da allora in poi, gli evoluzionisti hanno fatto del collasso un punto focale, con Jared Diamond, che sull'argomento ci ha scritto un bestseller; ma, con Patricia McAnany e Norman Yoffee, gli anti-evoluzionisti si sono opposti, spingendosi fino a suggerire che «il "collasso" – nel senso della fine di un ordine sociale e della sua gente – è un evento raro». [*28] Tainter definì il collasso come un declino della gerarchia, della specializzazione, della centralizzazione, dell'investimento nella cultura d'élite, nel flusso di informazioni, nell'integrazione economica e nell'unità territoriale, portandolo a concludere che «non c'è da meravigliarsi che oggi il collasso sia temuto da così tante persone. Anche tra coloro che denunciano gli eccessi della civiltà industriale, la possibile fine di quella società deve comunque sicuramente essere vista come catastrofica». [*29] McAnany e Yoffee però non sono d'accordo, rispondendo che mentre «vivere attraverso alcuni tipi di cambiamento è difficile, doloroso o addirittura catastrofico, ... resilienza è invece un termine più accurato [di quanto lo sia collasso] al fine di descrivere la risposta umana a dei problemi estremi». [*30] Quando si parla di collasso, Graeber e Wengrow condividono tale impazienza. Bloccando saldamente la parola all'interno di citazioni spaventose (379), e aggiungendo cupamente che «con il senno di poi, è facile vedere quanto questi schemi cronologici riflettano le preoccupazioni politiche dei loro autori» (381). In alternativa ai resoconti evoluzionisti del collasso, offrono pertanto una trattazione estesa delle culture nordamericane di Hopewell e Mississippi (456-70). Tra il 1350 e il 1400 d.C., il grande centro di Cahokia, che aveva vantato 15.000 persone solo tre secoli prima, si trasformò in «un deserto infestato di piramidi ricoperte di vegetazione e di blocchi abitativi che si sgretolavano di nuovo in paludi, occasionalmente attraversato dai cacciatori, ma privo di insediamenti umani permanenti» (468). Questo, ipotizzano, sarebbe stato causato da «defezioni di massa ... allorché i sudditi cercavano altrove una vita più libera». «La gente semplicemente si allontanava» da dei governanti violenti, spiegano gli autori, attuando «un rifiuto consapevole di tutto ciò che la città di Cahokia rappresentava» (467, 469). «Sulla scia di Cahokia», concludono, seguì poi «un ampio movimento di allontanamento dai signori di qualsiasi tipo e a favore di strutture costituzionali accuratamente studiate per distribuire il potere in modo tale che simili figure non potessero più ripresentarsi» (491).

Graeber e Wengrow raccontano bene questa storia, ma sospetto che i classicisti che leggono questo racconto di Cahokia si ricorderanno fortemente del Mediterraneo orientale dopo il 1200 a.C. e dell'Europa occidentale dopo il 400 d.C., dove, nonostante alcune affascinanti somiglianze con Cahokia, i signori tornarono nei secoli successivi. Come la Grecia post-micenea e la Britannia post-romana, il Nord America post-Mississippi vide capi governare sistemi politici rimpiccioliti (Etowah, Moundville, Coosa) e cercare di far rivivere qualcosa della grandezza che era andata perduta. Tutti e tre i casi videro anche l'arrivo di nuove popolazioni nell'area, ma a differenza dell'arrivo dei Dori o degli Anglosassoni, l'ondata di colonialismo europeo e di malattie che travolsero il Nord America tagliò ogni possibilità di rigenerare uno stato indigeno. Graeber e Wengrow liquidano le argomentazioni controfattuali come «nella migliore delle ipotesi, un gioco ozioso» (449), ma non riesco a togliermi di dosso il sospetto che, lasciati a se stessi, i nordamericani avrebbero rigenerato le loro società complesse entro il XIX o il XX secolo d.C., proprio come le persone di tutto il mondo hanno fatto regolarmente dopo i crolli. [*31] Graeber e Wengrow insistono sul fatto che «il caso del Nord America non solo fa saltare in aria gli schemi evolutivi convenzionali; dimostra anche chiaramente che semplicemente non corrisponde al vero dire che se si cade nella trappola della "formazione dello Stato" non ci sia modo di uscirne» (481-82). Ma questo va contro la logica comparativa. In tutti questi sei esempi, l'analisi di Graeber e Wengrow è originale e stimolante, e se si fossero accontentati di attirare l'attenzione sull'incapacità degli evoluzionisti di affrontare pienamente questi casi, il loro libro sarebbe stato un prezioso contributo alla letteratura accademica. Tuttavia, non sarebbe stato un classico. Ciò che eleva “Dawn” al livello di un evento editoriale è l'alternativa idealista e volontaristica di Graeber e Wengrow all'evoluzionismo materialista e determinista. La storia non è stata un declino a lungo termine da uno stato rousseauiano di grazia egualitaria a uno orwelliano di pestare la faccia, insistono, perché le persone hanno sempre posseduto «tre libertà primordiali»: «la libertà di muoversi, la libertà di disobbedire e la libertà di creare o trasformare relazioni sociali» (426). Siamo sempre stati attori politici consapevoli, e saremo sempre in grado di muoverci, disobbedire e trasformare le nostre relazioni, se lo vorremo. Da qui la loro conclusione, che ho già menzionato, che il vero problema non è «come la nostra specie sia caduta da un idilliaco stato di uguaglianza», quanto piuttosto «come siamo arrivati a rimanere intrappolati in catene concettuali così tanto strette che non possiamo più nemmeno immaginare la possibilità di reinventarci» (9). La risposta, concludono gli autori, è che i cattivi di vario tipo sono riusciti a impadronirsi di quelle che chiamano «le tre possibili basi del potere sociale», definite come «controllo della violenza, controllo dell'informazione e carisma individuale» (365). [*32] Gran parte del libro è dedicato a tracciare il modo in cui le nuove leve, in diverse parti del mondo, abbiano messo le mani su una, due o anche su tutte e tre le basi, producendo un 21° secolo in cui «qualcosa è andato terribilmente storto» (76). Fortunatamente, dicono Graeber e Wengrow, comprendere correttamente la storia ci permetterà di «riscoprire le libertà che ci rendono umani» (8) – e la verità che «tuttora, le possibilità di intervento umano rimangono molto più grandi di quanto siamo inclini a pensare» (524). Questi sentimenti sono il motivo per cui "Dawn" verrà ricordata, ma che tuttavia rimangono meri slogan, a meno che Graeber e Wengrow non abbiano ragione sul fatto che le teorie alternative degli evoluzionisti semplicemente non sono vere.

Il mio grande problema con "Dawn" è che trovo difficile dire se il libro costituisca o meno una falsificazione dell'evoluzionismo, e questo perché gli autori non cercano mai di dimostrare che sia così. Ci dicono che l'evoluzionismo è noioso, pericoloso e sbagliato, e ci forniscono dettagli affascinanti su molteplici casi che sembrano scomodi per le narrazioni evoluzionistiche; Ma in nessun punto specificano però come possiamo dire se questi dettagli hanno superato la soglia oltre cui qualsiasi lettore ragionevole dovrebbe convenire che i principi dell'evoluzionismo sarebbero stati falsificati. E questo è perché Graeber e Wengrow non hanno un metodo. Il libro del filosofo anarchico Paul Feyerabend, "Against Method" (ahimè, anch'esso un classico) è famoso soprattutto proprio  per il suo commento disinvolto secondo cui «tutto è permesso», ma la sua argomentazione più ampia potrebbe - e forse lo ha fatto - fornirci un manuale per "Dawn". La scienza normale, sostiene Feyerabend, «presume che la "scienza" abbia successo, e che abbia successo perché usa procedure uniformi», ma questo però «non è vero in quanto tali procedure non esistono». «Stando così le cose» - si chiese Feyerabend - «cos'è che dobbiamo farcene della pretesa metodologica secondo cui una teoria dovrebbe essere giudicata dall'esperienza, e che devrebbe essere respinta nel caso contraddicesse le affermazioni fondamentali accettate?» La risposta è quella secondo cui, ora: «Questa pretesa, e queste teorie devono ora essere tutte viste come se fossero del tutto inutili... Il metodo giusto non deve contenere regole che, sulla base della falsificazione, ci facciano scegliere tra le varie teorie». [*33] In linea con questi dettami, Graeber e Wengrow, non hanno mai stabilito un metodo per giudicare quanto bene le teorie degli evoluzionisti - o le loro alternative - si adattino ai fatti; e questo per non parlare dello sforzo di isolare le proposizioni verificabili. Uno dei grandi problemi delle scienze sociali è quello he le teorie si sviluppano regolarmente in dei modi che ci rendono difficile verificarle empiricamente. [*34] Ma, quali che siano le loro colpe, gli evoluzionisti socioculturali hanno evitato un simile peccato. Se gli evoluzionisti hanno ragione, le società agricole in generale dovrebbero essere tutte più diseguali politicamente ed economicamente, rispetto a quelle di foraggiamento; e, in generale, gli imperi agrari dovrebbero essere tutti quanti ancora più diseguali. Gli insediamenti in genere, dovrebbero essere più grandi nelle società agricole di quanto lo sono in quelle di foraggiamento; e in quelle imperiali, dovrebbero esserlo di più, rispetto a quelle a livello statale. Le città più grandi, dovrebbero essere più organizzate e gerarchiche di quelle più piccole. Le prime regioni in cui l'agricoltura ha avuto inizio, dovrebbero essere anche quelle dove i governi permanenti e le città sono apparse per primi. E così via... Ma come potremmo sapere se i casi che Graeber e Wengrow esplorano sono sufficienti a falsificare le affermazioni degli evoluzionisti? Un buon punto di partenza, sarebbe stato quello di porre esplicitamente la domanda, seguito poi dalla ricerca dei modi per misurare le variabili cruciali come la disuguaglianza politica ed economica, la scala di grandezza, l'energia estratta dai diversi modelli di sussistenza, e la frequenza con cui le persone sfidano lo status quo. Sarebbe stato altrettanto utile specificare una soglia, oltre la quale l'ipotesi nulla-evolutiva appare confutata. Una singola eccezione è adeguata? Basta? Ne basteranno due o tre? Oppure, forse, gli autori devono dimostrare che la maggior parte dei casi non rispettano le regole? Graeber e Wengrow non si pongono mai tutte queste domande; e infatti fanno di tutto per evitare qualsiasi tipo di misurazione.

Ho trovato particolarmente esasperante la quasi totale assenza di statistiche, in un libro che in ultima analisi parla di disuguaglianza (immaginate "Il capitale nel XXI secolo" di Thomas Piketty senza numeri). [*35] Su "Dawn", l'unica discussione estesa sulla quantificazione può essere trovata infatti solo nella sua primissima nota finale (527 n. 1), dedicata al mio libro "Foragers, Farmers, and Fossil Fuels" (2015). Lì, avevo offerto alcune stime della disuguaglianza economica nel tempo, espresse in coefficienti di Gini, la metrica più comune nelle scienze sociali: un errore, dicono Graeber e Wengrow, poiché «se si riduce la storia del mondo ai coefficienti di Gini, ne conseguiranno necessariamente delle sciocchezze» (527). La mia impazienza nel rispondere su questo dettaglio, è forse solo amarezza per essere chiamato sciocco, [*36] sebbene preferisco dire a me stesso che la vera ragione per cui sono esasperato è che la loro unica discussione sui metodi quantitativi è assolutamente superficiale. Dopo aver reso nota la loro disapprovazione dei coefficienti di Gini, Graeber e Wengrow hanno immediatamente confuso la questione con la critica al mio sforzo separato di misurare i redditi reali medi (espressi in dollari internazionali del 1990; ancora una volta la metrica più comune nelle scienze sociali). Chiedono: «Da dove viene questa cifra?»; cosa che è sempre una buona domanda, anche se nel mio libro lo dico tre volte che ho attinto ai calcoli dell'economista dello sviluppo Angus Maddison. [*37] Graeber e Wengrow ci ricordano poi che «dobbiamo anche tenere conto di tutte le altre cose che i raccoglitori paleolitici hanno ottenuto gratuitamente», per quanto questo è esattamente ciò che Maddison ha cercato di fare. Queste «altre cose», dicono Graeber e Wengrow, includono «la sicurezza gratuita [anche se alcune, forse molte, società paleolitiche sembrano aver avuto tassi di morte violenta di un ordine di grandezza superiore a quello delle società del XXI secolo],[*38] la risoluzione gratuita delle controversie [non abbiamo idea di come abbiano risolto le controversie o quanto sia costato, ma i tassi di morte violenta suggeriscono che non ha funzionato così tanto bene], l'istruzione primaria gratuita [tutti nel Paleolitico erano analfabeti], l'assistenza gratuita agli anziani [la maggior parte delle persone è morta prima di raggiungere l'età adulta, e la maggior parte degli adulti è morta entro i 50 anni], le medicine gratuite [di nuovo, non sappiamo se fossero gratuite, ma tuttavia non hanno impedito quelle cifre di mortalità], per non parlare dei costi di intrattenimento, musica, narrazione e servizi religiosi» (molti dei quali li ricevo anche oggi gratuitamente). Pur se concediamo a Graeber e Wengrow i «corsi serali di alto livello di pittura naturalistica rupestre e di scultura dell'avorio – e tutte quelle pellicce», dovremmo tuttavia ricordare che, allora come oggi, non esisteva una cosa come un pranzo gratis. Qualcuno doveva trovare e macinare i pigmenti, cacciare i mammut, e poi scuoiare le bestie, tagliare e conciare le loro pelli e cucirle insieme. Tra i Comanche del XIX secolo, la preparazione delle pelli era «una successione infinita di compiti difficili», delegati alle donne e, quando possibile, agli schiavi. [*39]

Non ho dubbi sul fatto che le lingue di Graeber e Wengrow fossero ben salde nelle loro guance mentre scrivevano questa nota finale, ma sono felice di fare da spalla alle loro gag perché questa - la loro principale affermazione sui metodi quantitativi - è francamente roba leggera. E gli autori non offrono spiegazioni, da nessun'altra parte, sul perché evitino altri metodi ben consolidati, come lo strumento standard dello storico, la narrazione continua. Qui, proprio non c'è alcun metodo. Ma il metodo è importante, e attualmente altri archeologi, più legati al rigore metodologico, stanno avanzando visioni assai diverse (evoluzioniste) della disuguaglianza iniziale. Il volume curato da Timothy Kohler e Michael Smith, "Ten Thousand Years of Inequality" (2018), che calcola i coefficienti di Gini per più società antiche, forse è apparso troppo tardi perché Graeber e Wengrow ne tenessero conto, ma i modelli generali che stanno emergendo sembrano dovere ben poco alla volontà dei popoli preistorici di immaginare possibilità diverse. La disuguaglianza economica, proprio come gli evoluzionisti hanno a lungo sostenuto, aumentò con l'avvento dell'agricoltura, e aumentò più rapidamente allorché la densità della popolazione raggiunse il punto in cui la scarsità di terra contava più della scarsità di manodopera. Aumentò anche di più nel Vecchio Mondo, anziché nel Nuovo, principalmente perché il Nuovo Mondo mancava dei grandi animali da tiro necessari a massimizzare la produzione da parte degli esseri umani, i quali lavoravano degli appezzamenti di terra sempre più piccoli ma sempre più preziosi. [*40] Forse gli autori hanno ragione sul fatto che se riduciamo la storia del mondo ai coefficienti di Gini ne conseguono delle sciocchezze; ma se non lo facciamo ne conseguono sciocchezza ancora più grosse. Quindi, come riassumere L'alba di tutto? È, ahimè, un classico. È un lavoro di ricerca attenta e di grande originalità. È anche un opuscolo per i tempi, che porta il lontano passato a pesare su delle questioni che preoccupano profondamente il pubblico istruito nei paesi ricchi negli anni 2020. È probabilmente l'evento editoriale più importante degli ultimi decenni, e la sua prosa vivace e supponente ci ricorda che è divertente porre e cercare di rispondere alle più grandi domande della storia; e che cosa meravigliosa è essere un archeologo. Ma allo stesso tempo, le sue argomentazioni si basano più sulla retorica che sul metodo. Sarebbe edificante pensare che tutto ciò che non ci piace della nostra epoca, persiste solo perché finora ci è mancata l'immaginazione e il coraggio di mettere qualcosa di meglio al suo posto. Sarebbe particolarmente edificante per gli antropologi, gli archeologi e gli storici sentire che cambiare il modo in cui i nostri lettori pensano al lontano passato potrebbe cambiare ciò che il futuro ci porterà. Ma la realtà si intromette costantemente. Noi facciamo la nostra storia, ma non in dei modi di nostra scelta.

- Ian Morris - imorris@standford.edu – Pubblicato sul Giornale americano di archeologia. Volume 126, Numero 3 Luglio 2022 -

NOTE:

1 Tibia 1996; Whitley 1996, 712.

2 Harari 2014; Diamante 1997.

3 Gli evoluzionisti socioculturali sono fortemente in disaccordo su cosa significhi effettivamente "evoluzionismo". In ciò che segue, considero gli evoluzionisti come studiosi che vedono una certa continuità concettuale tra la storia umana e l'evoluzione biologica, che considerano l'evoluzione socioculturale governata da meccanismi identificabili che funzionano in qualche modo come la selezione naturale, che vedono questi meccanismi come implicanti l'adattamento all'ambiente, che credono che i meccanismi operino su tutte le società indipendentemente dal tempo e dallo spazio. e – di solito, ma non sempre – che riconoscono gli stadi dell'evoluzione sociale e culturale, dalle bande egualitarie di foraggiamento attraverso gli imperi agricoli gerarchici e le tribù pastorali, fino ai moderni stati-nazione basati sui combustibili fossili. La letteratura è enorme; Attingo in particolare a Boyd e Richerson 2005 e Messoudi 2011, e al resoconto di Trigger (1998) sulla storia intellettuale del campo.

4 Ho individuato pochissimi lapsus fattuali. La loro affermazione che "le prime grandi città, quelle con la popolazione più numerosa, non sono apparse in Eurasia ... ma in Mesoamerica» (285; cfr 329, dove «Teotihuacan ... potrebbe essere facilmente messo alla pari con Roma all'apice del suo potere imperiale") sembra essere uno di questi, date le enormi dimensioni (discusse in seguito) di siti come Uruk, Ninive e Roma; così come il loro commento che nel nord della Siria "la coltivazione di cereali selvatici risale almeno al 10.000 a.C." (234). Citano le argomentazioni di Willcox et al. (2008) sulla segale ad Abu Hureyra, ma queste sono state seriamente indebolite da Colledge e Conolly (2010), ulteriormente supportate da Weide et al. (2021). Tuttavia, questi dettagli difficilmente invalidano l'argomentazione di Graeber e Wengrow.

5 Come quando un suggerimento "speculativo" che Uruk in Sumer avesse un "autogoverno democratico" intorno al 3300 a.C. (306) si trasforma in completa fiducia che Uruk abbia goduto di "secoli di autogoverno collettivo" (380).

6 Un esempio: la loro asserzione (156) che la vita di foraggiamento post-era "incentrata su ambienti di abbondanza piuttosto che di scarsità: più simile a quella dei Calusa che a quella dei ! Quella di Kung." Graeber e Wengrow hanno sicuramente ragione sul fatto che, ogni volta che potevano, i raccoglitori gravitavano in nicchie ricche di risorse, e alcuni siti mesolitici piuttosto spettacolari sono stati trovati in ambienti marittimi e paludosi piuttosto simili a quelli della Calusa in Florida. Tuttavia, sorvolano sul fatto che la maggior parte dei siti mesolitici non si trovano in luoghi così abbondanti, perché gli immobili di prima qualità erano rari; e quello che troviamo sui siti tipici francamente non è molto eccitante (Conneller 2021, sulla Gran Bretagna, ne è un buon esempio).

7 Lowie 1948, 18, citato da Graeber e Wengrow, 109.

8 Johnson e Earle 1987, 31–38; attingendo a Steward 1938.

9 Hayden 2020, 289–304, ha una recente discussione con riferimenti.

10 Pettitt 2011 ha un resoconto dettagliato.

11 Hayden 2014, 643.

12 Dyson-Hudson e Smith 1978.

13 Wobst 1978.

14 Asouti e Fuller 2013 è stato particolarmente influente. Sulla popolazione, Palmisano et al. 2021.

15 B. Rossi 2001; Zeder 2012; Shennan 2018, in particolare 1–54.

16 Almeno alcuni di questi raccoglitori vivevano a Göbekli Tepe (Clare 2020), ma gran parte dell'edificio e dell'attività rituale potrebbe essere avvenuta durante i raduni stagionali di gruppi sparsi su un'area più ampia.

17 L'agricoltura ha spazzato le isole britanniche intorno al 4000 a.C., ma il cambiamento climatico e il declino della popolazione sembrano aver guidato uno spostamento verso la pastorizia dopo il 3500 a.C. (Bevan et al. 2017; Colledge et al. 2019).

18 Graeber e Wengrow forniscono riferimenti per Göbekli Tepe, Watson Brake e Poverty Point. Per Stonehenge: Parker Pearson 2011, 135–37; Locqmariaquer: Cunliffe 2001, 143-51; Aspero, Caral e Sechin Bajo: Malpass 2016, 53–60.

19 Hayden 1995; Flannery e Marcus 2012, 238–43.

20 Cunliffe 2013, 149-68, ha una buona visione d'insieme.

21 Approfondisco i calcoli alla base di questi numeri in Morris 2013, 144-65, arricchito da McMahon 2020 sul Vicino Oriente del quarto millennio e Gaydarska 2020 sull'Ucraina del quarto millennio.

22 Fletcher 1995 rimane l'analisi classica dei limiti sulla dimensione dell'insediamento.

23 Childe 1950, da leggere con M. Smith 2009.

24 Flannery 1998 ha un buon riassunto del modello tipico.

25 Graeber e Wengrow forniscono riferimenti; per l'Africa occidentale, Monroe 2018. Offro alcune mie riflessioni sulle città greche e sulla teoria evoluzionistica in Morris 1997.

26 Ad esempio, Tilly 1992; Flannery e Marcus 2012, 448–74; Scheidel 2013, 30–32.

27 Tainter 1988, 3.

28 Diamante 2005; citazione da McAnany e Yoffee 2010, 11. Yoffee 2019 amplifica questi sentimenti.

29 Tainter 1988, 4, 21.

30 McAnany e Yoffee 2010, 11. Alcuni classicisti, naturalmente, hanno rifiutato il collasso molto prima degli antropologi, con la rivolta contro il modello di declino e caduta del Tardo Impero Romano di Gibbon che risale a 50 anni fa (in particolare Brown 1971) e quella contro le visioni catastrofiche del collasso miceneo di circa 30 anni (Papadopoulos 1993). Il nome di Gibbon è vistosamente assente dalla letteratura antievoluzionista, anche se non dagli scritti di Tainter.

31 Schwartz e Nichols 2006.

32 Alcuni lettori riconosceranno qui echi della tipologia del sociologo Michael Mann delle fonti ideologiche, economiche, militari e politiche del potere sociale (Mann 1986). Potremmo dire che Graeber e Wengrow ci danno la struttura IEMP di Mann senza l'E.

33 Feyerabend 2010 (originariamente pubblicato nel 1975), rispettivamente 12, xx, 44, 45. Enfasi nell'originale.

34 Gellner 1985 ha un buon resoconto di questo problema, concentrandosi sulla psicoanalisi.

35 Piketty 2014.

36 Anche se, per gli standard di Graeber e Wengrow, questo è stato solo un colpo di striscio. Nel respingere il lavoro degli evoluzionisti Jared Diamond, Francis Fukuyama e Steven Pinker, gli autori ci dicono che "a un certo punto, devi riprenderti i giocattoli dai bambini" (529 n. 12). Anche gli antropologi che approvano, come Pierre Clastres e Claude Lévi-Strauss, si ribellano per i loro fallimenti (113, 238-39).

37 Morris 2015, 56–57, 99, 114–15; attingendo a Maddison 2010.

38 Allen e Jones 2014.

39 Gwynne 2010, 198. La preparazione delle pelli era apparentemente un lavoro della donna anche nell'Europa neolitica (Masclans et al. 2021).

40 Kohler et al. 2017; Kohler e Smith 2018; Bogaard et al. 2019; Fochesato et al. 2019.

fonte: American Journal of Archaeology

lunedì 15 aprile 2024

Aprire il dibattito !!

Non rimarrà affatto tutto così com'è!
-  di Tomasz Konicz -

Un ampio dibattito di sinistra sui concetti di decrescita e sulla cosiddetta economia post-crescita sembra urgentemente necessario, se non altro per rompere con l'arcaica ideologia socialdemocratica e marxista tradizionale, che sta nuovamente guadagnando slancio sullo sfondo delle tendenze di crisi del capitalismo di Stato. Il fatto che la crescita infinita sia impossibile, oltre che autodistruttiva, in un mondo finito appare subito evidente, ed è facile da comunicare al grande pubblico. Questa argomentazione può essere un punto di partenza per la formazione di una coscienza radicale della crisi, evitando così che le persone insicure finiscano nell'illusione e nell'ideologia della crisi (che va di pari passo con la naturalizzazione del capitalismo, e in cui le cause della crisi vengono personalizzate).

Tuttavia, come ha osservato Christian Hofmann nel suo contributo alla discussione, questo è ben lungi dall'essere sufficiente. Si tratta piuttosto solo di un primo passo di consapevolezza che dovrà poi essere seguito da un esame della relazione di capitale, intesa come un processo feticistico caratterizzato da crescenti contraddizioni interne ed esterne. Ed è proprio qui che l'anacronistico pensiero della lotta di classe fallisce clamorosamente, dal momento che la gestione della crisi e il passaggio a un'economia post-crescita vengono trasformati invece in una mera questione di esproprio, nella quale il proletariato, ormai decaduto da tempo, dovrebbe essere rianimato nelle vesti di soggetto rivoluzionario, come sostiene Julian Kuppe nel suo contributo. Nell'ambito della sinistra - che per molti anni ha negato i cambiamenti climatici – è diventato ora normale aggiungere al suo armamentario – di riflesso - la crisi sistemica e climatica, come se si trattasse solo di un nuovo elemento da aggiungere insieme agli altri alla vecchia ideologia, in modo da poter così continuare a persistere nel pensiero radicato della lotta di classe.

Ma su un punto del genere, lo stesso Marx era contraddittorio: da un lato immaginava il proletariato come classe rivoluzionaria contrapposto al pauperismo del XIX secolo, mentre dall'altro lo identificava col capitalismo, vedendolo, nell'ambito della sua analisi della forma di valore, in quanto mero "capitale variabile"; vale a dire come quello che, per non arrivare in ritardo al lavoro, guida con l'aria condizionata accesa! La relazione di capitale - nella sua dinamica globale di di auto-valorizzazione illimitata e in qualità di "soggetto automatico" (Marx) -  va assai più in là della mera divisione di classe e dei rispettivi interessi capitalistici interni alle classi. Il fattore determinante è rappresentato dall'auto-movimento feticistico del capitale, mediato dal mercato, il quale dev'essere visto come "contraddizione in processo" (Marx), che, per non collassare su sé stesso, deve sempre continuare ad aprire continuamente nuovi mercati, nuovi ambiti e nuovi contesti di valorizzazione. Detto in termini concreti, si tratta della contraddizione interna del capitale, il quale – attraverso la razionalizzazione, mediata dalla concorrenza - si libera della propria sostanza, vale a dire, il lavoro salariato: maggiore è la produttività del capitale, minore sarà sempre più il valore oggettivato in una merce; e sempre più merci dovranno essere prodotte e vendute, per continuare a riuscire a valorizzare quella che è sempre la stessa massa di valore. Il capitale brucia il mondo intero per trasformare il denaro in più denaro. Più il capitale diventa produttivo, maggiore è la quantità di materie prime e risorse che deve bruciare.

Ecco perché tutti gli sforzi di risolvere la crisi climatica capitalista attraverso l'innovazione - come sostenuto da Stefan Laurin nella sua richiesta di adesione - sembrano essere così impotenti. In questa cieca e distruttiva dinamica produttiva del capitale, per la società tardo-capitalistica, il mondo nella sua interezza è soltanto uno stadio di transizione. Pertanto, le aziende espropriate che andrebbero in mano ai lavoratori resterebbero comunque soggette alle medesime pressioni del mercato (si veda, ad esempio, l'economia di mercato socialista della Jugoslavia). La stessa cosa vale anche per il capitalismo di Stato, prediletto dai vecchi marxisti nostalgici e dai keynesiani falliti, il quale di fatto non rappresenta altro che una forma di sviluppo e di crisi del dominio del capitale; una forma, in ultima analisi, senza soggetto, tanto effimera quanto superata.

L'emancipazione dalla relazione reale-astratta di capitale, che nel suo automatismo distruttivo e contraddittorio di sfruttamento priva l'umanità delle basi sociali ed ecologiche della vita, può essere conquistata solo grazie al superamento consapevole di una simile dinamica sociale globale di distruzione, attraverso la lotta di un movimento di emancipazione. È questa la più grande debolezza del discorso della post-crescita, che generalmente ignora la questione della lotta concreta per dare forma al post-capitalismo. Laddove, anche i vecchi concetti marxisti di rivoluzione - a cui si riferisce Kuppe - qui si rivelano insufficienti, dal momento che la trasformazione aperta del sistema inizierà inevitabilmente (ed essa si trova già nelle sue fasi iniziali) sotto forma del ribollire del fascismo. Caratterizzata proprio dal fatto che quelle stesse classi, che dovrebbero essere le portatrici della rivoluzione, sono ormai in via di disintegrazione.

L'orrore consiste proprio nel fatto che alla fine, per certi versi, una rivoluzione risulterebbe superflua, visto che il tardo capitalismo crollerà comunque inevitabilmente, a causa delle sue barriere interne ed esterne. E seguendo la sua dinamica feticistica, ciò porterà alla barbarie e al collasso della civiltà. Di conseguenza, le forze progressiste dovrebbero indirizzare un tale processo irreversibile di autodistruzione del capitalismo in una direzione emancipatrice, affrontando inizialmente l'estrema destra e le sue ideologie di crisi. In tal modo, la crisi, se finalmente presa sul serio nel contesto della lotta per la trasformazione, costituirebbe il vero denominatore comune di tutte quelle lotte apparentemente disparate che potrebbero essere condotte simultaneamente sotto forma di una lotta per la realizzazione del post-capitalismo; e questo, dal momento che nella crisi capitalistica permanente non è possibile realizzare in modo immanente le richieste delle singole lotte, laddove il criterio decisivo non è quello dell'appartenenza di classe, quanto piuttosto la Coscienza della Crisi - in altre parole, la diffusione di massa della consapevolezza dell'inevitabilità della trasformazione del sistema. In una lotta di trasformazione, consapevolmente condotta, per il post-capitalismo, dovrebbe già emergere il progetto di una società post-crescita, che si renderà possibile, in maniera efficace, solo a partire da un processo aperto ed egualitario di comprensione, da parte di tutta la società, del come e del che cosa della riproduzione.

Anche un tale processo di trasformazione, per così dire ottimale, non realizzerebbe un'utopia perché - come ha spiegato Sebastian Müller nel suo contributo alla discussione - il capitale ha già eroso fin troppo quelle che sono le basi ecologiche della vita umana, per poter ora sognare un comunismo cosmico completamente automatizzato. In un post-capitalismo emancipatore, si tratterebbe piuttosto, attraverso un dibattito ricco di conflitti e di tensioni, di trovare un equilibrio tra i bisogni fondamentali dell'umanità, i desideri individuali di realizzazione di ciascuno e le necessità della lotta a livello planetario contro l'imminente catastrofe climatica. Questo è lo scenario migliore, è questo il meglio che possiamo fare. Tuttavia, ciò non deve necessariamente andare di pari passo con la rinuncia generale, poiché i bisogni potrebbero essere soddisfatti in modo assai più efficiente superando la forma merceologica; la quale contamina anche il valore di utilità (trasporto pubblico anziché SUV, design modulare al posto dell'obsolescenza, ecc.) Non appena le merci non saranno più tali - dove il loro valore d'uso è rilevante solo in quanto esso è portatore di valore di scambio - anche la produzione tardo-capitalista finalizzata alla discarica - cosa che adesso ha un effetto devastante se visto nel contesto del sistema agricolo capitalistico - potrà avere fine.

Esiste un indicatore semplicissimo che distingue la critica radicale e trasformativa dall'opportunismo, o dalla cecità ideologica: lo sforzo di dire che cosa sta succedendo. La sensazione diffusa tra la popolazione che ci sia qualcosa di fondamentalmente sbagliato deve diventare oggetto di una chiara riflessione. Le persone devono essere consapevoli dell'agonia del tardo capitalismo e dell'inevitabilità di una lotta per il futuro. I conflitti e le lotte sempre più frequenti per la sicurezza sociale, per la distribuzione, contro il fascismo, contro l'imperialismo, contro l'erosione della democrazia, contro lo stato di polizia, contro la discriminazione, ecc. che sono provocati e/o aggravati dalla crisi, acquisteranno una nuova prospettiva strategica solo se verranno combattuti consapevolmente, in quanto momenti della lotta di trasformazione. È proprio per questo che la questione della consapevolezza della crisi è così importante, perché - in assenza di un soggetto rivoluzionario - può esserci speranza solo se una parte sostanziale della popolazione riflette consapevolmente sulla natura della crisi, e sulla conseguente necessaria trasformazione. Ma nemmeno questo garantisce tuttavia un processo di trasformazione emancipatorio.

- Tomasz Konicz - Pubblicato l'11 aprile 2024 su Jungle World -