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NUMERO  7 - 2020
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Enrique Dussel, Cinque tesi sul populismo

 

 

 

Enrique Dussel

Cinque tesi sul populismo

 

 

Castelvecchi 2021, 
EAN:9788832904086, p. 64, € 9

 

Enrique Dussel, introdotto e tradotto da Antonino Infranca, propone un saggio recente, breve, ma ricco di implicazioni destinate ad una discussione ponderata: Cinque tesi sul populismo1.

I lemmi che l’autore pone al centro dell’attenzione, a ben vedere, sono quelli che occupano le menti delle intellighenzie del mondo intero rispetto al fenomeno che appare nel titolo del libro: rappresentanza, partecipazione, ingovernabilità, democrazia, Costituzione, neoliberismo, globalizzazione, leadership, popolo, popolare; in ultimo, un termine, interpellazione, che può apparire un neologismo, in quanto ci è più familiare l’interpellanza, ma che, nella terminologia dusseliana riveste il significato del riconoscimento da parte del popolo, nel momento in cui rivendica i propri diritti, di possedere e mettere in pratica l’«autocoscienza della propria esistenza come attore collettivo»2, come chiarisce Infranca.

Le cinque tesi di Dussel possono essere sintetizzate nel modo seguente: 1) il populismo, in America latina, ha connotato positivamente i regimi che hanno avuto inizio dalla rivoluzione messicana del 1910 e si sono poi diffusi nel Continente; 2) il populismo, sempre in America latina, ha assunto un significato denigratorio nei confronti di quei governi che si sono opposti alle direttrici di controllo economico dettate dagli Usa a partire dal 1989; 3) populismo non significa né popolare né popolo; 4) con le parole dell’autore, «la democrazia reale si collega all’organizzazione effettiva della partecipazione politico-popolare»3; 5) in che modo vada esercitata la leadership onde evitare avanguardismo o dittature carismatiche.

Prendendo in considerazione il contesto mondiale del Novecento, il populismo si presenta in America Latina nel momento di crisi del liberalismo e di ascesa delle masse, diventa una forma di «grande politica», contribuisce a costruire una società industriale e moderna dando cittadinanza alle stesse masse attraverso il disciplinamento della questione sociale. Diventa, par di capire dalle tesi dusseliane, una teoria esplicativa dell’America Latina nel suo complesso attraverso un paradosso di fondo: se il populismo ha impedito l’integrazione delle classi popolari nelle strutture politiche della democrazia classica europea, ha, invece, grazie all’attribuzione di un ruolo centrale allo Stato, associato sviluppo economico e spazi istituzionalizzati di integrazione politico-sociale delle masse. Questo paradosso, a ben vedere, è diventato anche il limite dello sviluppo delle società latino-americane verso la modernità (da questo punto di vista va letta con attenzione la quarta tesi di Dussel).

Oggi, però, quando si parla di populismo, la mente non va di certo all’elaborazione dusseliana del termine, la quale ne richiama con forza le origini; oggi, parlare di populismo significa, il più delle volte, prendere in considerazione i comportamenti politici di leader definiti populisti (la quinta tesi è emblematica). La generalizzazione, e banalizzazione, del termine produce formule antisistema applicabili sia a destra (dove il populismo è declinato con xenofobia, razzismo, elogio del libero mercato e delle differenze di classe e di censo) sia a sinistra (dove il populismo dovrebbe sottrarre all’oblio, rimettendole in circolazione, eguaglianza, libertà e solidarietà), fino alla conclusione che il populismo possa costituire il superamento della democrazia rappresentativa verso la democrazia diretta. La maggior parte dei sostenitori di questi punti di vista è convinta, almeno all’apparenza, di muoversi nella contrapposizione all’attuale modello di sviluppo capitalista che favorisce il potere di una ristretta oligarchia globale.

Da ciò deriverebbe una fusione di popolo e politica destinata a porre un limite alla rappresentanza democratica per mezzo della nozione di «governo del popolo». A questo livello la dusseliana interpellazione avrebbe il ben servito e la prospettiva diverrebbe (se non è già) quella di una forte restrizione dell’espressione autonoma di quegli individui che costituiscono il popolo. Come a dire, una forma di autoritarismo basato sul consenso.

Allarghiamo il ragionamento investendo ulteriormente sia il livello politico stricto sensu sia quello della filosofia politica. Secondo Aristotele, tre sono le forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la politìa. Ognuna di queste forme di governo presenta una patologia degenerativa, ossia la tirannide, la oligarchia e la democrazia, così definita dal filosofo greco, ma che in realtà, oggi, chiamiamo demagogia. Prendendo in prestito dallo Stagirita questo modello, ne conseguirebbe che la patologia degenerativa della democrazia attuale sia il populismo il quale si proporrebbe come una forma di propaganda che, trascinando il popolo (come si evince dall’etimologia del termine greco demagogia che si pone come succedaneo di populismo) attraverso promesse e lusinghe, aspira alla conquista del potere e al suo mantenimento anche di fronte alle promesse non mantenute. Si tratta, fin qui, del populismo sub specie politica, o, se si vuole, del populismo come può essere spiegato nei termini dell’attualità politica nostrana e, forse, non solo nostrana, ossia distante rispetto a quanto descritto da Dussel.

A partire dagli scritti di Ernesto Laclau e di Chantal Mouffe (si vedano del primo, ora scomparso, La ragione populista, edito in Italia da Laterza nel 2008, della seconda Per un populismo di sinistra, edito in Italia ancora da Laterza nel 2018, anche se all’origine della querelle va posto il testo scritto in collaborazione fra i due ed intitolato Egemonia e strategia socialista, edito in Italia da il melangolo nel 2011), anche il nostro Gramsci è stato chiamato in causa dai detrattori o dai sostenitori del populismo.

Senza voler apparire apodittici, sembra sostenibile l’esclusione di qualsiasi possibilità di recupero del nazionale-popolare e dell’egemonia gramsciane all’interno di una cornice di pensiero ispirata al populismo; questo in linea di continuità con chi aveva definito il populismo «un’entità cangiante» e aveva avvertito circa la inammissibilità di «immissioni populiste … nella teoria di Gramsci sull’egemonia»4 e non solo sull’egemonia, ci sentiamo di aggiungere. Inoltre, lì dove si volesse tenere in considerazione l’analisi delle forme degenerate di democrazia proposta da Aristotele, ossia la succedaneità di populismo e demagogia, potremmo assumere come punto di riferimento una nota dei Quaderni del carcere5 in cui Gramsci, definendo demagoga (populista) la destra risorgimentale, spiega le caratteristiche di tale atteggiamento che consistono nel ridurre il popolo-nazione ad oggetto, a strumento, «degradandolo», proprio nell’ottica populista dei partiti di destra «in polemica» con quelli di sinistra, fermo restando, aggiunge Gramsci, che ad aver esercitato «la peggiore demagogia» (populismo) sono stati i partiti di destra che, per questo, come Napoleone III in Francia, non hanno esitato a fare ricorso alla «feccia popolare».

Un’ulteriore osservazione: se popolo è superamento della classe marxianamente intesa, è scioglimento delle classi in una forma indistinta a cui si vuole dare necessariamente un contenuto, si rischia di perdere di vista la realtà per quella che è, ossia il campo sul quale si scontrano gli interessi antagonisti di oppressori ed oppressi, di dominanti e subalterni. Sarebbe la fine della politica; ma forse questo è lo scopo ultimo dei populismi, ossia neutralizzare il potere delle masse (esattamente l’opposto di quanto accadeva in America Latina nella ricognizione storica di Dussel nel libro sul populismo6). Proprio per questo, sembra che con il populismo Gramsci abbia nulla a che vedere e le sue analisi si incrocino in modo significativo con quelle dusseliane sul tema specifico, in riferimento all’ambito europeo; in questo senso quella appena messa in evidenza, che potrebbe apparire una digressione sul tema, ne è, in realtà, parte costitutiva. Ci si tornerà nella conclusione.

Inoltre sembra che il testo di Dussel sul populismo vada ad integrare quanto lo stesso filosofo aveva già scritto7. La filosofia politica non è separabile dalla filosofia in quanto tale, eppure di questa costituisce un aspetto particolare in quanto affronta tematiche legate alla vita degli uomini in società. Diverse sono le definizioni della filosofia politica: può essere descrizione dell’ottimo Stato e del suo fondamento, oppure della struttura di potere di un governo e della sua cultura politica. Oppure la filosofia politica può porsi la questione se debba esistere uno Stato qualsiasi, oppure può adoperarsi nella comprensione e nella formulazione di un giudizio sulle teorie politiche opposte, oppure può esprimere un giudizio sui regimi politici avendo come obiettivo la valutazione dei meriti propri di ciascuno di essi. Poi, al tirar delle somme, il cuore della filosofia politica è la domanda sull’obbligo politico, ossia sul perché uomini facenti parte di una società debbano obbedire al potere politico, cosa lo giustifichi, in che modo lo Stato lo eserciti e attraverso quali leggi. E, in ultimo, come si può conciliare la libertà politica con l’obbligo politico? Dussel affronta le questioni teoriche e le questioni pratiche legate a questo grumo di problemi le quali, tutto sommato, potrebbero essere ricondotte all’universalità del problema della democrazia e della sua salvaguardia anche nelle zone più sviluppate del mondo capitalistico. Mi sembra che il punto di avvio della riflessione debba essere rinvenuto nella presa d’atto del doppio fallimento, da un lato, del capitalismo e, dall’altro, del socialismo reale. Dussel non si arrende di fronte alla possibilità che l’unica soluzione sia la forma selvaggia che il neocapitalismo ha assunto nel mondo globalizzato e suggerisce la ricerca di una terza via. Di questa terza via vengono indicate le basi concettuali nella prima parte del lavoro. Qui Dussel discute, nel senso che sottopone a critica, il concetto di delega che è tipico delle democrazie occidentali e che proviene dalla tradizione liberale. Il filosofo parla di delega come «potere obbedienziale» (Infranca spiega che l’aggettivo è un neologismo che unico può rendere nella nostra lingua ciò che Dussel intende, esattamente come avviene, e repetita iuvant, nel libro sul populismo, con il termine «interpellazione»). La comunità, il popolo (si badi, non la classe e anche questa distinzione è ben presente nel lavoro sul populismo) ha un potere definito «potentia»; l’esercizio di questo potere è delegato alla «potestas»8, ossia alle istituzioni le quali, il più delle volte, trasformano tale delega in un feticcio (il feticcio del potere che trasforma ciò che è vivo in ciò che è morto), in una sorta di idolo non più al servizio del popolo e della sua volontà, ma al servizio degli interessi personali del delegato.

Per evitare che questo accada, il filosofo introduce il concetto di «potere obbedienziale», ossia «coloro che comandano devono comandare obbedendo». L’obbedienza di chi esercita il potere sta nel fatto che il governante deve ascoltare colui che ha davanti. Questa suggestiva proposta, che costituiva una novità nell’ambito della filosofia politica tradizionale, anche perché frutto della riflessione di un intellettuale che vive la sua realtà, la realtà degli oppressi sudamericani e di un continente nuovamente sottoposto alle violenze del capitalismo selvaggio e liberista, si collega in maniera diretta con quanto sostenuto soprattutto nella quinta tesi sul populismo. Insomma, una nuova forma di democrazia diretta che si coniughi in qualche modo con la democrazia rappresentativa ma che sfugga alle trappole della cristallizzazione in forme del potere burocratizzate e, perciò, in odore di totalitarismo, seppure in senso lato. Lo stesso Dussel, però, fa sorgere un dubbio quando, soprattutto nella seconda parte del suo lavoro del 2009, la parte operativa, ossia quella nella quale la politica diventa prassi, usa la seguente espressione: «logicamente pensabile, empiricamente impossibile»9. Insomma, una prospettiva utopistica, o almeno una prospettiva nella quale l’utopia ha un ruolo di primaria importanza. Si può pensare una soluzione della questione dell’obbligo politico nei termini del «potere obbedienziale», ma lo stesso Dussel fa presente che l’applicabilità è difficile. Seppure il filosofo non faccia menzione del perché, sembra di poter rispondere dicendo che tutto va ricondotto alla natura umana; la risposta è quindi in quel libro che non dovrebbe mai essere trascurato (e Dussel, infatti, lo cita spesso10), ossia Il Principe di Machiavelli. Lì dove, come aveva acutamente notato il nostro Gramsci, citato da Dussel nelle Cinque tesi sul populismo11, in non casuale contemporaneità con la citazione dedicata al Segretario fiorentino, a proposito dei partiti politici che vogliono fondare uno Stato, non si indica soltanto il modo per conquistare il potere e mantenerlo, ma soprattutto si insegna a chi non sa12, ossia al popolo, attraverso il lavoro degli «intellettuali organici», come si conquista il potere, quale sia il prezzo di tale conquista in termini di sangue e di vite umane: per evitare che le strade siano continuamente lastricate di sangue e i leader si ergano a salvatori delle loro patrie, Dussel propone il «potere obbedienziale» e l’«interpellazione»: Hic Rhodus, hic salta!

 

Note al testo

1 E. Dussel, Cinque tesi sul populismo, Castelvecchi, Roma, 2021.

2 Ivi, p. 9.

3 Ivi, p. 56.

4 N. Merker, Filosofie del populismo, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 13.

5 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975; le citazioni sono tratte daQ 19, 28, 2054.

6 E. Dussel, Cinque tesi sul populismo, cit., pp. 18-20.

7 E. Dussel, 20 tesi di politica. Per comprendere e partecipare, Introduzione e traduzione di Antonino Infranca, Asterios, Trieste, 2009.

8 Opinabile, ma non del tutto fuori luogo, l’accostamento con quanto scrive la Arendt: “Il Moratorium è stato una cosa meravigliosa e sono immensamente felice. Si prova di nuovo il senso di speranza che si aveva durante la campagna McCarthy. Ma questa è una cosa migliore perché è riuscita ad aggirare tutto il sistema dei partiti e si è basata unicamente sul diritto costituzionale del a gente di riunirsi e fare petizione. Quindi viene la tentazione di pensare che la Costituzione sia ancora viva e vegeta e il sistema dei partiti, anche se non ancora morto certamente, sia diventato una seccatura. E poi: la totale libertà all’interno dell’organizzazione — potevi fare quello che volevi — manifestare nelle strade o nei campus, in chiesa oppure a Wall Street. Niente ideologie, niente Weltanschauungen. Ma in maniera chiara: potestas in populo” (Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy,1949–1975, Sellerio editore, Palermo, 1999, pp. 435–436) Al Moratorium di Washington si svolse il 15 ottobre del 1969 una delle più imponenti manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam.

 9 E. Dussel, 20 tesi di politica, cit., p. 163.

10 E. Dussel, Cinque tesi sul populismo, cit., p. 50.

11 Ivi, pp. 49-50.

12 “L’errore dell’intellettuale consiste nel credereche si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il «sapere»; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (così detto centralismo organico). Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si creail «blocco storico»”. (A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Q11, 67, 1505-1506).