Distruzione creatrice, sviluppo economico e decadenza: un invito a rileggere davvero Schumpeter

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Political and social notes

1. Dinanzi all’esigenza di uscire dalla crisi economica successiva alla Pandemia, da più parti si è fatto riferimento alla teoria economica di Schumpeter e in particolare alla “distruzione creatrice”. Nel farlo però, si lascia intendere che Schumpeter sia un antesignano della teoria della crescita economica dominante. In queste note sosterrò che siamo piuttosto di fronte ad uno stravolgimento della visione schumpeteriana, a una re-interpretazione infedele dei concetti introdotti da Schumpeter. Un po’ come quando si riduce Adam Smith alla mano invisibile, senza peraltro averne compreso il significato originario[1]. Lo stesso trattamento viene riservato al concetto schumpeteriano di distruzione creatrice, dinanzi dall’esigenza innegabile di fare i conti con un cambio epocale. Cercherò inoltre di mostrare che la teoria dello sviluppo economico schumpeteriana non è riducibile ad una teoria dell’azione imprenditoriale, poiché da un lato essa è una particolare teoria monetaria della produzione, e dall’altro conduce a fare i conti con la stessa evoluzione del capitalismo. Infine, concluderò il mio discorso con alcune note relative al ruolo che la politica assume in una prospettiva schumpeteriana, distinguendo fra ciò che Schumpeter scrive e ciò che invece sostengono gli studiosi che hanno aperto delle linee di ricerca innovative a partire dall’opera schumpeteriana.

2. Il concetto di distruzione creatrice di cui tanto si è parlato a seguito del rapporto sulle politiche post-Covid del Gruppo dei Trenta (il think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978)[2] è stato declinato in una prospettiva poveramente darwinista. Si è detto che i governi non dovrebbero sprecare soldi per sostenere le aziende che sono destinate al fallimento, le “aziende zombie”, ma dovrebbero assecondare la “distruzione creatrice” del libero mercato, lasciando queste aziende al loro destino e favorendo lo spostamento dei lavoratori verso le imprese virtuose che continueranno a essere redditizie e che si svilupperanno dopo la crisi.

Al di là della effettiva influenza che il rapporto del Gruppo dei Trenta sta avendo nella visione di politica economica del nostro governo, e nelle modalità attuative del PNRR, ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che la teoria dello sviluppo economico schumpeteriana non è appiattabile su una lettura così povera e deterministica delle dinamiche innovative.

Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza a riguardo e di far emergere al contempo le ragioni per cui il rapporto che c’è fra Schumpeter e la visione economica neoclassica è estremamente debole –nonostante l’ammirazione che Schumpeter mostra nei confronti della teoria dell’equilibrio economico generale di Walras (che egli definisce “massima espressione dei progressi analitici in economia”).

Di “distruzione creatrice” si parla esplicitamente solo nel libro del 1942, “Capitalismo, socialismo, democrazia”, dove Schumpeter sostiene che:

“il capitalismo è per natura una forma o un metodo di evoluzione economica; non solo non è mai, ma non può mai essere stazionario. Questo carattere evolutivo del processo capitalistico non è unicamente dovuto al fatto che la vita economica si svolge in un ambiente sociale e naturale che muta e, mutando altera i fatti dell’azione economica; quel fatto è importante, quei mutamenti (guerre, rivoluzioni e così via) condizionano spesso le grandi trasformazioni industriali, ma non ne sono i movimenti primi. Né il carattere evolutivo del capitalismo è dovuto a un semi-automatico aumento della popolazione o del capitale, o alle fluttuazioni dei sistemi monetari, tutti fattori per cui la stessa cosa è vera. L’impulso fondamentale che aziona e tiene in moto la macchina capitalistica viene dai nuovi beni di consumo, dai nuovi metodi di produzione o di trasporto, dai nuovi mercati, dalle nuove forme di organizzazione industriale, che l’intrapresa capitalistica crea.” (Schumpeter [1942], pp. 82-83)

Ciò conduce Schumpeter a considerare la concorrenza basata sul ribasso dei prezzi un caso irrilevante nell’analisi del capitalismo poiché ciò che caratterizza questo modo di produzione è la concorrenza basata sulle innovazioni che vengono introdotte (innovazioni di prodotto, di processo, di natura organizzativa o anche commerciale), una concorrenza dinamica che porta con sé sempre una distribuzione disomogenea di potere monopolistico. Sono le nuove combinazioni dei fattori produttivi (originate dall’azione umana – nella prospettiva della scuola austriaca, come ha messo in luce Carmelo Ferlito[3]) che sono alla base dello sviluppo ciclico.

3. Tanto nel ragionamento di Schumpeter presentato nel suo libro più noto, quello scritto nel 1911 nel vivo della cultura mittleuropea precedente la Prima guerra mondiale (“La teoria dello sviluppo capitalistico”), quanto nello Schumpeter che nel 1942 insegna ad Harvard dove scrive “Capitalismo, socialismo e democrazia”, le dinamiche innovative si basano solo in parte sulle idee degli imprenditori.

Da soli gli imprenditori non riuscirebbero mai ad industrializzare le proprie invenzioni. Nel libro del 1911 è infatti fondamentale il ruolo sociale di una istituzione che egli definisce “l’eforo dell’economia di scambio” – e cioè il sistema creditizio. Ricordo che nella Sparta del VI secolo a.C. 5 efori costituivano la magistratura regolare caratterizzata da attribuzioni censorio-poliziesche. Ogni eforo – in nome e per conto della polis – soprintendeva alla giurisdizione civile nella propria tribù. Per Schumpeter:

“anche il possessore di ricchezza, sia pure del più grande trust, deve ricorrere al credito se desidera introdurre una nuova combinazione che non può essere finanziata, come una già esistente, dal reddito della produzione precedente … La sua parte di gran lunga più grande non deriva da un’attività di risparmio in senso proprio, ma consiste di fondi, che sono il risultato dell’introduzione di nuove combinazioni e in cui, in seguito riconosceremo il profitto imprenditoriale …Si tratta non di una trasformazione di potere d’acquisto esistente, ma della creazione dal nulla di un potere d’acquisto nuovo (dal nulla anche se il contratto di credito con cui viene creato il nuovo potere d’acquisto si appoggia su certe garanzie reali che non sono di per sé stesse mezzi di circolazione), che si aggiunge alla circolazione che già esisteva … Il banchiere non è un intermediario della merce ‘potere d’acquisto’ ma un ‘produttore’ di questa merce. … Egli costituisce in sostanza un fenomeno dello sviluppo, ma solo laddove non esiste un’autorità centrale che dirige il processo economico nella società. Egli rende possibile l’introduzione di nuove combinazioni: in un certo qual modo emette a nome dell’economia il mandato necessario per introdurle. È l’eforo dell’economia di scambio”. (Schumpeter [1911], pp. 71-75)

D’altro canto, anche in “Capitalismo, socialismo e democrazia” emerge, quasi fosse una necessità dettata dalle dinamiche concorrenziali, la rilevanza di un ulteriore assetto istituzionale che scaturisce proprio dal modo in cui le stesse innovazioni, man mano che passa il tempo, pongono le basi per il cambiamento della logica innovativa:

“la stessa innovazione va riducendosi a una routine; il progresso tecnologico è sempre più opera di specialisti che producono quanto è richiesto e lo fanno funzionare in modi prevedibili e controllabili; il romanzo dell’antica avventura commerciale va rapidamente dileguando perché troppe cose, che un tempo erano il frutto di un lampo di genio, possono oggi essere rigorosamente calcolate. … Il progresso economico tende, dunque, a spersonalizzarsi e ad automatizzarsi”. (Schumpeter [1942] pp. 134-135)

Emergono pertanto le grandi corporation che diffondono comportamenti che minano alle basi la vivacità propria della cultura borghese diffondendo valori impersonali ricalibrati sugli interessi societari (una chiave di lettura che accomuna Schumpeter a Sombart[4]):

“La moderna società per azioni, pur essendo un prodotto del processo capitalistico, socializza la mentalità borghese; riduce continuamente il campo d’azione del movente borghese; non solo, ma tende a minarne le basi” (Schumpeter [1942] p. 162)

“Il processo capitalistico non soltanto distrugge la propria impalcatura istituzionale, ma crea le condizioni del sorgere di un’altra” (Schumpeter [1942] p. 167).

Qui si pone il problema del socialismo, non inteso marxianamente, ma come nuova struttura istituzionale che emerge dalle modalità di funzionamento della concorrenza dinamica basata sull’introduzione di innovazioni sempre più inclini a tecnicizzare la stessa funzione imprenditoriale.

“Per Marx e per la maggioranza dei suoi seguaci – ed è questa una delle deficienze più gravi della loro dottrina – socialismo voleva dire una cosa ben precisa. In realtà, la precisione non va oltre il limite al quale ci condurrebbe la nazionalizzazione dell’industria, e con questa risulta compatibile una varietà infinita di possibilità economiche e culturali” (Schumpeter [1942] p. 168). 

4. Schumpeter non è dunque riducibile a un geniale precursore della teoria neoclassica della crescita – come erroneamente si tende a fare[5] – poiché:

i. egli distingue chiaramente fra crescita e sviluppo economico (la crescita non presuppone di entrare nel vivo delle reali conseguenze del cambiamento tecnologico e trascura in particolare la dinamica economica strutturale);  

ii. in Schumpeter un imprenditore è tale se rompe una routine e ciò comporta un meccanismo decisionale profondamente diverso dalla ottimizzazione vincolata che regna tutt’oggi nella rappresentazione più diffusa dei processi produttivi;

iii. la dinamica innovativa schumpeteriana presuppone una teoria della moneta endogena in cui la funzione creditizia non è banalmente riconducibile ad un trasferimento di potere d’acquisto fra presente e futuro. C’è creazione ex nihilo di moneta che non agisce nel lungo periodo solo sul livello dei prezzi, anche laddove oggi fossimo in condizioni di pieno impiego, poiché essa attiva processi di trasformazione dell’economia, per l’appunto dinamica economica strutturale che ha delle conseguenze di estremo rilievo anche sul reddito futuro, sulla composizione della produzione futura e dunque sul nuovo concetto di piena occupazione;

iv. Schumpeter è attento anche alla trasformazione del regime di accumulazione, dei modi di regolazione (cioè delle istituzioni che fanno funzionare un regime di accumulazione) e persino del modo di produzione. A differenza della maggior parte degli economisti studia il capitalismo come qualcosa che può finire, trasformandosi endogenamente in qualcos’altro.

5. Schumpeter indica diverse vie di ricerca, che sono state battute a fondo, e che meriterebbero una maggiore attenzione. Fra gli economisti che per primi lo hanno seguito con più impegno e che sono stati in grado di far tesoro dai suoi insegnamenti ci sono tanti studiosi considerati eclettici, capaci di coltivare una interdisciplinarità preziosa. Andrebbero studiati proprio perché non riducono i loro contributi alle mode del momento e dai loro scritti trapela una visione ampia della scienza economica in cui l’analisi della società e del cambiamento anche sociale conta moltissimo: Paul Sweezy, uno dei più importanti economisti marxisti fondatore della Monthly Review, studioso estremamente attento alla formazione dei gruppi di interesse e dei gruppi di pressione; Robert Solow, insignito del premio Nobel dell’economia per aver costruito le basi della teoria neoclassica della crescita economica, ma capace anche di denunciare la miopia dell’analisi tradizionale del mercato del lavoro sottolineando che esso  è un’istituzione sociale dove il ruolo delle norme, persino della contrattazione collettiva, è fondamentale; Hyman P. Minsky, che ha cercato di portare alcune intuizioni schumpeteriane in tema di analisi creditizia e finanziaria dentro lo schema analitico keynesiano; Paolo Sylos Labini, uno degli economisti più attenti allo studio della dinamica economica ciclica e dei processi oligopolistici che la caratterizzano.

Basterebbe ripercorrere i contributi degli studiosi su citati per mostrare che la lezione schumpeteriana, se appresa davvero, contribuisce a sviluppare più di un’alternativa alla logica che domina la scienza economica contemporanea. Gli epigoni della scienza economica neoclassica tendono a descrivere il sistema economico in un modo irrealistico, come se fosse dominato da agenti economici caratterizzati da processi decisionali descrivibili ricorrendo a processi di ottimizzazione vincolata, in un mondo in cui l’incertezza, quando viene considerata, può essere trattata sempre in termini probabilistici. Da questo modo di fare teoria economica Schumpeter prende sin da subito le distanze. Come ha sottolineato Nicolò De Vecchi:

“L’imprenditore è fattore di movimento, perché è reso attivo dalla motivazione della creatività e dal perseguimento del successo sociale, simbolizzato dal profitto conseguito, e perché costringe ad una partecipazione attiva quanti, in sua assenza, si limiterebbero ad accettare passivamente una situazione consolidata. Certo è che il principio di razionalità massimizzante non è sufficiente per spiegare l’azione dell’imprenditore innovatore. Come lo stesso Schumpeter sottolinea, è difficile formulare per l’imprenditore una funzione obiettivo da massimizzare, a causa delle particolari motivazioni che lo guidano: non una soddisfazione dei bisogni e neppure un profitto in quanto tale, ma esigenze di creatività e di conquista del potere e del prestigio sociale. … Egli considera l’imprenditore unicamente per la funzione che gli affida nel processo di cambiamento produttivo. Non lo presenta come il fattore di cambiamento e neppure gli attribuisce doti di genialità superumana … Schumpeter dissuade … dall’avventurarsi in un’esaltazione dell’imprenditore, della classe borghese e della società capitalistica. Meno che mai offre un sostegno diretto all’ideologia industrialista, ossia alla concezione dell’imprenditorialità come misura di tutte le altre capacità umane e come mezzo per perseguire il vantaggio della società ponendo l’azione di tutti al servizio dell’industria”. (De Vecchi 1993, pp. 37-39)

6. Circa il rapporto fra consenso e attori politici c’è anzitutto da sgombrare il campo da un possibile equivoco: pur essendo un conservatore, Schumpeter si distingue nettamente dai teorici della “scelta pubblica”, cioè da quegli scienziati sociali – come ad esempio Buchanan – che descrivono il comportamento dei politici come dettato dal perseguimento di una rendita elettorale, figure tutte intente a distorcere i segnali che attraverso le loro politiche danno ai cittadini per essere rieletti e che per questo dovrebbero avere le mani legati da regole certe scritte in Costituzione[6]. Come ha sottolineato sempre De Vecchi: i teorici della scelta pubblica presuppongono un contesto sociale non sottoposto a quei processi di cambiamento che sono l’oggetto della teoria schumpeteriana.

Per Schumpeter invece proprio nella politica si manifestano le fragilità e le problematicità della persona umana. È quanto mi sembra emerga dall’ultima parte di “Capitalismo, socialismo e democrazia” dove Schumpeter nega che il popolo sia in possesso di un’opinione razionale e definita intorno ad ogni singolo problema e propone la seguente definizione:

“il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale i singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare” (Schumpeter [1942] p. 279).

Legislazione e norme amministrative sarebbero in questa prospettiva dei sottoprodotti della lotta per il potere politico. Ciò però significa che la concorrenza per la leadership – in cui per Schumpeter non emergono quasi mai nuovi tipi umani, portatori di una visione sociale innovativa – dà luogo a processi democratici regolati per mezzo di semplici procedure. Ecco riemergere il fantasma della omologazione e della spersonalizzazione. Come ha scritto Adelino Zanini – che parla a ragione di impoliticità a proposito di Schumpeter – in questa “teoria della democrazia senza ideali”, “non esistono un bene comune, né un insieme di volizioni degli individui cui sortirebbe una volontà generale. … . Il popolo non governa e non sceglie i propri governanti, ma li accetta al posto di altri.” (Zanini, 2005, p. 245)

Schumpeter lungo tutta la sua opera punta ad una disgiunzione fra sfera economica e ambito politico. E non lo fa per ragioni politiche, ma per cercare disperatamente di difendere la purezza analitica dello studioso, la sua razionalità.

Nel fare teoria economica Schumpeter pretende sempre di epurare i suoi ragionamenti da ogni influenza della dimensione politica, anche quando, come per esempio dinanzi all’analisi storica di specifiche dinamiche speculative, potrebbe sembrare opportuno trarre una conclusione che prevede l’inevitabilità dell’intervento di una Banca Centrale (come invece suggerirà il suo allievo Hyman Minsky):

“Abbiamo visto che un tipo di innovazioni che portarono la prosperità del Kondratieff …  – le fusioni di imprese – tendeva più delle altre a produrre perturbazioni di natura strettamente finanziaria. Abbiamo visto anche che il sistema bancario non era riuscito a funzionare secondo i piani. Il modo di operare dei trust infatti in uso, in una forma ammodernata, l’attività bancaria “a gatto selvaggio” degli anni trenta del diciottesimo secolo. … La spiegazione è d’obbligo, perché la nostra diagnosi spiega il verificarsi della crisi del 1907 mediante una perturbazione del normale funzionamento del processo ciclico di evoluzione, che non può essere attribuito a un fattore esterno ma all’abuso sistematico dell’apparato finanziario” (Schumpeter [1939], p. 341 e p. 345).

Pur riconoscendo il ruolo destabilizzante della finanza speculativa egli scrive che pensare ad un quadro normativo o all’intervento di un istituto centrale sarebbe stato come addossare al freno le conseguenze di una guida avventata.

Eppure la razionalità tanto ambita dallo Schumpeter studioso del capitalismo è molto distante dalle astrazioni irrilevanti di buona parte della teoria economica contemporanea ed è invece molto prossimo alla histoire raissonée che accomuna molti degli economisti che a Schumpeter si sono ispirati: gli studiosi dei cicli economici maggiori, con in testa Chris Freeman e Paolo Sylos Labini, ma anche alcuni esponenti della scuola francese della regolazione, gli economisti evolutivi che hanno introdotto gli history friendly models, come Richard Nelson, Sydney Winter, Giovanni Dosi, la scuola di economia dell’innovazione dello SPRU di Keith Pavitt[7].

7. La politica economica e la politica tout court nella visione schumpeteriana hanno una valenza eminentemente pratica, che non attiene alla teoria economica. Tuttavia, cimentandosi con la pratica della politica al termine della Prima guerra mondiale (da ministro delle finanze del governo a maggioranza socialista presieduto da Karl Renner) Schumpeter aveva sostenuto che lo Stato avrebbe potuto usare l’inflazione come strumento redistributivo perché l’aumento dei prezzi avrebbe ridotto il debito pubblico e – in un contesto di progressività delle imposte – avrebbe aumentato il gettito fiscale. Si espresse favorevolmente circa l’introduzione di un’imposta sul capitale per riequilibrare la finanza pubblica. L’imposta sarebbe stata mitigata se le imprese si fossero dimostrate capaci di attrarre capitali stranieri. Si mostrò al contempo molto avverso ai progetti di integrazione tra l’Austria e la Germania, che a suo avviso avrebbero annichilito del tutto le potenzialità del mondo finanziario austriaco, progetti che invece il ministro degli esteri Otto Bauer voleva favorire. Nelle vesti di ministro durò da marzo a ottobre 1919, quando venne destituito.

Il famoso satirico austriaco Karl Krauss disse di lui: “ha più opinioni di quante siano necessarie per la sua carriera” (Swelberg 1998, pp. 70-75).

Schumpeter probabilmente non aspirava davvero ad una carriera politica. Stando alla testimonianza di Richard Goodwin, ambiva invece ad altro: essere il più grande amatore, il più grande cavallerizzo e il più grande economista al mondo. Pare anche che avesse affermato di aver realizzato almeno due delle sue ambizioni (Goodwin 1983).

*Testo rivisto dell’intervento preparato in occasione della videolezione “Cicli e decadenza”, organizzata nell’ambito del ciclo di incontri “L’alternativa nella storia” dalle associazioni Sottosopra, La Fionda, ESC, Osservatorio Globalizzazione, Kritica Economica, Gazzetta Filosofica, Minerva, Manifesto per la Sovranità Costituzionale Modena, Network per il Socialismo, Come Don Chisciotte, 20 marzo 2021.

BIBLIOGRAFIA

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[1] Cfr. Roncaglia (2005) e Bee (2011).

[2] Cfr. G30 Working Group on Corporate Sector (2020).

[3] Cfr. Ferlito (2015).

[4] Cfr. Sombart ([1913] 2017).

[5] Cfr. Boldrin (2021).

[6] Cfr. Buchanan (2006).

[7] Sylos Labini (1992), Freeman (2015), Boyer (2007), Nelson and Winter (1982), Dosi, Fagiolo and Roventini (2010), Dosi, Pavitt and Soete (1991).  

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