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Auto e emissioni nocive: una storia estiva

Il ministro Cingolani, insieme al collega Giorgetti, si è opposto in tutti modi alla soglia del 2035 per la produzione e vendita di auto a energia fossile, una battaglia di retroguardia. Case d’auto e paesi lungimiranti stanno invece velocizzando al massimo la transizione all’elettrico.

La scadenza del 2035

Sono in molti ad essersi ormai accorti, anche per la ridondante evidenza accumulatasi nel tempo, di quanto poco sia amico dell’ecologia il ministro della cosiddetta “Transizione ecologica”, Roberto Cingolani. Dal momento del suo insediamento, molte sono state le sue dichiarazioni sostanzialmente ostili all’auto elettrica, mentre il ministro continua a chiamare gli ecologisti, con un certo disprezzo, “rinnovabilisti” e si è persino fatto scavalcare dalla Confindustria sulla dimensione dei piani di sviluppo delle fonti rinnovabili.  Si potrebbe continuare nell’elenco.

Di recente, in accordo con un altro pilastro dell’attuale governo – il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti – ed evidentemente con l’assenso dello stesso presidente del Consiglio, ponendosi come al solito alla retroguardia nella lotta a favore di un mondo più pulito, il ministro Cingolani ha cercato di opporsi al progetto di Bruxelles che voleva fissare al 2035 l’anno limite per la produzione e vendita di auto ad energie fossili, tentando di spostarlo al 2040. Per cercare di farlo ha trovato alleati in alcuni Stati minori; ma l’alleanza alla fine non è servita che a apportare qualche ritocco marginale ai piani dell’UE e il ministro si è trovato isolato. 

Tra le motivazioni ufficiali addette per i suoi tentativi di rinvio, c’erano la preoccupazione manifestata per il rischio della perdita di molti posti di lavoro nella produzioni di auto e di componentistica nel nostro paese e  il fatto poi che il progetto di Bruxelles non considerasse la possibilità di utilizzare carburanti alternativi come i biofuel. Infine l’accusa era quella di favorire la Cina, attualmente principale protagonista del settore dell’auto elettrica.

C’è chi sta davanti 

Ricordiamo che sul piano ambientale il settore del trasporto su strada detiene il primato a livello mondiale tra quelli che producono gas serra (nei paesi dell’Unione Europea siamo al 30% del totale), anche se non mancano certo dei co-protagonisti, quali l’industria, l’agricoltura, gli utilizzi domestici. Mentre vanno avanti i processi di sviluppo delle auto elettriche e a guida autonoma, anche se in quest’ultimo caso più lentamente del previsto per ragioni esclusivamente di complessità tecnologica, così come va avanti la digitalizzazione del prodotto (si parla a questo ultimo proposito di “telefonino a quattro ruote”). 

Le notizie sempre più drammatiche di questi mesi sul fronte del riscaldamento globale pongono con sempre maggiore urgenza la necessità di un intervento rapido per cercare di frenare l’ulteriore degrado della situazione. Da questo punto di vista la scadenza del 2035 per il settore dell’auto non è certo troppo affrettata, semmai è troppo in ritardo sulle necessità. 

In effetti è stato stimato che con l’attuale andazzo delle cose si conteranno nel 2030 ancora poche auto elettriche nel mondo: soltanto circa il 10% del totale del parco allora circolante, mentre saranno presenti ben 1,5 miliardi di veicoli a energia fossile, 150 milioni in più di oggi, con le relative conseguenze sul piano ecologico.

Per altro vers, ricordiamo che molte case automobilistiche (dalla Volvo alla Ford, dalla Mercedes alla Volkswagen; nel solo 2021 sono stati lanciati sul mercato circa 100 nuovi modelli di vetture a propulsione elettrica) e diversi paesi hanno già fissato dei limiti alla produzione e vendita di veicoli inquinanti anche molto prima del 2035 o al massimo coincidenti con la data fissata a Bruxelles. Nel 2021 in Norvegia sono già state vendute auto elettriche per una quota pari al 74% del totale del mercato locale, mentre la Germania sta avanzando velocemente. Inoltre si vanno affermando nel mondo delle nuove case interamente dedicate al settore, da Tesla a diversi produttori cinesi, mentre entrano nel mercato dell’automotive e in forze imprese provenienti dal mondo digitale. Le principali società del settore hanno investito circa 500 miliardi di dollari per i prossimi anni per affrontare adeguatamente il tema della transizione all’elettrico. 

Il traguardo appare comunque impegnativo: si richiedono, ai fini di una migliore diffusione delle auto a nuova energia, un abbattimento dei costi dei veicoli, oggi molto elevati, nonché un importante progresso nelle tecnologie delle batterie ed infine la costruzione di un numero adeguato di punti di ricarica, obiettivi in ogni caso raggiungibili e problemi ai quali almeno i cinesi sono molto prossimi alla soluzione.

La componentistica italiana

Molte delle preoccupazioni nel nostro paese si concentrano sul comparto della componentistica. 

Il settore conta in Italia circa 2.200 imprese con circa 165.000 occupati e 45-50 miliardi di euro di fatturato. Il comparto non manca certo di problemi: la dimensione media delle singole imprese appare molto contenuta e il loro livello di specializzazione è spesso troppo spinto; le stesse imprese avrebbero bisogno da una parte di un maggior livello di internazionalizzazione, dall’altra di una maggiore diversificazione, nonché di più adeguati stanziamenti in ricerca e innovazione. A tal fine, dovrebbero guardare con maggiore attenzione ai processi di accorpamento, per raggiungere una dimensione critica nelle operazioni di investimento, oggi spesso insufficienti.

Nel settore dell’auto si stanno intanto svolgendo rilevanti processi di ristrutturazione, con alcuni grandissimi gruppi internazionali – dalla Bosch alla Foxconn – che stanno cercando di occupare tutti gli spazi disponibili nelle nuove configurazioni produttive. 

Alcuni studi mostrano che solo con la trasformazione elettrica e osservando i tempi di Bruxelles si troverebbero a rischio circa 65.000 posti di lavoro ed in particolare si può pensare che un centinaio di aziende per un totale di 26.000 dipendenti sarebbero i soggetti che ne soffrirebbero di più.

Certo, con la scadenza del 2035 sono in ballo moltissime imprese e moltissimi posti di lavoro, ma c’è da chiedersi cosa succederebbe se i tempi venissero allungati secondo i desideri di Cingolani e Giorgetti. Presumibilmente le perdite di posti di lavoro sarebbero ancora più rilevanti, dal momento che il mondo non si fermerebbe ad aspettare gli italiani o i francesi; i produttori cinesi, tedeschi, statunitensi di auto e di componentistica stanno cercando di andare avanti a tutta velocità per non essere tagliati fuori dal gioco e alla fine a noi resterebbe molto poco. Una strategia evidentemente suicida.

A questo punto appare essenziale il ruolo del governo nel gestire le conseguenze della trasformazioni e in particolare nell’avviare azioni adeguate per aiutare le imprese a superare il momento difficile.

Su questo fronte Roma si è mossa in ritardo e con scarsa convinzione. Prima c’è stato uno stanziamento di 150 milioni di euro nel budget dello Stato per il 2022, poi cancellato; successivamente, a partire dal febbraio del 2022, su pressione della Confindustria e del sindacato, Palazzo Chigi ha varato un piano per il settore, con lo stanziamento di circa 1 miliardo all’anno in una prospettiva pluriennale. Tali somme serviranno al finanziamento di un eco-bonus per l’acquisto delle vetture nuove (650 milioni all’anno sino al 2024, risorse che dovrebbero servire anche a rianimare un mercato dell’auto nazionale in perdita di velocità, ma che non sembrano aiutare molto il comparto dell’auto elettrica) e inoltre i fondi stanziati ad hoc dovranno servire ad attivare azioni che favoriscano la riconversione della filiera (con circa 400 milioni all’anno, un provvedimento di cui finora non si vedono  chiaramente le possibili applicazioni).  

Quanto alla Cina, evidentemente il paese è molto più avanti di noi, dal momento che ha cominciato ad occuparsi della transizione all’elettrico molto tempo fa, mentre l’allora amministratore della Fca Sergio Marchionne, tra le lodi dei media e dei politici nostrani, affermava che l’auto elettrica non aveva futuro.

Oggi il paese asiatico controlla secondo alcune stime circa il 70-80% di tutta la filiera elettrica, dalle materie prime alla produzione di batterie alla vendita di vetture. Questi risultati, che nei prossimi anni potrebbero essere un poco ridimensionati, sono il frutto di un lavoro duro di lungo termine e di grandi investimenti. Visione di lungo termine contro vivere alla giornata.  

Quanto al biofuel, Bruxelles ha accettato di esaminare nel 2026 la possibilità di inserire le auto che utilizzano tale tecnologia tra quelle autorizzate a circolare anche dopo il 2035, ma solo se verrà dimostrata la sua neutralità in materia di emissioni inquinanti. Si sa che i costi di questo carburante sarebbero molto elevati, come si sa pure che per produrre le materie prime necessarie si dovrebbero utilizzare grandi estensioni di coltivazioni, magari sottraendo la terra alle produzioni alimentari per uso umano. Un’idea bislacca e perditempo.

L’emendamento “Ferrari”

Cingolani può fregiarsi di un risultato, può vantarsi cioè di aver ottenuto un successo a Bruxelles: il testo dell’accordo prevede un ritocco, su sua ispirazione, un paragrafo – battezzato subito come “emendamento Ferrari”, dal momento che l’attuale ministro è stato nel consiglio di amministrazione della società modenese – secondo il quale i costruttori di auto di lusso, il cui livello di produzione si collochi tra la 1.000 e la 10.000 unità, non sono obbligati a conformarsi all’obiettivo intermedio, il limite fissato per il 2030 per una riduzione del 55% delle emissioni di CO2 (rispetto al 1990). Queste auto di grossa cilindrata si dovranno conformare alla neutralità di emissioni nel 2036 invece che nel 2035, un anno più avanti. Ma, come ci informa un articolo apparso su Le Monde del 3-4 luglio, la gran parte dei costruttori operanti nel settore del gran lusso – dalla Porsche alla Bentley alla Jaguar alla Lotus – hanno in realtà già avviato per tempo la loro conversione totale all’elettrico, mentre la Ferrari punta nel prossimo futuro a livelli di produzione ben superiori ai limiti concessi dalla norma e quindi appare  fuori gioco. Così il regime di favore, che comunque appare ingiusto, dovrebbe  interessare al massimo la Lamborghini, la McLaren e poco altro. Solo un piccolo favore fatto ai ricchi.