Lettori fissi

lunedì 25 marzo 2024

SALARIO MINIMO?
TIMEO DANAOS ET DONA FERENTES






L’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro  sollecitato dall'Europa?  Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è  convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.


Giuseppe Di Vittorio, il leader sindacale di cui Balzano
rivendica orgogliosamente di essere concittadino



Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti. 


Una volta incisa nell’opinione pubblica l’idea che la crisi iniziata negli anni Settanta era attribuibile alle intemperanze del sindacalismo di base e dei consigli dei delegati di reparto, (e non alla fine della bonanza delle materie prime a buon mercato, ai conflitti interimperialistici, all'avvio di un nuovo ciclo di finanziarizzazione dell'economia, ecc.), e una volta imboccata la via della "compatibilità" fra livelli salariali e margini di profitto, si è scesi lungo un piano inclinato sempre più ripido. Incassata la sconfitta della Fiat nel 1980, celebrato (con la scarsa opposizione, se non con la benedizione, di una sinistra sempre più sensibile alle sirene neoliberali) il divorzio fra Banca Italia e Tesoro (1981), a partire dal quale è divenuto impossibile ricorrere al debito pubblico per finanziare politiche economiche anti regressive, si è benedetto il compromesso storico PCI-DC celebrato all'insegna dell'austerità come valore "di sinistra" (2). Finché nel 1985 i sindacati, sposando la tesi che attribuiva la causa dell'inflazione al meccanismo di indicizzazione dei salari, firmano il protocollo Scotti che taglia del 15% la scala mobile, che verrà finalmente soppressa nel 1992, lo stesso anno di quel Trattato di Maastricht che segna la definitiva abdicazione dello Stato italiano alla possibilità stessa di praticare politiche economiche anticicliche. 


Luciano Lama contestato alla Sapienza



La cronistoria che Balzano stende dei tradimenti perpetrati nei confronti degli interessi dei lavoratori si articola su due linee, parallele ma strettamente connesse. Da un lato, si impegna a smascherare il mito di un'Europa chiamata a legittimare le politiche di contenimento di retribuzione e spesa pubblica come via obbligata per evitare la catastrofe del fallimento. Un’Europa che letteralmente non esiste, scrive Balzano, ove si consideri che non condividiamo una lingua né un’identità comuni, né tanto meno, uno spirito solidaristico unitario; ma se non esistono una comunità o un popolo europei, esiste la UE in quanto sistema giuridico, ingegneria istituzionale, un organismo che, ancorché privo di legittimazione democratica, può dettare ai paesi membri le  politiche pubbliche. Esiste l'Europa come spazio che impone la concorrenza fra stati per attirare capitali garantendo bassa pressione fiscale, tagli allo stato sociale, basso costo del lavoro. L'Europa che nel 2012 ci ha imposto di integrare il Fiscal Compact nella Costituzione, cancellandone con un tratto di penna tutti gli articoli formulati a tutela della dignità del lavoratore e del cittadino.


Dall'altro lato l'autore elenca gli obiettivi che, sfruttando l’inquadramento del Paese nella gabbia europea e la trasmigrazione di vertici sindacali e partitici sotto i vessilli del liberismo, questa spietata guerra di classe dall'alto (3) è riuscita a realizzare sul fronte interno. Di anno in anno, accusa, la classe operaia è stata inondata di menzogne, un coro cui hanno partecipato non solo sindacalisti e politici ma anche intellettuali, studiosi, giornalisti unanimemente impegnati ad assicurare, in occasione di ogni taglio di salario diretto e indiretto (sanità, pensioni, welfare), e di ogni cambiamento peggiorativo delle regole sui contratti di lavoro, che questi “sacrifici” avrebbero garantito un aumento dell’occupazione. 


Ciò che in realtà si è ottenuto è stato l’aumento della precarietà. Così, in un crescendo culminato con il famigerato Jobs Act varato da Renzi, i lavoratori hanno “conquistato”: la liberalizzazione dei contratti a termine; i contratti di apprendistato che hanno istituzionalizzato lo sfruttamento semi gratuito di persone congelate a tempo indeterminato nello status di lavoratori “in formazione” e “in prova” (per tacere dell’alternanza scuola-lavoro, che ha consentito di imporre a migliaia di studenti di sgobbare gratuitamente, e di pagare un sanguinoso tributo alla strage dei caduti per incidenti sul lavoro); la creazione di un esercito di finte partite Iva, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei “privilegi” dei colleghi regolarmente assunti (operazione accompagnata da una tambureggiante retorica sulle magnifiche sorti e progressive di una nuova generazione di aspiranti “imprenditori di se stessi”); infine, a correzione dell’ “eccesso di tutela” garantito dallo Statuto dei lavoratori, i vincitori delle cause contro licenziamenti immotivati non hanno più potuto ottenere la reintegrazione del posto di lavoro ma solo modesti rimborsi.   





Per colmo di ironia, una volta creato questo variegato esercito di precari, lo si è aizzato contro gli ingiusti “privilegi” di lavoratori garantiti e pensionati, tentando di dirottare la rabbia delle nuove generazioni contro gli anziani, una delle tante guerre fra poveri al pari dei conflitti fra uomini e donne, immigrati ed autoctoni, ecc. Nel frattempo, le sinistre liberal progressiste sventolavano la bandiera arcobaleno (simbolo di quei diritti civili – riservati a individui e gruppi minoritari (4) - che Balzano definisce senza peli sulla lingua il nuovo oppio dei popoli) dimentiche di essere le prime responsabili della falcidia di salari, occupazione e stato sociale. Nel corso dei decenni in cui l’esercito del lavoro abbandonato dai propri generali passava di sconfitta in sconfitta, l’unico provvedimento in controtendenza è stato, pur con i suoi limiti, quel Decreto dignità varato nel 2018 dal governo M5S – Lega, provvedimento che, nella misura in cui poneva un minimo argine agli effetti dell’abolizione dell’Articolo 18, è stato criticato da PD e CGIL perché foriero di rischi di “irrigidimento” del mercato del lavoro. A rassicurare i padroni in merito ai rischi in questione hanno  del resto provveduto i successivi governi Draghi e Meloni.  


A questo punto perché non guardare con favore alla proposta di istituire un salario minimo fissato per legge? In primo luogo, risponde Balzano, perché a sostenerla sono gli stessi soggetti, come la UE, le sinistre liberal progressiste e persino la Confindustria (“non poniamo ostacoli, anche perché noi già paghiamo di più”) che hanno gestito lo scempio dei diritti delle classi lavoratrici appena descritto: timeo danaos et dona ferentes, per citare l’avvertimento di Laocoonte agli imprudenti troiani che si apprestavano a introdurre il cavallo nelle mura cittadine. Per corroborare  il proprio sospetto, Balzano cita fra gli altri il guru del neoliberismo von Hayek: l’uomo che aveva individuato nell’Europa il dispositivo ideale per abbattere il costo del lavoro si è infatti speso a favore di un reddito minimo “per impedire che i poveri possano rappresentare una minaccia”. 


Eppure, gli si potrebbe obiettare, è indubbio che i lavoratori non coperti da contratti collettivi potrebbero trarne giovamento. Vero, replica Balzano ma, a parte il fatto che lavoratori in nero e finti autonomi ne resterebbero fuori,  si tratterebbe comunque di una minoranza, visto che la maggioranza gode di retribuzioni superiori alle  soglie minime previste. Ma soprattutto, aggiunge, il rischio è che, in un contesto di debolezza contrattuale, il salario minimo legale potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni. Un simile provvedimento potrebbe funzionare solo in un contesto contrattuale favorevole alla forza lavoro, svolgendo il ruolo di base retributiva incomprimibile per gli strati più deboli e di primo gradino di una mobilità verso l’alto per quelli più forti, viceversa, in un contesto di debolezza generalizzata, qual è quello attuale, agirebbe da “tappo”, legittimando il rifiuto padronale nei confronti di ogni velleità di aumento (vi diamo già più del minimo) o addirittura le decurtazioni di salari “eccessivi” in situazioni di crisi aziendali e/o di crisi settoriali o generalizzate (non possiamo darvi più del minimo fissato per legge, ed è già fin troppo). Del resto, scrive Balzano, la stessa CGIL ha già siglato contratti che prevedono paghe sotto i 9 euro l’ora (cioè la base che si ipotizza per il salario minimo legale). 


Per capire il vero nodo sollevato da Balzano, occorre però andare al di là delle argomentazioni fin qui esposte. Il fatto è che la sua diffidenza è rivolta in generale contro la regolazione politica dei rapporti di forza fra classi sociali. Un esempio? I diritti acquisiti con lo Statuto dei lavoratori, argomenta, sono stati operativi solo finché gli operai hanno avuto la forza di imporne l’applicazione. Venuta meno tale condizione si è capito come quella “conquista” fosse servita a congelare, istituzionalizzandolo, il processo di democratizzazione delle imprese innescato dalla rivoluzione dei delegati di reparto, per poi decapitarlo in una fase successiva. Insomma: le vere conquiste non derivano dalla legge ma dagli equilibri di potere, solo i lavoratori possono salvare i lavoratori, mentre delegare alla legge (cioè alla politica) la gestione dei loro interessi “significa firmare una cambiale in bianco ai partiti”, gli stessi che li hanno massacrati. 


Eppure nemmeno Balzano può esimersi dall’evocare la legge nella sua forma più alta, vale a dire quegli articoli della nostra Costituzione che trattano del lavoro, per spiegare a quale modello dovrebbero a suo avviso ispirarsi i rapporti fra capitale e lavoro. Un modello al quale, sembra di capire da alcuni passaggi del libro, si sarebbe in qualche modo avvicinato, pur senza realizzarlo, il capitalismo del trentennio postbellico, (un modello capitalistico “che è stato svenduto” scrive). Dopodiché riconosce che quel modello costituzionale appare oggi insostenibile (5), per cui conclude  ammettendo francamente di non essere in grado di proporre  una pars construens, tanto è vero che l’unica affermazione “positiva” che ho trovato nel libro è che ci vorrebbe un sindacato “animato da una visione del lavoro e della società”. Perché piuttosto non un partito radicalmente altro da quelli che giustamente critica, un partito diverso sul piano di principi, valori e modalità di intervento politico e sociale? Evidentemente perché Balzano è a sua volta parte di quella cultura radicalmente antipolitica che caratterizza anche l’ala più onesta e incazzata (tanto da rivendicare il proprio diritto all’odio di classe) di una sinistra occidentale ormai arresasi alle ragioni del verbo liberale. Una cultura che, nel suo caso, assume toni che non esisterei a definire pansincalisti, visione di cui la sua generosa denuncia sconta inevitabilmente i limiti. Vedi laddove scrive che quello del lavoro è  un mercato, non un mercato qualunque ma pur sempre un mercato; ebbene: questo è esattamente il confine al di là del quale nessuna prassi sindacale, anche la più radicale, potrà mai spingersi. Oltre c’è solo il riconoscimento di Marx - ma anche di Polanyi (6) – che la forza lavoro (non il lavoro!) è, al pari della terra e del denaro, una finta merce, e che questa finzione, su cui si fonda l’oppressione e lo sfruttamento delle classi lavoratrici, può essere superata solo da una società socialista, magari “imperfetta”, come quelle di cui mi occupo nel mio ultimo libro (7), ma in cui è comunque la politica a governare sull’economia e non viceversa. 


NOTE 


(1) Savino Balzano ha pubblicato Contro lo smart working (Laterza 2021) e Pretendi il lavoro (GOG Edizioni 2019)


(2)  Parlando delle responsabilità di Berlinguer, Balzano usa il termine "ingenuità", parola decisamente blanda per un leader di sinistra che ha dichiarato di sentirsi protetto dall'ombrello della NATO


(3) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.


(4) Per dirla tutta la cultura dei diritti civili (con il suo corredo di linguaggi "politicamente corretti") inalberata dalle sinistre postmoderne è qualcosa di più e di peggio di un nuovo oppio dei popoli: è l'ideologia ufficiale della sinistra del capitale, come l'ho definita nel mio Guerra e rivoluzione (Meltemi 2023). E i popoli ne sono talmente consapevoli che, quando non si astengono, votano a destra in odio ai partiti che ne professano i valori. 


(5) Posto che il modello di capitalismo cui si riferisce Balzano è, se non sbaglio, quello dell'economia mista che ha caratterizzato il trentennio postbellico nel nostro come in altri Paesi occidentali, inspirato al compromesso keynesiano fra capitale e lavoro, è giusto dire che appare oggi insostenibile, anche se va precisato che è tale per ragioni politiche e non economiche, in quanto politiche che un tempo avremmo definite socialdemocratiche e riformiste oggi potrebbero essere imposte solo con metodi rivoluzionari (tanto è vero che le uniche economie miste nel mare del neoliberismo globale si trovano oggi nei Paesi socialisti di Asia, Africa e America Latina). 


(6) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.


(7) "Elogio dei socialismi imperfetti" è il titolo del secondo volume di Guerra e rivoluzione (Meltemi 2023) in cui analizzo l'esperienza cinese e quelle di alcuni Paesi latinoamericani. 








 

martedì 12 marzo 2024

LIBERE DI VENDERE IL PROPRIO CORPO A PEZZI







Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in  28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.  


A snocciolare questi dati è la svedese Kajsa Ekis Ekman  autrice di un libro (Essere ed essere comprate. Prostituzione, maternità surrogata e identità divisa) appena uscito per i tipi di Meltemi che, oltre a documentare la cruda realtà appena evidenziata, demolisce gli argomenti con i quali quella che potremmo definire la santa alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne (compresa parte del movimento femminista) si batte per legittimare la prostituzione e maternità surrogata nei Paesi dove già sono legalizzate e per promuoverne la legalizzazione dove sono proibite.



Prostitute? No, lavoratrici sessuali


La tesi di fondo di liberali di destra e sinistre postmoderne (socialisti, verdi e femministe) che si battono per la legalizzazione è che la prostituzione è un lavoro come tutti gli altri. La vendita di servizi sessuali (sic.) non viola alcun diritto; al contrario si tratta di un diritto in sé, cioè del “diritto” di vendere il proprio corpo. I veri problemi sono altri: lo status lavorativo, la sindacalizzazione, retribuzioni adeguate, autodeterminazione, sicurezza sanitaria, ecc. Secondo questa narrazione il mondo della prostituzione non mette di fronte donne e uomini bensì venditori e clienti, per cui i proprietari di bordelli (privati o pubblici laddove esiste regolazione statale) diventano imprenditori e fornitori di servizi.   


Le sinistre postmoderne contribuiscono alla narrazione costruendo l'immagine della lavoratrice sessuale come persona forte e indipendente, che sa quello che fa e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, mentre i teorici queer la esaltano in quanto soggetto che trasgredisce le norme, abbatte i confini e mette in discussione i ruoli di genere. Fra questi agit prop della “puttana eroica” Ekman cita, fra gli altri, gli attivisti del COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics) un gruppo americano fondato da una fazione liberale del movimento  hippie. Tutta questa gente svolge, consapevolmente o meno, il lavoro sporco per un ordine neoliberale ben felice di sgombrare il campo dall'idea della prostituta come vittima, perché ammettere l'esistenza di vittime implica riconoscere la necessità di una società giusta e di una rete di assistenza sociale, eliminare il concetto significa viceversa legittimare lo status quo, le divisioni di classe e la disuguaglianza di genere: se non ci sono  vittime non ci possono essere carnefici. 


Accademici, giornalisti e critici impegnati nel costruire questa immagine eufemistica e glorificata della lavoratrice sessuale, si danno da fare per "dare voce" alle interessate e si eleggono a rappresentanti dei loro interessi, bisogni e punti di vista, identificandosi con loro anche se, commenta sarcastica Ekman, nessuno di questi soggetti si è mai prostituito, così come certi eroi da salotto inneggiano alla guerra senza avere mai visto il fronte.  Che dire dei sindacati? Posto che in generale l'argomento della sindacalizzazione cattura il favore degli ambienti sindacali tradizionali e di certa sinistra, i cosiddetti sindacati delle lavoratrici del sesso, come l'autrice ha potuto constatare intervistandone vari esponenti, sono specchietti per le allodole creati per intercettare finanziamenti: gli iscritti, se e quando esistono, sono pochissimi, spesso di tratta di uomini e trans, a volte addirittura di papponi e maîtresse. 


In poche parole le narrazioni appena evocate svolgono il ruolo di infiocchettare il mondo della prostituzione con immagini mutuate dal mondo delle escort d’alto bordo dei Paesi occidentali, mentre calano un velo di ignoranza su una realtà fatta di violenza, sopraffazione, disperazione che coinvolge milioni di persone e attinge livelli inimmaginabili nel Terzo mondo e in alcuni Paesi ex socialisti. 



Tratta di bambini? No immacolata concezione 


La maternità surrogata è un'industria legale in crescita negli Usa, Ucraina, Inghilterra, India, Ungheria, Corea del Sud, Israele, Olanda, Sudafrica ma il primato spetta all'India. Sul mercato di  questo grande paese le cose funzionano così: gli ovuli di donne bianche vengono inseminati con lo sperma di uomini bianchi e l’ovulo viene impiantato nel ventre di donne indiane; i bambini non mostreranno traccia della donna che li ha partoriti, non porteranno il suo nome né la conosceranno; dopo il parto le donne firmano un contratto di rinuncia al bimbo e ricevono fra i 2500 e i 6500 dollari; i clienti sono tipicamente americani, europei, australiani, giapponesi o indiani benestanti, coppie etero, gay, lesbiche e uomini single. Cosa impedisce di considerare tutto ciò come una forma estesa di prostituzione, con l'unica differenza che viene venduto l’utero invece della vagina? Per eludere questa domanda, vengono mobilitate due narrazioni complementari: da destra si esalta il sacrificio della madre surrogata che si spende per fare la felicità di una unione sterile; da sinistra si celebra la pratica “trasgressiva” che rovescia lo stereotipo della famiglia tradizionale.   


Dopo avere premesso che la gravidanza in questione non è una "vera" maternità, bensì un servizio e  che, stipulando un contratto, la madre surrogata conferma il proprio status di persona dotata di libero arbitrio individuale (persona è chi possiede il proprio corpo!), gli apologeti liberali indorano la pillola presentando la madre surrogata come un’anima gentile, una fata madrina che aiuta i clienti a ottenere ciò che vogliono. I più arditi si spingono a scomodare la tradizione ebraico cristiana per "angelicare" il mercimonio citando la serva Agar che portò in grembo il figlio di Sara e Abramo o il sacrificio della vergine Maria che portò in grembo il figlio del Signore. Ma appena le argomentazioni si fanno più prosaiche vengono alla luce le contraddizioni. La maternità surrogata è un servizio come un altro? Ma qual è il prodotto? Un bambino, che diviene così paragonabile a un’auto o a un cellulare. Una copia stabile alto borghese, si dice, non darà forse al bambino la migliore educazione possibile e una vita migliore di quella che potrebbe offrirgli una miserabile madre biologica? Con il calcolo economico si riaffaccia insomma lo spettro della tratta di minori.


Ma c'è sempre la possibilità di mobilitare gli argomenti di sinistra. Per i teorici queer e gli attivisti RGBTQ la maternità surrogata, come la prostituzione, è una pratica trasgressiva che sfida modelli conservatori e obsoleti; è la storia femminista di donne che si ribellano alla maternità tradizionale  riscattando altre donne dall’inferno associato dall'impossibilità di avere figli. C'è persino chi (tale Kutte Jonsson citata dalla Ekman) paragona la lotta per la legalizzazione della maternità surrogata a quelle degli anni 70 per il salario al lavoro domestico,  sostenendo che le donne non devono essere private dell’opportunità di usare il proprio corpo in cambio di un pagamento, per cui la maternità surrogata sarebbe, al tempo stesso, un diritto e una richiesta di emancipazione. 


In poche parole: l'alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne funziona benissimo anche in questo caso ma, prima di entrare nel merito delle riflessioni teoriche con cui Ekman sostanzia il suo atto d’accusa, vale la pena di dimostrare quali mostri riesca a partorire questa unità di amorosi intenti fra destre e sinistre.  Ecco perché, nel prossimo paragrafo, ho raccolto un elenco delle citazioni dalle argomentazioni degli apologeti di prostituzione e maternità surrogata che più mi hanno colpito leggendo il libro della Ekman.



Kajsa Ekis Ekman



Fior da fiore liberal femminista


"Queste donne (le prostitute) prendono il comando sugli uomini e agiscono secondo strategie di potere" (Petra Ostergren).  


"Ogni tipologia non convenzionale di sesso è rivoluzionaria" (Gayle Rubin, antropologa americana).


La sociologa Lara Augustin definisce le vittime della tratta di esseri umani "Lavoratrici sessuali migranti".


A proposito della prostituzione minorile in Tailandia l'antropologa sociale Heather Montgomery scrive: "non credo che i modelli psicologici occidentali possano essere applicati ai bambini di altri paesi e risultare ancora utili" (cioè i bambini thailandesi si divertono un mondo nei bordelli per pedofili?).


"Vendere il proprio corpo è un diritto umano" (Jenness). 


"I papponi non sono necessariamente il nemico, possono essere necessari alla protezione delle lavoratrici sessuali visto che la polizia non riesce a farlo" (Ana Lopes, sindacalista).


"La maternità surrogata dissolve l’idea “naturale” di maternità, di paternità e di cosa sia una famiglia" (Torbjorn Tannsjo, filosofo)


"Il divieto (della maternità surrogata) è la prova che abbiamo una visione biologica eteronormativa e orientata alla coppia della genitorialità" (Soren Juvas, attivista per la legalizzazione). 


"Anche le differenze di classe  e di razza sono messe da parte quando si tratta di infertilità" (Hélena Ragoné, ricercatrice; cioè: al committente bianco non fa schifo far crescere il proprio figlio nel grembo di una donna di colore povera).


"Ci sono dei vantaggi nell’essere sfruttati soprattutto quando si vive in totale miseria" (Wilkinson, filosofo inglese).


"Ciò che viene venduto è un pacchetto di diritti genitoriali non il bambino" (Wilkinson, filosofo inglese).


"La maternità surrogata non è vendita di bambini ma piuttosto costruisce famiglie attraverso il mercato" (Elly Teman, antropologa).



Reificazione


Le narrazioni che perorano la causa della legalizzazione, scrive Ekman, tracciano un confine netto fra bene e male. Dalla parte del bene mettono: la prostituta ribattezzata lavoratrice sessuale, il sesso libertario, il libero arbitrio, il diritto a disporre del proprio corpo, i diritti dei gruppi oppressi, i gay, l’economia di mercato, il progresso,  la trasgressione, ecc. Dalla parte del male: le femministe e gli attivisti politici paleo marxisti, la moralità, l’ipocrisia, la stigmatizzazione del diverso, l’essenzialismo, il controllo statale, ecc.  L’autrice è tuttavia costretta ad ammettere che anche le femministe che non appartengono all’ala liberal-progressista del movimento si lasciano ricattare da questa polarizzazione infatti, per non essere dipinte come megere moraliste e bacucche patriarcali, preferiscono tacere o allinearsi alla narrazione mainstream. 


La trappola concettuale che impedisce alle femministe di prendere le distanze dalle narrazioni dell’ala liberal progressista del movimento è l'ingombrante eredità ideologica che si portano dietro dal 68, sintetizzata dallo slogan il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio. Slogan che, tanto nel caso della prostituzione quanto in quello della maternità surrogata, si ritorce contro le intenzioni di coloro che lo hanno coniato. Esso viene infatti utilizzato per legittimare un’altra asserzione: vendo una parte del mio corpo non il mio io. Il guaio è, commenta Ekman, che la vagina e l’utero sono legati a una persona per cui, nel momento in cui dico che vendo certe parti del mio corpo, rimuovo il fatto che nessuno possiede il proprio corpo perché tutti noi siamo i nostri corpi. Se la vagina e l’utero sono cose, la prostituta e la madre surrogata sono fatte di due parti: il soggetto che vende e l’oggetto venduto e la libertà del primo implica la schiavitù del secondo.  


Per descrivere gli effetti psicologici di questo sdoppiamento, Ekman analizza le modalità di distanziamento che la prostituta, a partire dal momento in cui stipula un accordo con il cliente, è indotta a mettere in atto nei confronti del proprio corpo, nonché delle proprie sensazioni ed emozioni. Si tratta di una serie di pratiche di autodifesa che generano disagi e turbe psichiche e, alla lunga, possono causare veri e propri sdoppiamenti di personalità. 


Il quartiere delle luci rosse ad Amsterdam



Per approfondire il tema l’autrice chiama in causa il concetto di estraniazione in Lukács (1) e quello di mercificazione in Marx. Per Lukács il concetto di reificazione descrive quell’aspetto della società capitalistica in ragione del quale gli oggetti appaiono dotati di vita propria a fronte di soggetti ridotti all’impotenza. Da un lato abbiamo l’individuo “liberato” dalla relazione immediata e diretta con la terra, i mezzi di produzione e i mezzi di sostentamento; dall’altro la sua forza lavoro, che assume la forma di merce, cioè di una cosa che egli possiede ed è indotto a vendere per potersi riprodurre. Questa relazione imprime la sua struttura all’intera coscienza umana: qualità e capacità non si connettono più all’unità organica della persona ma appaiono come cose che uno possiede ed esteriorizza al pari degli oggetti del mondo esterno.  


Dal canto suo Marx, premesso che il capitalismo per durare deve costantemente cercare nuove aree di  mercificazione, scrive che la mercificazione nasconde sempre la relazione sociale fra due parti. Nel caso della prostituzione, ma anche in quello della maternità surrogata commenta Ekman, ciò va inteso in senso letterale: la relazione è cancellata mentre resta solo la merce. Infine, per dimostrare ulteriormente la congruità delle categorie marxiane rispetto ai fenomeni sociali che analizza, scrive che la maternità surrogata potrebbe essere considerata come un caso particolare del tentativo di regolare il rapporto tra proletariato e classi superiori attraverso un contratto che consenta di mistificarlo come un rapporto fra “pari”. 



L’eredità (sviata?) del 68. Considerazioni conclusive


Fin qui, fin quando cioè il discorso si mantiene sul terreno della denuncia e della critica filosofico culturale delle tesi di liberali e sinistre postmoderne, le argomentazioni della Ekman mi paiono impeccabili. Viceversa, quando la polemica si sposta sul terreno ideologico-politico, compaiono alcune aporie. La prima si manifesta allorché l’autrice cerca di dare una motivazione psicologica alla conversione delle sinistre all’ideologia liberale. Nel momento in cui il capitalismo conquista una incontrastata egemonia globale, scrive, parti della sinistra “reagirono mascherando come un trionfo la sconfitta”. Così la ricerca di ciò che è provocatorio, ribelle e sovversivo si sposta dall’esterno all’interno del sistema, fino a teorizzare (Ekman non li cita, ma qui le teorie di Negri e altri autori postoperaisti che blaterano di “comunismo del capitale” ci stanno a pennello) che l’ordine esistente è già di per sé sovversivo e/o a riconoscere in ogni manifestazione di insofferenza sociale, anche nelle più conservatrici e reazionarie, nuclei di resistenza e contropotere. La descrizione fenomenica è perfetta ma siamo sicuri che i motivi della svolta siano di ordine psicologico, una sorta di reazione autoconsolatoria per non sprofondare nella depressione?


La tesi mi pare debole, e ancora più debole mi pare il modo in cui Ekman descrive l’ impatto dei movimenti libertari e anti autoritari del 68 sui sistemi di potere politici, economici, accademici e mediatici, i quali, scrive, “hanno dovuto ridefinirsi per giustificare la loro esistenza”. Così, dal momento che l’autorità non poteva più essere considerata come una cosa buona in sé e per sé né potendola più presentare come un dato “di natura”, l’unico modo per legittimare il potere sarebbe diventato quello di negarlo, o almeno eufemizzarlo. Da qui nasce la simbiosi fra destra neoliberale e sinistra postmoderna in ragione della quale capitalisti woke (2), media, intellettuali e politici fanno a gara per costruirsi un’immagine di diverso, dissidente o emarginato. 


A una lettura superficiale potrebbe sembrare che la tesi di Ekman converga con quelle di Boltanski e Chiapello (3) e/o con quelle della filosofa femminista Nancy Fraser (4). Ciò è parzialmente vero nel caso della seconda, ma non lo è nel caso dei primi. Infatti costoro non sostengono che il neo capitalismo si sarebbe adeguato all’ideologia, ai principi e ai valori dei movimenti anti autoritari, sostengono assai più correttamente che l’ideologia, i principi e i valori di quei movimenti erano di per sé funzionali alle esigenze di autoriforma di un capitalismo in rapida trasformazione sul piano economico (finanziarizzazione) tecnologico (informatizzazione) e socioculturale (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali). 


Una trasformazione che esigeva metodi e modelli organizzativi del tutto nuovi di gestione della forza lavoro qualificata, compatibili con le aspirazioni di quella classe media in formazione che nel 68 si era ribellata contro i vecchi dispositivi di potere politico, accademico e familiare. Esauritosi il ciclo di lotte operaie con le quali questi strati avevano brevemente condiviso obiettivi e parole d’ordine, costoro sono transitati dalla “critica sociale” alla “critica artistica” (5) rompendo il blocco sociale con i lavoratori manuali e arruolandosi nell’esercito neocapitalista che, per estendere il processo di mercificazione alla totalità delle relazioni sociali, esigeva che si facesse piazza pulita di tutto il vecchiume borghese (famiglia e costumi sessuali tradizionali compresi). Milioni di appartenenti alle classi medie “riflessive” erano pronti a marciare sotto le bandiere della libertà e dell'emancipazione individuali e ad aiutare il capitale a realizzare l’obiettivo descritto da Marx nel Manifesto: abbattere ogni barriera fisica, morale, ideologica, culturale che limita le opportunità di profitto. 


Nancy Fraser



Lo scoglio che impedisce anche alle femministe anticapitaliste come Ekman e Fraser di cogliere a fondo le radici di questa transizione storica, consiste nel fatto che non riescono a prendere atto che nel vecchiume borghese di cui il neocapitalismo ha bisogno di sbarazzarsi c’è anche quel paternalismo che continuano invece a  rappresentare come il bersaglio principale. Queste autrici sono così costrette a fare salti mortali per dimostrare l’esistenza di un rapporto organico, strutturale, fra capitalismo e patriarcato (6). Ciò è del tutto evidente nel caso della maternità surrogata. Ekman parla di un nuovo tipo di mito patriarcale della creazione, nel senso che il padre non è l’uomo che genera un figlio ma colui che lo compra, e aggiunge che la maternità surrogata può essere vista come una forma estesa di prostituzione dal momento che qualcuno (spesso un uomo aggiunge) paga per usufruire del corpo della donna. Infine scrive che, da parte dei sostenitori della legalizzazione, il legane biologico del padre non viene messo in discussione: lui non viene accusato di difendere la biologia o la famiglia nucleare, la critica è rivolta solo a lei. Sono argomentazioni forzate, per non dire speciose. Qui è infatti evidente che è piuttosto la Ekman che cerca di attirare l’attenzione sul padre, rimuovendo il fatto che il desiderio di avere figli, nella stragrande maggioranza dei casi (fatta eccezione per le coppie omosex), vede come protagonista principale la metà femminile della coppia. Non è certo un caso se (vedi sopra) gli argomenti dei fan maschili della legalizzazione sono perlopiù economici, mentre quelli delle fan femminili (che sono larga maggioranza, a giudicare dalle citazioni scelte della stessa Ekman) esaltano il desiderio femminile di maternità che “sovverte” le regole della famiglia tradizionale. E’ la narrazione femminista che associa le donne che si ribellano alla maternità tradizionale alla sofferenza di non avere figli cui la maternità surrogata pone rimedio. E’ la storia di un desiderio che viene trasfigurato in bisogno perché lo si possa infine spacciare per un “diritto umano” che solo il mercato riesce a soddisfare (7). Mi pare ovvio che qui non è questione di dominio patriarcale bensì di dominio di classe e razziale, un dominio che le “leggi” del mercato capitalistico consentono a coppie benestanti bianche (donne e uomini) di esercitare a spese di donne povere e di colore.


Ovviamente mi si potrebbe obiettare che, nel caso della prostituzione, è difficile negare che si tratta di un fenomeno patriarcale più che (o almeno altrettanto che) capitalistico. Anche perché fenomeni come il turismo sessuale e altre forme di violenza e la sopraffazione che i maschi esercitano sui corpi di donne e minori caricano il tema di forti valenze emotive. Ciò detto, muovendo da questo punto di vita unilaterale si finisce per distogliere l’attenzione dalla forma specifica che il fenomeno della prostituzione assume nella società capitalistica. Una società che disintegra i legami comunitari e familiari, trasformando uomini e donne delle classi inferiori in atomi condannati alla povertà e alla solitudine, e generando quella miseria sessuale generalizzata di cui la prostituzione, con il suo corredo di violenza di genere, è uno dei corollari. 


Ma la questione è più generale. Il rapporto fra il modo di produzione capitalistico e i residui antropologici, sociali e culturali delle società precapitalistiche è complesso, nel senso che il capitalismo sfrutta i residui in questione finché può metterli al servizio dell’accumulazione (vedi l’uso della schiavitù nell’America ottocentesca) mentre se ne sbarazza non appena entrano in conflitto con la sua vocazione di dispositivo di sovversione permanente di tutte le forme e relazioni sociali. Il salto di qualità associato ai fenomeni sopra elencati (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali, ecc.) è incompatibile con il permanere di strutture familiari di tipo patriarcale. Il capitale ha bisogno di spezzare queste strutture individualizzando e atomizzando la forza lavoro, uomini e donne, per renderla più ricattabile; ha bisogno di fare piazza pulita dei valori “machisti” dell’operaio tradizionale femminilizzandolo, spezzandone la combattività, l’orgoglio professionale (le donne della classe media hanno competenze che le rendono molto più adatte alla produzione terziarizzata). 


La propaganda politicamente corretta (8) che media, intellettuali e politici spandono a piene mani è l’arma letale destinata triturare ogni residuo di ideologia patriarcale. Il fatto che le donne continuino a percepire stipendi in media più bassi, a occupare meno posti di responsabilità, ecc. non ha niente a che fare con il patriarcato: è il sistema usato dal capitale per dividere e mettere in concorrenza i lavoratori dei due sessi (la femminilizzazione del lavoro non è un fattore di equiparazione delle donne ai maschi, bensì di equiparazione dei maschi alle donne, è un gioco al ribasso). Ovviamente questo non toglie nulla allo straordinario contributo che il libro di Kajsa Ekis Ekman offre alla lotta contro due fenomeni disgustosi come la riduzione del corpo femminile a oggetto di piacere e a macchina riproduttiva. Nè toglie nulla alla sua denuncia della complicità delle sinistre postmoderne nei confronti del progetto neoliberale di mercificazione totale di ogni tipo di relazione umana. Queste mie glosse finali vogliono solo essere uno stimolo critico alla comprensione della sovradeterminazione di tutte forme di vita precapitaliste da parte del mercato.


NOTE


(1) Ekman si riferisce in particolare al Lukács di Storia e coscienza di classe (Tasco, Milano 1997) mentre non sembra conoscere l’opera “definitiva” del filosofo ungherese, quella Ontologia dell’essere sociale (4 voll. Meltemi, Milano 2023) che le sarebbe forse servita a superare alcune limitazioni presenti nella sua analisi filosofico politica (vedi l'ultima parte di questo articolo).


(2) Del fenomeno del cosiddetto capitalismo woke (vedi C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi, Milano 2023), vale a dire dei capitalisti “progressisti” che applicano i principi del politically correct alla gestione delle proprie imprese, mi sono occupato qualche mese fa su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html.


(3) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello,  Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.


(4) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, New York 2013; vedi anche (con R. Jaeggi), Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.


(5)  Boltanski, Chiapello definiscono critica artistica la cultura anti autoritaria, libertaria, anti sessista dell’ala intellettuale e studentesca dei movimenti del 68, distinguendola dalla critica sociale del movimento operaio.


(6) Tipica in questo senso l’analisi teorica di Nancy Fraser. La sua riflessione integra nel concetto di crisi capitalistica quello di “crisi della cura”. Sposta cioè le contraddizioni principali del sistema all’esterno del modo di produzione e delle relazioni di mercato, o meglio le disloca al confine fra produzione e riproduzione.  Questo approccio, pur presentando certe analogie con le tesi di autori come Polanyi, Luxemburg, Laclau e altri, se ne distingue in quanto, da un lato sostiene che fin dall’inizio la società capitalistica ha separato il lavoro di riproduzione sociale, esterno all’economia, dal lavoro di produzione economica, dall’altro lato afferma che le attività non economiche rappresentano una precondizione dell’esistenza stessa del sistema economico. Perciò, dal momento che la tendenza capitalistica all’accumulazione illimitata destabilizza i processi di riproduzione sociale, è sul confine che separa produzione e riproduzione che nasce una crisi della cura di intensità inedita. Questa crisi è lo scenario che genera le condizioni della convergenza fra emancipazione femminile e mercificazione del lavoro riproduttivo, convergenza che è il terreno di coltura di quel “neoliberismo progressista” al quale il femminismo mainstream fornisce giustificazione ideologica. Fraser, pur duramente critica nei confronti di questo femminismo neoliberale, si incarta tuttavia nel tentativo di mettere sullo stesso piano giustizia distributiva e giustizia del riconoscimento ma, poiché si tratta di due discorsi che incarnano paradigmi teorici diversi, l’aspirazione a “riequilibrarli” si risolve inevitabilmente nell’egemonia dell’uno sull’altro. Ergo: anche la Fraser finisce per cadere a sua volta preda dell’approccio postmodernista, il che è inevitabile non appena si parte dal presupposto secondo cui le rivendicazioni di riconoscimento avrebbero, non meno delle rivendicazioni di giustizia distributiva, ragioni strutturali, in quanto le stratificazioni interne alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza risponderebbero a una precisa necessità del modo di produzione capitalistico. Contestando questa visione in un dialogo con la Fraser, Rahel Jaeggi (vedi nota 4) afferma che, da una analisi teorica di ispirazione marxista, non si evince alcun motivo strutturale per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza: “E se il capitalismo, si chiede, mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dell’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?”. Di fronte a questa obiezione Fraser è indotta ad ammettere che l’ipotesi è “logicamente possibile”, dopodiché cerca di cavarsela dicendo che la si può tuttavia escludere “per tutti gli scopi pratici”. Il punto è che il femminismo non può ammettere che sessismo e razzismo non sono di per sé strutturalmente necessari per il modo di produzione capitalistico, in quanto rischierebbe di apparire una lotta di retroguardia contro certi arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano. In poche parole: il grumo concettuale che penalizza le analisi di tutte le intellettuali femministe è quello della presunta necessità strutturale della discriminazione di genere ai fini della sopravvivenza del modo di produzione capitalistico; un inciampo che rende loro impossibile emanciparsi del tutto dall’egemonia liberale.


7) Questo slittamento lungo l’asse desiderio-bisogno- diritto è stato il nodo che ha alimentato le critiche che il sottoscritto, assieme a Onofrio Romano e altri amici, ha sollevato nei confronti delle tesi sostenute da Stefano Rodotà nel suo Il diritto di avere diritti (Laterza, Roma-Bari 2012).


8) Sul carattere violento, autoritario e antidemocratico della cultura politicamente corretta cfr. J. Friedman,  Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018. 


 






 

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