giovedì 25 aprile 2024

Quale 25 Aprile ? Il Governo censura il 25 Aprile, come fosse una fiction

In Italia, gli scioperi del marzo 1943, il bombardamento di Roma del luglio e la caduta, nello stesso mese (25.7.1943), del fascismo promuovono il cambiamento.

Crollato il regime, Mussolini fu trasferito in stato di fermo prima a Ponza, poi alla Maddalena, quindi al Gran Sasso; di qui venne liberato dai tedeschi con un colpo di mano e portato in volo in Germania all'indomani dell'8 settembre. Tornò in Italia per raccogliere quel che restava dello sfacelo fascista nella Repubblica sociale italiana, nella quale esercitò le funzioni di capo dello Stato e capo del governo. Installato a Gargnano (sul Lago di Garda), seguì le vicende belliche apparendo raramente in pubblico. Dichiarò come obiettivo la riconciliazione degli italiani e la socializzazione, ma la crisi militare dell'Asse, gli scioperi operai del 1943-44 e il movimento di Resistenza ne evidenziarono la funzione di puntello dell'occupazione tedesca. Al crollo della "linea gotica" si trasferì a Milano (17 aprile 1945) e tentò di contrattare la propria incolumità con il Comitato di liberazione nazionale. In fuga verso Como, in divisa da soldato tedesco, fu arrestato dai partigiani e passato per le armi per ordine del CLN il 28 aprile 1945. Il suo cadavere (insieme a quelli di Claretta Petacci, la donna cui era legato dal 1936, e di altri gerarchi fucilati) fu esposto dai partigiani a Milano in piazzale Loreto, a simbolo della fine del Fascismo.

In effetti, la fine delle ostilità in Italia e quindi la totale liberazione del territorio nazionale sono arrivate il 3 maggio 1945. Si preferì invece orientarsi verso il giorno in cui il (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) chiamò il popolo italiano all’insurrezione nei territori ancora occupati dai tedeschi e al tempo stesso si affermò come un’unica autorità nazionale legittima. Scegliere il 25 aprile significava quindi celebrare non soltanto la fine della guerra e dell’oppressione nazifascista, ma anche riconoscere il valore e l’importanza del movimento partigiano.

La differenza non è da poco: un conto è auspicare la fine della guerra e il ritorno alla normalità, un altro è aderire ai valori e all’iniziativa della Resistenza. In questo senso, l’istituzionalizzazione del 25 aprile, la sua accettazione da parte di tutti gli italiani, si è presentata più ardua rispetto ad altre memorie civili.

Anche a causa d'una idea - la cosiddetta "pacificazione nazionale" - che sterilizzò la lotta di classe.

Il 22 giugno 1946, infatti, entra in vigore il “Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari” avvenuti durante il periodo dell'occupazione nazifascista. La legge è stata proposta e varata dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, Palmiro Togliatti, segretario del PCI.

Egli presentò il provvedimento di clemenza come giustificato dalla necessità di un “rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale”.

Ad 80 anni di distanza, l'Italia ha un Governo ed alte cariche istituzionali comprensivi di neofascisti.

Gli italiani, da circa due anni, sono catapultati in una simulazione bellica, in una sorta di Civil War [1], talora ispirata alla ricostruzione di battaglie del passato, eseguita nelle paludate forme del journalism mainstream media.

I cittadini, obtorto collo, sono trattati da spettatori di un'esercitazione strategica che allude sempre più con evidenza a forme repressive, avendo constatato – gli attuali detentori del potere politico - il fallimento del primo livello di controllo sociale costituito da forme di persuasione alla conformità ed alla passività.

Con l’ausilio di mappe politiche simili a liste di proscrizione e strumenti elettronici, l'attuale Governo sta mettendo sul terreno provocazioni politico-giudiziarie consistenti nella ricostruzione di azioni di violenta lotta politica del passato, o nell’invenzione di battaglie di fantasia, usando plastici o tavolieri, nel qual caso si parla di board war game «gioco di simulazione strategica da tavolo», lasciando andare in malora la cura statuale del Paese.

Esponenti del Governo, diuturnamente, in primis Giorgia Meloni, riproducono scenarî reali e sui quali si muovono pedine di cartone o riproduzioni in miniatura di soldati, armi e mezzi bellici per avviare e mantenere alto il livello di “distrazione di massa” le cui caratteristiche corrispondono, nella finzione del gioco, a quelle reali.

Abbiamo già riferito sulle “[...] recenti, presunte, epurazioni RAI, così interpretate, ad imperituro “dileggio” di chi del canone si serve per perpetuare il sistema di potere anche mediatico, quindi di rango costituzionale (ai sensi dell'art. 43 della Costituzione) trattandosi di “servizio pubblico” televisivo, ad esclusivo vantaggio di parte.
Poca dignità in chi pratica – attualmente, la destra di Governo che arriva a detenere, di fatto, sei reti televisive nazionali, il monopolio RAI-Mediaset – lo
spoils system […]” [2].

Così come abbiamo già denunciato la via giudiziaria contro il dissenso, praticata come “[...] una modalità di rapporto che si sta consolidando tra Esecutivo ed intelligencija, quella “giudiziaria” […]” con espliciti intenti intimidatori e di censura, con riferimento particolare, ma non esclusivo, alle querele onerose per diffamazione avanzate da Giorgia Meloni a Roberto Saviano e al Prof. Luciano Canfora [3]. Questo andazzo si sta allargando: sta avvenendo, senza essere esposti ai riflettori, in tanti casi di revanscismo giudiziario contro liberi pensatori, anche a livelli più bassi delle gerarchie sociali.

Dai “giochi di simulazione”, si sta passando a vie di fatto, ad una rivincita negazionista, si sta mettendo a rischio il racconto pubblico delle verità storiche, impedendo di parlare a chi s'azzarda a rievocare i fatti originari della Repubblica democratica italiana.

Antonio Scurati [4] non ci potrà essere in studio a “CheSarà”, programma di Rai3 bloccato da vertici della Rai a 24 ore dalla messa in onda, con il monologo sulla memoria del 25 Aprile, la più importante di altre ricorrenze laiche paradossalmente proprio per il suo carattere al tempo stesso unitario e divisivo: è una celebrazione per la riconquistata democrazia, per la libertà e l'indipendenza nazionale, ma è anche una giornata solenne contro il fascismo, contro la dittatura, contro la guerra.

Il testo del monologo è stato condiviso da Giorgia Meloni sul suo profilo Facebook, 'perché chi è sempre stato ostracizzato e censurato dal servizio pubblico non chiederà mai la censura di nessuno', dichiara tronfia e prosegue: “in un'Italia piena di problemi, anche oggi la sinistra sta montando un caso. Stavolta è per una presunta censura”.

Proprio le sue parole sono allarmanti: in primo luogo, esse evidenziano un atteggiamento di relativizzazione storiografica inaccettabile, alzando a piacimento un polverone ideologico per comparare avvenimenti rilevanti – il presunto ostracismo subito da forze neofasciste, costituzionalmente impedite nell'azione politica - e fatti – quali quelli ascrivibili al periodo resistenziale - che invece riguardano 58 milioni 990mila italiani ai quali l'attuale Governo ha deciso di non rendere conto, preferendo loro i committenti interni ed internazionali.

In secondo luogo, Meloni ignora volutamente il dato che il messaggio televisivo – a fronte di 120 milioni di schermi digitali, di cui oltre 97 milioni connessi - è d'impatto ben superiore alla veicolazione di contenuti tramite i social network, che caratterizza la fruizione in modo marcatamente individuale, personalizzata, e, tipicamente, in mobilità di non tutto il potenziale target di cittadini-elettori. Proprio la moltiplicazione degli schermi ha segnato, negli anni, la riconferma del mezzo televisivo quale medium più utilizzato per essere informati.

Se ne può concludere, che la censura da parte del potere politico ha due risvolti: uno eclatantemente epurativo, soppressivo, eversivo, l'altro subdolamente manipolatotorio, da gioco di simulazione “delle tre carte”.

La grande cavalcata della maggioranza partitica al Governo del Paese verso il cosiddetto “premierato” [5], passa anche da queste sgrammaticature costituzionali.

Il Presidente della Repubblica sarà ridotto a un notaio che esegue gli ordini del Capo del Governo. La maggioranza parlamentare, assicurata non come rappresentanza reale del voto degli elettori, ma dal meccanismo maggioritario, potrà di fatto dominare ogni nomina parlamentare nella Corte Costituzionale, nel Consiglio Superiore della Magistratura e nella stessa elezione del Presidente della Repubblica, che quindi non rappresenterà più l’unità nazionale. Anche il venire meno della rappresentatività più larga possibile di questi organi di garanzia, costituisce un rischio per la stabilità dell'assetto democratico. Stabilità del governo, stabilità del Paese, stabilità della democrazia non coincidono, né sono assicurate dalla elezione diretta del “premier”.

L’unica cosa che viene assicurata è il suo potere personale. L’esasperata personalizzazione della politica è la malattia non la cura: una democrazia è più forte se è più partecipata. Come si fa a non essere d'accordo con l'A.N.P.I. ?

Il 25 Aprile va ricordato, ogni anno. Ricordato in tutti i suoi aspetti a valenza storica: nei 20 mesi in cui si sviluppa la lotta resistenziale, gli occupanti tedeschi, spesso assistiti attivamente dai collaborazionisti fascisti – i quali non esitano, in numerose occasioni, a rendersi protagonisti in modo autonomo dell'esercizio della brutalità –, infieriscono nei confronti della popolazione, dei partigiani, dei soldati disarmati, delle minoranze religiose, degli ex prigionieri di guerra in mani italiane. Le ragioni della violenza sono le più varie; le vittime, secondo l'analisi dettagliata che ha prodotto l'Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia – al quale si rimanda – sono più di 23.000 in circa 5.550 episodi, compresi nell'arco cronologico che va dal Luglio 1943 al Maggio 1945.

Si è certi che la Meloni, rintanata nel suo protettivo polverone ideologico, ha sottoposto ad oblio questi fatti. Di questo oltraggio ne dovrà rispondere.

25/04/2024 Giovanni Dursi

________________________________________

1 Intenzionale citazione del film di Alex Garland, in questi giorni nelle sale, che descrive come gli U.S.A. siano devastati da un conflitto interno visto da due fotoreporter.

2 G. Dursi, Spoils system RAI e legge del contrappasso, mentinfuga.com, 23 Maggio 2023.

3 G. Dursi, Governo Meloni: la via giudiziaria contro il dissenso, mentinfuga.com, 15 Febbraio 2024.

4 Scrittore italiano (1969). Ricercatore presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM), ha affiancato all’attività accademica la scrittura letteraria.

5 P. Esposito, Quer pasticciaccio brutto del premierato, mentinfuga.com, 4 Aprile 2024; S. Bonfiglio, Il “premierato elettivo” e la clausola “anti-ribaltone”, mentinfuga.com 9 Febbraio 2024.

giovedì 19 ottobre 2023

Seguendo un razzo, di “ignota” provenienza, che semina morte ...

Alle ore 16:01 del 18 Ottobre, l'ANSA informa di scontri a Beirut, nei pressi dell'ambasciata degli Stati Uniti in una manifestazione di sostegno al popolo palestinese e di protesta per i bombardamenti israeliani su Gaza.


Ulteriori brutalità sono in corso anche nella città capitale dell'omonimo Stato che si sommano alle inenarrabili violenze iniziate all'alba del 7 Ottobre 2023 con l'attacco strategico in territorio israeliano, mirato a incidere profondamente nello scenario mediorientale e mondiale, da parte del Ḥaraka al-muqāwama al-islāmiyya, il «Movimento della resistenza islamica», Ḥamas.

L'odierno è un ultimo capitolo – certo non il più cruento, l'esercito pare abbia, secondo quanto appurato in queste ore, rapidamente caricato i manifestanti – di una tragica sequenza di morti e distruzioni che ha subito Ghazza (in arabo قطاع غزة‎, in ebraico ‛Azzāh) negli ultimi decenni, la città palestinese di quasi seicentomila (rif. al censimento del 2017), situata nella penisola del Sinai, dalla quale si dirama la Striscia costiera mediterranea di Gaza su circa 45 km² che vede detenere oggi in cattività oltre due milioni di cittadini.

Accostandosi in modo pragmàtico [1] al rinvigorito conflitto bellico arabo-israeliano, arginando quanto più possibile i sentimenti, peraltro alquanto sollecitati, e soffermandosi sull'episodio dell'Ospedale “Al-Ahli” di Gaza colpito da un devastante razzo ieri, Martedì 17, provocando centinaia di vittime,, sembra corretto astenersi da ogni velleitaria e ipocrita propensione a prendere posizione, a schierarsi ideologicamente.

Questa affermazione, lungi dal desiderio tipicamente piccolo-borghese di equidistanza o di deleteria indifferenza, scaturisce da un tentativo di ripristinare in modo determinato l'onestà intellettuale, proprio in ragione di una contagiosa tendenza, da contrastare, che incombe sui fatti anticipando conclusioni approssimative, acritiche, superficiali, tendenziose, frutto di pregiudizi.

Allo storico serio interessano i fatti. A questo criterio, pur non essendo esperti di ricerca storiografica, intendiamo attenerci.

Iniziando proprio da uno degli ultimi fatti, quello del razzo che ha colpito l'Ospedale di Gaza. La cronaca ci pone di fronte ad un classico “fattoide” di ultima generazione. Apprendiamo con angoscia che i morti riconducibili alla deflagrazione dell'ordigno sul nosocomio, a ventiquattrore dall'evento, non si riesce a capire a chi attribuirli, non si è in grado di addossare le responsabilità dell'ennesimo eccidio.

Le “agenzie” addestrate alle mistificazioni di fatti di guerra si sono appropriate dell'accaduto e, senza risparmiare colpi altrettanto efferati quanto le schegge assassine del missile scoppiato, mirano e colpiscono i nemici con gran quantità di munizioni-parole.

La notizia, pur nella sua crudele gravità, è quasi del tutto resa priva di fondamento, in quanto in un'area vigilata da satelliti e sistemi di sorveglianza, in un teatro di guerra circoscritto, infestato da droni e sotto osservazione permanente, diventa davvero improbabile non avere la prova della traiettoria e, conseguentemente, della postazione del sito di lancio.

Le conoscenze divulgate sull'accaduto sono diffuse all'interno di narrazioni contrapposte e amplificate dai mezzi di comunicazione di massa che promuovono o l'una o l'altra descrizione al punto da essere percepite entrambe come vere o, al contrario, ambedue come false. Dunque, le versioni si elidono.

C'è da chiedersi: si ha davvero necessità di capire chi sono i “cattivi” o i “buoni” di questa tragedia, perché, ribadiamolo ancora, non si assiste ad un film dell'orrore. Dobbiamo fare la macabra conta di quante gole in queste ultime settimane sono state squarciate da parte dei contendenti ? Oppure, se si preferisce, calcolare il totale in modo arbitrario ? Siamo in presenza di una stramba belligeranza tra angeli e demoni ?

Il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, Daniel Hagari ha ribadito durante una conferenza stampa “che non c'è stato alcun fuoco dell'IDF da terra, dal mare o dall'aria che ha colpito l'ospedale", aggiungendo che le immagini dimostrano l’assenza di danni strutturali agli edifici intorno all'ospedale e nessun cratere compatibile con un attacco aereo. Fonti della “Jihad islamica” smentiscono che sia stato possibile un “fuoco amico” e che l'unico obiettivo politico-militare è di liberare la Palestina dalla presenza israeliana e costruirvi uno Stato islamico.

Ciò che, invece, è possibile appurare con certezza è che non c'è sincera intenzione di cessare il fuoco e i massacri, non si registra alcuna volontà di negoziare la pace, da parte, rispettivamente, dei belligeranti e degli occulti registi, attualmente fuori scena.

In effetti, l'agenda politica internazionale prevede altre azioni.

La prima è quella di mero maquillage politico. Ricordare retoricamente – come fa, tra tanti, Ursula Gertrud von der Leyen, la Presidente, in scadenza di mandato, della Commissione europea - la storica opzione di convivenza tra lo Stato ebraico d'Israele ed il popolo di Palestina; tale rievocazione è motivata dall’avvicinamento tra Russia e Repubblica islamica dopo la guerra con l’Ucraina.

La domanda è legittima: perché si torna solo ora – dopo ben 76 anni - al piano adottato dall’Assemblea generale delle NU, il 29 Novembre 1947, per la spartizione della Palestina mandataria in due Stati: uno ebraico, comprendente il 56% del territorio, l’altro arabo, sulla parte restante, mentre Gerusalemme sarebbe stata corpus separatum sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite ? L'inerente Risoluzione ONU n° 181 fu approvata a larga maggioranza dopo lunghi negoziati preliminari, fu accettata dalla comunità ebraica e respinta dalla comunità araba, pertanto non fu mai attuata.

La seconda azione che caratterizza le relazioni internazionali consiste nel disfacimento politico e manu militari di un inedito complesso ordine mondiale che faticosamente si fa strada nella storia, effettivamente multipolare, funzionale al ridimensionamento, alla relativizzazione delle tradizionali potenze globali che hanno governato gli affari internazionali, tutelando, tuttavia, esclusivamente gli interessi nazionali (gli esempi più calzanti sono le guerre in Iraq e Afghanistan, quest’ultima con il suo corollario in Pakistan), fino all'altro ieri vigenti e sopravviventi.

In conclusione, si vuole rammentare che la Striscia di Gaza, è densamente popolata con un’età media dei residenti di 17,7 anni, soprattutto in conseguenza del massiccio afflusso di profughi palestinesi dopo la costituzione dello Stato di Israele nel 1948. Rimase sotto il controllo egiziano fino al 1967, salvo un breve periodo di occupazione israeliana dal novembre 1956 al marzo 1957, quando fu invasa dalle forze israeliane durante la “guerra dei Sei giorni” e poi sottoposta ad amministrazione militare [2].

Rivendicata dall’OLP come parte di uno Stato palestinese indipendente, veniva posta dagli accordi di Oslo del 1993 sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese in base al principio della restituzione dei territori occupati in cambio della pace. Proprio la città di Gaza, il 14 Dicembre 1998, fu teatro di una storica visita del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton: l’abrogazione dallo Statuto dell’Olp dei riferimenti alla distruzione di Israele, proclamata solennemente in quell’occasione dalla dirigenza palestinese, sembrava spianare la strada alla creazione imminente di uno Stato palestinese e al reciproco riconoscimento fra i due popoli. Ma al contrario, i ritardi israeliani nell’implementazione degli accordi, l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, il crescente ricorso, da un lato ad atti di terrorismo e, dall'altro, all'autodifesa con l'intifada palestinese azzerarono di fatto i progressi compiuti nei negoziati tra le parti e inauguravano una lunga stagione di violenze di cui faceva le spese soprattutto la sempre più impoverita popolazione palestinese.

Tra il 2000 e il 2005 lo stato di crisi economica incombente a Gaza appariva sempre più preoccupante, aggravato dalle continue ‘chiusure’ militari israeliane della Striscia che impedivano il regolare funzionamento della vita lavorativa dei numerosi palestinesi che si recavano in Israele. Aumentava la disoccupazione, crollavano gli scambi commerciali, peggioravano i servizi sociali. Nell’agosto 2005 il primo ministro israeliano Ariel Sharon decise di procedere unilateralmente allo smantellamento delle basi militari e delle numerose colonie ebraiche costituitesi nella Striscia nel corso dei decenni successivi all’occupazione (21 colonie con circa 8200 abitanti), mettendo fine all’amministrazione militare.

Tutto il territorio di Gaza passava così in mano palestinese.

Dopo il ritiro Israele si riservò comunque il controllo dello spazio aereo e delle acque territoriali, il diritto di vietare l’ingresso nella Striscia a coloro che non vi risultavano residenti, il controllo totale dei movimenti di persone e merci tra Gaza e la Cisgiordania e di tutte le merci in entrata nella Striscia, con conseguente facoltà di chiudere i relativi varchi.

Per queste ragioni, le elezioni politiche del Gennaio 2006 in Cisgiordania e a Gaza facevano registrare il successo elettorale di Ḥamas, capace di penetrare in profondità nella società palestinese raccogliendo adesioni sia tra le fasce più disagiate della popolazione, sia tra gli studenti universitari e i ceti emergenti. Il rifiuto di al-Fatàh, fino ad allora la più forte organizzazione politica palestinese, di formare un governo di unità nazionale con Ḥamas, non disposta a rinunciare ai suoi proclami sulla distruzione dello Stato ebraico, lasciava presagire uno scontro imminente tra le due organizzazioni, che fu rinviato solo a causa della violenta offensiva lanciata da Ḥamas contro Israele (fine Giugno 2006), cui quest’ultimo rispose con un’incursione del suo esercito nella Striscia, incursione che portò allo stremo la popolazione già fortemente colpita.

Tra l’autunno del 2006 e il Giugno del 2007 nonostante un illusorio accordo di governo tra i due partiti palestinesi, s’intensificavano gli scontri nelle strade tra i militanti delle due opposte fazioni, culminati in una vera e propria battaglia militare provocata da Ḥamas che vedeva sconfitta ed espulsa al-Fatàh dal territorio di tutta la Striscia, mentre la stessa Ḥamas s’impossessava di tutti i centri di potere. Si determinava di fatto una divisione tra Cisgiordania e Gaza; quest’ultima, infatti, non riconosceva più l’autorità del presidente palestinese Abū Māzen,che rappresentava l’anima moderata dell’universo palestinese.

Tra il 2006 e il 2007 si intensificavano le operazioni militari israeliane a Gaza con l’obiettivo dichiarato di smantellare le basi di lancio dei missili Qassam, che minacciavano Sderot, il deserto del Negev, Ashkelon e la città costiera di Ashod. L’alleanza tra Ḥamas, gli Hezbollah libanesi e l’Iran del presidente Ahmadinejad potenziava la forza militare di Ḥamas, ma non risparmiava alla popolazione della Striscia un’ennesima prova di resistenza.

Il 18 Gennaio 2008 Israele chiudeva ancora una volta Gaza in una morsa tagliando tutti i rifornimenti: cibo, combustile, aiuti umanitari. Il 23 Gennaio alcune centinaia di migliaia di palestinesi forzavano il valico di Rafah al confine con l’Egitto in cerca di cibo e assistenza. Pronta ad approfittare della tragedia della popolazione, Ḥamas alzava i toni della sua propaganda anti-israeliana per guadagnare attenzione e appoggi nella comunità internazionale, ma alla fine dell’anno, il 27 dicembre, Israele scatenava una nuova guerra a Gaza. Obiettivo dichiarato dell’attacco era porre fine al lancio di razzi sul territorio israeliano, che dal 2000 aveva provocato 28 vittime.

Con il cessate il fuoco del 18 Gennaio 2009 e il ritiro delle truppe israeliane dopo l’operazione Piombo Fuso, Gaza appariva un campo di rovine: tra 1166 e 1417 morti il bilancio delle vittime tra i palestinesi, e moltissime le perdite registrate tra i civili; 13 gli israeliani morti, 10 militari e tre civili.

L’impressione suscitata nel mondo dalla situazione a Gaza spinse il Consiglio per i diritti umani delle NU a istituire una Commissione d’indagine i cui risultati furono resi noti nel settembre 2009: si leggeva nella dichiarazione, successivamente sconfessata dal presidente, ma non dagli altri membri della Commissione, che Israele aveva reiteratamente violato i diritti umani della popolazione palestinese e forse commesso anche crimini contro l’umanità.

Il 2009, intanto, aveva fatto registrare numerosi ma sterili tentativi di giungere a una riconciliazione tra Ḥamas e al-Fatàh con la mediazione dell’Egitto, mentre una trattativa segreta era stata avviata alla fine dell’anno tra Israele e i vertici di Ḥamas per il rilascio del giovane soldato israeliano Gilad Shalit rapito il 25 Giugno 2006 da un commando palestinese dell'organizzazione penetrato in territorio israeliano dalla Striscia attraverso un tunnel sotterraneo.

Nel Maggio 2010 l’attenzione della comunità internazionale fu richiamata dall’incursione armata della marina israeliana sulla nave turca Mavi Marmara che navigava in acque internazionali alla testa di una flottiglia di navi dirette a Gaza e intenzionate a forzare il blocco navale israeliano intorno alla Striscia per consegnare aiuti umanitari e beni di prima necessità. Nove attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara furono uccisi e molti vennero feriti dopo il tentativo di resistenza violenta da parte dell’equipaggio all’incursione israeliana. L’episodio determinò un brusco deterioramento dei rapporti tra Israele e la Turchia, importante alleato strategico dello Stato ebraico nella regione.

Nel corso del 2011, malgrado i tentativi di riannodare i rapporti tra i due paesi, permaneva uno stato di tensione, alimentato anche dal rapporto della Commissione istituita dalle NU che pur accusando Israele di aver ecceduto nell’uso spropositato della forza non considerava illegittimo, come auspicato dal governo turco, il blocco israeliano intorno a Gaza.

Nel maggio 2011, dopo i numerosi tentativi andati a vuoto e una recrudescenza delle violenze tra i militanti delle due organizzazioni, i leader di Ḥamas e al-Fatàh firmavano al Cairo un accordo di riconciliazione, prontamente criticato dalle autorità israeliane, che fissava al 2012 le nuove consultazioni parlamentari e presidenziali. Ma la posizione di forza di Ḥamas veniva ribadita ancora una volta nell’Ottobre del 2011, quando l’11 del mese, dopo cinque anni di delicati negoziati condotti con la mediazione egiziana, i vertici dell’organizzazione e le autorità israeliane annunciavano l’accordo sul rilascio di Gilad Shalit in cambio della liberazione di oltre mille palestinesi prigionieri nelle carceri israeliane. Il 18 Ottobre Shalit tornava a casa e contemporaneamente i primi 477 detenuti palestinesi venivano liberati.

Nel Novembre 2012 si è verificata una nuova ripresa delle ostilità israelo-palestinesi: una nuova offensiva di Israele, nel corso dell’operazione denominata “Colonna di nuvola”, ha provocato la morte di A. al Jabari, leader delle brigate Ezzedin Al Qassam, il braccio militare di Ḥamas, seguita da numerose incursioni aeree nella Striscia di Gaza che hanno colpito un totale di circa 1300 obiettivi e prodotto 160 morti, mentre concomitanti lanci di razzi a opera delle forze di resistenza palestinesi interessavano Tel Aviv e altre città israeliane. Dopo otto giorni di violenti scontri, un accordo bilaterale per il cessate il fuoco è stato raggiunto grazie alla mediazione del nuovo governo islamista dell'Egitto e sostenuto dagli Usa, sebbene la tregua appaia agli osservatori internazionali ancora molto fragile e l'OLP abbia presentato una protesta al Consiglio di sicurezza dell'ONU per la sua violazione da parte di Israele, dove si sarebbero inoltre registrati ancora sporadici lanci di razzi sparati dalla Striscia di Gaza.

Nel maggio 2014, dopo il raggiungimento di un’intesa tra al-Fatàh e Ḥamas, le due fazioni si sono accordate sulla nomina di R. Hamdullah a primo ministro del governo transitorio di unità nazionale, ufficialmente insediatosi il mese successivo; le dimissioni di Hamdullah, rassegnate nel giugno 2015 per l’impossibilità di rendere operativo l’esecutivo all’interno della Striscia di Gaza, e i continui dissidi interni hanno portato al rinvio delle elezioni, mentre la Cisgiordania e Gerusalemme hanno visto un drammatico aumento della tensione, sfociato nel settembre 2015 in una nuova ondata di violenza, poi rientrata anche grazie al mancato appoggio delle principali organizzazioni politiche palestinesi. Un passo decisivo verso la riconciliazione è stato compiuto nel Settembre 2017 con lo scioglimento dell’esecutivo di Ḥamas a Gaza e con l’accettazione da parte del movimento islamista delle condizioni poste dall'ANP, tra cui l’indizione di elezioni generali che comprendano anche Gaza e Palestina.

Nel Maggio 2021 violenti scontri scoppiati a seguito dell’allontanamento di alcune famiglie palestinesi da un quartiere di Gerusalemme hanno provocato una recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, nel corso della quale le due parti si sono affrontate con scontri di artiglieria e attacchi aerei che hanno provocato la morte di circa 200 individui.

La tregua tra Hamas e Israele è stata raggiunta alla fine di Maggio, quando esse hanno concordato il cessate il fuoco, reclamando entrambe la vittoria, ma negli anni successivi si sono registrate varie fasi di ripresa delle ostilità alternate a labili tregue, come nell'Agosto 2022 e nel Maggio 2023, mentre nell'Ottobre 2023 Hamas decide di rompere gli indugi e lancia da Gaza una nuova offensiva contro diverse città israeliane attraverso incursioni via terra e raid aerei, cui Israele ha risposto assediando l'area della Striscia e bloccando le forniture di cibo, elettricità, carburante e acqua. L’escalation militare ha aperto uno scenario di guerra che ha generato nella comunità internazionale grande apprensione per il rischio di una estensione del conflitto ben oltre il contesto regionale.

18/10/2023 Giovanni Dursi

1 Nel significato di «attinente ai fatti», derivato di πρᾶγμα -ατος «cosa, fatto», che riguarda prevalentemente l’attività pratica, l’azione; caratterizzato dal prevalere degli interessi pratici su quelli teoretici e sui valori ideali.

2 Per la dettagliata ricostruzione qui riportata, l'autore dell'articolo si è valso di fonti storiografiche offerte dall'Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Società per azioni, che tra gli scopi annovera la produzione di opere che possono comunque derivarne, o si richiamino a quella esperienza; l'esercizio delle iniziative e attività editoriali e di quelle culturali in ogni forma e modalità, in specie per gli sviluppi della cultura umanistica e scientifica, per la tutela, la valorizzazione e la diffusione della cultura italiana, nonché per esigenze e attività educative, di ricerca, di formazione e di servizio sociale (Art. 2 Oggetto, Statuto, Allegato "A" all'Atto rep. n. 64340 racc. n. 21028.

 

 

 

martedì 3 gennaio 2023

A proposito di “Peace & Love” - “Linguaggi” post-moderni di pace, trasformazione sociale e “sinistra” frustratamente extraparlamentare

La simbologia che ha storicamente accompagnato l'universale rivendicazione di pace – a partire dal 21 Febbraio del 1958 quando, con notevole rilievo sociale, un mobilitazione di massa sostenne iniziative per il disarmo nucleare - trova oggi nello sloganPeace & Love” un punto d'approdo di certa leadership della cosiddetta “sinistra” frustratamente extraparlamentare.


Alcuni esponenti di vertice di tale “sinistra” dimenticano il fatto - o si mostrano sprezzantemente non curanti dello stesso - che l'iconografia ed i “messaggi” del pacifismo (ad esempio, “fate l’amore, non la guerra”) sono stati del tutto riassorbiti dalla logica mercantile del capitalismo maturo che dell'epopea degli hippie e delle aspirazioni insurrezionali del Sessantotto novecentesco ne hanno fatto prodotti di consumo, dal brand Moschino alla Disney Pixar, per limitarci ad alcune aziende che operano globalmente.

A nostro giudizio si è giunti al parossistico approdo concettuale e pratico di parte di tale “sinistra” che prima distorce, poi confonde, infine riutilizza un'accozzaglia di teorie, di linguaggi, di atteggiamenti anche storicamente rilevanti, in modo indubitabilmente vanaglorioso, eclettico (nel senso di incoerente orientamento cognitivo che non segue un determinato sistema o indirizzo di indagine, ma che preferisce scegliere ed armonizzare arbitrariamente principî e congetture che ritiene migliori tra diverse narrazioni teoriche), tendendo nella sostanza a sostituire un percorso d'alternativa politica al capitalismo (teorico-politico ed organizzativo) con un lavoro pseudoculturale d'enfatizzazione di idee e pratiche che possono essere eventualmente considerate un'alternativa di costume all'interno del sistema capitalistico di produzione e riproduzione della vita, quindi assolutamente compatibile con la stratificazione classista della società e con il suo portato d'estrazione costante di plusvalore, “l’eccedenza del prodotto sulla somma dei valori degli elementi della sua produzione”.

I dirigenti di siffatta “sinistra”, frustratamente extraparlamentare, sono vanagloriosi, infatti, quando esprimono un sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui ambiscono al consenso immediato – si potrebbe dire irriflessivo - per meriti inesistenti o inadeguati circa le sorti del mondo e delle classi subalterne. “Peace & Lovead abundantiam sui social network come richiamo per le allodole, come spudorata espressione di un eclettismo che niente di buono prevede per le classi subalterne. La vanagloria immanente a simili scellerate mediatiche posizioni finisce con il produrre un vero e proprio cortocircuito di natura quasi teologico-morale a matrice cattolica, impedendo d'affrontare con coraggio un attuale e cogente ripensamento critico-politico della trasformazione sociale. Conseguentemente, l'eclettica leadership che confonde l'alternativa di costume con quella politica non affida al marxismo ed al leninismo il compito di interpretare teoricamente e strategicamente le contraddizioni economico-sociali in essere, attardandosi, in modo incongruo, in un immoderato desiderio di manifestare la propria bontà umana (rivendicando un indistinto afflato di pace e amore) e in tal guisa ottenere il rispetto delle umane genti, di quegli homines dei quali si trascura la reale e tragica sussistente condizione di classe.


La coscienza della suindicata “sinistra”, frustratamente extraparlamentare, che incarna una aspetto d'ell'idealismo post-moderno (una sorta di variabile politico-ideologica del cosiddetto «pensiero debole») esemplificato dalla comunicazione sociale della sua leadership, si palesa, dunque, alla maniera di un pan-pacifismo che, come la coltre bianca della neve, tutto copre occultando i diversi profili del variegato territorio sottostante rendendolo suggestivamente e morfologicamente equivalente.

Come è possibile definirsi di “sinistra” o, addirittura, comunista non condividendo la seguente apertura d'analisi della questione: “Il capitalismo prepara, come sempre, le condizioni della guerra. Si può dire di più: il capitalismo è di per se stesso la guerra e, siccome tutto il mondo è capitalistico, la guerra è oggi la condizione permanente dell'umanità. Dal primo decennio del secolo lo sviluppo del capitalismo ha finito d'essere relativamente pacifico perché è stato questo sviluppo stesso a produrre l'imperialismo e a far sì che i paesi capitalistici più sviluppati avessero la forza economica, e quindi militare, di imporre le loro necessità di espansione e i loro interessi ai paesi capitalistici meno sviluppati e quindi più deboli o a paesi coloniali i quali subivano un processo di diffusione del capitalismo nel loro interno” (rif. L'imperialismo unitario, Capitolo XII, "Il nemico è in casa nostra" 1965-1968, Arrigo Cervetto, 1950-1980) ?


In secondo luogo, la deriva evangelico-pacifista sembra spazzare via, sottoporre ad oblio tutto quello sforzo di ricerca etico-politica, nell'ambito del materialismo storico, di Ernst Bloch secondo il quale “il futuro si caratterizza non tanto per essere ciò che supera uno stadio precedente in una scansione dialettico-evolutiva e progressiva; si caratterizza cioè non come ciò che annuncia un regno dei fini sia di segno religioso che politico-ideologico. Il futuro, nella prospettiva blochiana, è ciò che non è ancora. Anzi, grazie alla straordinaria intuizione della Ungleichzeitigkeit (la non contemporaneità dei tempi storici) il futuro può essere anche ciò che non è stato e che poteva essere, il futuro di un passato che non si è manifestato nella sua positività e che può ancora infuturarsi” (cit. Giuseppe Cacciatore, “Bloch e l’utopia della Menschenwürde”, b@beleonline, in Rivista online di Filosofia, n° 5, 2019, pagine 111-122). Per opporsi a questa potente critica al pan-pacifismo, a nulla può valere ricordare che Bloch, dopo i fatti di Ungheria del 1956, si trasferì nella Repubblica Federale di Germania, perché la questione etico-politica - esattamente come da Bloch posta - resta intonsa, affatto logorata.

Inoltre, seguire il trend dell'opposizione retorica e, quindi, inefficace della “sinistra”, frustratamente extraparlamentare, al sistema vigente di cose, vuol dire macchiarsi di un grave torto d'ingratitudine nei riguardi di chi ha avviato, passando per Hegel, un percorso significativo di innervamento del marxismo (Mein Weg zu Marx la definì il filosofo ungherese al quale si fa riferimento) nella contemporaneità, così come analogamente operò Antonio Gramsci, collocando la ricerca della verità dal punto di vista storico-politico proletario.

Ci si riferisce a György Lukács (rif. Tattica e etica, 1919 e La distruzione della ragione, 1954), ad un antropocentrismo da lui proposto che può sfociare, distante dalla filosofia morale di Kant (che promuove l'intenzionalità esplicantesi come prescrittiva), e lo orienta, senza titubanza, nel centro della concezione storico-dialettica di Marx, quella del sovvertimento antagonistico-duale necessario dei rapporti sociali, perseguendo l'ineguagliabile scopo di riferirsi al soggetto subalterno socialmente in grado di sollevare le sorti dell'intero genere umano, aspirando così a compiere un tangibile percorso storico realmente garante di pace e di solidarietà (cfr. “La lezione radicale di Lukács”, Lelio La Porta, il manifesto, 3 Giugno 2021).

Prof. G. Dursi

sabato 19 novembre 2022

Effìmere le età della vita. In particolar modo lo è diventata quella adolescenziale


L‘età adolescenziale è effìmera. Come, del resto, tutte le altre età della vita, certo, ma va considerata come importante periodo di formazione e di sviluppo psico-fisico decisivo. Inoltre, pur sapendo che classicamente, l'adolescenza viene compresa tra i 10 ed i 19 anni, anche se la SIMA (la Società italiana di Medicina dell’adolescenza) identifica il limite a 21 anni, possiamo affermare che, per questioni diverse, oggi si prolunga anche ben oltre quel limite fino, in alcuni casi, ad eternizzarsi, essendo il soggetto impossibilitato ad effettuare le esperienze necessarie atte a rappresentare oggettivamente il passaggio alla cosiddetta età adulta. Peraltro, entrambi i periodi esistenziali - adolescenza e maturità - manifestano fenomenologie riconducibili alla neotenia, cioè al forzato permanere allo stato neotenico, anche in età post-adolescenziale ed avanzate, determinato non da fattori di natura costituzionale, bensì dovuto alle particolari condizioni ambientali economico-sociali della contemporaneità che configurano il peculiare carattere neotenico dell’uomo: l’incompiutezza, una specifica deficienza di maturazione nelle strutture mentali come nella funzionalità socio-relazionale (rif. P. Virno, Scienze sociali e natura umana. Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubettino, 2003).

Ciò comporta un’inefficace (dal punto di vista dell’adattamento graduale alle forme di vita e d’assunzione di responsabilità sociali), estenuante formazione permanente, disambientamento e flessibilità, tali da non poter mai mettere integralmente a frutto quanto appreso, tali da non riuscire a sperimentare le proprie competenze, da non poter applicare un saper fare coerente con le proprie conoscenze.

Effìmera è, dunque, l’adolescenza, sapendo però che effìmero, etimologicamente deriva dal latino tardo ephemĕrus, dal greco ϕήμερος, composto di πί «sopra» e μέρα «giorno», a significare ciò che dura un solo giorno, come certe febbri. Tuttavia, nonostante che con uso sostantivato, l’effimero designa ciò che è o si considera di breve durata, transitorio, perituro, si può constatare, osservando giovani vite, un nocivo perdurare in uno stato di indefinitezza, in uno “sdraiarsi” anche consapevole, in molti casi, nell’alveo delle incertezze, delle indecidibilità, nel vago bearsi di una “dimensione” privata, intima, quasi non esistesse un mondo da affrontare, “leggere”, seppur con difficoltà, ed interpretare, allo scopo di vivere appieno la propria, unica, vita. Egocentrati in tal modo, rispetto a ciò che appare loro incomprensibile, viene radicalmente ignorato, trascurato, ciò che non è chiaramente percepibile o esprimibile, viene tralasciato, sottoposto ad oblio. Nulla esiste, ai loro occhi, se non quel “mondo” ristretto, concentrato nelle faccende microaffettive, domestico-territoriali, ignari altresì d’essere sempre eterodiretti, nei comportamenti effettivi adottati nell’universo concentrazionario ove agiscono, dalle rappresentazioni sacralizzate della realtà offerta dai media.

Quasi mai s’assiste all’esplosione desiderante di riflessioni, di voglia di leggere (letteralmente) oltre che di consumare, di ribellarsi al giogo degli stereotipi e degli algoritmi sociali, anche nelle componenti più scolarizzate della popolazione adolescente. Un fenomeno disastroso che racchiude l’immane spreco di energie giovanili, una configurazione psichica ispirata alla grettezza di immediate soddisfazioni (prevalentemente di natura materiale), una negazione di progettualità ed impegno, un sopravvivere banalmente, una sostanziale e costrittiva spirale derealizzante, con l’evidente precipitare nell’estesissima povertà lessicale quantomeno per “dire di sé”.

Il termine effìmero, non casualmente, è stato usato tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 del Novecento per indicare un insieme di manifestazioni culturali o ricreative, di carattere spettacolare e di breve durata, promosse, nell’ambito di una politica di valorizzazione dei centri storici, dagli assessorati alla cultura di alcune grandi città italiane, accanto e in antagonismo ad attività istituzionali e permanenti.

Bene. Per le ragioni esposte, l’effìmera transizione identitaria - caratteristica dell’adolescenza - in ogni caso non va individualmente lasciata alla deriva, ad un sociomorfismo di tal fatta, esprimendo rassegnazione alla “non cultura”, limitando il proprio ingegno, consegnandosi mani legate all’offerta alienante dei media, alla introiezione di modelli standardizzati buoni a declinare frustrazioni e straniamento.

Gli adulti, gli “esperti”, coloro che possono lasciare un “segno”, che fanno in proposito, cosa mettono in campo per immunizzare i giovani ? Spesso la risposta è “laissez fairelaissez passer”, in perfetta sintonia con lo spirito dell’imperante liberismo economico.

mercoledì 12 ottobre 2022

LA GUERRA e IL DOLORE

Guerra. L’alacre “officina della guerra” non va ridotta a fenomeno collettivo che ha il suo tratto distintivo nella violenza armata posta in essere fra gruppi sociali contrapposti organizzati per ottenere la supremazia. Certo, è presente anche questo aspetto che autorizza i poco accorti a distinguere i contendenti in “aggressori” e in “aggrediti”.

In realtà, le trasformazioni cui è stata soggetta la guerra tradizionale nel XX secolo portano a un profondo ripensamento di tutte le categorie con le quali tradizionalmente gli studiosi delle varie discipline hanno affrontato i temi della guerra, delle sue cause, della sua legittimità, del suo contesto, del suo rapporto con la politica e dei possibili modi per costruire la pace attraverso il diritto internazionale e gli organismi sovranazionali esplicitamente preposti.

La guerra nello scenario internazionale ha avuto le sue più significative espressioni negli innumerevoli conflitti tra Stati che hanno costellato l’età moderna e contemporanea e sono culminate nelle deflagrazioni mondiali del Novecento (1914-1918 e 1939-1945). Strettamente legata alla vicenda dello Stato moderno, questa forma di guerra ha conosciuto imponenti mutamenti nel corso dei secoli, i quali in ultima analisi hanno trasformato le ‘guerre limitate’ dell’età moderna nelle ‘guerre assolute’ o ‘totali’ dell’età contemporanea, in cui si è fatto un uso di armi sempre più sofisticate e distruttive, hanno combattuto eserciti di popolo e non più solo o prevalentemente di professionisti, nel quadro di un crescente coinvolgimento dei civili nell’evento bellico; in cui, infine, le logiche tradizionali della politica di potenza si sono sposate con le retoriche di massa della nazione e dello Stato nazionale, del nazionalismo e dell’imperialismo oggettivamente espansionistico e bellicista di matrice capitalista, a tal punto da gradatamente superare il ruolo politico nelle decisioni strategiche degli Stati e dei Governi; essi, fagocitati, le lasciano, inerenti alla dialettica guerra-pace, direttamente nelle mani dei soggetti economici multinazionali, considerando anche che le ‘guerre assolute’ hanno avuto il proprio archetipo nelle guerre napoleoniche e la loro più compiuta manifestazione nelle due guerre mondiali.

Per comprendere appieno la mutata fisionomia del bellicismo novecentesco, si ribadisce l’invito all’utile lettura de “L'officina della guerra - La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale” di Antonio Gibelli (Bollati Boringhieri, 2007), dove l’inestricabile intreccio economia-tecnica-società-condizione umana viene descritto con estrema chiarezza e competenza storiografica. Come viene presentata l’opera, «indagare sul processo di adattamento di milioni di uomini alla realtà della Grande Guerra - una guerra smisurata, radicalmente nuova, la prima guerra tecnologica di massa - è l'obiettivo che si pone l'autore per capire il primo conflitto mondiale e i mutamenti che segnarono l'avvento della modernità. Il libro non si occupa dell'"esperienza di guerra" in senso circoscritto. Ciò di cui milioni di uomini fecero simultaneamente esperienza tra il 1914 e il 1918 non era solo la guerra, ma il mondo moderno: un mondo pienamente pervaso dall'industrialismo e dai principi di efficienza e standardizzazione, in cui lo Stato si insediava capillarmente nella vita privata e nell'interiorità di ciascuno mobilitando sentimenti, immagini, nuove forme di comunicazione. Un mondo in cui si affermavano la scrittura e la fotografia, il grammofono e il cinema. L'esperienza della guerra è perciò vista in stretto contrappunto con quella del lavoro: il lavoro della guerra era una nuova manifestazione delle condizioni del lavoro nella società industriale. Strumenti essenziali per quest'analisi sono le testimonianze scritte (epistolari, diaristiche, memorialistiche) dei fanti e accanto a esse, intrecciate con la memorialistica colta, le testimonianze di medici, psichiatri, psicologi che permettono non solo di esplorare il versante traumatico del conflitto, ma di penetrare nella loro soggettività e di delineare i contorni di quel "mondo nuovo"».

Negare l’integrazione delle dimensioni (economica e politico-militare) intervenienti a configurare la “logica della guerra” è un modo più o meno consapevole di ideologizzare i conflitti, non interpretarli per quel che sono, di banalizzare le sofferenze e di proiettare i propri frustranti  fantasmi su un nemico rimuovendo gli altri, determinanti nemici, auspicando la personale salvezza, quella sorta di dostoevskijana salvezza oltre ogni intendimento; qui, l’intendimento è l’onesto riconoscere che l’unica peculiarità delle guerre attuali è che esse si spiegano a partire dalle convulsioni immanenti al mercato capitalista globale, essendo egemone il modo di produzione e riproduzione capitalista, portatore unico di interessi  economici nella strutturazione delle relazioni internazionali, fino alla capitolazione degli stessi singoli competitori, in questo singolare acquario planetario ove si rischia di morire per decadimento radioattivo.

In effetti, dopo il secondo conflitto mondiale si è aperta una nuova fase nella storia della guerra con l’avvento della contrapposizione tra Stati Uniti d’America e Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e tra i loro rispettivi blocchi. Le prospettive della guerra si sono sganciate dall’orizzonte tradizionale dello Stato-nazione per svilupparsi in una dimensione sovranazionale o transnazionale, caratterizzata dal confronto-scontro tra due sistemi di alleanze militari (NATO e Patto di Varsavia) cementati dalle due ideologie del capitalismo liberaldemocratico e del comunismo “realizzato”. Questo confronto-scontro ha dato luogo a un’inedita condizione intermedia tra la pace e la guerra definita, in relazione all’età del bipolarismo (1945-91), come guerra fredda. A questo esito ha contribuito in modo paradossale l’avvento dell’era nucleare. Con la creazione di giganteschi arsenali di armi atomiche e poi termonucleari in grado di annientare in pochi minuti la gran parte del genere umano, senza distinzione tra vincitori e vinti, USA e URSS hanno infatti finito per rendere impensabile la possibilità stessa di una guerra generale e per impostare la propria coesistenza su un ‘equilibrio del terrore’. Venendo meno questo tipo di “bilanciamento”, la supremazia mondiale del capitalismo U.S.A. e la subordinazione ad esso dei tanti vassalli, ha fatto si che la voracità e la natura selvaggia, immodficata nei secoli nonostante involucri pseudodemocratici che hanno inteso dissimulare, “costringere” le insite contraddizioni sistemiche, del meccanismo di estrazione di profitti sia l’unica matrice nel XXI delle evenienze storico-sociali a tal punto da alimentare la distruzione di ulteriori suoi interpreti o da non permettere leadership mondiali alternative al comando capitalistico “occidentale”.

Dolore. Il dolore di un popolo, inteso nella sua eventuale identità  collettiva, non può essere descritto. Il dolore, in questa interminabile epoca condizionata dai rapporti economico-sociali improntati dal modo di produzione e riproduzione capitalista, è eminentemente individuale per quanto possa “riconoscersi” per intensità lacerante, annichilente a quello dei propri simili. Il dolore non è intercambiabile, standardizzabile, è intimo, ineguagliabile, di impatto irreversibile sul quotidiano di miliardi di persone. Non è dunque equiparabile, tantomeno esclusivo di questa o quest’altra etnia, soprattutto quando ci si riferisce a quelle tremende sofferenze indotte dalle guerre. L’intelligenza e l’etica dell’osservatore risiedono, dunque, non nel parteggiare, bensì nell’immedesimarsi ed accettare che, date certe condizioni estreme di coscienza, anche dare la morte procura dolore.

“Il dolore è un'esperienza forzata e violenta dei limiti della condizione umana. È una figura aliena e divorante che non lascia requie con la sua incessante tortura. Paralizza l'attività del pensiero e l'esercizio detta vita. Pesa sul gioco del desiderio, sul legame sociale. Altera il senso della durata e colonizza i fatti più importanti della giornata, trasformando la persona in uno spettatore distaccato che fa fatica a interessarsi all'essenziale. Il dolore isola, costringe l'individuo a una relazione privilegiata con la propria pena. Al tempo stesso, è una minaccia temibile per il senso d'identità: lacera la coscienza e schiaccia l'uomo su un senso dell'immediato privo di prospettiva, dandogli l'impressione che il suo corpo sia altro da sé. Incomunicabile, il dolore suscita il grido, il lamento, il pianto o il silenzio, tutti fallimenti della parola e del pensiero. Ma il dolore può anche essere mezzo di espiazione o manifestazione di fede - come nella tradizione religiosa cristiana - o strumento di affermazione identitaria o sociale, ad esempio quando inscrive nella carne la memoria di una filiazione e di una fedeltà alla comunità, come accade agli iniziati di una società tradizionale. Ci sono poi usi del dolore che si alimentano della disparità delle forze tra gli individui: la correzione, la punizione personale, la tortura, il supplizio. L'arte di far soffrire l'altro per umiliarlo o annichilirlo è inesauribile. Il dolore inflitto ne è lo strumento privilegiato, archetipo stesso del potere sull'altro. Il proposito [dell’analisi del dolore] è di approcciare il dolore su un piano antropologico, di chiedersi come influisca sulla condotta dell'uomo e sui suoi valori, sulla trama sociale e culturale in cui è immerso. Tutto ciò, però, senza dimenticare che se l'uomo è una conseguenza delle sue condizioni sociali e culturali, è anche il creatore instancabile dei significati con cui vive” (Fonte:  David Le Breton, “Antropologia del dolore”, 2016).

Aspettiamo che i sostenitori zelens'kyjani entrino in un ottica di rispetto delle vittime del capitalismo, del dolore forzato, causato dal napalm, dai bombardamenti “convenzionali” e dal vigente ed esclusivo sistema di sfruttamento.

venerdì 26 agosto 2022

“Politica” ed elezioni. Lettera aperta ai “leader” d’opposizione governativa di ”sinistra”

Ancora una volta si procede in ordine sparso. I residui atomi di quello che fu il movimento proletario rivoluzionario, sembrano rianimarsi, con le migliori intenzioni, in prossimità delle Elezioni politiche. Pare che per costoro per costruire una società “nuova” sia utile e doveroso transitare da una elezione all’altra, cercare il consenso necessario (dal termine latino, consensus, "conformità dei voleri"), giocare ai duri e puri, finendo così, in ultima istanza, con il legittimare il regime democratico capitalista. Sembra che la contesa con il comando capitalista si dispieghi esclusivamente nelle proposizioni antiliberiste ed antifasciste, nella comunicazione sociale di una presunta diversità (alimentata da un infinito elenco di diritti negati e dalla contrarietà al non rispetto delle stesse leggi; potrebbe essere altrimenti nella società capitalista ?) che, tuttavia, non allude ad una identità politica-organizzativa antisistema. Anzi. L’indifferenza alle variabili rivoluzionarie di un processo antagonista vengono del tutto riassorbite dalla retorica e dalle buone ragioni, ma senza mai mettere in discussione l’assetto di potere, le contraddizioni di base sulle quali si impone e rinnova costantemente la storica divisione in classi del corpo sociale che vede il proletariato del XXI secolo ancora in catene, subalterno ed impotente. Risulta evidente che ogni concezione comunista nell’edificazione d’una società migliore è stata accantonata, resa effimera, laddove si espunge la variabile organizzativa rivoluzionaria, il fattore politico della difesa di classe, quindi non solo giuridica e tradeuninista.

A queste obiezioni minime, si ripeterà - volendo giustificare l’agire militante in un ambiente democratico capitalista - la giaculatoria secondo la quale “non ci sono le condizioni”. Bleffando, se non mentendo a se stessi, perché le “condizioni” si costruiscono secondo strategie e tattiche, analizzando e valutando le “situazioni”, orientando le coscienze, testimoniando con il “fare”, dirigendo verso scopi condivisi la lotta di classe, mettendo anche a repentaglio quelle misere sicurezze che condannano alla subalternità i proletari, certamente non mendicando “spazi” radio-televisivi, interviste sulla stampa di regime o occupandosi di “costume”, come pare accadere a tal punto che il megafono dell’opposizione governativa oggi è nelle mani degli influencer.

L’idea del consenso ad un programma politico, ad una lista elettorale, ad rassemblement disoggettività plurali, distinte, con annessa “valorizzazione” di personalità tutt’altro che comuniste scelte come leadership ha la lieve consistenza di un perverso gioco che non prevede la vittoria, semmai qualche “tribuno del popolo” baciato dalla fortuna. Questa esperienza elettorale, in verità, viene periodicamente utilizzata soprattutto per definire l'accordo su di un determinato ordine sociale, sulle regole che presiedono al funzionamento delle istituzioni che lo governano. Benché il consenso elettorale entri in gioco anche rispetto a obiettivi specifici che caratterizzano le politiche (di natura economica, assistenziale, ambientale ecc.), come sempre accade, anche in questa circostanza ci si focalizza soprattutto sulle modalità e il grado di partecipazione popolare che riguardano l'esercizio del potere, il contenimento della violenza nei rapporti sociali, la legittimazione dell'autorità, insistendo particolarmente sui dispositivi politici e istituzionali finalizzati al sostegno dei diversi regimi politici capitalisti, in primo luogo quelli ad impianto democratico, e dando risalto all'opinione pubblica, ai modi con cui si determina, all'influenza dei mezzi di comunicazione di massa.

È un circolo vizioso. Ancora una volta, dunque, qs'assiste allo svogliato risveglio del dibattito pubblico – dopo gli anni dedicati alla pandemia e mesi, ora, ai riposizionamenti geopolitici, alle conseguenti deflagrazioni militari e alle convulsioni per l'accesso alla materie prime – come ideological mainstreamche vuole intendere la “politica”, in Italia, alla maniera di un esclusivo e spettacolare evento elettorale. 

Tutti, come capita ai tifosi delle squadre di calcio, si ringalluzziscono in prossimità della “partita” più importante, quella delle settembrine elezioni politiche per il rinnovo (rinnovo ???) del Parlamento della Repubblica italiana.

Tutti ne parlano, tutti fanno a gara nel fornire la formazione imbattibile, tutti impegnati a scegliere e ad indossare la casacca “stilisticamente” giusta della squadra vincente per favoleggiare nei comizi, nelle convention o in sobrie conventicole. Tutti intenti a scrivere in bella calligrafia (in verità, a riscrivere) programmi ed a confezionare promesse. Dopo l'allenamento delle recenti amministrative, tutti pronti a fare spallucce alle sconfitte subite prevedendo rivincite o quantomeno pareggi. L'importante è giocare, the show must go on.

Addirittura capita che alcuni hanno intrapreso il percorso del cartello elettorale dell’Unione popolare (ma non si era già giunti al “Potere al popolo”?), forse ignari che con la stessa denominazione ha agito un partito politico di orientamento liberal-democratico e nazionalista attivo in Belgio, nella comunità fiamminga, dal 1954 al 2011, ma sicuramente coscienti di operazioni simili effettuate nel passato, di un tristissimo déjà-vu, perché convinti che si possa fare come Jean-Luc Mélenchon in Francia che, con La France Insoumise ha costruito un discreto successo inventandosi all'occorrenza una coalizione di “sinistra” la Nup (Nouvelle Unione Populaire écologiste et sociale) che riunisce momentaneamente coriandoli multicolori estranei al tradizionale establishment economico-politico, subculture politiche eterogenee.

Come tratto unitario delle esperienze in fieri è certamente il rinculo politico-culturale; infatti c'è un evidente smarrimento scientifico-sociale, politico ed organizzativo che porta tutti i contendenti nell'agorà elettorale ad appoggiarsi alla general-generica parola “popolo”.

Il termine, come è noto, fornisce storicamente origine, in campo politico-elettorale, al lemma “populismo” usato per designare tendenze o movimenti politici sviluppatisi in differenti aree e contesti nel corso del 20° secolo. Tali movimenti presentano alcuni tratti comuni, almeno in parte riconducibili a una rappresentazione idealizzata del ‘popolo’ e a un’esaltazione di quest’ultimo, come portatore di istanze e valori positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle élite. Infatti, Fratelli d'Italia sta costruendo le sue fortune (stando ai sondaggi) proprio sulla reiterata allusione agli “italiani” (quali non è dato sapere), alla Nazione, alla strategia della xenofobia utile a costruirne un'identità che faccia da collante, bypassando le sussistenti oggettive gerarchie sociali e le fondamentali differenziazioni di classe.

Inoltre, tra questi tratti comuni ha spesso assunto particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa (su questo punto, per certi versi, non ci sarebbe nulla di censurabile in una conseguente e radicale critica alla “democrazia reale”, o “incompiuta”, che dir si voglia, a quanto si è palesato dal 1943 al 1948 con la rottura dell'unità antifascista e, successivamente, con i decenni di degrado civile che portano ai nostri giorni), privilegiando modalità di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader mediaticamente carismatici a organizzazioni politiche da tempo presenti sulla scena politica ed a esponenti del ceto partitico tradizionale.

Il fenomeno contagia indistintamente ogni attuale “offerta” del mercato politico, indotto da una situazione economico-sociale in rapido mutamento peggiorativo per le masse a causa del passaggio da una economia capitalista incentrata sullo “sviluppo” industriale e tecnico ad una fase economica di perdurante “crisi” e di penuria e da sistemi politici a partecipazione “surrogata” della masse a sistemi che registrano una estesissima estraneità/ostilità civica ed una contestuale sopravvivenza di privilegi che integrano l'astensionismo.

Ecco, dunque, la presentazione di slogan populisti da parte di capipartito che si confezionano addosso l'abito del “portavoce delle esigenze del popolo”, attraverso l’esaltazione dei valori nazionali, senza aver mai reciso i legami con il passato, tanto meno dimostrare di aver intenzione di avviare una autentica revisione (patetiche, a questo proposito, le interviste che vogliono sollecitare il “pentimento” da parte di esponenti di Fratelli d'Italia; quest’ultimi retoricamente affermano non esserci spazio per i “nostalgici del Fascismo” in quanto loro stessi, generazionalmente o no, sono la plastica evidenza che in una democrazia in disfacimento c'è ancor più spazio per la “destra”), di propugnare l’instaurazione con esso popolo di un rapporto diretto, non mediato dalle istituzioni tradizionali; tuttavia, ad elezioni effettuate, “passata la festa, gabbato lo santo”.

La politica non riguarda più da anni il rito folcloristico ed alienante delle elezioni; la mobilitazione coscienziale e pratica delle masse va incentivata ogni giorno, ricostruendo il tessuto comunitario di classe, dotandosi degli strumenti teorico-politici necessari ad agire “contro” il vigente sistema e non per farne parte.

Spesso tale cosiddetta “partecipazione elettorale”, vivacemente incentivata da gruppi e gruppuscoli che fanno campagna promozionale di qualche lista per poi ritirarsi nell'inedia a leccarsi le ulteriori ferite, sollecita il potere, depositario del monopolio delle forza, a consolidare il mantenimento di un elevato, devastante, controllo sociale, anche grazie al "libero voto".

Altrimenti. Altrimenti risvegliare pensieri in ristagno, zampilli di vita rivoluzionaria, integrale, senza remore fuoriuscire dal circo della "politica partitico-elettorale" ... altro che affabulazioni, a suo tempo, vendoliane, bertinottiane ed oggi demagistriane ed affini !

Creare le condizioni della scissione sociale. Ogni mediazione si è palesata come storicamente fallimentare. I cosiddetti “gradualismo” e “riformismo” hanno drammaticamente fallito. Non può esserci compatibilità tra diritti e sfruttamento. Ogni ragionamento geopolitico deve fare i conti con questa oggettività. Inoltre, la “rivoluzione” dei rapporti sociali non è una questione solo per giovani, come se a 60 e passa anni, non si voglia o non si possa più procedere individualmente e collettivamente alla trasformazione sociale. Che i giovani dimostrino di saper effettuate scelte, senza riserve o garantite autotutele. Che gli “esperti” continuino un difficile cammino di liberazione, troppo presto ingombro di passi falsi, da alcuni abbandonato per seguire attraenti menzogne sirèniche.

Certi stolti vedono la critica delle parole qcome unico strumento orientativo per la coscientizzazione di massa ed efficace auspicio (??? ?? .) di cambiamenti. Per costoro questa è “azione politica” ! Stolti !

Viceversa, avviamo seriamente la discussione sul “comunismo possibile”. Un background comune è costituito dall’esperienza storico-politica del proletariato rivoluzionario, dai testi marxiani (in particolare, le opere scritte tra il 1845 e il 1847 e la Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica), leniniani e marx-leninisti sulle tematiche di fondo: “base” (realtà economico-sociale costituita dal sistema materiale di produzione e consumo), sovrastrutture (sistema delle relazioni ulteriori che si generano – bedingt - dalla fondamentale contraddizione capitale-lavoro - ne sono causalmente determinate - a garanzia della riproduzione della formazione economico-sociale dominante), trasformazione collettiva (politica di classe ed organizzazione rivoluzionaria) e fuoriuscita dal modo di produzione e consumo capitalista ed estinzione dello Stato. Questo patrimonio culturale va messo in relazione con l'attuale situazione dell'antagonismo sociale alla “crisi” ristrutturativo-globale del capitalismo delle multinazionali, poiché è sempre in agguato la spinta ideologica degenerativa che vede nella “teoria” un dogma (fantasmi retorici si aggirano tra le fila degli anticapitalisti) e nelle “prassi” sociali della lotta tra le classi una rappresentazione astorica (oscillante tra il poco dignitoso tradeunionismo e velleitarismi insurrezionali). Conseguentemente, saranno approfonditi gli aspetti storici (bilancio del movimento comunista mondiale) e teorico-politici legati alle fasi della transizione, alla “dittatura del proletariato” e al “dominio politico di classe” per meglio definire una strategia politica frutto della convergenza tra conoscenza scientifica e comportamenti sociali coscienti, veicoli realmente efficaci della trasformazione collettiva. Privi di un programma del genere, si realizza solo “cattivo teatro”. Che si parta da uno spazio libero di discussione teorico-politicamente creativa e di condivisione di esperienze antagonistico-sociali e trasformative. Un'impresa collettiva, un invito a fuoriuscire dall'ortodossia democraticista che si auto-riferisce e dalla “miseria della Filosofia”.

Prof. Giovanni Dursi

Docente M. I. di Filosofia e Storia