Premessa Due libri che ho letto di recente e la nuova edizione del festival della letteratura working class organizzato dal collettivo della GKN occupata di Firenze, hanno sollecitato una riflessione sulle differenze fra narrazione e romanzo, un tema peraltro trattato anche nell’intervista a Vincenzo Consolo pubblicata su questo blog. La…

PROMETEO FRA MITO E STORIA

Heinrich Friedrich Füger, Prometeo porta il fuoco all’umanità, 1817

Nel suo contesto mitologico Prometeo è una narrazione molto arcaica, appena successiva a quelle sulle origini del mondo. Figlio del Titano Giapeto e dell’Oceanina Climene, è facile notare come i genitori siano due forze della natura incontrollabili. Egli stesso viene rappresentato come un Titano, ma il personaggio appare ben più complesso perché il suo nome significa – nonostante che ciò sia probabilmente dovuto alla cattiva interpretazione di un termine, come sostiene Graves –1 colui che pensa prima di agire. Questo denota progettualità, un’attitudine che non appare consona a un Titano e che, falsa o meno che sia la sua origine, si manifesta però ampiamente nei suoi comportamenti. Tuttavia, come spesso accade con i miti, essi si ricordano solo per alcuni particolari che hanno colpito l’immaginazione, ma che rischiano anche di ridurre la portata dei personaggi e delle narrazioni. Prometeo, nella vulgata che tutti conoscono, è colui che ha rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo fu punito da Zeus. La storia è meno lineare, proprio a cominciare dalla sua relazione con Zeus; per questa ragione, in nota, riporto la narrazione intera del mito stesso con l’indicazione di tutte le fonti consultate al proposito.2 Prometeo è un rivoluzionario e questo spiega l’attrazione di Marx per il personaggio, ma anche tale definizione gli va stretta; oppure, dipende dall’estensione da attribuire al termine rivoluzionario. Egli sa tenere testa al potere supremo di Zeus, cerca pure di rovesciarlo, ma sa accettare anche il compromesso. Prometeo, specialmente in alcuni momenti, è la politica al livello massimo della sua nobiltà, ma il suo scontro con Zeus si conclude con un sostanziale pareggio: egli viene liberato, ma la vicenda non si conclude con il rovesciamento rivoluzionario delle gerarchie olimpiche e questo lascia a noi umani il compito di scegliere fra opzioni diverse rispetto alla questione del potere, che è un’altra delle problematiche che il mito solleva. Prometeo, dunque, non è solo la tecnologia, anche se questa è stata la valenza dominante e il modo in cui è stato recepito nella modernità; con il rischio però di considerarla tendenzialmente buona in sé o almeno neutra e neutrale. Rimane però il fatto che rubare il fuoco per darlo agli umani è prima di tutto un atto politico d’insubordinazione.

Ecco come Marx si occupa di lui nella sua tesi di laurea:

La confessione di Prometeo: (“francamente, io odio tutti gli dèi”) è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l’autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dei Ermete:(“io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedele messaggero esser di Giove”)3

Il modo in cui ne scrive parla da solo: Marx, coglie la determinazione rivoluzionaria di Prometeo, ignora il furto del fuoco e valorizza la sprezzatura nei confronti della divinità suprema e il valore civile della filosofia, che è prerogativa degli umani. Questo aspetto del mito verrà reiterato nei momenti in cui Prometeo si prenderà gioco di Zeus. Marx sembra dunque accogliere il mito, in primo luogo, per rivendicare la libertà dal vincolo religioso. La narrazione del mito, tuttavia, dice anche altro. Prometeo non riesce a rovesciare il potere supremo di Zeus, ma tutto quello che ha voluto fare per il genere umano è stato compiuto e i doni sono il fuoco, l’architettura e la lavorazione dei metalli e dunque non solo la tecnologia ma anche le scienze e in uno spettro molto ampio: l’architettura confina con l’arte. Tuttavia, a Marx sembra sfuggire la parte finale del mito e cioè l’assunzione di Prometeo fra gli immortali, atto che crea una connessione del tutto imprevedibile ma assai vistosa fra divinità e tecnologia: una conseguenza assai densa di futuro infausto per noi. Il riferimento a Prometeo manterrà nello sviluppo dell’opera marxiana, una forte dose di ambivalenza. La convinzione che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato di per sé alla rottura dei rapporti di produzione si pone in termini deterministi e prometeici, mentre nel discorso sul general intellect, se lo s’intende dal punto di vista politico e cioè come telos rivolto all’autogestione da parte dei produttori e della società nel suo insieme (l’idea di una umanità socializzata evocata nella decima tesi su Feuerbach), il determinismo scompare, oppure è fortemente limitato e l’esaltazione della potenza lascia spazio invece alla cooperazione. Lasciamo a Marx le sue oscillazioni e domandiamoci: possiamo avere noi il medesimo atteggiamento di fronte ai disastri naturali e sociali causati dal sistema capitalistico, che vediamo ogni giorno? Non possiamo più e questo implica la rinuncia a qualsiasi forme di prometeismo intesa come lo è stata in passato, anche nell’esperienza storica del socialismo reale.

In che modo però Prometeo come mito e personaggio è stato accolto dalla cultura occidentale? In nota riassumo rapidamente i diversi modi in cui la sua azione è stata considerata, mentre prenderò in considerazione per esteso soltanto il Prometeo di Goethe, con una precisazione: la sola traduzione in italiano che io abbia trovato è quella di Baioni del 1967. 4 Sarebbe auspicabile che qualcun altro lo faccia. Il testo cui faccio riferimento è dunque quello facilmente reperibile anche in rete, spesso con l’originale in tedesco.

Copri il tuo cielo, Giove,

col vapor delle nubi!

E la tua forza esercita,

come il fanciullo che svetta i cardi,

sulle querce e sui monti!

 Ché nulla puoi tu

contro la mia terra, contro questa capanna,

che non costruisti,

contro il mio focolare,

per la cui fiamma tu

mi porti invidia.

Io non conosco al mondo

nulla di più meschino di voi, o dèi.

 Miseramente nutrite

d’oboli e preci

la vostra maestà

ed a stento vivreste,

se bimbi e mendichi

non fossero pieni

di stolta speranza.

Quando ero fanciullo

e mi sentivo perduto,

volgevo al sole gli occhi smarriti,

quasi vi fosse lassù

un orecchio che udisse il mio pianto,

un cuore come il mio

che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò

contro la tracotanza dei Titani?

Chi mi salvò da morte,

da schiavitù?

Non hai tutto compiuto tu,

sacro ardente cuore?

E giovane e buono, ingannato,

il tuo fervore di gratitudine

rivolgevi a colui che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?

Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?

Hai mai calmato le lacrime di me ch’ero in angoscia?

Non mi fecero uomo

il tempo onnipotente

e l’eterno destino,

i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.4

Il testo di Goethe è a mio avviso equamente distante da tutte le interpretazioni più canoniche del mito, citate nella nota precedente. Non so dire se i suoi versi in tedesco siano della stessa efficacia e bellezza di altre sue liriche e forse l’inesistenza di traduzioni recenti potrebbe far pensare che non si tratti dell’opera poetica più riuscita di Goethe; tuttavia, in questa mia riflessione vi è una oggettiva prevalenza del significato simbolico da attribuire alla sua figura mitologica e il testo di Goethe mi sembra a questo proposito sorprendente e anomalo. La prima scelta sorprendente è di far parlare Prometeo, perché in fondo ciò che colpisce nelle altre rappresentazioni è proprio il suo silenzio. Anche nei ritratti in cui è rappresentato dolorosamente angariato dall’aquila, Prometeo sembra quasi assente. Eroe o demone, oppure angelo ribelle a seconda delle interpretazioni, nonostante sia sempre presente in scena, tutto quello che possiamo dedurre del suo pensiero, lo si evince dai gesti e dai comportamenti: anche quando usa la parola – i suoi avvertimenti a Epimeteo per esempio – questa viene riportata da altri. Il tono della voce, nel testo di Goethe, oscilla fra indignazione e dolenza, dolore e invettiva. Il Prometeo di Goethe rifiuterebbe di essere accolto fra gli dei e infatti non vi è alcun cenno a questo nel testo. Vero uomo ma non vero dio, il Prometeo goethiano si distanzia dal tema eroico senza per questo diventare un antesignano degli anti eroi di cui sarà piena la letteratura novecentesca. Rimane un’ultima considerazione e cioè se l’invettiva che Goethe gli fa pronunciare sia nei confronti degli dei olimpici ma risparmi il dio cristiano. Il richiamo all’indifferenza rispetto alle sofferenze umane mi sembra del tutto riferibile anche a quest’ultimo. Goethe però non anticipa la morte di dio nietzschiana, mi sembra piuttosto che tutto il testo sia la dolente constatazione che lo spazio di dio è ormai uno spazio vuoto, che l’umanità se vuole salvarsi devo farlo da se stessa, senza bestemmiare la vita. Mi sembrano decisivi a questo proposito i versi finali che riporto di nuovo  qui di seguito:  

Credevi tu forse

che avrei odiato la vita,

che sarei fuggito nei deserti

perché non tutti i sogni

fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini

a mia immagine e somiglianza,

una stirpe simile a me,

fatta per soffrire e per piangere,

per godere e gioire

e non curarsi di te,

come me.  

Joseph Karl Stieler, Ritratto di Johann Wolfgang Goethe, 1828

1 Robert Graves, Miti greci, alla voce Prometeo e Atlante: disponibile anche in rete in formato pdf.

2 Mi sono prioritariamente rifatto all’autorevolezza di Robert Graves, ma anche ad altre fonti, riportate nella Treccani, oppure da Graves medesimo nelle sue note. Come tutte le scelte è discutibile, la motivazione che mi spinge a ritenere la ricerca di Graves fondamentale, è il suo rigore da mitografo nel riportare tutte le versioni conosciute di un mito, con pochi ed essenziali commenti, che lasciano a chi legge le interpretazioni possibili e le ulteriori riflessioni. Le altre fonti principali, peraltro sempre citate anche da Graves, sono indicate di volta in volta. I miei commenti e note redazionali sono in tondo.  

Da un’unione tra il Mare e i suoi Fiumi nacquero le Nereidi. Non esistevano però uomini mortali; finché Prometeo, figlio di Giapeto, con il consenso della dea Atena, non li formò a immagine e somiglianza degli dei impastando la creta con l’acqua del Panopeo, fiume della Focide; Atena soffiò in essi la vita. Prometeo, il creatore del genere umano, che taluni includono nel numero dei Titani, era figlio della Ninfa Climene e del Titano Eurimedonte, oppure di Climene e Giapeto; suoi fratelli erano Epimeteo, Atlante e Menezio. II Gigante Atlante, il maggiore dei fratelli conosceva tutto quanto si cela negli abissi del mare; il suo regno si estendeva lungo una zona costiera scoscesa, più vasta che l’Asia e l’Africa messe assieme. La terra di Atlante giace al di là delle Colonne di Eracle e una catena di isole feraci la separa da un continente più lontano, che non è unito ai nostri …

Prometeo non agisce senza il consenso Atena anche se l’idea di creare il genere umano è sua, secondo questa versione; il particolare è assai interessante, come vedremo meglio nel prosieguo. Il racconto che segue, cioè la leggenda di Atlante, peraltro ben nota perché riferita anche da Erodoto, riguarda marginalmente i temi qui trattati, se non per un particolare che viene evidenziato alla fine, cioè quando si compie la sconfitta dei Titani ribelli. Così prosegue Graves:   

Prometeo, che era più saggio di Atlante, previde come sarebbe finita la rivolta dei Titani e preferì dunque schierarsi dalla parte di Zeus, inducendo Epimeteo a imitare il suo esempio. Prometeo era, in verità, il più intelligente della sua razza; aveva assistito alla nascita di Atena dalla testa di Zeus e la dea stessa gli insegnò l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione e altre utilissime, che egli poi a sua volta insegnò ai mortali.

 Da questo passaggio si può capire come la capacità politica sia in Prometeo particolarmente acuta, in ogni momento della sua vicenda e sufficiente per dire che il pensare prima di agire sia effettivamente una costante del suo carattere, anche nei momenti in cui sembrerà il contrario. Non è un rivoluzionario astratto, sa destreggiarsi e anche creare il necessario consenso intorno a sé, riconosce l’importanza dei rapporti di forza, ma questo non gli impedisce di giocare le sue carte, a volte anche con ironia, come quando inganna Zeus, usando un trucco persino banale. Da questo momento in poi la narrazione diviene però meno lineare a causa delle interpolazioni che Graves spiegherà più avanti.

Ma Zeus, che aveva deciso di distruggere l’intero genere umano ed era stato distolto da tale proposito soltanto dall’intervento di Prometeo, s’irritò nel vedere gli uomini divenire sempre più esperti e potenti.

Anche in questo caso, egli esercita l’arte della mediazione piuttosto che quella del rovesciamento rivoluzionario.

Un giorno, nella piazza di Sicione, si accese una discussione a proposito delle parti di un toro sacrificato che si dovevano offrire agli dei, e delle parti che gli uomini potevano riservare per sé. Prometeo fu invitato a fare da arbitro. Egli allora scucì e smembrò il toro e ricucì la sua pelle in modo da formarne due grandi sacche, che riempì con le varie parti dell’animale. Una sacca conteneva tutta la carne, ma ben nascosta sotto lo stomaco, che è il boccone meno appetitoso, e l’altra conteneva le ossa, nascoste sotto un bello strato di grasso. Quando le presentò a Zeus perché scegliesse l’una o l’altra. Zeus si lasciò trarre in inganno e scelse la sacca con il grasso e le ossa (che da quel giorno rimasero la porzione degli dei) ma punì Prometeo, che rideva di soppiatto, privando gli uomini del fuoco. «Che mangino la loro carne cruda!» gridò. Prometeo si recò subito da Atena e ottenne che essa lo facesse entrare di nascosto nell’Olimpo. Appena giunto, accese una torcia al divampante carro del Sole e ne staccò una brace ardente, che pose poi entro il cavo di un gigantesco gambo di finocchio. Spenta la torcia, sgattaiolò via senza che alcuno lo vedesse e ridonò il fuoco al genere umano .

Questo passaggio è molto importante e la burla va sottratta alla sua apparente banalità, anche perché altre versioni presentano qualche contraddizione rispetto a questa e sembra che ci sia in questa ricostruzione la sovrapposizione di vicende diverse, come Graves peraltro avverte. L’intento di Prometeo è di dimostrare che gli dei, a cominciare da Zeus, sono in realtà le paure degli esseri umani e questo è l’aspetto di Prometeo che suscitava l’entusiasmo di Marx. Tuttavia, un altro particolare importanza è l’alleanza di fatto che nei momenti più decisivi, Prometeo trova in Atena. Principio femminile che si contrappone a Zeus? Per niente poiché Atena è nata dalla testa del padre e se mai rappresenta l’ambivalenza del maschile di cui Prometo è abile a servirsi ogni volta che lo deve fare. A questo punto, però, la storia s’ingarbuglia ancora di più:

Zeus giurò di vendicarsi. Ordinò a Efesto di fabbricare una donna di creta, ai quattro venti di soffiare in essa la vita, e a tutte le dee dell’Olimpo di adornarla. Codesta donna, Pandora, fu la più bella del mondo e Zeus la mandò in dono a Epimeteo, scortata da Ermes. Ma Epimeteo, che era stato ammonito da suo fratello di non accettare doni da Zeus, cortesemente rifiutò. Sempre più infuriato. Zeus fece incatenare Prometeo, nudo, a una vetta del Caucaso, dove un avido avvoltoio gli divorava il fegato tutto il giorno, un anno dopo l’altro; e il suo tormento non aveva fine, poiché ogni notte (mentre soffriva crudelmente per i morsi del freddo) il fegato gli ricresceva.

Zeus non affronta Prometeo direttamente e questo significa che lo teme. Il tentativo di sconfiggerlo tramite Epimeteo, però fallisce e questo particolare è più importante di quella parte della narrazione che riguarda Pandora, anche perché la connessione fra i due miti appare forzata e lo vedremo meglio subito dopo. Non è per nulla evidente perché proprio Pandora avrebbe dovuto ingannare i due fratelli. Il mito di quest’ultima andrà preso in considerazione in sé per quello che significa da un punto di vista della codificazione patriarcale, ma rispetto al nostro argomento sia l’atteggiamento prudente di Zeus, sia l’ammonizione di Prometeo a Epimeteo, sono ben più decisive. Così prosegue Graves:

Zeus, non volendo ammettere di aver dato sfogo al suo desiderio di vendetta, cercò di giustificare la propria crudeltà facendo circolare una falsa voce: e cioè che Atena aveva invitato Prometeo sull’Olimpo per un segreto convegno amoroso. Epimeteo, angosciato per la sorte di suo fratello, si affrettò a sposare Pandora, che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella. Subito essa aprì il vaso che Prometeo aveva affidato a Epimeteo raccomandandogli di tenerlo chiuso, e nel quale si trovavano tutte le Pene che possono affliggere l’umanità: la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. Subito esse volarono via a stormo e attaccarono i mortali.

Ancor più di prima la connessione fra i due miti non appare affatto necessaria: che nesso c’è fra la punizione inflitta a Prometeo e la decisione di Epimeteo di sposare Pandora? D’accordo, Epimeteo è un avventato e infatti il suo nome significa colui che pensa dopo avere agito,  ma ci sono troppe contraddizioni e persino sull’apertura del vaso esistono due versioni. In una è proprio lui – Epimeteo – ad aprirlo e non Pandora. Insomma, un guazzabuglio, rispetto al quale tuttavia, ancora una volta Prometeo ne esce bene: è lui ad avvisare il fratello di custodire il vaso senza aprirlo. Le incongruenze nascondono sempre qualcosa di grosso che c’è eccome ed è proprio Graves ad affermarlo nella sua nota numero 8. La leggenda Prometeo, Epimeteo e Pandora, narrata da Esiodo, non è il mito originale ma una favola antifemminista inventata da Esiodo stesso, benché si ispiri alla leggenda di Demofoonte e Fillide. Il vaso di Pandora, in origine, conteneva anime alate. La rivolta dei giganti, di cui il mito di Prometeo è la parte successiva, è narrata essenzialmente da Apollodoro, Pausania e Diodoro Siculo. Euripide scrisse una tragedia dal titolo i Ciclopi. Altre fonti si ritrovano nell’Odissea, Eschilo scrisse una tragedia sul tema ma è andata perduta.

Fra le fonti autentiche citate Esiodo non c’è proprio e, in effetti, egli è poi il primo di una lunga tradizione misogina. Probabilmente il mito di Pandora andrà visto nella sua autonomia rispetto a quello di Prometeo, cercando se mai successivamente intrecci possibili. Il finale di questa parte della narrazione, tuttavia, merita attenzione perché in realtà i finali sono due e la differenza non è da poco. Vediamoli entrambi di seguito.

Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio. (tutti si riferisce al genere umano ndr.)

Solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente rinchiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

La prima delle due versioni attribuisce a una scelta di Prometeo l’avere inserito anche la speranza nel vaso, ma subito dopo ecco la diffamazione nei suoi confronti: seppure in modo obliquo. La speranza sarebbe solo un inganno per il genere umano, ma è lui Prometeo ad averla messa nel vaso e quindi ad averli ingannati. Ora che sappiamo che tutta la vicenda di Pandora va rivista in altro modo e contesto, rimane il tentativo di usarla nel finale per minimizzare l’opera di Prometeo. La seconda versione più neutra, rivaluta la speranza assegnandole un valore positivo. Con la chiusura di questa parte assai accidentata, torniamo alla narrazione principale. Avevamo lasciato Prometeo nel momento in cui, grazie alla complicità di Atena, ridona il fuoco all’umanità e sempre grazie a lei aveva acquisito anche altre abilità, dall’architettura alla lavorazione dei metalli, che aveva di nuovo donate agli umani. Così prosegue la narrazione principale:

Alla fine, non vi erano più qualità da assegnare al genere umano, ma Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria  che donò agli umani. Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli e non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature; inoltre considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

Questo finale appare più realistico nell’indicare le ragioni per cui Zeus decide di punire Prometeo: gli umani sono diventati troppo potenti, grazie a lui, mentre l’ordine degli dei o del solo Zeus era diverso, lasciare gli umani in una sorta di perenne minorità. La parte finale del mito, Graves la lascia ad altri autori, prima di tutto a Eschilo che racconta nel Prometeo liberato che fu Eracle a trafiggere con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene. Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo Apollodoro, durante un incontro tra Chirone  ed Eracle, alcuni centauri  attaccarono l’eroe che per difendersi usò frecce avvelenate da cui non si poteva guarire. Chirone venne inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

3 La tesi di laurea di Marx è facilmente reperibile in rete, la citazione in oggetto è riportata su diversi siti.

4 La tesi di laurea di Marx è del ’41 e si inserisce in un contesto in cui il dibattito su Prometeo è assai intenso. Tendenzialmente i romantici lo avevano rifiutato, tranne Shelley, la cui interpretazione è vicina a quella di Marx. Leopardi lo considera uno sconfitto, dal momento che si era fidato di una imperfezione: l’uomo stesso. Tuttavia è con la generazione successiva ai romantici che Prometeo comincia ad essere apprezzato come costruttore di civiltà, cui si oppone invece la reazione religiosa che lo vede come Satana, l’Angelo ribelle. Prevale sempre di più la prima ipotesi, anche perché il positivismo ne fa facilmente un proprio eroe. Il ‘900 non apporterà grandi modifiche a questa declinazione del mito se non nel caso della scrittore svizzero Carl Splitter che accentua i caratteri roussoviani del mito, rappresentando Prometeo come il ribelle che risponde soltanto alla propria coscienza e si batte contro le ipocrisie della morale comune. Infine Gide che lo attualizza e lo vede tormentato dalla propria coscienza piuttosto che dall’aquila che gli rode il fegato.

4 Johann Wolfgang Goethe – Prometeo (poema: Prometheus) (trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi, 1967)

INTERVISTA A VINCENZO CONSOLO

A cura di Franco Romanò

Premessa

Questa intervista fu pubblicata sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti nel 2008: ad essa seguirono altri incontro pubblici cui partecipò lo stesso Consolo allo Spazio Coop di via Arona. La ripropongo oggi nel blog per la sua ricchezza e attualità, con due precisazioni. Nella mia introduzione di allora notavo che molti dei suoi libri erano introvabili: per fortuna oggi la situazione è cambiata e questa è una buona notizia. La seconda precisazione. Nella parte finale, pur senza citarlo Consolo mette in evidenza i cambiamenti negativi indotti dal governo Berlusconi. Nel contesto di allora la sua frase era chiarissima, oggi è forse bene ricordarlo in modo esplicito.

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Mi accingo a incontrare Vincenzo Consolo con due pensieri in testa: prima di tutto che i suoi libri sono quasi introvabili, a parte quello d’esordio – La ferita dell’aprile – ristampato di recente da Mondatori. Per fortuna li avevo quasi tutti, e per qualcuno sono ricorso ad amici, ma mi sembra un cattivo segno dei tempi che si faccia fatica a trovare in libreria un autore che ha dato così tanto alla narrativa italiana. Il secondo pensiero riguarda la lingua. Nel prepararmi a intervistarlo mi sono ricordato di un saggio che T.S.Eliot dedicò in anni lontani alla poesia di Marianne Moore: in esso il grande poeta anglo statunitense afferma, fra l’altro (ricordo a memoria), che un poeta va prima di tutto valutato rispetto a quello che ha dato alla lingua d’appartenenza. Penso che questo sia estendibile anche ai narratori e nel caso di Vincenzo Consolo il giudizio di Eliot è quanto mai calzante e di bruciante attualità. Il poeta, infatti, avvertiva già in quegli anni lontani, che l’inglese correva il pericolo di un impoverimento dovuto alla sua estensione planetaria come lingua veicolare, sottoposta quindi a un processo di semplificazione e di impoverimento. Per ragioni diverse anche le altre lingue – e quella italiana in particolare – sono oggi minacciate (sebbene da altri e ben più distruttivi fattori) e questo sarà proprio uno dei temi dell’intervista.

Lo scrittore mi riceve nella sua bella casa milanese; l’ampio salone è pieno di libri e al tempo stesso molto luminoso, due caratteristiche che non sempre vanno a braccetto quando si entra nello studio di un artista della parola; chissà che la solarità della sua terra non abbia a che fare con questo! Entriamo subito in argomento e gli ricordo una frase contenuta in Fuga dall’Etna:

Franco Romanò:

Vorrei partire da questa sua affermazione: “Mi sono sempre sforzato, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna il Carr, credo nel romanzo storico ideologico,… cioè nel romanzo critico.” È una dichiarazione del ’93: ha qualcosa da aggiungere, o da modificare, a tale affermazione?

Vincenzo Consolo:

No, sono convinto di questa mia idea del romanzo storico metaforico, critico e nel momento stesso anche ideologico. Quanto alla parola romanzo, però, credo che oggi questo genere letterario non si possa più praticare; io parlo di narrazione piuttosto. Credo che il romanzo d’intreccio, oggi, non sia più possibile perché una volta l’autore aveva presente qual era il suo interlocutore. Si facevano persino delle indagini e si chiedeva agli scrittori a quale tipo di lettore pensavano. Una volta Calvino rispose alla domanda dicendo che pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui ed era assai difficile saperla più lunga di Calvino! Comunque c’era un lettore cui lo scrittore poteva pensare. Oggi in questa nostra società non è possibile pensare a un lettore e allora occorre spostarsi verso la narrazione…

FR:

E come si potrebbe definire la narrazione?

VC:

La narrazione scaturisce da qualcuno che ha fatto un’esperienza, ritorna e la racconta, come ha scritto Walter Benjamin in Angelus Novus. Il fatto di raccontare, di narrare, lo porta a un ritmo che sposta la prosa verso la forma poetica. È quello che ho cercato di fare nei miei libri, dove non c’è mai l’arresto, la riflessione, l’irruzione di quello che si chiama spirito socratico e cioè la filosofia, come era nella tragedia moderna di Euripide. Oggi questo non è possibile perché l’autore non sa più a chi rivolgersi. Io dico sempre che la cavea è vuota. Sulla scena non arriva più l’anghelos, il messaggero, che raccontava al pubblico presente ciò che era successo in un altro luogo e in un altro tempo. Così aveva inizio la tragedia. L’anghelos per me è lo scrittore che non può più apparire sulla scena e la narrazione è relegata al coro, che commenta e lamenta ciò che è avvenuto. Sono quindi per la narrazione e non più per il romanzo, tutti i miei libri di narrativa sono contrassegnati da questa prosa ritmica, a volte con il ricorso spesso alla rima e all’assonanza; questo è stato notato da diversi critici.

FR:

Andare verso la prosa lirica e la narrazione non è forse andare anche verso l’oralità, verso un senso arcaico della narrazione?

VC:

Sì, è anche tipico del mondo mediterraneo. Ce lo hanno insegnato gli aedi, Omero o chi è stato identificato come tale. Fra l’altro gli aedi erano ciechi perché avevano lo sguardo interno. Òmeros, in greco antico, significa ostaggio e ci si domanda ostaggio di chi? Io credo ostaggio della memoria, perché c’era la tradizione del racconto orale. In questo nostro tempo la memoria è minacciata dai mezzi di comunicazione di massa, dal potere economico e politico. L’interesse di questi poteri è di farci vivere in un infinito presente, per cui non sappiamo più da dove veniamo e non riusciamo a immaginare dove vogliamo andare. Quindi io credo che oggi più che mai il poeta, lo scrittore debbano conservare la memoria per cercare di salvarla. Sembra uno sguardo all’indietro ma credo che sia necessario essere ostaggi della memoria e perciò pratico il romanzo storico metaforico. Ho immaginato la trilogia a partire dal 1860 fino ai giorni nostri, ma la metafora era sul tempo storico che stavamo vivendo.

FR:

Quest’idea di romanzo si è affermata subito in lei o si è modificata nel tempo? Nel romanzo d’esordio La ferita dell’aprile, prevale ancora una narrazione più realistica. Gli stessi eventi storici entrano nel libro in modo diverso da come accadrà per esempio nel romanzo successivo Il sorriso dell’ignoto marinaio, che ha pure una forte carattere visionario.

VC:

Sì la visionarietà è una forma di fantasia…

FR:

Qualcuno ha parlato anche di incrocio fra memoria e profezia.

VC:

Sì. Per quanto riguarda il romanzo d’esordio, naturalmente era un libro di ricordi, il tono era ironico e talvolta sarcastico, era una ribellione ai padri e a tutto ciò in cui loro avevano mancato; ma dal primo, uscito nel ’63, al secondo sono passati tredici anni. Il mio silenzio era dovuto al fatto che stavo riflettendo su quella prima esperienza di restituzione dei ricordi personali e anche su quello che sarebbe stato il mio futuro letterario. A cavallo degli anni ’60 Pasolini ci disse cos’era successo in Italia, io avevo studiato molto e quindi ho intrapreso la strada del romanzo storico metaforico dopo la restituzione dei miei ricordi di adolescenza.

FR:

Lei è uno scrittore che ha dato molto alla lingua italiana. Cosa ci può dire su questo, specialmente sulla mescolanza fra l’italiano e i dialetti; cosa questa che mi è sempre apparsa molto interessante.

VC:

Sì, le dicevo che in quegli anni di silenzio avevo riflettuto molto sul momento storico che stavamo vivendo e anche sulla trasformazione della società italiana, quella che Pasolini chiamava la mutazione antropologica, che era anche e soprattutto una mutazione linguistica. La lingua italiana stava diventando orizzontale e anch’io ho sentito l’assillo che hanno tutti gli scrittori da Dante in poi… È sempre l’assillo delle lingua. Anch’io mi sono domandato in quale lingua scrivevo e ritornando in Sicilia con la mia memoria ho capito che lì – un po’ in tutta Italia, ma in Sicilia soprattutto perché c’è stata una stratificazione di civilizzazioni (io non le chiamo dominazioni) – c’erano dei giacimenti linguistici importanti. Ho pensato che andasse recuperata anche la memoria linguistica e quindi anche dei vocaboli che esistono nel dialetto siciliano, ma senza scadere nella regressione dialettale, secondo l’esempio che ci avevano dato il plurilinguismo gaddiano, oppure il romanesco pasoliniano. Io ho pensato che andassero recuperati vocaboli provenienti dall’arabo, dal greco dallo spagnolo e di italianizzarli, farli emergere ma innestandoli sempre nella lingua centrale. Oltre che della mia memoria linguistica mi sono servito dei vocabolari siciliani dei termini arabi nel dialetto siciliano. C’è per esempio un dizionario prezioso di padre Gabriele da Aleppo, sulle parole arabe presenti nel dialetto siciliano. Proprio per un’esigenza di memoria e anche di memoria linguistica, dal momento che questa nostra lingua, a causa della mutazione antropologica, stava perdendo purtroppo quella che Leopardi chiamava l’infinito che aveva in sé. Ecco io credo che sia un dovere dello scrittore, del poeta di recuperare anche la memoria linguistica.

FR:

Infatti leggere un romanzo come Retablo, per esempio, è anche un po’ immergersi in una storia della lingua. Sempre a questo proposito cosa ne pensa dei manifesti in difesa della lingua che periodicamente sono stilati?

VC:

Il manifesto serve come allarme, ma è un po’ una lotta con i mulini a vento. Questa nostra lingua è stata distrutta dai mass media; inoltre l’italiano, diversamente dal francese o dallo spagnolo che hanno dei bacini di parlanti molto vasti, è parlato solo in questa nostra stretta penisola. Siamo invasi continuamente dall’americanismo. Credo che lo scrittore abbia il dovere, al di là dei manifesti, di difendere questa nostra memoria linguistica e sapere cosa ci sta dietro. Una cosa che cerco di fare è anche operare una scrittura palinsestica – così la chiamo – e cioè una scrittura su altre scritture. Nella mia scrittura ci sono sempre citazioni e recuperi di altri scrittori o poeti, a volte più esplicite a volte meno.

Mi ricordo, a questo proposito, la polemica fra Leopardi e Niccolò Tommaseo – che non amava Leopardi – e definì la sua poesia un palinsesto mal cancellato. Il povero Leopardi si offese terribilmente e scrisse un saggio contro Tommaseo; ma la scrittura deve essere palinsestisca!

FR:

Rimanendo alla lingua, anche per lei si può parlare di plurilinguismo…

VC:

Sì qualcuno ha parlato, nel mio caso, anche di plurivocità, nel senso che riporto nella narrazione anche altre lingue. In Sicilia, per esempio, ci sono sette isole linguistiche. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ne riporto una che ancora esiste: il gallo italico o medio latino. Si tratta di una lingua che hanno portato i Normanni con le truppe mercenarie raccolte nella pianura padana: finita la riconquista, come accade agli immigrati, si sono chiusi nella loro comunità e hanno conservato la lingua. Ne parla anche Vittorini in Conversazione in Sicilia, precisamente del gran lumbardo che parlava con la ü francese. Nel finale del libro (Il sorriso dell’ignoto marinaio, ndr.) quando riporto le scritte sul muro dei carcerati, quelli sono esempi nella lingua gallo italica.

FR:
Un programma linguistico più dantesco che manzoniano…

VC:

Certo, certo. Dante parla delle due lingue: quella di primo grado che impariamo in casa e la seconda che lui definisce grammaticale. Lui dice però con un bel ossimoro che la più nobile è la lingua volgare, che era nata in Sicilia.

FR:

Retablo Mi porta a un’altra considerazione. In alcuni momenti mi ha ricordato Fiori blu di Queneau, con una differenza fondamentale però: la qualità pittorica del testo, assente invece in Queneau. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, i protagonisti sono tanti, ma anche in quel caso si parte da Antonello da Messina e dal suo quadro. Ecco, cosa rappresenta per lei la pittura?

VC:

Per me è un’esigenza di equilibrio fra svolgimento nel tempo e lo spazio. Per me la parola, come la musica, si svolge nel tempo, quindi ho bisogno di riferimenti iconografici e pittorici per equilibrare il tempo e lo spazio. Per me l’ispirazione della pittura è costante: a volte esplicita come è nei due romanzi che lei ha ricordato, a volte nascosta. C’è Guttuso e finanche pittori moderni come Ruggero Savinio, il figlio di Alberto. In Nottetempo, casa per casa, c’è tutto un brano in cui io leggo la pittura di Savinio in forma lirica. Sono delle figure che emergono dalle profondità delle spazio, come affreschi appena dissepolti. Mi interessano finanche pittori contemporanei; per esempio, uno che mi ha ispirato un’immagine è Mario Merz. Una volta vidi un quadro proprio in casa editrice Einaudi di cui ero collaboratore: in un suo quadro veniva raffigurata una lumaca che disegnava un tracciato che era una spirale e da lì sono partito.”Vidi una volta una lumaca…”

FR:

Milano e Palermo, Sicilia e Lombardia. C’è una continua tensione fra queste polarità e la sensazione che siano come due patrie dalle quali però lei si sente sempre anche un po’ esule.

VC:

Sì è proprio così, anzi più che esiliato mi sento estraneo negli anni. Ho fatto i miei studi a Milano e poi sono tornato in Sicilia perché avevo già concepito l’idea di diventare scrittore, dopo aver fatto il servizio militare. Avevo una laurea in legge, ma mi sono rifiutato di fare l’avvocato e ho insegnato diritto ed educazione civica nelle scuole agrarie. Ho insegnato per cinque anni e poi, riflettendo, ho pensato che quei ragazzi che si sarebbero diplomati in agraria sarebbero stati costretti a emigrare come i loro padri. Le racconto un episodio che non posso più dimenticare. Insegnavo nei monti Nebrodi, a Mistretta e Caronìa, che era poi l’antica Calacte… Mi colpì a Caronìa il numero di suicidi di donne che si era verificato in questo piccolo paese. Erano donne il cui marito era emigrato: la solitudine, lo sconforto le aveva portate a quel gesto. Riflettendo sulla loro vicenda anche la scuola mi sembrò una finzione. Consigliai molti di andare nelle scuole alberghiere, dove almeno avevano uno sbocco e non erano costretti a emigrare; alcuni l’hanno fatto. Poi però dopo cinque anni sono stato io a fare le valigie e a emigrare. Mi consigliai con due persone: Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo. Quando ero libero andavo a Caltanissetta a trovare Sciascia e stavo lì dei giorni. Con Piccolo, invece, l’accordo era che andavo a trovarlo tre volte la settimana. Per me sono stati due riferimenti importanti. Ho anche fatto in modo di farli incontrare perché entrambi mi dicevano sempre di salutare l’altro. Sciascia una volta ha dichiarato che le due persone che più l’avevano colpito, fra le molte incontrate, erano Borges e Lucio Piccolo. Piccolo aveva una cultura sterminata. Mi diceva venga venga Consolo, che facciamo conversazione: la conversazione era che parlava sempre lui e io ascoltavo.

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Ho imparato molto. Insomma mi consigliai con loro e Piccolo mi disse no, no, non vada via perché quando si è lontani dai centri si ha più fascino. Lui parlava da barone che viveva isolato nella sua villa di campagna. Sciascia invece mi disse che se fosse stato giovane come me e non avesse avuto la famiglia, se ne sarebbe andato anche lui perché – mi disse – “qui non c’è più speranza.” Per me l’unica città possibile era Milano, ma quando tornai non la riconoscevo più. C’era stato il miracolo economico e ora c’era il ’68 e quindi molti fermenti. Si parva licet, ho avuto nei confronti di Milano lo stesso atteggiamento che ebbe Verga quando si trovò a Milano nel 1872, nel momento della prima rivoluzione industriale. Verga rimase spiazzato perché era un mondo che non conosceva e di cui gli mancava memoria e lingua. Però da quell’esperienza nacque la grande conversione verghiana. Anch’io rimasi spiazzato e quindi ho riflettuto su questa realtà milanese e su quello che stava accadendo. Da tutto questo nacque Il sorriso dell’ignoto marinaio, a tredici anni dal primo libro. Non sono tornato fisicamente in Sicilia come Verga, ma con la memoria sì.

FR:

Il Risorgimento è molto presente nei suoi libri e anche nelle opere di molti scrittori siciliani. Mi ha colpito molto il bassissimo profilo delle commemorazioni garibaldine.

VC:

C’è questa regressione verso i localismi e l’individualismo. Le racconto un episodio successo a Capo d’Orlando. Durante una manifestazione pubblica il sindaco ha fatto togliere da una piazzetta del paese la targa con il nome di Garibaldi, intitolandola poi al 4 di luglio. La data si riferisce a una battaglia navale che ci fu nelle acque di Capo d’Orlando fra arabi e normanni. L’anti italianismo è ormai dilagante. Il signor Lombardo, attuale Presidente della Regione Sicilia, ha chiamato Autonomia siciliana il suo movimento; ma la Sicilia è già una regione autonoma, lui intendeva un’altra autonomia e infatti ha fatto riferimento anche alla Lumbardia di Bossi. Siamo alla regressione, alla stupidità e all’ignoranza. Non capire cosa è stato questo evento memorabile che fu l’unificazione d’Italia, per cui morirono eroi e persone degnissime è molto grave. Garibaldi riuscì davvero a compiere il miracolo di unire questo paese campanilistico; che era poi il sogno dei grandi italiani da Virgilio a Dante a Machiavelli. Questa regressione localistica è tipica dei momenti bui della storia. Il Risorgimento aveva acceso molte speranza. Garibaldi era un socialista mazziniano, poi capì che l’unità era più importante, ma comprese che le cose non erano andate secondo le speranze e lui prese la via dell’esilio. Da quello scaturirono anche le rivolte, le vendette nei confronti di quelli che erano stati gli oppressori, i famosi gattopardi, i proprietari terrieri… La prima rivolta fu quella di Alcara di cui parlo nel mio romanzo. Non lo dico nel libro ma risulta che dopo avere domato la ribellione di Alcara gli emissari si spostarono a Bronte.

FR:

Infatti gli episodi sono molto simili.

VC:

Sì, sì, tutta la letteratura siciliana poi ha affrontato questo tema perché è un nodo cruciale. Da Verga a De Roberto. Con I vicerè De Roberto ci ha fatto capire cosa sia il trasformismo, fino a Pirandello e al nostro Lampedusa. Tutti hanno affrontato questo momento importante della storia nazionale .

FR:

Sciascia è stato per lei un punto di riferimento, ma nella sua narrativa e anche nella sua prosa, che non è mai del tutto disgiunta dalla narrazione, io trovo un riferimento anche alla tradizione europea del romanzo saggio e non solo a Sciascia.

VC:
Sì, il romanzo saggio; forse questo c’è di più in L’olivo e l’olivastro, la cui matrice, tuttavia, si trova nel nostos, il viaggio di ritorno, che è assolutamente antico. Colui che l’ha riproposto e insegnato di nuovo è stato Vittorini con Conversazione in Sicilia, che è un viaggio nella terra delle madri e della memoria, anche se poi se ne allontana di nuovo, sollecitato anche dalla madre stessa che lo esorta a fare il suo mestiere di tipografo e compositore di parole, cioè il suo dovere di intellettuale. Pensi che nel 1941 sono usciti contemporaneamente Conversazione in Sicilia e Don Giovanni in Sicilia di Brancati, che sono di segno opposto. In Vittorini c’è la rivisitazione del profondo della memoria e poi il ritorno ai suoi doveri di intellettuale. In Brancati c’è la regressione. Quando Giovanni Percolla ritorna dalla madre e dalle sorelle, mangia e poi si mette a letto a un certo punto afferma: “Un’ora di sonno è stata come un’ora di morte.” Il personaggio di Brancati rimane di nuovo prigioniero delle viscere materne.

FR:

Beh ci sta dietro il mito della grande madre mediterranea…

VC:

È curioso come tutta la nostra narrativa, a parte i grandi poemi come L’orlando Furioso e altri che hanno una geografia straordinaria, il romanzo dell’800 da Manzoni in poi, si svolge sempre in piccoli centri, nella piccola città, quel ramo del lago di Como, piuttosto che Vizzini o Acitrezza. Chi inaugura per la prima volta il movimento è proprio Vittorini e questo scaturiva anche dal rapporto che lui aveva con la letteratura americana. La letteratura inglese e americana è contrassegnata dal viaggio, dal movimento.

FR:

Lei è considerato un autore dal forte impegno civile; tuttavia, seguendola in alcune presentazioni mi ricordo anche il suo fastidio costante rispetto a una retorica dell’impegno. Cosa pensa dello scrittore che si impegna direttamente in politica, pensando anche all’esperienza di Sciascia stesso.

VC:

Mi sembrò allora a quel tempo da parte di Sciascia fosse doveroso accettare l’invito. Lui mi raccontò che dopo la sua elezione al Comune di Palermo, insieme a Guttuso e poi dopo le dimissioni, tutti lo invitarono a entrare nei rispettivi partiti. Lui accettò il radicale e mi disse che lo aveva fatto perché era il meno partito di tutti. Anch’io ebbi un invito in anni lontani a presentarmi al Senato per il PCI. Il segretario del partito mi telefonò dicendomi “ti devi presentare” e al mio rifiuto motivato con il fatto che dovevo lavorare mi disse “è un  tuo dovere”; ma io risposi che il mio dovere era quello di scrivere. Tuttavia penso che lo scrittore, come dice Roland Barthes, ha a disposizione anche la scrittura d’intervento, sui giornali, per esempio. Tutti i grandi l’hanno fatto: da Zola, che è stato il maestro con l’Affaire Dreyfus, a Pasolini, Moravia e Sciascia ecc. Io ho sempre praticato la scrittura d’intervento, ho scritto per L’ora di Palermo, l’ Unità, per Il Corriere della sera. Però la spettacolarizzazione mi disturba molto. Anche la manifestazione di Piazza Navona del giugno scorso, non mi è piaciuta, siamo all’indecenza. Gli intellettuali sono diventati i comici, oppure gli scrittori che fanno spettacolo. Purtroppo, se vivessero oggi, Pasolini, Sciascia, Moravia, non avrebbero più lo stesso impatto. I giornali sono in crisi , le case editrici sono in crisi, il nostro è un popolo che non legge più. Io ho definito quello italiano un popolo telestupefatto… È un’espressione che hanno ripreso in Francia: lo ha fatto Christian Salmon nella sua rubrica su Le Monde. Questo dei mass media e della televisione in particolare è stato una specie di tsunami provocato da questo signore che oggi è il capo del Governo. Anche il suo consenso è dovuto a questo mezzo di distruzione di massa che è la televisione, che è quanto di più volgare, stupido e ignorante che si possa immaginare.

FR:

Cosa c’è nei suoi programmi futuri?

VC:

È difficile parlare di programmi futuri. Sono tanti anni che taccio e non pubblico, scrivo di nascosto e nascondo. Ho un progetto di romanzo storico-metaforico che riguarda una storia di Inquisizione. Ho trovato dei documenti presso la biblioteca di Simancas in Spagna; naturalmente si svolge sempre in Sicilia e mi sembra che in questo momento di fondamentalismi religiosi di ogni tipo che rischiano di diventare teocrazie, che sono momenti terribili della storia umana, mi sembra che sia una storia da raccontare. Quando la smetterò di fuggire mi devo sedere a tavolino a scrivere questo libro.

INTORNO A PROMETEISMO E TRANSUMANISMO

Recentemente il termine prometeismo è tornato in auge insieme a un altro di conio più recente: Antropocene. In merito al primo termine, alcuni studiosi hanno proposto una lettura che, partendo dal mondo preistorico, individua due diverse forme di prometeismo: la prima volta alla distruzione l’altra positivamente orientata.1 Il quadro che ne esce, tuttavia, è altrettanto problematico, perché individuare due tendenze opposte (lo sdoppiamento) rischia di essere un’operazione d’inutile buon senso al punto in cui ci troviamo; così come il ripetersi a ogni occasione che la tecnologia può essere buona o cattiva e dipende da come la si usa. Rimanere dentro tale senso comune non può più aiutarci a comprendere il presente. L’emergenza climatica, il rischio di ripetersi di pandemie innescate dallo spillover, a sua volta agevolato dagli allevamenti intensivi, non permettono più di considerare il prometeismo nei suoi aspetti positivi, se non evidenziandone valenze diverse rispetto a quelle storicamente valorizzate, tutte incentrate sull’esaltazione della potenza. Ancor peggio, poi, se lo scontro fra le due tendenze viene accolto come una sorta di sfida fra due diversi titanismi. Il prometeismo è diventato un vicolo cieco, sebbene il mito da cui deriva e il personaggio Prometeo, meritino una riflessione assai più attenta a partire dall’opera di Mary Shelley a lui dedicata, Frankenstein, or the modern Prometheus. L’importanza dell’opera di Shelley sta nel mettere in scena un Prometeo che non vuole più dare agli umani gli strumenti per poter vivere meglio, ma vuole creare una seconda natura con le proprie mani. La differenza fra l’opera di Mary Shelley e le distopie proposte da altri autori, specialmente quelle che verranno scritte in pieno ‘900, è che lei è la sola a non manifestare alcun ammiccamento o collusione fascinosa con la tematica oggetto del romanzo. Il suo intento sono la denuncia e la paura, che non si ritrovano invece in molti romanzi successivi, in cui l’autore di fatto collude con la distopia che mette in scena e in alcuni casi addirittura esibisce in modo narcisistico il proprio cupio dissolvi. Pubblicata nel 1818, Shelley modificò in parte il romanzo nel 1831 quando uscì la seconda edizione: come tutte le storie gotiche ha alcune caratteristiche tipiche del genere letterario che possono fuorviare dal nucleo e dalla sua origine e cioè un incubo che lei ebbe a seguito di un gioco di società inventato da Byron e dalla sorellastra di Mary, Claire Clarmont. Il gioco consisteva nell’inventare fiabe e narrazioni di fantasmi, ma senza trascurare il fatto che fantasie scientifiche, scoperte reali e narrazioni horror – diremmo oggi – si mescolavano facilmente in molti ambienti in quegli anni. Mary Shelley, forse influenzata dalle scoperte dell’abate Galvani, sogna quello che sarà poi il tema centrale del suo romanzo: un uomo che assembla i pezzi di un altro essere fino a infondergli la vita. L’incubo la terrorizza e lei decide di scrivere proprio per liberarsene, ma la scelta di definire il professor Frankenstein come il moderno Prometeo pone il romanzo ben oltre il genere di appartenenza e per noi che siamo da tempo prigionieri di una commistione perversa fra capitalismo e Big Science, possiamo proiettare l’opera della scrittrice britannica nel futuro. La visione di una seconda natura ha in questo slancio prometeico e titanico al tempo stesso, le sue ragioni d’essere, le stesse che in parte abbiamo trovato anche nel Romanticismo e ancor più nella mitologia intorno al medesimo: gli anni sono quelli. Nel romanzo, la creatura mostruosa decide alla fine di darsi lei stessa la morte.2 Il Prometeo di Mary Shelley è la visione più potente dell’homo capitalistis e prometeico (uso l’espressione dandole anche un significato di genere) coniugato all’esaltazione delle tecnologie nella loro proiezione storica e forse non è un caso che a scriverlo sia stata proprio una donna. Si pensi al ruolo esponenziale delle protesi, alla robotica estesa fino a fare dei robot delle badanti e ora anche delle amanti come nelle più recenti declinazioni giapponesi. Si pensi alle visioni fra l’apocalittico e il fantascientifico di certi guru della Silicon Valley che vagheggiano la possibilità di superare per sempre la morte tramite l’ibernazione, le tecnologie di sostituzione degli organi, o la manipolazione del DNA, le fughe su astronavi alla ricerca di altri mondi in cui vivere.3 Il transumanismo coniugato all’onnipotenza tecnologica è l’estrema propaggine delle distopie e delle narrazioni apocalittiche attuali e non è un caso che nasca in ambienti anglo statunitensi, in una commistione perversa fra millenarismo, letture catastrofiche dell’Apocalisse di Giovanni e deliri tecnologici autodistruttivi. Sulle narrazioni tossiche contemporanee il libro Una vita liberata di Roberto Ciccarelli è quanto mai prezioso.4 In esso l’autore affronta in un capitolo specifico e qui e là nell’intero saggio, il significato attuale delle molte narrazioni catastrofico-apocalittiche che si sono susseguite, specialmente dopo lo scoppio della pandemia da Covid 19. Il suo giudizio è netto: tali narrazioni tossiche confondono fine del mondo con fine di un mondo e si pongono come forme di falsa coscienza e rivoluzione passiva che trova tuttavia collusioni anche in chi critica l’ordine neoliberale. L’analisi di Ciccarelli quanto mai convincente per quanto mi riguarda, ha il merito fra l’altro di mettere in evidenza, seppure sotto traccia, come tali narrazioni nascano in un humus culturale definito, il medesimo peraltro in cui sono nate la maggiori distopie da un punto di vista letterario

Disastri veri e apocalissi fasulle

Nessun genere letterario è più anglo statunitense della distopia, ma ciò che è più interessante per il contesto oltre atlantico, è la commistione fra tecnologia, catastrofismo apocalittico, misticismo e pensiero empirista, che si riscontra anche in molti romanzi, ma che appartiene anche a una élite che fa parte di un establishment trasversale alle diverse presidenze Usa. Il grande modello o archetipo che sta alle spalle di molte narrazioni distopiche è proprio l’Apocalisse di Giovanni, sia nella versione etimologicamente corretta del termine e cioè di rivelazione e anche di missione messianica, sia in quello corrente di catastrofe. Il testo ha profondamente influenzato la cultura statunitense delle origini, sia nel senso proprio di rivelazione, sia nell’altro senso. Alcuni degli elementi fondanti di questa formazione discorsiva si trovano nell’esperienza empirica dei coloni puritani sbarcati nell’America del nord e sono riassumibili a mio avviso in alcuni punti, di cui i primi due sono i pilastri portanti e gli altri due il trascinamento sul suolo americano di formazioni discorsive nate in Europa: la predestinazione, il primato dell’individuo sulla società e la comunità, la natura come oggetto da asservire, la tecnologia e il calcolo come strumenti di tale asservimento.

La predestinazione.

Grazia e predestinazione alla salvezza sono una coppia importante e la seconda parola è una traduzione possibile dell’immagine dei Marcati e dunque dei salvi a priori che si trovano nell’Apocalisse di Giovanni. A questo si aggiunga il fatto che secondo il protestantesimo radicale di Calvino, è proprio il successo mondano uno dei segni possibili della grazia. Ora, se si pensa agli inizi dell’avventura coloniale, alle indubbie difficoltà nell’approdare in un luogo in parte sconosciuto, la capacità di resistere e di farsi largo in quel mondo (sto adottando provvisoriamente il loro punto di vista e non quello dei popoli nativi ovviamente) tutto questo poteva facilitare la convinzione di essere stati predestinati a una missione divina. L’idea più volte ripetuta in tutti i discorsi presidenziali statunitensi – più accentuata in quelli democratici – di una missione degli Usa nel mondo ha le proprie radici proprio in questa narrazione, che tuttavia ha nutrito anche un pensiero laterale democratico come quello, per esempio di Thoreau. Tale presupposto fondante, forse il più importante, non ha se non in minima parte le proprie radici in un pensiero genericamente illuminista, né deriva di per sé dalla concezione che ispirava i rivoluzionari francesi, ma costituisce già in origine una formazione discorsiva che ha obiettivi ben diversi, perché i due contesti sono diversissimi. I diritti dell’uomo e del cittadino nascono prima di tutto in contrasto con l’assolutismo, sono quindi diritti del cittadino singolo rispetto al dispotismo del sovrano e dell’aristocrazia, ma sono anche diritti del popolo e quindi della comunità, tramite il parlamento e il suffragio. Non è affatto vero che la filosofia di fondo che ispirava la prima carta costituzionale francese fosse quella di un individualismo esasperato. I suoi limiti erano di genere e di classe. Il contesto statunitense è totalmente diverso.

L’individualismo statunitense.

Quegli uomini (e il termine va preso alla lettera perché le donne erano escluse), erano già liberi, i nativi per loro erano solo selvaggi che non ponevano problemi di ordine giuridico e costituzionale e neppure morale – se non per alcuni – mentre aristocrazia e assolutismo se li erano lasciati alle spalle in Europa. L’idea di una preminenza dell’individuo sulla società e la comunità – parole che non uso per caso al posto della parola Stato –  non è la traduzione americana dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma piuttosto una formazione discorsiva nella quale confluiscono l’assolutizzazione di una concezione della salvezza che è solo individuale (tipica delle versioni più estreme del protestantesimo), un’idea d’individualità come misura di ogni cosa che ha una qualche radice nel solipsismo filosofico di Barkeley, sostenuta probabilmente anche sulla visione ingenua di un teismo che riconosceva nella vastità del territorio vergine e ricchissimo da conquistare e occupare un’immagine possibile del Paradiso Terrestre o almeno di quella prefigurazione della fine dei tempi e della tenda di dio in mezzo agli uomini di cui parla l’Apocalisse. Dicendola un po’ più alla buona: se c’è posto per tutti perché preoccuparsi della società? Che ognuno faccia di se stesso una società o la comunità che vuole, pianti la sua bandiera dove arriva, si armi fino ai denti, recinti la sua conquista per stabilire che quel territorio è di sua proprietà, al massimo estendendola alla famiglia, unica istituzione riconosciuta nel passaggio aldilà dell’Atlantico. Proprietà e famiglia – entrambe armate come sancito dalla costituzione degli Usa –  sono gli ambiti sociali per eccellenza tutto il resto va soltanto limitato nei suoi poteri.

La natura da asservire.

Non è ovviamente una prerogativa statunitense ma di tutto il pensiero occidentale, almeno da un certo momento in poi; tuttavia, nel passaggio al nuovo continente essa si radicalizza e una delle ragioni sta proprio nella vastità del territorio. Poche parole sono necessarie in questo caso: la narrazione della frontiera e dell’espansione verso ovest parla da sola ed è in realtà una narrazione che nega l’esistenza della frontiera e cioè del limite. Infatti, non appena ultimata la conquista, non appena finite le guerre indiane, l’espansione a occidente si tramuterà nel giro di pochi anni in una attitudine imperiale (uso il termine in alternativa a imperialismo che significa altro) e aggressione agli stati vicini (la guerra ispanica del 1888). Per apprezzare meglio il passaggio che riconnette mistica e tecnologia, invece, mi servirò di un libro dello storico statunitense David Noble, intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito d’invenzione. Scelgo questo libro perché è una raccolta di citazioni molto importanti intorno a questa tematica, per cui il lettore non deve fare la fatica di andarsele a cercare. Non sempre le tesi conclusive e le deduzioni di Noble sono accettabili e talvolta troppo ingenue, Più sociologo che filosofo Noble tende alla fine a una visione troppo parziale, però la mole di materiali che egli ha raccolto è indubbiamente impressionante. Mi servirò del suo libro in questo senso cercando però di inserirlo in un quadro più ampio di quanto non faccia il sociologo statunitense. Noble parte da un’osservazione empirica che viene dalla lettura dei testi sacri: come la tecnologia sia stata considerata, dal Medioevo in poi, un’arma affidata dal dio cristiano ai fedeli per combattere il male. Questo vale sia per le tecnologie agricole messe a punto dai monaci benedettini, ma anche per le armi con cui combattere gli infedeli, come si evince da questa citazione tratta dal Salterio di Utrecht:

I malvagi si accontenteranno di usare un’affilatrice di vecchio stampo; i devoti invece … la prima manovella usata fuori dalla Cina e applicata alla prima mola conosciuta al mondo. Ovviamente l’artista vuole dirci che il progresso tecnologico è volere di Dio.

Non solo i padri della Chiesa come Agostino, ma anche eretici o mistici visionari quasi all’indice condividono questo pensiero: da Gioacchino da Fiore a Raimondo Lullo. Nella seconda parte del libro, intitolata Tecnologie della trascendenza,  il libro di Noble affronta il nesso fra tecnologia, potere politico e millenarismo nella contemporaneità ed è qui che entra in scena Hume. Perché, fino a tutto il Medioevo, l’ipotesi di una tecnologia al servizio di dio piuttosto che dei malvagi, si ammanta solo di espressioni metaforiche e in fondo abbastanza ingenue. Quando però tale pretesa diventa calcolabile e si ammanta di oggettività tecnologica assurta a verità teologica, essa produce degli effetti che nei successori, atei o credenti che siano, porta alle aberrazioni qui di seguito. Secondo Edward Fredkin, vi sono stati tre grandi eventi di uguale importanza nella storia dell’universo. Dopo aver detto che il primo è la creazione stessa dell’universo e il secondo l’apparire della vita, eccoci al terzo: 

Penso che la nostra missione sia quella di creare l’intelligenza artificiale, è il prossimo passo dell’evoluzione.

Sempre più preso dall’entusiasmo il nostro si domanda addirittura come mai dio non ci abbia pensato lui a crearla. Ma chi è Fredkin? Ovviamente uno scienziato che si occupa di intelligenza artificiale, ma anche un consigliere di diversi presidenti.  Ma c’è di più. Nel capitolo viii del libro di Noble, dal titolo significativo “Armageddon, la battaglia finale: le armi atomiche”, Noble cita scienziati e politici anglo statunitensi, che sembrano parlare come mistici invasati, ma dotati appunto di un potere tecnologico immenso. Una sola citazione per tutte: 

La bomba atomica è la buona novella della dannazione.

Mi sono chiesto cosa ci sia dietro questo narcisismo della distruzione che alberga nella cultura anglo-americana come in nessun’altra e che ritroviamo puntualmente anche nelle distopie. Nel caso della citazione finale forse la chiave di comprensione diventa assai semplice. Una mondità del tutto affidata al caos, alla legge del più forte e senza alcuna speranza di salvezza e redenzione, alla lunga diventa insopportabile anche per chi la persegue: il mito di Armagheddon e cioè la lotta finale e definitiva fra il bene e il male quanto prima arriva tanto meglio è: ciò giustifica ampiamente il paradosso di una buona novella della distruzione: un vero e proprio corto circuito che chiude il cerchio e che spiega anche l’eclatante deriva complottista e negazionista  – prima del Covid e poi del voto – che ha avuto come protagonista addirittura un presidente eletto. Questa miscela esplosiva di razzismo, deliri tecnologici e pseudo misticismo è nel Dna dell’uomo bianco statunitense fin dalle origini. Non bisogna farsi illusioni sulle intenzioni dell’establishment nordamericano. La politica estera statunitense conosce solo due principi: Carthago delenda est e Vae victis, perché senza nemico esterno, il suo fronte interno si disgregherebbe subito, la guerra civile e le spinte secessioniste sono sempre latenti in ogni momento della sua storia. Il problema non è se potranno cambiare, ma se potranno continuare a farlo oppure no. Come per tutte le distopie, infatti, non è detto che riescano a trionfare; anzi, fanno di certo molti danni ma alla fine non trionfano.


1 Il primo studioso a proporre una definizione specifica per l’era in cui la Terra è massicciamente segnata dall’attività umana fu il geologo Antonio Stoppani nel 1873. Successivamente il geochimico russo Vernadskij definì il periodo col termine di noősphera (ossia mondo del pensiero) per sottolineare il potere crescente della mente umana nel modellare il suo futuro e l’ambiente; lo stesso termine venne usato dal paleontologo e pensatore cattolico Teilhard de Chardin. Nel 1992, Andrew Revkin ipotizzò la creazione di una nuova epoca geologica chiamata Antrocene. Il termine fu diffuso negli anni ottanta dal biologo naturalista Eugene F. Stoermer e adottato successivamente da Paul Crutzen. Successivamente Crutzen formalizzò il concetto in opere quali l’articolo Geology of mankind, apparso nel 2002 su Nature e il libro Benvenuti nell’Antropocene. Per quanto riguarda invece il termini prometeismo, mi riferisco ad alcuni saggi comparsi in Sinistra in rete. Riporto il nome degli autori di alcuni di essi: Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli con un articolo dal titolo L’assalto al cielo, Bellamy Foster – La dialettica della natura di Engels e l’antropocene; infine ancora Burgio, Leoni e Sidoli con Homo Prometeous e marxismo prometeico.

Due libri recenti, il primo scritto congiuntamente da David Graeber e da David Wengrow – L’alba di tutto – e il secondo del solo Graeber – Il debito i primo 5000 anni – sono decisivi nel proporre uno sguardo diverso dalle narrazioni correnti anche sul tema del prometeismo.

2 Figlia di Mary Wollstonecraft e di William Godwin, cresciuta in un ambiente ricco culturalmente e dove l’emancipazione femminile era considerata un valore, Mary Shelley, ha avuto un ruolo importante nella cultura di quegli anni. Il modo in cui termina il suo romanzo è governato dalla pietas, un sentimento che la distanzia ulteriormente da ogni forma di ammiccamento e titanismo, anche involontari. La scelta della creatura mostruosa di darsi lei stessa la morte sta all’opposto del nichilismo e suona come una denuncia delle pretese del suo creatore. Una eco di questa soluzione a me sembra sia stata ripresa nel primo Blade runner e precisamente nell’episodio finale della morte del replicante con il suo celeberrimo monologo. Quanto alla ricezione della sua opera presso di noi, fino al 1970  è stata principalmente conosciuta per l’apporto che ha dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il suo romanzo, che ebbe grande successo e ispirò numerosi adattamenti teatrali e cinematografici. Studi recenti hanno però permesso una più profonda conoscenza del profilo letterario di Mary Shelley; in particolare, questi studi si sono concentrati su opere meno conosciute dell’autrice, tra cui romanzi storici come Valperga, romanzi apocalittici come L’ultimo uomo. Altri suoi scritti meno conosciuti, come il libro di viaggio A zonzo per la Germania e l’Italia contribuirono a fare di Mary Shelley l’esponente di una politica radicale, ma anche in opposizione agli ideali romantici ma individualisti che ispirarono in particolare William Godwin. La sua istanza politica era molto più indirizzata nel senso della cooperazione sociale, distanziandosi così sia dal padre sia da Percy Bessie Shelley.

3 Gli articoli e le interviste a manager, esponenti a vario titoli delle più importanti major statunitensi della Silicon valley sullo sfidare la morte, sono continue. Il Sole 24 ore ha pubblicato diversi articoli al proposito, ma è sufficiente aggirarsi nella rete per trovare tutto quello che serve per informarsi. Citarne una o l’altra non ha molta importanza.  Riporto soltanto l’indicazione di questo articolo dell’Huffington Post: https://www.huffingtonpost.it/2017/01/26/miliardari-silicon-valley-preparano-per-apocalisse_n_14413104.html

4 Roberto Ciccarelli, Una vita liberata Derive Approdi, Roma 2002.

GRADIVA, RIVISTA INTERNAZIONALE DI POESIA ITALIANA

Nello scorso mese di novembre è uscito il numero 64 di Gradiva, rivista internazionale di poesia italiana, diretta da Alessandro Carrera edita da Lo S. Olschki. L’edizione si apre con l’editoriale del direttore dal titolo Il poeta  e la sua ombra. Il numero è diviso in due parti. La prima è dedicata a Gianpiero Neri. La rassegna critica a lui riservata inizia da un’ampia intervista al poeta curata da Claudia Crocco. Le domande, sempre puntuali, nonché le generose risposte di Neri restituiscono a chi legge un ritratto del poeta davvero prezioso. Seguono nella stessa sezione i saggi di Silvio Aman, Pietro Berra, Roberto Caracci, Gabriela Fantato e Daniela Marcheschi.

A questa prima parte seguono le ricerche tradizionali della rivista: la sezione dedicata alla poesia. Si comincia con Italian poetry contemporanea con testi di Rita Argentiero, Maria Rita Bozzetti e Gabriela Fantato, seguita da Intermezzo con testi di Claudia Blanco, Lazzaro Doiepp, Grazia Frisina, Lorenzo Pataro.

A seguire l’ampia e ricca sezione critica, divisa a sua volta in rubriche diverse, Articles Essay and notes e Translations dedicata alla traduzione di poesie italiane da parte di studiosi statunitensi.

Impossibile rendere conto in poche parole della ricchezza delle tematiche e dei contributi. Mi soffermerò allora soltanto su alcuni di essi. Il primo si trova nella rubrica gli strumenti della poesia a cura di Mario Buonofiglio: si tratta di uno studio sulla Chimera nell’opera di Campana, con rimandi ad altri autori che si sono occupati del mostro mitologico.  Il secondo è il saggio che Luigi Fontanella dedicata ad Alessandro Ricci, da lui definito il più nascosto poeta del ‘900: una felice scoperta anche per me.

Infine la rubrica su Musica e poesia e l’ampia rassegna critica riviste curata da Plinio Perilli.

RILKE – CVETAEVA – PASTERNAK

Rilke ritratto da Leonid Pasterenak

Introduzione

Il settimo sogno è un originale canzoniere amoroso in forma prosastica ed epistolare, in cui la commistione fra amour passion e amour de loinh è la cifra stilistica che lo contraddistingue e che rimanda all’analisi che Denis de Rougemont fa dell’archetipo che secondo lui è alla radice della concezione occidentale del sentimento amoroso: Tristano e Isotta.1 La forma particolare e originale del legame a tre fra Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke sta nel fatto che non si sono mai incontrati e che la loro tormentata e tormentosa relazione vive tutta sulla carta scritta, nel loro pensiero e sfera emotiva.2 Questo è il teatrino, a volte drammatico, a volte comico e in qualche caso miserevole, che peraltro contraddistingue la grande maggioranza degli epistolari amorosi che coinvolgono le vite di scrittori e artisti, tanto bravi e straordinari quando mettono i loro personaggi al centro di dialoghi e situazioni, tanto banalmente comuni quando diventano loro stessi i personaggi. Va da sé, inoltre, che esso è scritto da tre personalità fuori dall’ordinario. In ognuno di loro vi è qualcosa di abnorme: prima di tutto il perseguimento di un ideale romantico in cui arte e vita sono fusi insieme. A tale modello si sottrarrà Pasternak nel tempo della sua seconda vita artistica, Rilke morirà prima di poterlo fare, Cvetaeva vi soccomberà. Anche il 1926 ha la sua importanza, perché fu un anno emblematico nelle vite dei tre protagonisti. Rilke morì il 29 dicembre di quell’anno, Pasternak rinunciò definitivamente al progetto di raggiungere Cvetaeva in Francia; quest’ultima avrebbe poco dopo chiuso la sua stagione poetica. Il 1926, tuttavia, fu un anno cruciale anche per l’Urss e l’intera Europa, anche se gli effetti delle svolte in atto si sarebbero manifestati in modo tragico alcuni anni dopo. In Italia, il Fascismo si era ormai consolidato al potere dopo la crisi seguita all’assassinio di Matteotti e il varo delle leggi fascistissime nel biennio 1925-26. In Germania, la possibilità di una rivoluzione proletaria nella quale avevano sperato i bolscevichi al potere, era tramontata per la seconda volta nel 1923, mentre in Urss finiva il decennio eroico della Rivoluzione Bolscevica. Nell’anno successivo, quello del decennale, Stalin trionferà sui suoi oppositori interni al partito. Rivisti oggi sullo sfondo di queste vicende, i 4 mesi febbrili durante i quali l’epistolario prende forma appaiono come un tramonto boreale nel cuore di un’Europa che andava a rapidi passi in altre direzioni e verso nuove e più immani tragedie.

Le lettere del 1926

Premessa.

Da queste occorre partire e cercherò di farlo come se l’insieme di questa corrispondenza fosse una sorta di partitura teatrale che ha un prologo, uno sviluppo tematico che avviene in due momenti, separati da due intermezzi; infine l’epilogo tragico. Il tutto avviene in un arco di tempo talmente breve e concentrato, da poter dire che in fondo e del tutto casualmente, persino le unità di tempo e azione vengono rispettate; in un certo senso anche l’unità di luogo, visto che il mancato incontro finisce per proiettare nei testi medesimi il luogo per eccellenza in cui tutto avviene. 

Il prologo

Il 12 aprile, dopo l’esortazione ricevuta da suo padre Leonid, mentore occulto di questa triangolazione così particolare, Boris Pasternak scrive a Rilke una lettera piena di ammirazione.  Fra le altre cose, lo scrittore, che sa delle difficoltà in cui si dibatte Marina Cvetaeva a Parigi, lo mette al corrente della stima profonda che anche la poeta russa nutre per lui e lo invita a mandarle una copia delle Elegie duinesi. Infine, gli suggerisce di rispondergli tramite lei stessa oppure il padre Leonid. L’intento di Pasternak è duplice e molto concreto: dal momento che non esistevano rapporti diplomatici fra l’Urss e la Svizzera (dove Rilke risiedeva), la corrispondenza diretta era assai difficile: con Marina si sarebbe aperto dunque un secondo canale di facile comunicazione, dal momento che fra Urss e Francia esistevano normali rapporti diplomatici. In un’altra lettera, indirizzata questa volta a Marina, Boris dice di essere finalmente in grado di partire e di volerla raggiungere in Francia per poi recarsi insieme da Rilke. Il 3 maggio quest’ultimo scrive a Cvetaeva una lettera molto deferente, nella quale parla anche di Pasternak in termini lusinghieri. Cvetaeva risponde a Rilke il 9 maggio e a Pasternak (che le aveva inviato nel frattempo altre due lettere in data 20 aprile e 5 maggio), il 22. L’esaltazione di Pasternak per Cvetaeva cresce: è una passione che a volte si rivolge maggiormente alla poeta altre volte alla donna, in uno scambio fiammeggiante, confuso e simbiotico fra vita e arte. A questa esplosione di sentimenti lei non oppone un rifiuto, ma un atteggiamento che tende a lasciarli decantare. La lettera del 3 maggio di Rilke a Cvetaeva, è uno scritto assai deferente e formale nella sua prima parte. Si rivolge alla poeta con il Voi e, esaudendo la richiesta di Pasternak, le invia due copie delle sue ultime pubblicazioni, aggiungendo poi che presto ne invierà altre due per Pasternak : “se la censura li lascerà passare.

Poi aggiunge:

Sono così commosso dalla forza delle sue parole (di Pasternak ndr.), che oggi non riesco a scrivere più nulla, ma mandate il foglio qui accluso da parte mia, al Vostro amico di Mosca. In segno di saluto.”3

La lettera prosegue ricordando il suo viaggio in Russia di molti anni prima e l’amicizia con Leonid Pasternak. Poi accenna al suo soggiorno a Parigi durante l’anno precedente, dove alcuni amici gli avevano mostrato le poesie di Boris. Subito dopo, però, il tono usato da Rilke cambia repentinamente e tale mutazione pone fine al prologo.

Arte e vita

Ma perché – mi chiedo, perché non mi è riuscito allora d’incontraVi, Marina Ivanova Cvetaieva? Adesso, dopo la lettera di Boris Pasternak, credo che quell’incontro avrebbe potuto dare a entrambi, una profondissima, segreta, felicità. Potremo mai rimediare?”

La curatrice italiana del testo, Serena Vitale individua nell’aggettivo segreta e nella prontezza con cui Cvetaieva ne afferra il significato il “tragico leitmotiv dei loro rapporto.”4  

La lettera di risposta del 9 maggio è divisa a sua volta in due parti. Nella prima Cvetaieva, come aveva fatto anche Pasternak, dichiara immediatamente il suo debito letterario nei confronti di Rilke: 

Rainer Maria Rilke posso chiamarVi così? Ma Voi, poesia fatta carne, dovreste sapere…  che il Vostro nome non fa rima con la modernità… Viene dal passato o dal futuro, o da lontano...”

Dopo altre espressioni entusiastiche nei suoi confronti, scrive:

Non parlo dell’uomo Rilke (l’uomo è ciò cui siamo condannati!), ma del Rilke spirito che è anche più del poeta, è lui che io chiamo Rilke.”5

La lettera prosegue su questo tono fino al punto in cui affronta di petto il tema del loro mancato incontro:

Perché non sono venuta da Voi? Perché vi amo più di ogni altra cosa al mondo. È semplicissimo. E perché voi non mi conoscete. … E ancora, per voi sarò sempre una russa, …. C’è qui tutta la complessità della nostra troppo originale nazione: tutto ciò che in noi – il nostro Io – gli europei considerano russo… Lo stesso succede da noi con i cinesi, i giapponesi …” 6

La frase, di cui avevo già citato l’ultima parte, vista nel contesto della corrispondenza, assume altre valenze rispetto a quelle già indicate. Rilke, nella sua lettera, si attribuiva la responsabilità del mancato incontro: era una forma di gentilezza e di cavalleria, oppure lo pensava veramente? Fatto sta che, al contrario, Cvetaeva attribuisce a una propria scelta e al suo carattere russo il loro mancato incontro; sembra quasi che lei voglia metterlo in guardia rispetto a una complessità che forse all’altro sfugge. Infine, come va inteso quel Vi amo dopo ciò che aveva scritto prima rispetto all’uomo Rilke contrapposto al poeta e allo spirito? Dobbiamo prenderlo alla lettera oppure leggerlo come un esempio del romantico intrecciarsi fra amour passion e amour de loinh, o una metafora rivolta al poeta e non all’uomo?

In ogni caso, se Rilke avesse pensato a un incontro segreto fra loro due, la frase che segue sembra chiudere le porte a una tale possibilità:

Rainer Maria, nulla è perduto: l’anno prossimo (1927) arriverà Boris e verremo da voi, ovunque voi siate…

Tutto chiaro? Neppure per sogno perché alla fine di questa lettera ecco cosa scrive Cvetaeva:

Ho letto la tua lettera sulla riva dell’oceano e l’oceano leggeva con me….  Non ti disturba che lui l’abbia letta? Non ci saranno altri. Sono troppo gelosa (Gelosia – di te.).”7

La gelosia si riferisce solo al poeta o anche all’uomo? Perché ribadire una cosa che dovrebbe essere ovvia e cioè che nessun altro, se non l’oceano, leggerà le lettere che si scambiano loro due? Gli vuole far sapere, fra le righe, che non ne parlerà con Pasternàk? Le contraddizioni e i cambi di registro sono continui e, a volte, anche la sintassi sembra colta da un accesso di furore. Tale tumultuoso avvicendarsi di sentimenti che cozzano gli uni con gli altri, peraltro, è tipico di tutto il carteggio. La risposta di Rilke è del 10 maggio e questo fa sorgere il dubbio iniziale che egli abbia scritto prima di avere ricevuto quella di Marina, che è stata iniziata il giorno 9, ma completata il 10 e spedita quel giorno. Le apparenze ancora una volta ingannano, ma è anche evidente che uno dei due ha sbagliato a scrivere la data. Ecco come Rilke inizia la sua lettera del 10:

Marina, possibile che un attimo fa non foste qui? Oppure: dove ero io? Perché oggi … è soltanto il 10 maggio ed è strano che voi abbiate scritto questa data prima delle ultime righe della Vostra lettera… Voi pensate di avere ricevuto i miei libri il 10 (aprendo la porta come sfogliando le pagine) … ma proprio questo stesso giorno, il decimo di maggio, questo eterno giorno delle spirito, io ti ho accolto Marina, con tutta l’anima ,… sconvolta da te e dalla tua apparizione, quasi che il tuo oceano, che insieme a te leggeva, mi si fosse rovesciato addosso in un enorme flusso del cuore.

Non è davvero facile raccapezzarsi nel mezzo di questo linguaggio, ma due cose sembrano evidenti: Rilke aveva già letto la lettera di Cvetaieva, visto il suo accenno all’oceano, anche se rimane incerta la data di spedizione perché non può essere stata spedita e arrivata nel medesimo giorno: in questo profluvio di alti sentimenti sembra a volte che le lettere arrivino prima di essere state scritte! Nessun accenno a quel ti amo di Marina; anzi tutta la lettera si sintonizza sul tono usato da Cvetaieva. Siamo dentro la metafora, si sta parlando di un rapporto fra anime secondo i canoni più stringenti dell’amour de loinh. Serena Vitale ha ragione quando individua lo scorrere di un tragico leit motiv fra le righe di tutta la loro corrispondenza, ma forse tale tragicità sta in altro. Avviandosi alla conclusione, infatti, ecco come Rilke ritorna su un argomento toccato da Cvetaieva:

Ma stiamo parlando non dell’uomo Rilke e io stesso oggi sono in rotta con lui e con il suo corpo, con il quale prima riuscivo sempre a raggiungere un accordo così totale che spesso non capivo più chi di noi due fosse il poeta: …ma adesso l’anima è vestita in un modo e il corpo in un altro”.8

Quest’ultima parte della lettera, ancora una volta a tono, chiarisce forse definitivamente, che non vi è nessuna delusione dell’uomo Rilke il quale ha capito benissimo il significato di quel ti amo, almeno fino a questo punto della corrispondenza: ma le cose sono destinate a cambiare. Forse, nelle sue parole però, vi è qualcosa d’altro. Quando parla del proprio corpo con il quale si sente in rotta sta usando una metafora, oppure sta cercando di comunicarle qualcosa di più drammatico? Nella debordante lettera successiva, del 12 maggio, Cvetaieva parla d’altro e per un lungo tratto non è facile capire se le sia già arrivata la risposta di lui; lo si vedrà solo alla fine. Lo scritto è un lungo, disordinato e velocissimo viaggio nella poesia di Rilke, nel quale giudizi fulminanti si alternano a divagazioni non sempre facili da seguire, come quando scrive:

tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)tu hai espresso i rapporti fra Giovanni e Gesù (inespressi in entrambi.)

Il centro del suo interesse, in questo scritto, sono proprio i Sonetti a Orfeo, più che non le Elegie:

Sono due notti che sprofondo nel tuo Orfeo...”

Dalla parte finale, si evince tuttavia che Cvetaieva non ha ancora ricevuto la lettera di lui perché si riferisce alla dedica contenuta in una lettera precedente.

Ci sfioriamo, con cosa? Con le ali...”

Commentando questo passaggio della dedica la poeta russa scrive:

Rainer, Rainer, tu mi hai detto questo senza conoscermi, come un cieco (veggente!). Le migliori frecce sono cieche… è arrivata adesso la tua lettera. Per la mia è ora di partire.

La freccia cui si allude non sarà per caso quella di Cupido? Lasciamo per il momento la cosa in sospeso. Il 13 maggio Cvetaieva scrive un’altra lettera, nella quale affronta tutti i temi che Rilke aveva ripreso qui e là in quella del dieci. Essa inizia con una citazione tratta da una delle elegie e subito dopo così prosegue:

E dunque: in modo assolutamente umano e con molta modestia: l’uomo Rilke. Ho scritto e mi si inceppava la lingua. Amo il poeta e non l’uomo. (Adesso sarai tu leggendo a incepparti.) Suona in modo estetico, cioè privo di anima, non spirituale,  (gli esteti sono quelli che non hanno anima ma solo cinque sensi… affilati…Posso scegliere io? Quando amo non posso e non voglio scegliere… Tu sei l’Assoluto. Finché non mi innamorerò di te (finché non ti conoscerò), giacché non ho nessun rapporto con te (non conosco la tua merce!) … No, Rainer, non sono una collezionista, amo l’uomo Rilke, giacché è lui che porta il poeta. Quando dico l’uomo Rilke, penso a quello che vive, che pubblica i suoi libri… penso alla moltitudine dei rapporti umani. Parlando dell’uomo Rilke penso a quella cosa per cui per me non c’è posto. Per questo tutto quanto ho detto dell’uomo e del poeta è puro rifiuto, rinuncia, perché non voglio che tu pensi che io voglia intromettermi nella tua vita… Il rifiuto per non dover poi soffrire.9

In questa lettera ci sono anche dei passaggi imbarazzanti: cosa significa la parola merce in tale contesto? Certi altri sembrano viziati da fraintendimenti assai seri (Rilke l’ha forse accusata, di essere una collezionista (di uomini immagino volesse dire. ndr)? L’ambivalenza viene riproposta continuamente a ogni paragrafo e la conclusione di una parte di questa lunga lettera suona così:

Caro, io sono molto obbediente. Se mi dirai: non scrivere, le tue lettere mi agitano, servo molto a me stesso – io capirò e sopporterò tutto”.10

Cosa ci fosse nelle precedenti lettere di Rilke che potesse farle scrivere una frase come questa non è chiaro; oppure è lei ad avere paura di continuare il carteggio e ancor più dei suoi sentimenti che stanno cambiando? Da questo momento in poi la lettera parla d’altro, con salti velocissimi da un argomento all’altro, senza una logica apparente che li tenga insieme. Sarebbe sbagliato tuttavia, notare solo questo perché, se si mettono l’una accanto all’altra tali affermazioni rapide e perentorie con altre di differenti lettere, il ritratto che Marina vuole dare di sé  ne esce ben delineato nei suoi tratti essenziali. Il suo parlare distratto e lontano da quella che comunemente si definisce realtà è in lei costante, così come l’affastellare, in una medesima frase, elementi disparati e casuali. Josip Brodskj in un saggio scritto su di lei dal titolo Nota in calce a una poesia ne fa un ritratto quanto mai acuto, in cui afferma fra l’altro:

… Per Cvetaeva la realtà è sempre un punto di partenza, mai di arrivo … Perciò si possono, specialmente in una lettera, affastellare gli elementi più disparati perché accomunati da un sentimento di sprezzatura nei loro confronti, che non concede alcuna rilevanza alle loro differenze.”11

Su questa osservazione di Brodskj, si chiude questo primo momento di sviluppo, cui seguono due intermezzi.

Primo intermezzo: l’amante

E Pasternak? Lo abbiamo lasciato in attesa delle risposte di Rilke, che non arrivano, e anche di altre lettere di Cvetaeva (e non arrivano pure quelle). Il 18 maggio, finalmente, riceve il famoso biglietto dedicato a lui e che il poeta boemo aveva messo nella lettera indirizzata a Marina e questo lo riempie di gioia: lo conserverà gelosamente per tutta la vita. Il 19 scrive a Cvetaeva.

Ieri ho ricevuto la tua trascrizione delle sue parole: il tangibile silenzio della tua mano. Non sapevo che una scrittura prediletta, tacendosi, potesse sollevare una simile musica funebre.”

La sensibilità di Pasternak è qui notevole, sebbene non dica all’inizio qual è il nucleo della sua delusione. Nel finale emerge il punto dolente: 

Io avevo pensato, se la sua risposta sarà acclusa alla lettera con la tua decisione, obbedirò soltanto alla mia impazienza, non a te né all’altra mia volontà. Ed è veramente bello che in quel momento voi due foste separati. Ma il fatto che tu ti sia separata da lui una seconda volta che insieme a lui sei arrivata non tu ma solo la tua mano, mi ha sconvolto e spaventato. Tranquillizzami… Marina.” 12

Contorto di certo, ma decifrabile. In sostanza Pasternak ha il sospetto che fra Cvetaeva e Rilke sia nata una corrispondenza che lo mette da parte. Cosa significa però quell’accenno al fatto che anche lei si sia separata da lui (da Rilke) una seconda volta? La lettera che Cvetaeva gli spedisce il 22,13 a prima vista, sembra una risposta a quella di lui del 19, ma le cose non stanno così e questo sarà fonte di equivoci a non finire. Nella prima parte, lo scritto è pieno di osservazioni come sempre rapidissime sui versi di Pasternak, poi continua con riflessioni che toccano i medesimi argomenti che Boris aveva trattato nella sua del 19. Tuttavia, poiché non è una risposta a quella di lui ma una riflessione autonoma, le argomentazioni di Marina assumono, agli occhi di Boris, dei significati in parte diversi rispetto a quelli che noi lettori onniscienti siamo nella condizione di capire meglio. Dopo avere ricordato quello che Pasternak le aveva scritto in una lettera di molto precedente: “Che cosa faremmo noi due se ci incontrassimo? Andremmo da Rilke“, Cvetaeva scrive:

“… Ma io ti dirò che Rilke è troppo preso, che non gli serve niente, nessuno… Rilke è un eremita, … Rilke ha superato Eckermann, non ha bisogno di intermediari fra Dio e il suo secondo Faust… Da lui sento soffiare su di me l’estremo gelo di chi possiede, e nei cui possedimenti, io, e a priori rientro...” Ohibò!14

Questo gruppo di lettere, a partire da quella del 19, è importantissimo perché solleveranno una montagna di fraintendimenti. Tuttavia, se pensiamo alla delusione profonda di Pasternak e alla sensazione di essere stato messo da parte, seppure non del tutto volontariamente, egli non si sbaglia affatto! La sua deduzione è indipendente dagli equivoci e dai fraintendimenti; questi ultimi, se mai, sono un’aggravante che aggroviglia ancora di più il suo vissuto e lo fa dubitare della limpidezza di Marina. Anche chi legge può avere qualche sospetto sulle reali intenzioni di Cvetaeva: si è davvero separata da Rilke una seconda volta, oppure sta cercando di convincere Pasternak a non cercare la relazione con il poeta perché vuole averne lei l’esclusiva?

Ho la vaga sensazione che tu mi stia allontanando da lui. E poiché io tenevo tutto insieme, questo significa che tu ti stai allontanando da me, anche se non nomini direttamente il tuo movimento.”

Seguono ampie dissertazioni letterarie, ma nella parte finale, ritorna sul tema dolente del rapporto fra loro tre in questo modo:

A Rilke adesso non scrivo. Lo amo non meno di te, mi dispiace che tu non lo sappiaCome mai non ti è venuto in mente di trascrivermi le dediche che ti ha fatto sui libri e in genere come è andata, ma anche delle lettere. C’eri tu al centro dell’esplosione, e di colpo ti sei fatta da parte.”15

Le gelosie che provoca l’amour de loinh sono terribili perché affollate di fantasmi! Il 23 maggio Cvetaieva risponde finalmente alla lettera di Pasternak del 19. Inizia con una lunga serie di divagazioni famigliari, poi il punto dolente emerge improvviso e rapido prima di approfondirsi:

Boris ti scrivo lettere sbagliate.”

Seguono altre divagazione e poi un discorso sul mare che lei non ama, che sembra essere una metafora letteraria per dire altro.  Verso la fine arriva al punto:

A Rilke non scrivo, è una tortura troppo grande. Mi fa perdere il filo mi distrae dalle poesie. Come trattare uno che è diventato il tesoro dei Nibelunghi? A lui non serve. E a me fa male. Non sono meno grande di lui (nel futuro) ma sono più giovane.”

Il 25 maggio, dopo avere ricevuto la lettera di Pasternàk, ne scrive subito un’altra in cui lo rimprovera di mettere se stesso davanti a tutto, ma non nega affatto la corrispondenza a due che c’è stata fra lei e Rilke; ma una frase nel finale che sembra escludere ogni nuovo contatto:

Di Rilke. Ti ho già scritto di lui. A lui non scrivo Adesso ho la pace della perdita totale – del suo volto divino – del rifiuto…”16

Si può pensare, leggendo la frase di cui sopra, che lei stia davvero ingannando Boris, tacendogli che la corrispondenza fra lei e Rilke non si è mai interrotta, ma ancora una volta i fatti smentiranno tale interpretazione. Nel momento in cui lei scrive della perdita totale e del rifiuto, Marina è convinta di quello che scrive, ma era caduta in un colossale equivoco, come si vedrà. Pasternak, peraltro, ha nel frattempo del tutto metabolizzato l’impossibilità di una relazione a tre: da un amore travolgente, nel giro di pochi giorni, si passa all’indifferenza. Come in Tristano e Isotta, quando i due non si cercano più, senza che se ne capisca fino in fondo la ragione:

Ti ringrazio calorosamente per tutto. Cancellami per qualche tempo dalla tua coscienza – per un paio di settimane ma non per più di un mese… Tra l’altro fino ad oggi non ho ringraziato Rilke per la sua benedizione. Dovrò rimandare anche questo...”17

Secondo intermezzo: l’equivoco.

Nella lettera del 17 maggio. Rilke aveva scritto a un certo punto:

Marina cara, tutto ciò riguarda me. Scusami… se di colpo smetterò di informarti di ciò che mi succede, tu devi scrivermi lo stesso ogni volta che avrai voglia di volare.”

La lettera si conclude così:

A non spedirti la mia foto del passaporto non mi ha costretto la vanità, ma la coscienza di quanto questa istantanea fosse casuale (anche una fotografia deve essere un Assoluto, perbacco! ndr), però l’ho messa accanto alla tua: abituarsi alla vicinanza dapprima sulla fotografia, d’accordo?”18

Potenza dell’amour de loinh!

Secondo Serena Vitale, con la quale concordo, Cvetaeva aveva letto nella prima delle frasi citate qui sopra un rifiuto da parte di Rilke. Cvetaeva aveva davvero inteso questo, ma si trattava di un equivoco del tutto ingiustificato, che a sua volta aveva alimentato, almeno in parte, tutto il polverone di fraintendimenti con Pasternak. Nella medesima lettera, infatti, Rilke le aveva pure detto di avere posto le due fotografie l’una accanto all’altra perché si abituassero alla vicinanza prima … – di che cosa se non di un incontro reale fra loro due? Credo che la spiegazione logica della frase usata da Rilke in quella lettera sia un’altra. Egli non era più sicuro di poterle scriverle perché le sue forze stavano venendo meno. Non c’era nessun rifiuto da parte sua; forse, soltanto un certo disagio nel comprendere che Cvetaeva non stava affatto capendo la situazione in cui lui si trovava. Dopo un silenzio di due settimane, lei torna a scrivergli il 3 giugno. Il tono è quello di sempre, pieno di entusiasmo e frasi amorose, di ambivalenze e di contraddizioni che diventano addirittura ingovernabili, tanto è l’ardore di questa lettera. In essa, fra l’altro, accenna a quello che lei ritiene essere un rifiuto da parte sua. Questa volta però, l’8 giugno, Rilke le risponde per le rime e sembra finalmente volere uscire dalla metafora in cui lui stesso – peraltro – si è chiuso per una vita intera. Abbandonerà finalmente il mondo degli dei per tornare fra gli esseri umani?

E così una mia parola gettata lì per caso che tu hai eretto davanti me, ha gettato questa enorme ombra e così ti sei allontanata da me…. Quella frase scritta da me non veniva dall’uomo di cui tu hai parlato a Boris… Troppo preso –  ah no Marina, libertà e leggerezza e solo l’imprevedibilità della risposta… E da qualche tempo probabilmente a causa delle mie condizioni fisiche io ho paura che qualcuna delle persone da me amate si aspetti da me una frase fortunata o la stessa perfezione del discorso… Oggi ti ho scritto una lunga poesia, seduto su un muro tiepido fra le vigne… Vedi, sono tornato.”19

Era tutto un equivoco, nessun rifiuto da parte di Rilke e la poesia cui allude è nientemeno che l’ultima delle Elegie, che le regala con una dedica. Leggendo questo passaggio, però, si può capire che quando Marina scriveva a Boris che Rilke non aveva più bisogno di nulla, non gli stava mentendo per gelosia e per volere soltanto per se stessa un rapporto con Rainer: lei era davvero convinta di essere stata rifiutata da Rilke! Il problema è che talvolta, la maledetta realtà si prende le sue rivincite sulle visioni oniriche e sulle suggestioni dell’amour de loinh! Lei incassa il colpo e gli risponde soltanto il 14 giugno: è una lettera di scuse, di grande amarezza, in cui mette di mezzo Pasternak quasi per discolparsi. Eppure, questa del 14 è la lettera in cui Cvetaeva riesce a dire di sé qualcosa che non le riuscirà di dire in molte altre occasioni.

Io siamo molte persone… forse innumerevolmente molte (moltitudine insaziabile) E una non deve sapere nulla dell’altra, disturba. Quando sono con mio figlio la cosa che ti scrive e ti ama non deve starmi accanto.

Alla fine, però, Cvetaeva sembra volere abbandonare davvero la metafora. Descrivendo le fotografie che ha ricevuto da lui ne individua una in cui vede questo:

“… Un uomo che parte e che per l’ultima volta …guarda il suo giardino Un uomo che  si lascia cadere fra le mani tutto il paesaggio (Rainer portami con te!)...”

Il ti amo che ritorna alla fine della lettera, sembra questa volta rivolto all’uomo. Rilke, dopo l’ultima lettera di Cvetaeva, le risponde con lentezza e lei di nuovo se ne adombra. In una nuova lettera a Rilke del 6 luglio, Cvetaeva parla di letteratura. Soltanto alla fine ritorna su loro due e forse indirettamente risponde a una frase di lui, quando aveva scritto che non sempre riesce a essere all’altezza di quanto ci si aspetta da lui:

Ma tu sei ancora anche un poeta, e dal poeta si attende de l’inedit …”20

Rilke risponderà il 28 luglio, molto tempo dopo, ma bisogna considerare che nel frattempo si era recato alla stazione di cura di Ragaz, dove lo attendevano i coniugi Thurm und Taxis. La lettera inizia con meravigliosa Marina e sembra fugare ogni dubbio. Riferendosi a Boris ammette che sia stato lui a indirizzarla verso di sé, ma poi “Sei apparsa tu pura e forte...”

Il prosieguo, dopo alcune osservazioni di carattere letterario, parla di nuovo di sé e della condizione in cui si trova. Dice di essere stato costretto ad andare a Ragaz per:

vedere i miei più vecchi e unici amici (Per quanto tempo ancora? Sono infatti di molti anni più vecchi di me…)

Quell’accenno alla tarda età degli amici e quel Per quanto tempo ancora è riferito a loro oppure è un modo metaforico di alludere alla sua di condizione? Marina risponde il 2 agosto e ribadisce in termini sempre più espliciti di volerlo raggiungere in nome di quel “nuovo io che può realizzarsi soltanto con te…, in te…” 21

Il 14 agosto lei gli scrive una nuova lettera dalla quale si evince che non ha ricevuto la sua del 28 luglio. Rilke le scrive il 19 agosto una lettera di grande amarezza. Le dice di essere meno sicuro di lei che si potranno incontrare, ma non le dice il perché. Le scrive pure che ha cercato sulla cartina quella piccola città dove lei gli aveva proposto d’incontrarsi. Lo vuole o non lo vuole? L’ambivalenza dei sentimenti è forte anche in lui, anche perché nella parte centrale della lettera emerge improvvisamente una preoccupazione che fin qui non era apparsa:

Il silenzio di Boris mi inquieta e mi amareggia: è possibile che la mia comparsa abbia sbarrato il passo al suo violento desiderio di te? E malgrado io capisca bene che cosa tu intendi quando parli delle due «non patrie» (che si escludono a vicenda), penso che tu sia severa e quasi crudele nei suoi confronti (e severa nei miei), esigendo che io non abbia mai e in nessun luogo altra Russia all’infuori di te! Protesto contro qualsiasi esclusione (essa ha radici nell’amore ma crescendo diventa di legno), mi prenderai così, anche così? “22

Rilke si rende conto per la prima volta della potenziale ambivalenza e anche ambiguità della situazione che si è creata fra loro tre, ma poi di nuovo, con il discorso delle due non patrie sembra riportare tutto nell’ambito letterario. Questa volta è lui che si sente escluso dal rapporto con Pasternàk e attribuisce a lei tale esclusione. Forse sarebbe bastato accorgersene prima e dirlo direttamente a lui, a Boris! Attribuire solo alla severità di Marina l’accaduto è troppo semplice perché implica una sicura e razionale volontà di raggiungere quello scopo; ma dovrebbe essere chiaro che in realtà non vi era in atto da parte di alcuno dei tre un’intenzione del genere. Il fatto è che vivendo dentro la metafora, prima o poi si fa di sé medesimi una metafora! In ogni caso, sembra ormai tardi per qualsiasi cosa. Forse alla fine uscirà la parola decisiva, quando Rilke, riferendosi alla possibilità di un incontro con Marina scrive:

Non rimandare fino all’inverno”23

ma purtroppo ancora una volta siamo nella metafora perché si tratta della citazione di un verso! Il 22 agosto Marina gli risponde dicendogli che se si vogliono davvero incontrare è lui che deve agire e lo invita a venire nella località che gli aveva indicato. Nella lettera, però, c’è un passaggio che la rende di nuovo ambivalente e indecifrabile:

Quanto più ci si allontana da me, tanto più si entra in me. Io non vivo in me stessa vivo fuori di me. Non vivo sulle mie labbra e chi mi bacia mi perde...”24

Rilke non le risponderà. Andrà a trovare (ed è il suo ultimo viaggio) Paul Valery a Ouchy, ma non si recherà al 3 di Boulevard de Grancy dove lei lo aspettava. L’ultima cartolina è di nuovo di Cvetaeva, il 7 novembre, con una vista su Bellevue a Parigi e dice semplicemente:

Caro Rainer! Io vivo qui. Mi ami ancora?”25

Rilke non le risponderà più, scriverà invece al vecchio amico Leonid Pasternak. Perché è arrabbiato con lei? No. La lettera spedita al padre di Boris, infatti, non l’ha scritta lui, ma la sua segretaria: egli sta salutando tutti gli amici, forse non è più in grado di farlo personalmente e quindi per pudore e per non farle capire cosa sta succedendo, non le dice nulla.

L’epilogo

Il 31 dicembre Cvetaeva scrive a Pasternak una lettera che inizia così:

Boris, Rainer Maria Rilke è morto.”26

Abituati come siamo al linguaggio barocco, questa lapidaria espressione suona come un urlo di dolore e di sgomento: è l’incipit di chi non si aspetta la notizia. I dettagli sulla sua morte, Rilke li affida ancora a Leonid Pasternak tramite la propria segretaria, Marina continua rivolgendosi a lui come se fosse ancora vivo. Boris non risponde alla lettera di Marina sulla morte del poeta. Un mese dopo, anche Cvetaeva riceverà una lettera dalla segretaria di Rilke, allegata a una copia del libro sulla Mitologia greca che il poeta aveva comperato per lei. Pasternàk risponderà alle reiterate lettere di Cvetaeva solo a febbraio e il tono, pur affranto e nonostante scriva che ora entrambi sono orfani, è segnato da una palpabile distanza. Per Pasternàk era la relazione fra loro tre la cosa più importante, ma forse vi è anche dell’altro. Continuarla solo con lei non avrebbe forse fatto risorgere i fantasmi di un possibile incontro reale di cui lui ormai aveva solo paura? Nella lettera del 9 febbraio,27 Cvetaeva sottolinea il tono burocratico della risposta di Pasternak e poi continua a parlare di poesia come se niente fosse. È una lettera lunghissima allegata alla quale c’è una sua poesia scritta nel giugno del ’26 e intitolata Tentativo di stanza. Infine, Cvetaeva accenna anche al requiem per Rilke che ha intenzione di scrivere e che avrà per titolo Novogodnee (Anno nuovo).28 Marina Cvetaeva cercherà di mantenere viva la corrispondenza e la relazione con Pasternak e non soltanto per ragioni letterarie. In fondo, seppure da lontano, lei li amava entrambi quei due uomini e in una lettera del ’30 scriverà a Pasternak una frase quasi analoga a quella che aveva scritto a Rilke nel ‘26 e cioè che Boris era la sola persona con cui avrebbe potuto ricostruire il proprio io sparso e disgregato in tanti pezzi. Pasternak non le risponderà più. Con Novogodnee, che Brodskj considera il vertice della poesia di Maria Cvetaeva,29 si chiude anche la sua stagione poetica: successivamente si dedicherà solo alla riflessione critica, mentre Pasternak inizierà una fase del tutto nuova del suo percorso artistico.

Ritratto di Mira Nakhman, 1913.

1 Denis De Rougemont, L’amore e l’occidente, Rizzoli, Milano 1998.

2 Cvetaieva, Pasternak, Rilke, Il settimo sogno. Lettere (1926), a cura di Konstantin Azadovskji, Elena ed Eugenji Pasternak. Edizione italiana a cura di Serena Vitale, Editori Riuniti, Roma, 1980.

3 Op.cit. Pag 19 e seguenti.

4 Ivi.

5 Op. cit. pp. 45-6.

6 Ivi.

7 Op. cit. pp. 47-8.

8 Op. cit. pag. 50-52.

9 Op.cit. pp. 52-57.

10 Ivi.

11 Iosif Brodskji, Il canto del pendolo, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, Milano 1987, pag. 238.

12 Op.cit. pp.65-70.

13 Op.cit. pp.71-74.

14 Ivi.

15 Op. cit. pag. 83.

16 Op. cit. pp. 81-84

17 Op. cit. pag. 78.

18  Op. cit. pp..60-64

19 Op. cit. pp. 93-4.

20 Op. cit. pag 136.

21 Op. cit. pp.153-56.

22 op. cit. pag. 160-1.

23 Ivi.

24 Op. cit. pp.162-3.

25 Op. cit. pag 165.

26 Op. cit. pp. 168-9

27 Op. cit. pag. 177.

28 Op. cit. pp. 177-88; l’intenzione di Cevetieva si trova scritta proprio nelle ultime righe della lettera.

29 Il testo di  Nuovo anno è pubblicato in Italia in diverse edizioni. Quella che ho scelto è compresa nella raccolta Marina Cvetaeva, A Rainer Maria Rilke nelle sue mani, a cura di Marilena Rea, con testo a fronte, Passigli Editori, 2012, pp. 44-57. Prediligo tale edizione perché raccoglie altre liriche e testi dedicati a Rilke, così da offrire un quadro più ampio del modo con cui Cvetaeva si è rapportata a lui durante tutta la vita. 

PICCOLI DILEMMI QUOTIDIANI

Introduzione

I testi che seguono furono pubblicati sul numero 23-24 della rivista Poiesis nel 1993. Uno di essi, il primo, fu tradotto da Jean Portante e pubblicato su una rivista francese che non ritrovo. Una soltanto di queste poesie – La piccionaia – è poi confluita nel libro L’epoca e i giorni pubblicato nel 2008 per le edizioni Viennepierre di Milano. Le ragioni per cui un testo entra o non entra in una raccolta sono diverse, il montaggio ha una parte importante nella composizione di un libro, anche se nel pensarci a distanza di anni, non ricordo le motivazioni per cui alcune furono escluse. Le ripropongo nel blog con il titolo originale – Piccoli dilemmi quotidiani –  con il quale furono pubblicate su Poeisis.  

In ogni carne affondano il coltello

versano il vino con la stessa mano

come distilla terra il fungo amico

e veste da sicario il suo gemello.

Sotto la prima crosta la radice

una semplice patata cresce sotto

e sotto la seconda superficie

l’acqua ci nutre mescolando umori.

L’aria che respiriamo è in alto,

l’orizzonte un po’ più in là …

la nube e la luna di cui tutti

guardano ancora l’incedere grandioso

sono entrambe un po’ più sopra.

Così gli animali transitano

e hanno nel letargo quel profondo

che scava il rifugio e il pudore

oppure dall’alto di una rupe

spalancano una porta all’infinito.

Soltanto noi siamo qui

né in alto né sotto né più in là

ombre che abitano la zona grigia

dove si specchia la luna

in un catino d’acqua sporca.

La piccionaia

Amo di Genova il suo disordine ordinato

L’età sovrapposte come le casse impilate

Di piazza Caricamento, i ristoranti

dai tavoli trasandati, dove da sempre

è seduta una signora che sogna

di un americano che la porterà

a New York in transatlantico.

Ed io che vivo nella pianura nebbiosa

un poco la capisco la signora

e ho scelto di abitare un eremo di vento

trafitto dal sole che ci resta

un piccolo scrigno dove danzano insieme

cornici paterne e maschere africane

un coltello da pirata che mio figlio

mi portò da Mali…e dell’India

conservo un’intera madia, intrisa

di odori speziati e nel suo specchio a notte

danzano tigri luminose e quando piove

il vetro scroscia una foresta pluviale.

Forse non è una vera casa

(è persino imbarazzante portarci una donna)

ma uno di quei luoghi da cui sempre si parte

e il ritorno è festa improvvisata

dove trovano rifugio poeti e marinai del tempo

felici d’esser soli in mezzo al brulichio

di ogni vita, come bambini che ascoltano gli adulti

parlare nella stanza accanto

e si addormentano beati

gravidi di ogni idioma del mondo.

Il migratore

È tornato quest’oggi il migratore,

ha cantato alla ringhiera

ferito dolcemente la mia mano.

Non cercava solo cibo, aveva un suono

un suono tutto suo l’esile grido

inconfondibile e raro … diceva

il verso non sia soltanto umano,

è più vasta la culla del tuo sogno.

Cercatore di funghi

Nella matrice signora originaria

cercare fra gli arbusti e i rami secchi

sentire i piedi, il morbido gonfiore

scostare foglie attento a non far male.

Per ore camminare occhio radente

fino alla visione solitaria …

Simile al suo cercare chi si danna

nel bianco deserto rettangolare

distillando dalla mano la sua acqua …

e a sera chinati insieme a misurare

se nel canestro il mosaico di forme

sia la città del rame o il suo miraggio.

A PROPOSITO DI CULTURA DI MASSA: IL FESTIVAL DI SANREMO

Jula De Palma

Introduzione

Questo scritto è la rielaborazione di un mio intervento nel dibattito nato su Overleft intorno al cinema del dopoguerra, al quale oltre la redazione partecipò anche Adriano Voltolin, e una mia riflessione precedente sulla canzone italiana. Lo ripropongo in uno dei momenti topici della cultura di massa in Italia.

***

Cameriere e casalinghe di Voghera

Forse ancora oggi non molti sanno che il fotoromanzo nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro di Anna Bravo1 ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro della Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire al storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi che possiamo suddividere in momenti diversi.

La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazioni desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.

Seconda fase. Nel giro di pochi anni l’atteggiamento del Pci cambia repentinamente. Bravo accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani e Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (quella della cosiddetta Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso e, dulcis in fundo, Cesare Zavattini a cui si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono che per primo si cimenta con una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani che scrive queste storie.

Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto. 

La terza fase riguarda il cinema su cui si sofferma il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera ed è proprio su quest’ultima che mi sembra importante soffermarsi.

Prima e dopo la guerra

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola per malattia e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazionalpopolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino alla fine degli anni ‘50. Quando iniziò la rottura di questo equilibrio? La domanda mi riporta anche al cinema perché fu proprio in alcuni anni chiave fra la fine dei ’50 e gli inizi del ’60, che tutto cominciò a cambiare e fu proprio il cinema da cui prese inizio una cesura e anche una polemica molto aspra fra gli intellettuali vicini al Pci. In  quegli anni, infatti, mentre venivano esaltati Zavattini, Damiani e Del Buono, i registi della seconda generazione neorealista citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti. Come mai?

A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci.

La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazionalpopolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953, con il fotoromanzo, verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri.

Per quanto riguarda il cinema, tutto era diverso perché la sua ricezione da parte della cultura comunista era molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura popolare e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica propagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt’altro che banali per gli anni in cui si formarono e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.

Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale, infatti, viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura, e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa. Ed è qui che entra di nuovo scena una protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Pasolini fu un testimone particolarmente importante di questo passaggio. Quando Calvino e Fortini diedero inizio alla polemica sul festival di Sanremo, egli aderì e negli stessi anni, sia Cantacronache, sia altri gruppi si posero il problema di una canzone colta. Un titolo per tutte: Dove vola l’avvoltoio. La polemica però finì nel nulla e il primo a prenderne atto fu proprio Pasolini quando riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

La rottura, però, era iniziata prima: nel 1957 con Come prima di Tony Dallara e reiterata con Nel blu dipinto di blu (1958) cui è associato un ricordo personale, ma che ritengo importante per ragione di costume. Il padre di Dorelli, che aveva cantato con Modugno, era Nino D’Aurelio, tenore il cui nome è oggi sconosciuto ma che allora era un personaggio per Meda, il comune dove ero nato e dove abitavo. Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità mondana da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica. La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a persone discretamente bigotte, fra cui mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco. La cultura di massa si presenta sempre a due o più facce e a volte sono proprio dei cambiamenti in apparenza minori a dare il via a movimenti imprevedibili. Quello che la canzone colta di Calvino e Fortini non riuscì a fare lo fecero personaggi come  Fred Buscaglione – Eri piccola così è del 1958. Tua, interpretata da Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la Rai non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del ’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60. Il meglio, però, doveva ancora arrivare. Gaber e Jannacci, Tenco, Bindi, Lauzi, De Andrè e poi Fossati e tanti altri. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia, mentre continuava quella del cinema con Il sorpasso; cominciava invece a ridursi l’influenza del fotoromanzo e finiva davvero il dopoguerra.

***

  1. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, 2003 ↩︎

FURIO JESI: PARTE SECONDA

Introduzione

L’oggetto di questa seconda parte verte essenzialmente intorno alla questione del tempo che è sempre centrale nelle opere di Furio Jesi, come si è già visto nella prima parte a proposito delle differenze fra rivolta e rivoluzione. L’accento sarà ora posto sulla festa perché anch’essa, come sostiene Jesi, sospende il tempo storico e ne instaura un altro.   

Il tempo della festa

Furio Jesi non ha mai scritto un libro con questo titolo; tuttavia, l’assemblaggio di alcuni suoi saggi, curata da Andrea Cavalletti per Nottetempo, ha una giustificazione, perché in essi vengono esplicitati alcuni passaggi cruciali nel suo percorso e specialmente si gettano le fondamenta per una critica che supera quanto scritto in Spartakus, pur senza rinnegarne l’esperienza. I due saggi più importanti di tale assemblaggio, oltre alla Lettura del Battello ebbro di cui ho già scritto, sono il primo, Conoscibilità della festa, e Cesare Pavese e il mito. Gli altri saggi sulle Elegie di Rilke e l’interpretazione del racconto biblico di Susanna e i vecchioni e quello su uno scritto giovanile di Lukacs, pur interessanti e come sempre pieni di intuizioni, sono di minore importanza per il discorso che si fa qui1. Perché la festa? La risposta è complessa nel senso che si tratta di ipotesi a volte esplicite altre volte che si possono dedurre: vi sono poi dei richiami impliciti al saggio di Benjamin sul Surrealismo e specialmente al concetto di ebbrezza, illuminazione laica, antropologica e materialista.2 Dietro la riflessione di Jesi, ma anche fra le righe del saggio di Benjamin, c’è una domanda nascosta, più evidente in Jesi: cosa unisce la festa alla rivolta e alla rivoluzione? Tutte e tre con le loro diverse modalità spezzano la serialità del quotidiano e hanno a che fare con la sospensione del tempo; tutte e tre sfuggono alla tirannia del tempo storico. Rivolgersi alla festa significa dunque per Jesi tornare a interrogarsi sulle diverse modalità di sospensione del tempo; ma anche di rivolgersi al folklore, alle radici antropologiche di una civiltà e naturalmente alla macchina mitologica, espressione che Jesi userà sempre invece della parola mito. Nel primo saggio, intitolato come ho detto Conoscibilità della festa Jesi inizia ricordando uno scritto polemico di Benedetto Croce, nei confronti di un cronista – tale Conti – che aveva definito l’eruzione del Vesuvio del 1906 con accenti di vera e propria meraviglia. La polemica di Croce viene criticata da Jesi in modo assai sottile, nel senso che, dedicando alla reprimenda del povero Conti una pagina che sembra scritta dal filosofo solo per schiacciare il proprio interlocutore, Croce finisce per dare all’evento luttuoso – l’eruzione vulcanica – il contorno letterario di una pagina talmente ben scritta da suscitare a sua volta meraviglia. Peraltro, lo sgomento di fronte a fenomeni naturali o epidemici particolarmente estremi non è nuova e ha sempre prodotto pagine memorabili. Gli esempi che Jesi fa sono classici che spaziano da Erodoto alla descrizione della peste in Manzoni; ma anche in occasione della recente pandemia di Covid 19 si sono letti brani di grande suggestione, a prescindere dal loro contenuto. Va pure ricordato che il concetto di sublime, elaborato da Edmond Burke, è assai ambivalente come peraltro quello di numinoso, entrambi riferiti a eventi che possono essere sia di festa vera e propria della natura, sia a eventi catastrofici ma dotati di uno strano fascino, proprio per la loro potenza in atto. Feste crudeli le definisce Jesi e possiamo estendere tale concetto alle guerre: Thomas Mann alla fine de La montagna incantata parla del primo conflitto mondiale come una festa di morte. Occuparsi della festa significa dunque immergersi in quel patrimonio antropologico che Benjamin, nel saggio sul Surrealismo, aveva indicato con i termini di illuminazione profana. Se infatti è possibile dichiararsi non cristiani (a dispetto di ciò che pensa Croce), da un punto di vista religioso, filosofico e del pensiero in senso lato, è a livello antropologico che le religioni operano più in profondo. L’illuminazione laica e antropologica materialista che Benjamin attribuisce al Surrealismo, va molto più fondata sulla critica del costume e anche le riflessioni di Jesi vanno in quel senso. Quanto alla festa, essa occupa una parte preminente nell’antropologia profonda dei popoli: il Carnevale, le Feste dei Folli medioevali, le diverse forme di rovesciamento delle gerarchie, il paese di Cuccagna, i Fuochi di sant’Antonio, il culto dei morti. Cosa avviene però con la modernità? Jesi distingue fra dimensione epifanica della festa e conoscenza della festa come processo gnoseologico, grazie all’etnologia e alla ricerca sul campo. Egli polemizza con Adorno, che nella Dialettica dell’illuminismo si riferisce alle feste orgiastiche dei primitivi, facendo notare come questa espressione dia per scontato di sapere cosa fosse un festa primitiva e ironizza su certe descrizioni moderne come quelle citate, che sembrano piuttosto travestire i selvaggi di Rousseau per farli passeggiare nella Vienna di Freud.3 Sono affermazioni che per Jesi si muovono ambiguamente fra scienza etnologica e fantasticherie. In realtà, nella modernità si può solo constatare che il concetto di festa collettiva come si suppone sia stato anticamente il Carnevale è perduto, oppure si trasforma in consumismo spettacolare di massa: pensiamo cosa è diventato l’antico rito celtico del culto dei morti nella riproposizione di Halloween. Gli esempi di feste che costellano la letteratura europea degli ultimi due secoli, dalla Montagna incantata alla Recherche, sono feste crudeli o feste interiori: entrambe le cose in alcuni casi. Oppure, nel caso Musil, la festa diventa una impossibile e grottesca messa in scena che infatti alla fine non ha luogo.4

Jesi non prende in considerazione le feste canoniche dettate dalle scadenze religiose (il Natale cristiano per esempio), ma sottolinea come la posizione dell’etnografo sia quella di studiare la festa dei diversi – siano essi i popoli cosiddetti primitivi, oppure ciò che emerge dagli studi sul folklore – non potendo più partecipare alla festa in senso epifanico, cosa che nella modernità non sembra essere più possibile. In realtà nelle conclusioni Jesi dirà qualcosa di diverso come si vedrà: lo stesso si può dire della conclusione del saggio di Benjamin sul Surrealismo, ma prima di arrivare a quel punto occorre capire meglio la dialettica fra macchina antropologica, festa come evento epifanico e ricerca sul campo. Il folklore, in tutto questo svolge una decisiva funzione di cerniera perché è un ponte, instabile ma pur sempre un tramite, che permette di avere un’idea meno fantasiosa delle feste epifaniche del passato. A questo  proposito va detto che la ricerca antropologica ha fatto passi da gigante negli ultimi venti anni. Mi riferisco per esempio a opere recenti come quelle di Graeber e altri.5 Abbandoniamo momentaneamente il primo saggio e rivolgiamoci al secondo.

Festa e sacrificio

Nel saggio su Pavese, Jesi torna alla letteratura e ingaggia con l’opera dello scrittore delle Langhe un corpo a corpo che ha come sempre aspetti di critica letteraria e connessioni remote con la macchina mitologica. Il discorso è assai complesso e parte dal modo che Pavese ha di concepire la natura:

[…] Pavese credeva nel valore dei miti come sistema di rapporti esistenti in natura […] Pavese ha operato come se esistesse in natura un sistema oggettivo di rapporti fra immagini mitologiche che – e si vuole come diceva Hesse “interpretare la natura!” – bisogna rispettare.

Jesi rifiuta tale concetto e rimprovera a Pavese di leggere nella natura la presenza: di un linguaggio mitologico immanente e oggettivo.6 Tale linguaggio, che Jesi attribuisce a Pavese, equivale a ritenere che al centro della macchina mitologica si troverebbe il mito in senso ontologico. Jesi nega entrambe le cose: la natura è una sfinge leopardiana e al centro della macchina mitologica c’è un vuoto. Subito dopo, Jesi entra nel vivo del dibattito su Pavese che aveva in quegli anni molti protagonisti. Egli nega l’appartenenza dello scrittore piemontese al decadentismo e si premura di chiarire la questione rispetto a un proprio saggio che poteva generare equivoci al proposito. Jesi cita Venturi con il quale si era aperta la polemica, ma ricorda pure gli interventi di Pasolini e Moravia. Quella polemica è in parte datata, ma è comunque la spia ancora attuale di una difficoltà reale: la collocazione di Pavese nel contesto letterario italiano a cavallo fra primo e secondo ’900 è difficile da districare, perché la sua presenza è fortemente anomala. Pavese ha di certo nel mito una fonte d’ispirazione, ma si tratta di un modo d’intendere la mitologia che non ha nulla a che vedere con il fascismo e la sua mitologia. In secondo luogo Pavese non ha nulla a che vedere con l’ermetismo. Infine c’è un contrasto evidente fra il suo americanismo e il sentirsi radicato in una cultura contadina e provinciale come quella delle Langhe. Pavese sta dentro una contraddizione, anche nel dopoguerra. Faccio un solo esempio. Si batté nella casa editrice Eianudi per avere fra i collaboratori Angelo Brelich, uno studioso del mito fra i più importanti di quegli anni, ma è pure vero che la concezione del mito di Brelich è assai diversa rispetto a quella di Pavese ma lo scrittore sembra non comprenderlo. Credo che un parziale errore di Jesi  sia quello di attribuire a Pavese una consapevolezza etnografica e antropologica che lo scrittore in definitiva non aveva. Il suo modo di sentirsi legato ai riti contadini della sua terra è in realtà assai semplice e anche ingenuo: è un attaccamento viscerale che ha più a che fare con il folklore e che convive però con un culto dell’americanismo altrettanto ingenuo. Pavese, a mio avviso, riuscirà a superare tali aspetti contraddittori solo in poche opere, grandi, ma poche: I mari del sud, I dialoghi con Leucò e La Luna e i falò. 7 In altre parti di Lavorare stanca possiamo trovare dei testi sicuramente forti e apprezzabili e che proprio per questa ragione incorsero nella censura fascista; ma nessuno ha la forza a mio avviso dei tre ricordati in precedenza. Jesi solleva però un problema reale quando attribuisce a Pavese il tentativo di conciliare la modernità con il mito: le modalità scelte porteranno lo scrittore sempre più lontano dal mito inteso come rito epifanico collettivo, per approdare all’interiorizzazione del mito da parte del poeta, che diventa così il solo depositario – nella modernità – di quello che un tempo era un sapere collettivo diffuso. Jesi, al contrario, rifiuta l’interiorizzazione, ma si domanda anche quale sia il mito che la rende possibile e la risposta che si dà è molto netta: si tratta un mito di sacrificio e di morte, il solo che non produce intorno a sé altro se non l’aspetto sacrificale. Per Jesi, dunque, Pavese, pur non essendo un decadente, accetta l’impossibilità del mito come esperienza comunitaria della modernità e la trasforma nella ricerca interiore del proprio rapporto con il mito e con la natura, ma separato da tutto e da tutti. Anche Jesi, come il suo maestro Kerényi, prende atto che nella modernità l’epifania come si è conosciuta in passato non è più proponibile, ma per lui si tratta di quelle forme storiche e antropologiche, che tuttavia non possono essere considerate come eterne e statiche, perché la macchina mitologica non ha smesso di funzionare e di produrre narrazioni mitologiche anche in piena modernità.

La festa nel tempo della modernità

Per Jesi non si tratta di ritornare a una individualità separata, piuttosto di porsi il problema di comprendere in che modo possono esistere ritualità comunitarie anche nella modernità e nella post modernità, le quali, in qualche caso, possono persino recuperare frammenti da salvaguardare delle forme passate. In sostanza si tratta di esplorare il campo vastissimo del folklore ma anche interrogarsi sui tentativi moderni di ritualità collettive. Nel finale del suo saggio Jesi si riferisce prima di tutto al movimento operaio, anche se si limita a poche pagine. Tuttavia, se si considera l’insieme della sua produzione, possiamo ricostruire tutta una serie di esempi che hanno tratti interessanti comuni con quanto Benjamin aveva scritto negli anni ’30. Jesi, in alcuni altri scritti dedicati alle rivolte popolari, sottolinea come uno dei limiti dello Spartachismo, per esempio, fu quello di lasciare ai margini il concetto di festività come modalità di sospensione del tempo, che non può essere disgiunta dall’altra modalità di sospensione e cioè la rivolta. Ebbene, quando Benjamin nel saggio sul Surrealismo scrive che occorre portare alla rivoluzione le forze dell’ebbrezza, cosa afferma se non questo? Jesi, che ben conosceva Benjamin anche se le citazioni sono quasi sempre indirette e sotto traccia, riprende uno dei leitmotiv di quel saggio cui si può aggiungere il concetto altrettanto importante di illuminazione profana e materialista, precedentemente citato.8 Sempre Benjamin, a proposito della ritualità festiva delle manifestazioni operaie, aveva posto l’accento su un famoso episodio, accaduto durante la Rivoluzione di Luglio a Parigi, quando i rivoltosi distrussero tutti gli orologi, simbolo della cadenza industriale del tempo governata dal lavoro salariato. Sempre in Benjamin si trovano alcuni spunti interessanti nel saggio sulla riproduzione tecnica dell’opera d’arte, sui modi di festeggiare il Primo Maggio.

[…] i film di Ejzenštejn, il teatro didattico di Brecht, le feste del primo maggio con gli slogan di Majakovskij, le messe in scena di Malevič  e di Mejerchol’d.

Questa citazione si trova nell’introduzione al saggio dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sulla riproducibilità tecnica, traduzione e cura di Enrico Filippini, Einaudi Torino 1966, alla pagina 11. Non è la sola in cui Benjamin si occupa delle modalità di una ritualità collettiva nel tempo della modernità. Questa frase è particolarmente significativa perché àncora i riferimenti di Benjamin  alle esperienze più radicali dell’avanguardia russa di quegli anni e al teatro di Brecht, ma si tiene a distanza dal realismo socialista.

In conclusione, l’intento di Jesi, come di Benjamin decenni prima, è quello di tornare a significare in modo diverso sia la festa sia la rivolta, sia la rivoluzione, come rito collettivo anche nella piena modernità; ma questo è un capitolo tutto da pensare.

Adrien Moreau, Processione di carnevale, 1887


1 Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea cavalletti, Nottetempo, Milano 2023.

2 L’espressione è usata da Benjamin più volte nel saggio sul Surrealismo e nelle carte preparatorie.

3 Furio Jesi, op. cit., pag.69.

4 Mi riferisco al romanzo L’Uomo senza qualità.

5 Mi riferisco in particolare al libro L’alba di tutto, scritto da David Graeber e David Wengrow , edito da Rzzoli nel 2021.

6 Furio Jesi, op. cit., pp. 122-23.

7 Nel blog diepicanuova, curato da Paolo Rabissi e da me, che presto diventerà un libro pubblicato, I Mari del sud sono uno dei testi manifesto cui è dedicata un’ampia riflessione critica.

8 Il saggio sul Surrealismo è un testo fondamentale di cui consiglio la lettura completa insieme alle carte preparatorie.

FURIO JESI

Introduzione

Furio Jesi ha attraversato la cultura e la politica italiane come una cometa e come tutte le comete è passato fugacemente per poi riapparire dopo un tempo più o meno lungo. La riscoperta più recente si è consolidata intorno a un aspetto della sua ricerca fra i meno noti. In Sinistra in rete, nel 2023, sono stati pubblicati saggi importanti, uno in particolare dal titolo: Come interrompere una dialettica. Benjamin, Jesi e la rivolta contro il tempo di James Martel – Emanuele E. Pelilli.1 Al centro di questa prima riflessione ci sono però due libri precedenti che costituiscono una sorta di background da cui partire per affrontare poi i temi sollevati dal saggio pubblicato in sinistra in rete e che implica fra l’altro un confronto con alcune opere di Walter Benjamin.

Il primo dei libri è Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2000. Il secondo è Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, con introduzione di Giorgio Agamben e una nota di Andrea Cavalletti, pubblicato da Quodlibet nel 1996. A questi aggiungo anche la recente intervista ad Andrea Cavalletti, che si può ascoltare in rete dal sito Scaldasole Books.

Jesi partecipò attivamente alla rivolta del Maggio francese e ritornò in Italia solo alla fine, quando – per usare le sue parole – “il tempo era ritornato normale”. A Torino partecipò a tutte le lotte in corso e nel dicembre del 1969 finì una parte della sua riflessione – Spartakus – e la scrisse in flagranza. Ritornare alla rivolta spartachista, nella quale di certo Jesi colse alcuni elementi presenti anche nel Maggio francese, gli permise di tornare alla Comune di Parigi – ma in modo traslato come spesso ha fatto. La Lettura del Battello ebbro passa attraverso la critica letteraria per approdare alla messa a punto di un apparato teorico già probabilmente maturo, ma non ancora suscettibile di essere mostrato. In fondo il ‘68, e in particolare quello italiano, fu una lunga rivolta e proprio leggendo Jesi si può cogliere ancora di più il tragico errore di chi pensò che fosse invece il tempo giusto della rivoluzione. Jesi cominciò proprio allora a interrogarsi sulle dinamiche interne della rivolta, dandole uno statuto specifico come nessuno aveva più fatto dopo Sorel. Guardando alle rivolte ci si può sottrarre da una dialettica del tutto confinata nella storia e che assomiglia da un lato al destino, oppure a una macchinetta asettica alla quale si può far dire di tutto e il suo contrario, come Benjamin rappresentò in modo puntuale nella prima delle sue Tesi sulla storia. Tuttavia, ciò non è possibile farlo senza decidere di accettare e fare propria la scommessa che la storia pone davanti a chiunque in certi momenti: la prassi è proprio quell‘insieme di gesti-parole,- altra espressione tipica di Jesi – che bisogna decidere di compiere e di accettare anche nelle loro conseguenze. Qui stanno le ragioni dell‘inattualità di Jesi per un lungo tempo. Superficialmente, esse avevano prima di tutto a che fare con il sospetto che nell’Italia di quegli anni si nutriva nei confronti di chi si occupava di mitologia. Più in profondità, perché nel pieno dell‘autunno caldo e specialmente dopo il 12 dicembre 1969, Jesi indicava – già allora – che invece di occuparsi solo del presente, che egli tuttavia non ha mai esorcizzato e tanto meno rimosso dal suo stesso agire in campo culturale e politico, sarebbe tuttavia stato meglio occuparsi del dopodomani. La storia editoriale e forse le sue scelte hanno nascosto per lunghissimo tempo Spartakus fino al 2000, un anno prima dei fatti di Genova e dell’attentato alle Torri gemelle. Cosa ci può essere di più attuale nell’Italia e nell‘Europa del 2023, di libri che invitano a guardare alle rivolte dell’altro ieri per poter pensare realisticamente l’oggi e il dopodomani?  

***

PARTE PRIMA

Spartakus

Jesi, nell‘introduzione, spiega a grandi linee le ragioni dell‘opera, poi entra nel vivo e nel capitolo eponimo stabilisce una complessa analogia fra una citazione tratta dal Docktor Faustus di Thomas Mann e il saggio di Sorel sulla violenza, scritto subito dopo la prima guerra mondiale e che era stato lo spunto da cui anche Benjamin aveva cominciato il suo saggio del ’21. La frase di Mann è questa:

Chi voglia essere partecipe della comunità deve tenersi pronto a sostanziose detrazioni dalla verità o dalla scienza, al sacrificium intellectus… 2

Docktor Faustus  fu scritto nel 1943 e pubblicato nel ’47, ma la comunità di cui parla è la società tedesca di trent’anni prima e l’accenno al venir meno di scienza e verità è una riflessione col senno di poi e una polemica in differita contro gli pseudo miti nazisti che iniziarono a diffondersi proprio negli anni successivi il primo conflitto mondiale, rispetto al quale va pure detto che Mann manifestò una certa ambiguità – se si pensa al capitolo finale di La montagna incantata – dove Castorp, pur malato, si precipita nel conflitto come in una sorta di lavacro. Mann usa nel capitolo un tono epico e nella conclusione la guerra diviene sia festa di morte sia malo delirio.3 Jesi, tuttavia, si richiama all’opera di Mann in modo sibillino e traslato, cioè per sottolineare come nella Germania del 1919 i miti che circolavano non erano solo quelli criticati da Mann: Sorel, pur con tutte le ambiguità di quegli anni, è pur sempre un teorico dell’anarcosindacalismo e l’accenno di Jesi al suo libro è un tramite che ci porta nel cuore della sua riflessione. La Spartakusbund nasce nel 1919 e anche Spartaco è un mito e non soltanto un personaggio storico. Con lui arriviamo al secondo punto focale del libro, anche se il suo autore precisa che esso non vuole essere una ricostruzione storica del movimento spartachista e dell’insurrezione di gennaio. In realtà il libro è anche questo e lo è in modo assai calzante e sintetico, ma il suo intento è duplice: da un lato affermare che ogni tentativo di espellere la macchina mitologica dalla storia secondo la tradizione illuminista, è destinato a cadere nel vuoto o a ritorcersi contro coloro che lo affermano. Tuttavia, la dialettica fra mito e storia è secondo Jesi una manipolazione borghese del tempo4 e dunque i due termini, mito e storia, vanno letti prima di tutto nella loro reciproca autonomia. Jesi prosegue proiettando la vicenda dello spartachismo nel passato recente della Germania  e cioè:

[…] a un filone della cultura tedesca che può essere colto più agevolmente – almeno per ora –nei suoi momenti cristallizzati: […] l’illuminatenorden che Adam Weishaupt fondò a Ingolstadt nel 1776, assumendo il nome Spartakus e più tardi nel movimento organizzatosi in Assia intorno al rettore Widig e a Georg Büchner  nel 1830-40.5

L’intento, costante in tutta la sua opera, è quello di sottolineare sempre come la mitologia nera tedesca, oggetto del suo libro Germania segreta, Cultura di destra e altri, non sia la sola esistente.6 Nel capitolo intitolato La sospensione del tempo storico, Jesi ricostruisce in una paginetta le ragioni della rivoluzione. Lo fa ripercorrendo il pensiero di Marx e sottolineando in particolare la necessità che un progetto rivoluzionario sia basato su un’analisi dei rapporti di forza e delle dinamiche sociali. Esaurito il tema in breve, egli cambia registro:

[…] Questo orientamento politico e la filosofia della storia che vi corrisponde incontrano un grave ostacolo nel fenomeno della rivolta. Usiamo la parola “rivolta“ per designare un movimento insurrezionale diverso dalla rivoluzione. La differenza fra rivolta e rivoluzione non va cercata negli scopi dell’una e dell’altra […] Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sé non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà e di perennità di cui consiste la storia. La rivoluzione sarebbe invece interamente e deliberatamente calata nel tempo storico.7

A questa prima affermazione segue un’analisi puntuale, incalzante e appassionata dei dieci giorni della rivolta spartachista del 1919 che fra l’altro dimostra quanto poco sia stata analizzata nelle sue dinamiche interne e in modo così profondo.8 Jesi riconosce il fallimento della rivolta e ne indica le ragioni in modo puntuale e dopo un’altra lunga digressione, ritorna ad essa tramite Brecht: Trommels in der Nacht – Tamburi nella notte è infatti il lavoro teatrale con cui Brecht la rievoca. La prima versione del testo fu scritta in presa diretta sugli eventi, proprio nello stesso 1919, inaugurando un’idea di teatro che ritroveremo puntualmente nell’Agit Prop.

Jesi paragona il testo di Brecht al Docktor Faustus di Mann, sottolineando l‘ambiguità del secondo, ma riconoscendo pure che anni dopo, entrambi decideranno di mettere fra parentesi la rivolta spartachista, pur rimanendo distanti le loro posizioni. Brecht deciderà di non rappresentare il dramma, mentre Jesi – ripercorrendone tutti gli atti – gli assegna l’importanza che ha. Il personaggio chiave dell‘opera è Kragler, un figura assai complessa dal momento che è al tempo stesso un anonimo piccolo borghese, sia una figura della mitologia tedesca, cioè il reduce dato per morto e che al ritorno non viene riconosciuto neppure dalla madre, che pensa di trovarsi davanti a un fantasma. Jesi ricostruisce puntualmente tutti gli atti del dramma e al libro rimando per questo. Ridotto all’osso, lo svolgimento è il seguente. Kragler torna dalla prigionia proprio durante la notte in cui la rivolta spartachista ha inizio e scopre che la sua fidanzata sta per fidanzarsi con Murk, un borghese ben più ricco di lui. Indignato per il torto subito si unisce alla rivolta spartachista. Anna, che aveva accettato di sposare Murk per ragioni d’interesse, quando rivede il suo vecchio amore lo segue di nuovo e i due vagano per la città nel mezzo dell’insurrezione, finché Kragler si convince che essa non ha alcuna speranza di successo e torna a casa con la fidanzata, voltando le spalle agli spartachisti. Brecht, lo si evince dal testo di Jesi, ma anche dalla storia assai travagliata dell‘opera e delle sue rappresentazioni, ebbe sempre un atteggiamento di ambivalenza verso di essa e arrivò poi a non pubblicarla nell’opera omnia. Jesi salva il testo e lo valorizza, ma rimane sulla soglia di una vera riabilitazione e penso sia utile domandarsene la ragione. La lettura di classe del dramma – la piccola borghesia si lascia coinvolgere dal proletariato, ma nel momento dello scontro vero si tira indietro – è altrettanto riduttiva di quella che riconduce tutto al mito del reduce che non viene riconosciuto, anche perché nel dramma di Brecht c’è uno scostamento rispetto alla rigidità del mito e il riconoscimento in qualche modo avviene. L’ambivalenza di Brecht è giustificata nel senso che egli stesso si trova su un crinale pericoloso, che può colludere anche con quella mitologia germanica negativa che produce fantasmi che possono diventare mostri. Sotto traccia, però, c’è una polemica molto contemporanea. Kragler è anche il personaggio che rifiuta quella parte dell’Espressionismo tedesco che era più incline a lasciarsi trascinare dentro la mitologia germanica o a ripiegare in una sorta di soggettivismo intimista a tinte fosche. L’espediente teatrale usato da Brecht è di rappresentarlo come un personaggio comico, ubriaco e un po‘ sconclusionato. Anche questo, però, non risolve il problema. Jesi avverte opportunamente che quando Brecht scrisse I tamburi nella notte, il concetto di straniamento  – che diventerà centrale e fondamentale in tutte le sue opere e che sarà l’oggetto di un importante saggio scritto da Benjamin sul teatro di Brecht 9 – non era stato ancora elaborato dal drammaturgo, per cui la figura di Kragler risulta inquinata da una certa dose di simpatia del suo autore nei suoi confronti. Tuttavia a me pare che la questione sia ancora più complessa e che Jesi la conosca benissimo. Brecht si stava interrogando sul senso del comportamento eroico, altro tema nevralgico per la cultura tedesca e non solo. Su questo Brecht fu sempre molto netto: fu lui a dire guai a quel popolo che ha bisogno di eroi e allora I tamburi nella notte ci riportano alla domanda delle domande, la stessa che, sotto traccia, si pone Jesi dall’inizio di Spartakus: il sacrificio di Luxemburg e Liebknecht fu un gesto romantico-espressionista che in qualche modo collude anche con quella zona oscura del mito germanico, oppure fu altro? Brecht non sciolse mai del tutto il dilemma e questo spiega la sua costante ambivalenza nei confronti della sua opera, mentre invece Jesi ha dato una risposta netta, non in polemica diretta con Brecht e neppure con Thomas Mann, ma basata sul rifiuto di stare per forza dentro le maglie strette della dialettica fra mito e storia. Jesi contesta che la fine dei due leader della rivolta sia rapportabile a un atteggiamento romantico-espressionista, ma si pone a lato di entrambi i poli della questione – il mito da uno la storia dall’altro – considerandoli non dentro una cogente e inestricabile relazione che ricorda più il destino che non la dialettica, ma cerca di leggere nella loro autonomia cosa sta dentro l’uno e dentro l’altra per giungere alla sua conclusione:

[…] Siamo perfettamente disposti a considerare la morte di Liebknecht e della Luxemburg, dal punto di vista della più razionale strategia politica, un errore; ma vogliamo distinguere le ragioni della loro scelta di morte da un “malinteso senso dell‘onore“ che fu individuato da alcuni storici subito dopo la seconda guerra mondiale […] si trattò di usare la propaganda  – oggi così simile a menzogna – nel suo significato più genuino: nello stesso significato –  ci si consenta una digressione di tempo e di luogo – in cui nel Vietnam si è scelto il suicidio col fuoco come simbolo di reazione contro l’aggressione americana. Giocare la propria persona sul limite della morte mentre le vie del quartiere dei giornali di Berlino erano campi di battaglia, significò allora compiere la sutura fra mito genuino, affiorato spontaneamente e disinteressatamente dalla profondità della psiche, e autentica propaganda politica. In questo modo la propaganda fu una manifestazione della verità, o almeno di quella verità in cui credevano le vittime della sua epifania.. 10

Nel capitolo quarto dal titolo Inattualità della rivolta, Jesi tira le fila della riflessione. All’inizio ricorda una frase di Nietsche che, pensando ai tedeschi e alla loro storia, afferma in sostanza che essi appartengono all’altro ieri e al dopodomani ma che non hanno un oggi. Jesi riprende la frase e la colloca in un contesto completamente diverso da quello pensato dal filosofo e cioè:

[…] all’intersezione dell’“una volta per sempre“ e dell’“eterno ritorno“: non tanto del tempo storico  e del tempo mitico ma dell’altro ieri e del dopodomani.11

Dopo aver notato che sulla rivolta premevano e si manifestavano forze del passato tedesco, per cui essa non scaturiva solo dalle contraddizioni del suo tempo, Jesi ne deduce la mancanza di una realistica valutazione di contraddizioni e rapporti di forza. In sostanza, ripete che mentre la rivoluzione è un rovesciamento dialettico dell’esistente che corrisponde all’oggi ed è compiutamente nella storia (immagino che la Rivoluzione d’Ottobre fosse sullo sfondo di tale ragionamento), la rivolta:

[…] conserva del passato eredità così pesanti da escludere un vera e propria dialettica […] La rivolta, proprio perché esclude la dialettica delle contraddizioni  interne al capitalismo nascente  è l’epifania violenta delle componenti reazionarie nelle mani dei rivoltosi, suscita il “dopodomani“ […] ne evoca l’epifania. Quali rapporti possiede quell’epifania con la realtà storica? In quale misura l’epifania del dopodomani è un contributo al rovesciamento del capitalismo?12

Per poter rispondere a tali domande occorre abbandonare il punto di vista storicista, del tutto interno alle contraddizioni dialettiche date ed è proprio questo uno dei temi centrali delle tesi sulla storia di Benjamin. La possibilità di valutare l’utilità dell’epifania del dopodomani:

 […] è insita in una indagine fenomenologica che agisce dall’interno garantendo dall’interno obiettività alla rivolta e alle sue esperienze del tempo […] riconoscere nella rivolta quell’esasperazione della reazione che prepara il dopodomani ben più della rivoluzione. Se ciò che importa è unicamente l’oggi o il domani niente è più riprovevole della rivolta. Ma se il dopodomani conta e conta più dell’oggi e del domani la rivolta è un fatto altamente positivo.13

Questo brano può forse aiutare meglio a comprendere perché il saggio introduttivo a Spartakus s’intitoli Sovversione e memoria. L’operazione che Jesi compie con questo libro si apre a ventaglio su molte questioni, ma prima di tutto ha a che fare proprio con quell’esigenza di compiere un’indagine fenomenologica dall’interno della rivolta. Il libro è prima di tutto questo e non mi sembra di avere letto altrove analisi altrettanto puntuali. Quelle più canoniche e scontate si limitano a prendere atto del fallimento, oppure si trincerano dietro l’omaggio a Luxemburg e a Liebknecht; oppure ancora sottolineano alcune cose ovvie, cui accenna anche Jesi e cioè che furono all’opera anche agenti provocatori. La sensazione è che la rivolta, come più volte accenna anche Jesi, sia stata messa fra parentesi anche da Brecht molti anni dopo, ma senza mai risolvere veramente il problema. Per tale ragione I tamburi nella notte escono ed entrano dalla sua produzione come qualcosa di semiclandestino. Qualcosa di più però era nell‘intento di Jesi e si preciserà risalendo al saggio sul Battello ebbro del 1996.

Il Battello ebbro e Spartakus

Il saggio su Rimbaud fu pubblicato una prima volta nel 1972 su Comunità e poi nel 1996 da Quodlibet. Esso è successivo alla stesura di Spartakus; solo che nessuno poteva saperlo con certezza, dal momento che quest’ultimo fu ritrovato fra le carte del suo autore soltanto nel 2000, vent’anni dopo la sua morte; tuttavia, erano in molti a sapere della sua esistenza e fra le testimonianze c’è anche una lettera di particolare importanza. Le due opere, in ogni caso, si rimandano l’una all’altra in un intreccio che pone molti problemi, anche di decifrazione dei due testi: entrambe infine, rimandano ad altre due opere di Jesi e cioè a Germania segreta e Il tempo della festa. Il saggio sul Battello ebbro è una vetta particolarmente elevata del suo lavoro critico e in particolare un’esemplificazione fra le più originali del metodo di lavoro, sempre indirizzato a trovare connessioni remote fra testo letterario e storia, storia e mito, ma rifiutando al tempo stesso la connessione dialettica fra i due termini che Jesi considera come già si è visto una manipolazione borghese del tempo: tale concetto è ripetuto più volte in forme diverse. Nel caso specifico di questo saggio c’è però un elemento in più, ingombrante e affascinante e cioè che il lavoro critico è su un testo intorno al quale, come Jesi stesso ricorda nei paragrafi introduttivi, è stato costruito, da chi è venuto dopo, un monumento imponente. Avvicinarsi al Battello ebbro vuol dire cimentarsi anche con la critica propriamente letteraria e con tale monumento.

Le date hanno un’enorme importanza nella ricostruzione del percorso intellettuale di Jesi. Nella sua introduzione a Spartakus, Cavalletti ricorda un particolare: fu proprio nella notte fra l’11 e il 12 dicembre del 1969 che Furio Jesi scrisse una lettera a un amico nel quale annunciava che la stesura di Spartakus. Simbologia della rivolta era finalmente concluso. Il giorno dopo a Milano successe qualcosa che cambiò radicalmente la storia italiana recente: la bomba di piazza Fontana. Cavalletti non lo nota, ma tale circostanza casuale ha a mio avviso profondamente a che fare con Jesi e con la sua ricerca, e forse permette anche di capire meglio per quale ragione un libro come Spartakus non fu pubblicato fino al 2000. Le vicende editoriali che Cavalletti riassume puntualmente nella sua introduzione, non sono a mio avviso sufficienti a determinare con certezza le ragioni per cui il libro venne alla luce così tardi. Jesi era già così noto e – anzi – considerato un enfant prodige della critica italiana, che non gli sarebbe stato difficile trovare un editore, dopo la rottura intervenuta con Silva; oppure poteva pubblicarlo egli stesso, come avveniva in quegli anni. Certe edizioni Feltrinelli – i piccoli libri rossi – che erano assai simili ai samizdat clandestini che venivano pubblicati in Unione Sovietica ma anche a Berlino nel 1968, lo avrebbero ospitato sicuramente. Forse Jesi scelse di non pubblicarlo, riflettendo su quanto stava avvenendo in Italia e lasciò fluttuare quel libro, ben sapendo che prima o poi sarebbe stato ritrovato. Quanto al Battello ebbro tutto sembra più chiaro, ma a ben vedere la cosa non è affatto scontata. Non ci sono dubbi sull’autenticità della lettera di Jesi del ‘69, ma non possiamo essere del tutto certi che Spartakus non sia stato modificato successivamente. Poiché in entrambi i testi ci sono parti riportate quasi letteralmente e integralmente in qualche caso, parrebbe scontato che si tratterebbe di una trasposizione dal primo al secondo, ma ci sono buone ragioni per pensare che potrebbe essere anche il contrario.

Il Battello di Rimbaud e il Battello di Jesi

Prima di entrare nel merito dell‘opera, Jesi sgombra subito il campo da un possibile equivoco: la partecipazione di Rimbaud alla Comune di Parigi è probabilmente leggenda, legata a qualche sua frase in cui il poeta esprime un generico entusiasmo per l’insurrezione e l’intenzione di partire per la capitale francese. Se anche non fosse leggenda, tuttavia, l’analisi di Jesi rovescia i termini della questione fino al paradosso: è se mai il testo ad avere partecipato all’insurrezione, ma non il suo autore. Rimbaud fu un profeta della rivolta, ma lo fu per una coincidenza di date e involontariamente, mentre di suo perseguiva altro fin dall’inizio: affrancarsi dall’angusta provincia francese per farsi notare da quelli di Parigi. Jesi s’interroga sulla natura delle visioni che vi compaiono e parla della presenza in esso di due miraggi. Il primo è una sospensione del tempo storico, espressione che Jesi ritiene essenziale per comprendere cosa sia una rivolta, come aveva scritto in Spartakus:

Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo […] Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sé non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico 14

L’equipaggio del battello, ucciso dai pellirosse, proietta il mezzo verso un viaggio immaginario, che per Jesi è collegato al mondo dell’infanzia. Se pensiamo a un bambino che gioca e che trasforma qualsiasi oggetto tenga in mano in qualcosa d’altro, ritroviamo alcune delle modalità del viaggio immaginario che Rimbaud fa compiere al suo battello. Il secondo, alla fine del testo, è il miraggio di un mondo rimpicciolito, dove il battello – ridotto alle dimensioni di una barchetta di carta che un bambino libera in una pozzanghera – riporta tutto a una dimensione prosaica e infantile: la visione lascia il posto a un mondo che torna a misura di bambino, ma che riflette anche la delusione di una sconfitta. Il regno della libertà senza limiti è perduto e l’immagine finale non è solo il ritorno a una dimensione rimpicciolita – un mondo di bambini come lo definisce Jesi – ma è paradossalmente anche il suo opposto: il bambino è diventato adulto, ha compreso che il regno della libertà senza alcun limite semplicemente non esiste. L’aspetto bambinesco e infantile, tuttavia, è presente in entrambi i miraggi e le due parole, peraltro, non sono la fotocopia l’una dell’altra: infantile vuol dire qualcosa di diverso dal semplice essere bambino e può benissimo descrivere anche la condizione di un diciassettenne come era Rimbaud quando scrisse il Battello ebbro che, ricorda Jesi una seconda volta, fu un testo d’occasione, scritto per farsi vedere e accreditarsi come poeta presso il mondo degli adulti che contano. Jesi arriva a definirlo una sorte di merce che il bambino-adolescente Rimbaud offre ai parigini e ai posteri che gli costruiranno sopra un duplice monumento: sul testo medesimo e sul poeta come personaggio. Arrivato a questo punto, Jesi s’interroga però sulle visioni che accompagnano il testo e le descrive come luoghi comuni. Il termine è usato in due accezioni diverse: l’una è quella che associa il concetto a qualcosa di prosaico, per esempio le immagini tratte da Magasin Pittoresque, una rivista molto amata da Rimbaud nella quale si ritrovano spunti paesaggistici che poi il poeta riusa nel testo (di cui parla peraltro Rimbaud stesso in Une saison en enfer). La seconda accezione del termine, più complessa, viene trattata da Jesi nel paragrafo 11 e ha a che fare con le immagini che provengono all’autore da non si sa da che cosa o dove. Jesi sta parlando del processo creativo e si chiede se sia lecito affermare che tali visioni giungono al poeta o che addirittura s’impadroniscono dello scrivente: è quello che intendevano i romantici per ispirazione, qualcosa che giunge al poeta da un altrove – Jesi lo definisce proprio un altro mondo – in cui si mescolano luoghi comuni o cose nuovissime, risonanze arcane e immagini che si sono impresse nella memoria e poi sono state dimenticate. Questo è per Jesi proprio il modo di funzionare della macchina mitologica. Dopo avere posto tale analogia, egli s’interroga sulla medesima e scrive:

Credere a ciò equivale a credere che il mito esista autonomamente entro la macchina mitologica […] Non credere a ciò equivale a non credere nell’esistenza autonoma del mito entro la macchina mitologica, equivale a essere persuasi che la macchina mitologica è vuota e che il mito così  come l’essenza dei luoghi comuni usufruibili nell’“Alchimie du verbe“, sia un vuoto cui la macchina mitologica rimanda. 15

Nel paragrafo 12, che cito per intero, Jesi tira le fila della sua riflessione:

Pare a questo punto che ci sia un’alternativa: fede e non-fede. E tuttavia, almeno entro i limiti del nostro linguaggio, (dunque entro i limiti in cui la parola “alternativa“ è significante), tale alternativa di fatto non c’è. Credere che il mito sia autonomamente dentro la macchina mitologica  – che l’essenza del luogo comune sia autonomamente dentro l’“Alchimie du verbe“ –  non può voler dire altro che il mito non c’è – che l’essenza del luogo comune non è: se ci sono, sono in un “altro mondo“: ci non-sono. Anche il più convinto sostenitore della non fede è costretto a consentire a un involontario atto di fede: non vi è fede più esatta in un“altro mondo“ che Ci non-è della dichiarazione che tale“altro mondo“ non è. La particella “ci“ aderisce strettamente al J’aimais di Rimbaud e indica soltanto l’adesione deliberata di contro all’adesione involontaria. Vi è d’altronde una differenza importante fra il negare per affermare e il negare per negare fra il dire che quel mondo“altro“ ci-non è e il dire che esso non è […] Assolutamente inadatta ad essere in qualche modo istruttiva circa quel mondo, poiché il nostro linguaggio resta inerte dinanzi al miraggio del divenire, “la freccia che supera la corda per essere raccolta nel balzo, più di se stessa“ codesta differenza è invece molto istruttiva circa il comportamento degli uomini che essa discrimina. Gli uni, gli uomini del ci-non è possono essere gli uomini della rivolta  e certamente sono predisposti a divenirne i profeti ed essere usati come i profeti di essa, e suoi fiancheggiatori che ne promettono la sua ripetibilità; gli altri, gli uomini del non è, hanno dinnanzi solo la rivoluzione o la conservazione se decidono di rinunciare a se stessi e di accettare i rapporti di forza in cui si trovano. Il fascino della rivolta consiste innanzitutto nella sua immediata inevitabilità:  essa deve ineluttabilmente accadere. Il tempo è sospeso: ciò che è una volta è per tutto. Così come nell’alchimia, se l’esperimento fallisce ciò significa che non si era sufficientemente consapevoli e puri. Il profeta annuncia la sospensione del tempo, ed anche la ripetibilità della sospensione del tempo. La rivoluzione può esercitare fascino assai minore proprio perché è estremamente arduo ed incerto stabilire quale sia il suo giusto tempo, ed anche perché, non essendo inevitabile, nel giusto tempo, se non ha luogo nel momento giusto non accadrà forse più per un lunghissimo intervallo di tempo.16

Ebbene, questo passaggio così decisivo per mettere a punto il nucleo teorico di cui Jesi si serve nella sua analisi della rivolta spartachista in Spartakus, si trova solo nel saggio sul Battello ebbro, mentre molti passaggi sono riportati alla lettera in entrambi i libri, per esempio quello qui di seguito, assai noto e celebrato:

[…] Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la  collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi delle cariche, molto più che giocando da bambini per le sue strade o passeggiandovi più tardi con una ragazza. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città […]17

Torniamo al testo di Rimbaud. Nella sequenza di visioni che costellano il primo dei due miraggi compaiono  i fiumi impassibili, le incredibili Floride, le Penisole libere da ormeggi i sogni di notti verdi dalle nevi abbagliate e cioè tutto un campionario in cui si mescolano luoghi comuni banali e suggestioni, per approdare al luogo comune più frequentato dalla cultura europea a partire dalla seconda metà del ‘700: la fuga dall’Europa, verso il suo sud e l‘oriente. Il Grand Tour del battello ebbro, però, va verso le Americhe e questo è per quanto mi riguarda un passaggio decisivo che mi sembra Jesi sottovaluti. Il regno della libertà senza alcun limite, che il battello sperimenta, si trasforma presto nel suo opposto e improvvisamente il testo cambia tono:

[…] Filando eternamente sull’acque azzurre e immobili/, Io rimpiango l’Europa dai parapetti antichi!// Ho visto gli arcipelaghi siderei e isole/Dai cieli deliranti aperti al vogatore:/È in queste notti immense che dormi e t’esili/Stuoli d’uccelli d’oro o futuro vigore? –  Ma è vero ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti./Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro […] Se desidero un’acqua d’Europa è una pozzanghera/Nera e gelida quando nell’ora del crepuscolo/Un bimbo malinconico libera in ginocchio/ Un battello leggero come farfalla a  maggio […]

Rimbaud fra i miraggi e la storia

Jesi, oltre ai due miraggi, indica l’esistenza di un terzo livello – lui lo definisce con l’espressione significati terzi  – ed è proprio su tale terzo livello che si gioca la possibilità di una sintesi ed è anche, per quanto mi riguarda, il punto su cui la mia riflessione diverge da quella di Jesi. Tale terzo livello si gioca sempre dentro la dinamica fra l’aspetto bambino e infantile che percorre il testo di Rimbaud e il suo aspetto adulto. Jesi nota come il viaggio avventuroso del Battello sia dovuto al caso – Sentii che i trainanti non mi guidavan più – e con ironia sottolinea come esso non sia la La corazzata Potëmkin conquistata dal suo equipaggio per dare inizio a una rivoluzione. Jesi inserisce questa rapida notazione per ribadire che mentre la rivoluzione è una sequenza di atti pensati e programmati, la rivolta non lo è: si tratta di un chiaro riferimento di quanto affermato in Spartakus. Se l‘avventura del battello serve a Jesi per introdurre il dispositivo teorico del ci-non è, tuttavia egli ha per me il torto di fermarsi a quello da un punto di vista critico letterario e di saltare subito alle conclusioni:

[…] Nel Bateau ivre il fallimento dell’esperienza del regno della libertà in termini di materia poetica apre per Rimbaud la via di una critica al privilegio della materia poetica, che condurrà all’abbandono dell’attività creativa e all’esperienza abissina: dal luogo comune in sede di poesia al luogo comune in sede di comportamento. Se l’attività poetica di Rimbaud costituisce un momento di rivolta, la sua attività di commerciante e viaggiatore in Africa costituisce un  momento di rivoluzione. Si tratta però di una rivoluzione solitaria e pessimistica …18

Tale sintesi non mi convince perché è basata su una totale separazione del testo dall’adulto Rimbaud, che nascerebbe solo a opera compiuta. Jesi stesso ci ha però ricordato come per il poeta quello fu un testo d’occasione scritto perché lo vedessero quelli di Parigi e dunque nel diciassettenne era già attivo – seppure in modo ancora ingenuo – anche l’affarista: non ci sono mai stati due Rimbaud! Ci sono invece a mio avviso tre frammenti nell’opera, che si scostano dal meccanismo delle visioni e dei luoghi comuni e dunque dai significati primo e secondo. Sono tre frammenti che fra l’altro spiegano a mio giudizio la stranezza di questo Grand Tour che invece di dirigersi a sud e a oriente, va invece verso le Americhe. Il primo frammento è proprio all’inizio del testo:

[…] Col mio cotone inglese con il mio grano fiammingo/Non mi curavo più di avere un equipaggio/

Il secondo frammento si colloca idealmente nel mezzo, seppure un po’ spostato verso il finale:

[…] Spinto dall’uragano nell’aria senza uccelli/ – Nè i velieri anseatici, né i Monitori avrebbero/ Ripescato il mio scafo ubriaco d’acqua.

Infine proprio i versi finali:

/Non posso più, bagnato da quei languori e onde/Filare nella scia di chi porta cotone,/Né fendere l’orgoglio dei pavesi e dei labari,/né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni.19

Nel profluvio di visioni e luoghi comuni compare improvviso in questi frammenti l’orrore della storia: il battello trasporta le merci coloniali per eccellenza e va sulle rotte delle Americhe, perché è là che avvengono i traffici più sordidi, compreso lo schiavismo. Però nel testo, a dispetto di Rimbaud, è la rivolta che vince perché il battello alla fine dice che non può più filare nella scia di chi porta il cotone: certo, è tornato a essere una barchetta di carta liberata in una pozzanghera, ma il testo contraddice le scelte dell’uomo e non le conferma. Rimbaud non era un rivoltoso, tanto meno un rivoluzionario, ma un ribelle senza causa che, avendo in odio i piccoli borghesi di Charleville, scrive un testo d’occasione per farsi notare da quelli di Parigi.

Conclusioni provvisorie e in progress

Spartakus e il saggio sul Battello ebbro si rimandano l’uno all’altro e in fondo ha poca importanza sapere quale dei due venga prima e se il primo sia stato modificato. In entrambi c’è tuttavia un passaggio assai simile che mi porta verso le conclusioni: perché se l’aspetto puramente letterario dell’analisi Jesi si conclude nei modi già detti, il nucleo teorico messo a punto con il Ci-non è, rimane ancora inconcluso e incompleto. Riporto allora due citazioni che si trovano in entrambi i testi, pur con qualche minimo scostamento:

Da Spartakus: La differenza fra rivolta e rivoluzione non va cercata negli scopi dell’una e dell’altra […] Ciò che maggiormente distingue la rivolta dalla rivoluzione è invece una diversa esperienza del tempo. Se, in base al significato corrente delle due parole, la rivolta è un improvviso scoppio insurrezionale che può venire inserito dentro un disegno strategico, ma che di per sè non implica una strategia a lunga distanza, e la rivoluzione è invece un complesso strategico di movimenti insurrezionali coordinati e orientati a scadenza relativamente lunga verso gli obiettivi finali, si potrebbe dire che la rivolta sospenda il tempo storico e instauri repentinamente un tempo in cui tutto ciò che si compie vale per se stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con il complesso di transitorietà e di perennità di cui consiste la storia. La rivoluzione sarebbe invece interamente e deliberatamente calata nel tempo storico

Dal Saggio sul Battello ebbro: La parola rivoluzione designa correttamente tutto il complesso di azioni a breve e a lunga distanza che sono compiute da chi è cosciente di voler mutare nel tempo storico una situazione politica, […] ed elabora i suoi piani tattici e strategici considerando costantemente nel tempo storico i rapporti di causa ed effetto. Ogni rivolta si può invece descrivere come una sospensione del tempo storico. Nello scontro della rivolta si decantano le componenti simboliche dell’ideologia che ha esso in moto la strategia e solo quelle sono davvero percepite dai combattenti. 20

Nel finale del saggio sul Battello ebbro Jesi si rende conto che continuare a ripetere semplicemente che storia e mito, rivoluzione e rivolta sono pur sempre manipolazioni borghesi del tempo, non è sufficiente perché se si rimane fermi a questo si rischia di far ritornare dalla finestra una condizione destinale che si era scacciata dalla porta. Il problema è così affrontato nell’ultimo paragrafo, il tredicesimo. Ne cito solo le parti che si riferiscono al tema del rapporto fra storia e macchina mitologica, perché altre parti in cui Jesi ritorna alla critica letteraria del testo di Rimbaud non aggiungono nulla a quanto detto in precedenza.

L’una e l’altra, […] la rivolta e la rivoluzione, non contraddicono a livello concettuale il modello proposto dalla macchina mitologica. Anzi: nella prospettiva operata si adatta sia all’una sia all’altra e codesto modello finisce per identificarsi con l’a priori che resta quale fondamento solido e oscuro del processo gnoseologico. Di fronte all’essenza del luogo comune – o all’essenza del mito – non vi è autentica alternativa concettuale, bensì soltanto alternativa gestuale, di comportamento, […] che resta comunque circoscritto entro la scatola delimitata dalle pareti della macchina mitologica. Rivolta e rivoluzione a livello concettuale, restano null’altro che diverse articolazioni (sospensione del tempo; tempo giusto), del tempo che vige all’interno di quella scatola .[..] Spezzare codesta radice significherebbe disporre di un linguaggio o di un complesso di gesti tali da affrontare la macchina mitologica su un piano che consentisse di dichiarare al tempo stesso l’esistenza e la non-esistenza di ciò che la macchina dice di contenere […]21

Tale conclusione non ribadisce semplicemente il valore del nucleo teorico del ci-non è, che è pur sempre solo un concetto. La parte finale della citazione chiude una parte del discorso e si apre al tempo stesso su un orizzonte di senso che rimanda alla necessità di un linguaggio-gesto e a un altro libro di Jesi e cioè Il tempo della festa. È un passaggio che per analogia, si parva licet,  mi ricorda un altro passaggio e cioè quello che avviene fra i Manoscritti economico filosofici del ’43  che rimangono pur sempre nell’ambito della critica del pensiero e del concetti hegeliani e le Tesi su Feuerbach, purché le si legga sempre per intero e non si usi l’undicesima tesi come una clava da dare in testa a qualcuno. Jesi compie il medesimo passo con una coerenza ardua da seguire, eppure esposta con chiarezza, perché le elaborazioni dei suoi testi maggiori, non nascono solo da una rara capacità di scovare connessioni remote fra storia, mito e letteratura. In questo fu certamente un maestro, ma nel caso specifico dei testi ricordati essi non sarebbero nati se non fossero stati sostenuti anche da una felice combinazione di gesti-parole o viceversa perché la formula può essere usata a partire da entrambi i lati, come viene affermato nel paragrafo 13 del saggio su Battello ebbro. In questo senso ha ragione Cavalletti nell’affermare che quest’ultimo è anche un passo avanti rispetto a Spartakus, ma non nel senso del superamento dialettico hegeliano. Il giudizio di Cavalletti che il saggio in questione sarebbe anche una critica degli spartachisti come si evince nella conferenza di Scaldasole Books non mi convince, se non in parte. Jesi non rivede il suo giudizio, contenuto in Spartakus e per questa ragione lo riporto una seconda volta qui:

[…] Siamo perfettamente disposti a considerare la morte di Liebknecht e della Luxemburg, dal punto di vista della più razionale strategia politica, un errore; ma vogliamo distinguere le ragioni della loro scelta di morte da un “malinteso senso dell‘onore“ che fu individuato da alcuni storici subito dopo la seconda guerra mondiale … si trattò di usare la propaganda  – oggi così simile a menzogna – nel suo significato più genuino: nello stesso significato –  ci si consenta una digressione di tempo e di luogo – in cui nel Vietnam si è scelto il suicidio col fuoco come simbolo di reazione contro l’aggressione americana. Giocare la propria persona sul limite della morte mentre le vie del quartiere dei giornali di Berlino erano campi di battaglia, significò allora compiere la sutura fra mito genuino, affiorato spontaneamente e disinteressatamente dalla profondità della psiche e autentica propaganda politica. In questo modo la propaganda fu una manifestazione della, verità, o almeno di quella verità in cui credevano le vittime della sua epifania.. 22

Il suo concetto di superamento si smarca sempre dalle ferree leggi della dialettica, perché un superamento reale o avviene grazie a una praxis diversa, cioè a una parola-gesto diversa, oppure è un superamento idealistico che avviene solo nel concetto. Nei testi che sono confluiti in Il tempo della festa, almeno secondo quanto scrivono Cavalletti e Il saggio di Kieran Aarons, Cruel Festivals: Furio Jesi and the Critique of Political Autonomy Jesi criticherà anche la rivolta, ma senza condanne del passato spartachista o dei comunardi, e la ragione la vedo nell’essere lui stesso dentro quella necessità di possedere una parola-gesto che sia esposta e quindi riconoscibile. Questione quanto mai importante per noi che viviamo nel tempo della chiacchiera includente e della sinistra afasica.


1 Il saggio in questione ha il pregio di saltare sopra tutta una serie di problemi, per andare al nocciolo di una questione di grande importanza e cioè il modo di trattare da parte di entrambi la dialettica e il tempo. Anche Benjamin si pose una prima volta questo problema nel più importante dei suoi saggi giovanili, intitolato Della violenza e del diritto, scritto nel 1921. Il saggio può essere considerato come la sua riflessione sulla Rivoluzione d’Ottobre. In esso, oltre a sostenere con forza la piena legittimità della rivoluzione, si poneva tuttavia il problema di non dare per scontata l’esistenza di coppie dialettiche che invece vanno viste nelle loro diverse componenti interne e non nelle immagini sintetiche che se ne danno. La riflessione di Jesi sugli stessi argomenti ha delle analogie con l’opera di Benjamin, che Jesi conosceva molto bene.

2 Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di Andrea Cavalletti, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pag. 14.

3 Thomas Mann La montagna incantata. La mia edizione è quella antica di Dall’Oglio pubblicata nel 1930 , pag. 803.

4 L’espressione è usata diverse volte nel libro e anche in altri saggi

5 Furio Jesi, Spartakus,Simbologia  della rivolta, Bollati Boringheiri, Torino 2000, pag. 15.

6 Nel prosieguo del testo Jesi abbonda di digressioni storiche ma anche di riferimenti al teatro proletario di Piscator con accenti che ricordano le esperienze compiute da Benjamin e Lācis a Riga e a Mosca. Questa parte del libro sarà un po’ trascurata per arrivare invece a uno snodo che ci riporta al tema centrale di questa riflessione. Il libro di Jesi, non facilmente reperibile se non in biblioteca, merita di certo una lettura nella sua totalità.

7 Op.cit.pag. 19.

8 Op. cit. pp.18-33.

9 Il saggio in questione s’intitola Che cos’è il teatro epico in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.

10 Op.cit.pp.15-16.

11 Op,cit. pag. 82. Credo sia utile aggiungere una breve spiegazione di alcune parti di questa citazione, che anche il libro fa. Luxemburg e Liebknecht avrebbero potuto lasciare Berlino in tutta sicurezza e rifugiarsi altrove, ma decisero di rimanere e di correre il rischio della loro cattura e morte, quasi certa viste le circostanze.

12 Op.cit. pag.83.

13 Ivi.

14 Spartakus, simbologia della rivolta, pag. 11 Alla vigilia della sua partenza per Parigi Rimbaud legge il Bateau ivre all’amico Ernest Delahye. Consegnandogli il testo aggiunge: “L’ho fatto perché lo vedano quelli di Parigi“. Op.cit. Pag.13.

15 Furio Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, con prefazione di Giorgio Agamben un saggio di Andrea Cavalletti, Quodlibet, pag.28.

16 Op.cit. pp-20-30.

17 Nel saggio su Rimbaud alla pagina 23-4.

18 Furio Jesi, lettura del Bateau ivre, pag. 28.

19 Op.cit. pp. 39-43.

20 Op. cit. Pag. 22.

21 Op.cit.31.

22 Op.cit.pp.15-16.

Fuori Asse

Ricevo dalle Nina’s Drag Queen il programma della nuova edizione di Fuori Asse, che si tiene, come quella scorso anno, in Triennale. Gli scambi fra teatro e arte circense  sono relativamente nuovi e promettono assai bene. L’edizione dello scorso anno fu un indubbio successo, che mi auguro sia ripetuto in questa nuova edizione di cui di seguito vedete il programma.

Fuori Asse Focus 2024 | AI CONFINI DEL CIRCO presenta una selezione di quattro spettacoli di circo contemporaneo a cura degli amici di Quattrox4 programmati all’interno di Triennale Milano Teatro.

Per Quattrox4 il circo è creazione, in transizione tra generi e stili, capace di superare il virtuosismo per aprire a nuovi scenari. Gli spettacoli in programma sono consigliati dagli 8 anni in su.

Giunto alla sua terza edizione, Fuori Asse Focus 2024 | AI CONFINI DEL CIRCO è un format di visione con accompagnamento critico curato da Quattrox4 all’interno di Triennale Milano Teatro: quattro spettacoli di circo contemporaneo, due incontri con gli artist*, una tavola rotonda per operatrici e operatori interessati alle nuove funzioni della critica nel circo contemporaneo. Gli spettacoli in programma esprimono una visione audace del circo contemporaneo come arte di creazione, in transizione tra generi e stili, capace di superare il virtuosismo per aprire a nuovi scenari della performance tra sperimentazione e forme ibride site-specific, muovendosi sul margine tra danza, teatro, installazione e performance art.

PROGRAMMA

Venerdì 19 Gennaio 2024
20:00 LONTANO + INSTANTE di Marica Marinoni e Juan Ignacio Tula (30’+ 30’)

Sabato 20 Gennaio 2024
17:00 ONLY BONES v1.6 di Marina Cherry (30’)
18:00 Incontro con Juan Ignacio Tula e Marica Marinoni (60’)
20:00 C’EST L’HIVER, LE CIEL EST BLEU di Amanda Homa e Idriss Roca (60’)

Domenica 21 Gennaio 2024
11:30 TAVOLA ROTONDA sulla critica nel circo contemporaneo (120′)
15:30 C’EST L’HIVER, LE CIEL EST BLEU di Amanda Homa e Idriss Roca (60’)
17:00 ONLY BONES v1.6 di Marina Cherry (30’)
18:00 Incontro con Amanda Homa, Idriss Roca e Marina Cherry (60’)
19:30 LONTANO + INSTANTE di Marica Marinoni e Juan Ignacio Tula (30’+ 30’)

LUOGO

Triennale Milano Teatro
viale Emilio Alemagna 6, 20121 Milano

IL DISCORSO DI PAOLA CORTELLESI ALLA LUISS

Le polemiche indecenti seguite al discorso di Paola Cortellesi alla Luiss, non stupiscono più di tanto. L’università, peraltro, ha compiuto una scelta quanto mai opportuna: mettere in rete il discorso tenuto da Cortellesi. Lo si può ascoltare ma questo servirà a poco e di certo non a coloro che hanno innescato una polemica sul nulla. Mi sono limitato a raccogliere alcuni degli interventi più sensati e ad assemblarli. In fondo alla pagina il link per permette di ascoltare o di leggere il discorso.

Da Donnapop

Prima che lo diciate voi, lo facciamo noi: sì, ci sono argomenti più importanti delle fiabe Disney. No, non abbiamo intenzione di fare la guerra a Biancaneve o Cenerentola. Quello che vogliamo fare, piuttosto, è una riflessione sul modo in cui siamo cresciute e cresciuti.

Paola Cortellesi, ospite dell’università Luiss, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, ha parlato degli stereotipi sessisti nelle fiabe e di come intere generazioni siano cresciute con esempi di donne principalmente belle, ingenue e non in grado di salvarsi da sole. Donne, insomma, che non sono nemmeno la metà della mela, ma forse solo un quarto. Il resto, ovviamente lo fa l’uomo: è l’uomo che le vuole, le cerca, le trova, le sceglie e le sposa. Ma, soprattutto, le salva.

Ecco alcuni passaggi del monologo di Cortellesi: «Siamo sicuri che se Biancaneve fosse stata una cozza il cacciatore l’avrebbe salvata lo stesso?. Perché il principe ha bisogno di una scarpetta per riconoscere Cenerentola, non poteva guardarla in faccia?». E ancora: «Biancaneve faceva la colf ai sette nani». L’attrice e regista, in altre parole, ha parlato della necessità di riconoscere i luoghi comuni e gli stereotipi che hanno costruito la cultura maschilista e patriarcale in Italia.

Il fatto che Cortellesi abbia pienamente ragione e abbia colto nel segno, lo dimostra la reazione di alcuni uomini piccoli, evidentemente spaventati e minacciati dalle parole dell’attrice. Cruciani, ad esempio, ha definito il discorso di Cortellesi una «puttanata colossale». Non solo: come spesso fanno certi uomini, ha tentato anche di depotenziarla e delegittimarla, presentandola come «Paola Cortellesi, famosa attrice, regista, forse produttrice… ormai tutti fanno tutto».

Sì, caro Cruciani, Cortellesi fa tutto e lo fa anche molto bene. Ed è una donna, anche se questo fatto ti infastidisce tanto. Una donna libera, per la precisione.

#donnapop #paolacortellesi #ceancoradomani #cruciani #sessismo #biancaneve

Lea Melandri

Paola Cortellesi alla Luiss

Ma come si fa a impiantare una polemica sul “genere” delle favole a partire da un discorso che ha l’intelligenza critica, ma anche l’ironia e la leggerezza di Paola Cortellesi, le qualità che hanno fatto tanto apprezzare il suo film? Se abbiamo riconosciuto a Carla Lonzi il coraggio di dire “Sputiamo su Hegel”, perché dovremmo toglierci il piacere di farci una risata su Cenerentola, Biancaneve, le loro malvagie matrigne, i loro principi evanescenti? Purtroppo non stiamo solo perdendo il pensiero critico, ma anche il senso liberatorio della comicità. Al grande successo di pubblico del film della Cortellesi non ha contribuito solo il tema purtroppo sempre attuale della violenza domestica ma il fatto di averlo affrontato con la distanza necessaria per mostrarne l’aspetto grottesco, avvilente e risibile al medesimo tempo.

Grazie Paola Cortellesi.

Ecco finalmente il discorso integrale di Paola Cortellesi alla Luiss.

Grazie a Paola Casella per la segnalazione.

Due giorni di polemiche inutili.

https://tg24.sky.it/spettacolo/2024/01/15/paola-cortellesi-monologo-luiss

SUL DIBATTITO INTORNO AL PATRIARCATO

8 marzo

Le recenti riflessioni di Massimo Cacciari sul patriarcato stanno facendo discutere. Le argomentazioni del filosofo sono bizzarre e cervellotiche, ma comunque contengono spunti con i quali la discussione è possibile, a differenza di molti altri interventi maschili, perlopiù giornalistici, che oscillano fra ignoranza, dileggio e, passando per il sarcasmo, sfiorano nei casi più efferati un linguaggio che è istigazione a delinquere.

A Cacciari ha risposto Nicola Fanizza nel brano qui di seguito che getta uno sguardo su diversi altri problemi:

Quando Cacciari dice che il Patriarcato è finito con l’avvento del Rinascimento si sbaglia. Di fatto, nel XV secolo, cominciò ad affermarsi la famiglia mononucleare – composta dai soli genitori e figli – in luogo del Patriarcato o famiglia allargata. Lo sviluppo dello spazio sociale divenne il fuoco da cui si originò il Rinascimento, che va inteso come rinascita del soggetto, di un soggetto che dice il vero.

Così, a partire da quel periodo, il soggetto che dice il vero, però, non sarà più, a differenza di quando avveniva nel mondo ellenico, solo l’uomo bensì anche la donna. Non è un caso che quest’ultima, come Sibilla, venga rappresentata dai pittori del tempo non più come un viatico, come ciò che agevola il transito dell’uomo verso la verità, bensì come una donna che pensa, come una donna che dubita, come una donna che dice il vero. Insomma come un soggetto autonomo.

Fu, tuttavia, solo l’inizio. Il Rinascimento – e questo Cacciari non l’ ha capito, è stato e si configura ancora oggi come un’onda lunga, un onda che non si è ancora esaurita. Il Patriarcato, infatti, esiste tutt’ora, è onnipervasivo, pervade e avvelena ancora lo spazio sociale, impedendo alle donne di pervenire alla loro autonomia, alla loro libertà.

A questo intervento sono seguiti altri commenti che si trovano sulla mia pagina facebook: tutti contengono riflessioni importanti e a quelli rimando.

Adele Cambria, in un’intervista di alcuni anni fa e riproposta di recente a Radio Popolare sosteneva che se si parla solo di patriarcato senza aggiungere che esso è in crisi in tutto il mondo, si rischia di cogliere solo un aspetto della realtà attuale e neppure il più importante. Dall’Iran agli Stati uniti, dalle manifestazioni in Europa e anche in America latina, dove le associazioni femminili delle comunità indigene svolgono un ruolo di primo piano anche nel mettere in discussione la natura patriarcale di governi apparentemente progressisti come era quello di Evo Morales.

Il dominio maschile assume in tale contesto caratteristiche nuove: in Italia, una minoranza di uomini, di cui molti giovani, che si muovono come un’avanguardia acefala dentro un mare di complicità indirette, pretende di esercitare un dominio basato solo sulla violenza fisica e la forza; ma non si tratta del ritorno all’orda primitiva come sostiene una parte della cultura di destra, ma di una reazione violenta alla perdita di autorevolezza, potere e privilegi.

Si aprono qui due problemi a mio avviso: uno riguarda la cultura più reazionaria e di destra che sostiene che il patriarcato non esiste più e che trova svariati echi anche in atri settori dell’opinione pubblica. Il contrasto a questa deriva che è mondiale anch’essa nelle diverse forme che assume, rimane fondamentale, ma a patto che si ragioni sui limiti della cultura democratica e di sinistra. Il femminicidio di Giulia Cecchettin segna a mio avviso in Italia una svolta importante anche nella consapevolezza maschile e questo è testimoniato da livore con cui la parte più reazionaria sta reagendo; ma il problema principale rimane l’altro e cioè i limiti della risposta democratica e di sinistra.  

Alisa Del Re sul Manifesto del 2 dicembre scorso ha pubblicato un articolo che – a mio avviso – ha un inizio davvero singolare, Cari compagni. La prima cosa che ho pensato è stata: ma a chi si rivolge? Perché se si tratta di un modo di ritornare al conflitto degli anni ’70 che vide a un certo punto la sinistra extraparlamentare di allora entrare in rotta di collisione con i nascenti femminismi, il titolo ha un senso perché quelli compagni lo erano, nel senso che ragionavano almeno in termini anticapitalistici. Compagni oggi che cosa vuole dire? C’è qualcuno che ragiona in termini anticapitalistici? Ho pensato allora che fosse un modo di tendere la mano: finalmente avete capito gli errori di allora e si può tornare a ragionare insieme su qualcosa. La strada è certamente questa, ma il problema sta nel fatto che se si parla a quella generazione, che è anche la mia, si rischia di rimanere confinati nella nostra memoria, legittima, ma poco capace di intercettare le giovani generazioni. L’anticapitalismo, per le ragioni più diverse, sembra fuori dalle agende di tutti i movimenti che tutt’al più si limitano a criticarne gli aspetti più feroci. E laddove sembra esistere ancora, per esempio fra i gruppi iper leninisti, ma senza Lenin, esso si traduce in pratiche oscillanti fra il grottesco e il drammatico. Il problema però rimane: come coniugare nei termini oggi attuali un percorso che sia anticapitalistico ma con l’agenda femminista? Come coniugare diritti sociali e diritti civili? Alcune indicazione nel finale dell’intervento di Alisa Del Re ci sono e per quanto riguarda il ruolo che gli uomini possono avere è a mio avviso il solito, fatto di poche cose: rifiuto delle complicità indiretta, rifiuto del linguaggio sessista anche a costo di rompere relazioni, evitare le cene maschili basate sul pecoreccio, un po’ di fantasia e di immaginazione nell’inventare momenti collettivi di riflessione e testimonianza.

NIENTE SILENZIO, FARE RUMORE

Black Monday in Polonia

Premessa

Il femminicidio di Giulia Cecchettin sta suscitando un dibattito che è il sintomo di una società profondamente malata. Lo sapevamo già, ma ci sono momenti in cui avvengono dei salti di qualità e credo che in questo abbia influito anche la recente diffusione e ancor più il successo di massa del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani.

Il dibattito.  

Il profluvio di analisi psicologiche e di autoflagellazioni maschili da cui siamo invasi trascura quasi sempre le ragioni strutturali e patriarcali della violenza maschile sulle donne, la cui estensione per età a maschi sempre più giovani chiama in causa tutto il processo educativo.

Mi sembra siano tre le mistificazioni più importanti, di cui una nuova particolarmente pericolosa, perché fatta propria anche da intellettuali non reazionari. La riassumo in poche parole così:

Il patriarcato ha delle regole, mentre quello cui stiamo assistendo è un ritorno all’orda primitiva maschile pre patriarcale. La sintesi: meglio il patriarcato che è pur sempre – specialmente in Europa aggiunge qualcuno – un mondo di regole in cui vi è spazio anche per i diritti delle donne.

Questa sintesi contiene un falso e molte mistificazioni. Scambiare per realtà la fiction antropologica di Freud sull’orda primitiva trasporta in un passato arcaico e originario un processo contemporaneo che ha tutt’altre motivazioni. Quanto alla fiction in sé, le acquisizioni recenti della paleo antropologia dovrebbero consigliare almeno la prudenza quando si fanno certe ipotesi. Mi sembra importante, a questo proposito, la lettura di un libro come L’alba di tutto di David Graeber e David Wengrow. I processi di imbestiamento (anche linguistico, come si evince leggendo certi articoli della destra più feroce) di una parte del mondo maschile sono un fenomeno modernissimo e rappresentano l’aspetto più appariscente di una reazione ben più vasta, che ha declinazioni diverse in contesti diversi ma una causa comune: reagire con violenza ai processi di liberazione delle donne. Faccio alcuni esempi che sembrano in apparenza lontani da noi. A vedere certe fotografie afgane degli anni ’50 e ’60 c’è da rimanere allibiti: donne che frequentavano l’università, abiti per nulla velati ecc. Com’è possibile? Sono sempre esistite delle minoranze emancipate anche in contesti di regole patriarcali severe, ma a un  patto e cioè che si trattava di privilegi concessi a minoranze. Le cose sono cominciate a cambiare quando la massa delle donne ha rivendicato i propri diritti. Le repressioni di parte islamica più forti sono avvenute laddove le donne erano state protagoniste: le algerine, per esempio, che avevano partecipato in massa alla lotta di liberazione contro la Francia. In sostanza, se non ci si ribella, c’è sempre una minoranza emancipata che può farcela. Mutatis mutandis è quanto avviene oggi in Italia seppure in forme meno efferate ma altrettanto violente. Chi afferma che il patriarcato è un mondo di regole, dice in realtà un’altra cosa: state al vostro posto e qualcosa vi verrà concesso. Oppure ancor meglio – come accade nel film di Paola Cortellesi: devi stare zitta, ripete ossessivamente il personaggio più odioso del film, il nonno.    

La seconda mistificazione mescola insieme elementi psicologici arrivando in qualche caso a definire Filippo Turetta – alternativamente – un malato o un bravo ragazzo. La sintesi è la condanna del delitto ma la negazione del femminicidio. Si punisce al massimo il crimine individuale, ma si negano le ragioni strutturali. Come ha scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, Turetta non è un malato ma un figlio sano del patriarcato. La fragilità maschile esiste eccome, ma invocarla in circostanze come queste non significa voler fare i conti con essa, ma cercare delle giustificazioni. In ogni caso, a chi volesse davvero uscire dal modello virilista e confrontarsi seriamente con la propria fragilità, consiglio per l’ennesima volta di leggere il libro di Edoardo Albinati: La scuola cattolica.

La terza mistificazione, di cui sono responsabili prima di tutto le forze di destra, sono i discorsi generici sull’educazione al rispetto, il piano presentato oggi dal Ministro, un guazzabuglio di false buone intenzioni. La versione leghista delle medesime false buone intenzioni consiste nell’affidare tutto alla famiglia. Sappiamo da tempo dalle statistiche che è nelle famiglie che si consumano le violenze di genere più diffuse. La famiglia non è mai stata un luogo idillico, ma non lo è neppure nella versione hollyvoodiana che viene veicolata da fiction statunitensi come Modern family, riverniciate di modernità e di ammiccamenti al mondo LGBTQ. Il familismo italiano, inoltre, ha un bagaglio assai pesante sulle proprie spalle, che non è patrimonio soltanto della cultura di destra, ma deriva anche dalla cesura che negli anni ’70 si produsse fra la sinistra vecchia e nuova e il femminismo. Andare avanti su una strada minimamente consapevole è togliere queste problematiche dall’ambito privato e familista e riportarle nello spazio pubblico, con lotte mirate e determinate per aumentare e sostenere i centri antiviolenza autogestiti, promuovere e consultori presidi territoriali, far funzionare reti di supporto che favoriscano le denunce.

Il film.

La pellicola di Paola Cortellesi merita un discorso critico importante perché si tratta di un film molto significativo e non solo di un’opera che ha saputo parlare a una platea molto vasta e mi piace pensare che l’ondata di sdegno seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ma anche certi discorsi che si smarcano dai dibattiti più penosi, siano anche il segno che questo film ha seminato una consapevolezza importante in un pubblico vasto, trasversale e non soltanto femminile. Tre mi sembrano i motivi forti della sua narrazione e del montaggio: la capacità di giocare con tutti i cliché che il tema poteva suggerire riuscendo, con alcune mosse spiazzanti, a evitarli tutti ma sempre all’ultimo momento. Dall’uso del bianco e nero, al neorealismo, dalla finzione di far credere a chi vede il film che forse la fuga di Delia sarà con il vecchio carrozziere verso il nord mentre invece quando corre per recarsi al voto e passa davanti alla sua autofficina non si volta neppure verso di essa perché ha da fare qualcosa di molto più importante. Il secondo aspetto è il modo in cui le scene di violenza, solo accennate, si coniugano a un linguaggio musicale che scimmiotta quanto di più ipocrita si nasconde dietro il sogno d’amore. Infine, ma senza rivelare cosa accade per non togliere il gusto di vederlo a chi il film non lo ancora visto, il modo geniale in cui Delia manda all’aria il matrimonio della figlia sfruttando la violenza che il mondo maschile esercita su di loro e rivolgendogliela contro. Quanto all’ambientazione del ’46 e dunque nell’Italia della scelta fra monarchia e repubblica, non condivido quelle critiche che ne fanno una scelta poco comprensibile. Non le condivido perché Cortellesi non parla affatto del 1946 e ancora una volta gioca con il cliché per poi smarcarsi dal medesimo. Il film metabolizza il femminismo ma lo fa in modo traslato: una scena come quella in cui Delia affossa il matrimonio della figlia sarebbe impensabile senza gli anni ’70. Il 1946 è il dito che mostra la luna, il suo film non è il sogno di una cosa del passato (il voto alle donne), ma evoca un domani che ancora non c’è.

Qualche proposta.

La prima

Niente minuti di silenzio ma molto rumore, continuo e possibilmente sempre più forte. Questa mi sembra la prima cosa da dire e fare anche per essere vicini a Elena Cecchettin, che si è esposta con dichiarazioni molto forti.

La seconda

La mobilitazione degli uomini e le sue forme. In passato ho espresso perplessità su manifestazioni di massa di uomini che si sono tradotte in poche iniziative con molte contraddizioni. Tuttavia, l’intervista di Ciccone a Radiopopolare di qualche giorno fa mi sembra importante e quindi se arrivano proposte ben vengano: meglio se sono diffuse sul territorio. Continuo però a pensare che la rottura di complicità indirette con il gruppo maschile sia il modo per far venir meno la solidarietà fra maschi: le cene di soli uomini dove il pecoreccio è dietro l’angolo sono da evitare sempre.

La terza

Utilizzare il libro di Albinati La scuola cattolica per letture pubbliche non stop che continuino per ore, alternandosi al microfono con commenti e altro. Si può fare in teatri, in situazioni di massa o anche più modeste quantitativamente ma diffuse nel territorio.

La quarta

Boicottare in modo sistematico quei prodotti che veicolano messaggi sessisti – sia in forma diretta sia indiretta – nella loro pubblicità. Rispondo all’obiezione sulla impossibilità di farlo, vista il largo uso di pubblicità sessiste, che alcune esperienze fatte altrove invece smentiscono tale impossibilità. Non si tratta di boicottare tutto, ma di scegliere di volta in volta uno o due prodotti e bandirli per un periodo sufficientemente lungo per fare danni. Non bisogna dimenticare che quello da cui siamo oppressi è pur sempre una combinazione di patriarcato e capitalismo e che ciò che spaventa i maschi al governo di tutte le colorazioni politiche è la possibilità di interrompere il flusso delle merci. Altrimenti, anche la denuncia del sessismo nella pubblicità rimane confinato nell’ambito delle opzioni morali senza alcuna conseguenza politica.

GRAND TOUR: IL CASENTINO E LA VALLE TIBERINA

Castello di Poppi

Nell’attraversare la Toscana in questo nuovo viaggio mi ritrovo a pensare che in Italia esistono luoghi che nel tempo hanno conosciuto maggiore o minore fama, senza che ciò implichi una minorità dal punto di vista architettonico, paesaggistico e artistico. Insomma, la provincia italiana non tradisce mai e il Casentino non fa eccezione. Per descriverlo da un punto di vista geografico parto da Arezzo, che costituisce una sorta di baluardo e confine a sud. Dalla città si snoda una lunga strada diritta che percorre una vallata che fiancheggia l’Arno, dove s’incontrano i paesi bassi o appena collinari: Subbiano, Bibbiena, Pratovecchio e Stia dove il Casentino finisce e la strada si protende in due diverse direzione: il Mugello, oppure il salto verso la Romagna in due diverse direzioni, Cesena e Forlì. In questo giro ci sono stati due sconfinamenti, sempre in provincia di Arezzo: Anghiari nella valle tiberina toscana e Monterchi. I paesi alti sono poco abitati e questa caratteristica regionale dell’intera Toscana, si ripropone qui in termini ancora più vistosi. Il silenzio è sovrano, a parte la strada a valle, dove il traffico è più intenso ma senza alcuna frenesia.

Nella zona imperversano molte sagre fra cui numerose quelle della polenta. Certo, siamo in settembre … ma ci sono più di 30 gradi; i cambiamenti climatici non sembrano entrare nell’orizzonte tematico degli organizzatori e anche questo è un segno dei tempi. Queste sagre ci riportano indietro negli anni, la Toscana fu uno dei primi luoghi che visitammo insieme Laura ed io. È passato molto tempo da allora e tanto altro. Questo viaggio è segnato dai ricordi e anche dalla tristezza: ci sono presenze e assenze fra di noi. Alla fine optiamo per la sagra di Subbiano, che ricorda le vecchie feste dell’Unità e delle case del popolo, dove andavano sempre in estate durante i nostri soggiorni a Massa Marittima: anche per Nicola e Ulisse erano appuntamenti assai gradevoli. Il clima però è solo apparentemente lo stesso. I volti sono i medesimi, ma più smarriti e anonimi. Il dato più vistoso però è l’assenza di ogni richiamo politico. È rimasta la festa, senza più neppure la consapevolezza che un tempo era la politica a unire come un collante di valori e a darle quel profumo che oggi non si avverte più. Né arcaica, né moderna, né proletaria, né borghese.

L’escursione a Monterchi aveva uno scopo preciso: vedere La madonna del Parto di Piero della Francesca. L’installazione si trova in un museo molto bene allestito e non troppo frequentato. Si paga un ingresso del tutto congruo per le notevoli risorse tecnologiche del museo, che permettono una visione del quadro in ogni dettaglio possibile. Piero è il trionfo della compostezza, della razionalità delle linee, della sezione aurea, dell’equilibrio che porterà in pieno Rinascimento alle opere pittoriche e architettoniche più celebrate di Raffaello e di Bernini. Che dire però di tale compostezza? L’ammirazione, per quanto mi riguarda, non riesce del tutto a superare il disagio della perfezione. La memoria va allora ai versi di Pound, più precisamente al Canto dell’Usura dove abbondano le metafore pittoriche e linguistiche. Queste ultime rimandano al medioevo e infatti l’inglese che il poeta usa è quello arcaico e anche per quanto riguarda la pittura predominano figure apparentemente minori come Pietro Lombardo, oppure appartenenti al primo Umanesimo, mentre il poeta sembra tenersi lontano dal pieno Rinascimento. Tuttavia, Piero è citato nel testo e sembra una nota stonata: cosa ci fa tutta quella perfezione in un testo cupo e governato da un senso di sventura? Il poeta lo cita come esempio di una pittura che stride con la pratica dell’usura, ma storicamente è proprio il contrario. È il paradosso di Pound, che insegue un Cristianesimo delle origini senza rendersi conto che dall’invenzione del Purgatorio in poi quel mondo era finito ed era il mecenatismo dei Papi, nutrito dal traffico delle indulgenze, a rivestire le cattedrali di opere come quelle di Piero e altri.

Ritroviamo una eco di quel Cristianesimo arcaico a Chiusi della Verna e specialmente all’eremo di Camaldoli. Ci eravamo stati molti anni fa e quella volta Laura ed io riuscimmo persino a parlare affabilmente con uno dei monaci. Erano tempi di apertura e i monasteri offrivano celle a chi voleva trascorrere un periodo di vacanza e meditazione anche per non credenti. Da una rapida ricerca vedo che tutto questo è ancora possibile, seppure con regole più stringenti, ma anche con l’offerta di corsi di yoga e vari tipi di meditazione. Nell’elenco dei monasteri aperti, però, ritrovo la Verna, ma non Camaldoli. La dimensione eremitica è più accentuata in quest’ultimo, mentre nel primo prevale di gran lunga uno degli aspetti del francescanesimo: la convivialità comunitaria, sobria, a tratti severa, ma pur sempre comunità. Qualcosa della severità di entrambi luoghi mi ha ricordato pure Viterbo, anch’essa una città dove i fasti di un Cristianesimo alto medioevale sembrano ancora relativamente intatti.

L’Italia è piena di castelli e anche in questo il Casentino non fa eccezione. Lo stato di conservazione del borgo medioevale e relativo castello di Poppi è invidiabile, un vero gioiello. Il castello è di proprietà dei Conti Guidi, una delle tante famiglie nobiliari italiane, meno paludata di altre, ma il cui lascito è davvero prezioso. La loro storia affonda le radici nelle mille contese altomedioevali, sempre difficili da ricostruire; ma per questo trovo assai esauriente l’opuscolo davvero pregevole messo a punto dal ministero dei beni culturali: un’altra meritoria impresa è la fondazione dell’ecomuseo del casentino con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e la pubblicazione dell’opuscolo illustrativo, altrettanto prezioso.

Vale la pena di notare come i Guidi fossero dalla parte ghibellina e una particolare menzione merita allora il busto di Dante conservato nel castello e che depone a favore dei famosi versi di Foscolo indirizzati al poeta, ghibellin fuggiasco. Lo stato di conservazione del castello è il frutto di un’attenzione che si è tramandata per generazioni e che è arrivata fino a noi grazie anche alla politica del Granducato e poi del Ministero. Basti pensare che nella torre del castello si svolsero i primi esperimenti di parafulmini in Italia.

Anghiari ha un fascino un po’ diverso rispetto alle altre località. Il luogo ha una bellezza del tutto particolare, con una via centrale scoscesa, a cui lati ci sono locali e negozi. Da lì si può ammirare la vallata. Anghiari è tante cose, ma lascio per ultima la famosa battaglia perché in fondo la sua notorietà recente ci riporta a tempi assai prossimi e a un’idea ambiziosa e originale proposta da Duccio Demetrio e ripresa da altri studiosi e associazioni fra cui il gruppo Abele: Il progetto autobiografia, che proprio in Anghiari ha il suo centro più importante di iniziative e documentazione. Tale idea s’inseriva in un discorso più ampio che riguarda la microstoria, cioè una memorialistica che farebbe la gioia di Walter Benjamin nel senso che ricalca un modo di fare storiografia da parte dei cronisti medioevali che nel limite del possibile non distinguevano fra gradi e piccoli eventi ma registravano quanto più possibile nei loro scritti. Il progetto autobiografia non è dunque semplicemente la ricostruzione memorialistica di vite comuni da parte degli stessi protagonisti che la scrivono e non è neppure un prendersi cura di se stessi, ma diventa un momento della storia antropologica e del costume di un epoca o di una comunità. Negli stessi anni e cioè nel passaggio di millennio, ricordo alcune delle riviste – di impronta più marcatamente storica – che svolgevano la stessa funzione di memorialistica locale: per esempio Altro che Mestre. Nel tempo forse questi progetti si sono un po’ arenati, forse per un eccesso di dispersione, ma la possibilità di una memorialistica storica che filtra i grandi eventi facendoli passare per le vicende di singoli e comunità, mi sembra iscriversi in quel grande progetto degli Annales, che conferma nel tempo la sua grande vitalità.

Infine, il Museo della battaglia: molto dettagliato, con riproduzioni dei vari schieramenti e tutto quello che ne consegue. La sensazione che provo di fronte a queste ricostruzione è che, pur ben fatte e con dispendio di strumentazioni tecnologiche sempre più raffinate, alla fine sono tutte uguali e molto spesso indicano che chi intraprende una guerra di solito la perde. Perché allora?  

Il viaggio volge al termine e il pensiero ritorna alla provincia italiana che non tradisce mai ma è pure il luogo in cui meglio di qualsiasi altro la nostra vita italica precipita in caduta libera nell’oblio. Se nell’Odissea la terra dei Lotofagi era circoscritta in un’isola, le micro regioni italiane svolgono la medesima funzione su larga scala. Si smarrisce il tempo in questi luoghi, tutto appare attutito e lontano. È la stessa atmosfera che mi parve di cogliere a Venezia nella parte lagunare più estrema e lontana dall’eccesso turistico: il Lido degli Alberoni e la frazione di Malamocco. Del resto lo abbiamo sperimentato in questi giorni. L’intuizione quanto mai preziosa di Ulisse che ha pensato di portare con sé le carte da gioco, ha permesso di fare tardi la sera fra buona cucina, conversazione rilassata, niente televisione, poca radio e silenzio. La sensazione è di essere stati per una settimana nella vita postuma di luoghi che avendo avuto troppo nel loro passato, sono rimasti alla fine immobili in quello che ne era rimasto. Forse la medesima esperienza la provarono gli abitanti di Troia e di Cartagine che sopravvissero ai fasti precedenti e alle successive distruzioni. Rimasero lì dove erano, rifiutando di andarsene chissà dove a inseguire nuove idee di grandezza … poi, si dimenticarono di tutto.

Camaldoli

 LE TESI SULLA STORIA: SECONDA PARTE

Viktor Vasnetsov, I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1887

Introduzione

Questa seconda e ultima parte dedicata alle Tesi sulla storia mette a dura prova, perché in essa Benjamin tenta la strada impervia di mantenere viva la debole luce della speranza nel momento più buio della storia europea del secolo scorso. La convinzione che queste fossero le sue intenzioni deve passare tuttavia da ben due forche caudine: la prima è che si tratta pur sempre di un’interpretazione a posteriori su un testo che probabilmente Benjamin avrebbe ulteriormente modificato, la seconda – ancor più sibillina – è che se una debole speranza vuole essere salvata nell’oggi necessita di essere attualizzata. Il farlo, però, non può essere affidato semplicemente a un pensiero ma a una prassi che va reinventata, lontana da pratiche politiche precedenti, dalle quali non possiamo aspettarci più nulla.

L’UTOPIA CONCRETA COME SPERANZA

Friederich Schelegel: Der Historiker is ein rückwärtsgekehter Prophet  (Lo storico è un profeta rivolto all’indietro).

Possiamo ripartire dalla paradossale citazione di Fourier e attualizzandola, porci una domanda: esistono nella nostra contemporaneità equivalenti delle sane fantasticherie  di cui parla Benjamin?

Nella parte finale della dodicesima tesi e in quella della seconda Benjamin pone il problema in questo modo:

“[…] esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni altra generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.

Ci sono tre nodi importanti in questo passaggio. Il primo lo abbiamo già incontrato: sono le generazioni passate e non quelle future che richiedono di essere riscattate e che affidano a noi e si aspettano da noi che ci adoperiamo in quel senso. La forza che ci hanno affidato con il loro esempio è debole e messianica e su questi due termini sarà necessario ragionare a lungo perché l’ossimoro è assai intrigante. Il terzo nodo riguarda il materialismo storico, rispetto al quale occorre cercare di risolvere una volta per tutte la contraddizione vistosa presente nell’uso di tale espressione; cioè che in alcuni casi essa è usata in senso negativo in altre positivo.

Nel parlare di una forza debole Benjamin prende di nuovo le distanze dal modello eroico: è un tema che compare anche nel saggio del ’39 sul teatro epico. Non vi è alcuna forma di titanismo nell’idea di lotta di cui Benjamin si fa portatore, né nella sua versione romantica e neppure in quella positivista di cui si è già detto. Perché messianica allora? Perché la possibilità di agire ha un limite temporale per qualunque generazione, ma l’orizzonte di tale azione si colloca oltre perché non può che essere orientato a riscattare tutta la storia, come afferma la terza Tesi, in parte già citata:

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso. Certo, solo a un’umanità redenta, tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una citacion a l’ordre du jour – giorno che è appunto il giorno del giudizio.

Dunque l’orizzonte appartiene al messianico perché eccede la storicità, mentre la forza è debole perché può essere adoperata in un tempo che è segnato dal limite. Tuttavia, non si può rinunciare all’orizzonte più lontano, altrimenti ci si accontenta di riscatti parziali. Avrebbe potuto scrivere utopico invece che messianico? In teoria sì, ma se ricostruiamo passo dopo passo il pensiero di Benjamin, l’uso del termine appare alla fine necessario. Lo si comprende meglio considerando altre due tesi che ci traghetteranno verso una delle due finali, aggiunte all’ultimo momento.

Tesi quinta, nella traduzione di Einaudi. Nel ‘Manuskript Arendt’ è la tesi n. 4.

La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte  proprio nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato. […] Poiché è un’immagine non revocabile del passato quella che rischia di svanire con ogni presente che non si riconosca significato, indicato in esso. (La lieta novella che lo storico del passato porta senza respiro, viene da una bocca che forse, già nel momento in cui si apre, parla nel vuoto).

Per vera immagine (wahre Bild) egli intende quella che ci rivela qualcosa che rompe il continuum storicista: è l’immagine che colpisce gli occhi (Augenblick) e come tale guizza via (huscht vorbei). Vero, non va dunque assunto qui nel suo significato letterale, ma in quello di esemplare ed emblematico. Tale immagine rischia di scomparire se non trova significato nel presente, cioè se non trova qualcuno che la salvi dall’oblio e ne riconosca il senso nell’oggi. La chiusa fra parentesi ribadisce in altro modo che si tratta di un’immagine appena vista e che scompare, come i sogni al mattino; oppure una voce che parla nel vuoto o nel deserto.

La sesta Tesi ribadisce la quinta aggiungendovi qualcosa in più:

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo proprio come è stato davvero. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevisto nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari […]. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla […].

Arriviamo così alla Diciassette A, una tesi molto complessa: essa è riportata solo nell’edizione tratta dal quaderno 3 de L’ospite ingrato pubblicata da Quodlibet, che ne ricostruisce anche la genesi.  

Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico; ed era giusto così.”10

Tale incipit ci permette di capire il senso dell’espressione materialismo storico quando Benjamin ne scrive positivamente11 ; ma ancor più permette di comprendere la necessità di usare il termine messianico e non utopico. All’incipit perentorio di cui sopra segue una reiterata critica alla socialdemocrazia che abbiamo già visto più volte e che riprendo solo per una notazione ironica e tuttavia assai significativa, perché si estende a ogni idea di progressismo basata sulla freccia del tempo, nonché al suo corollario e cioè l’attesa di un secondo tempo che non arriva mai

 “[…] Una volta definita la società senza classi come un compito infinito, il tempo omogeneo e vuoto […] si trasformò in un’anticamera nella quale si poteva attendere […]”.

Così prosegue:

In realtà non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria.  Essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su una […] stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica: ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà come azione messianica.

La novità di questo passaggio, pur nei suoi tratti faticosamente risolti, sta nel raccogliere un’ipotesi che altri avevano già formulato su Marx, ma dandole un senso completamente diverso.12 Il Marx di Benjamin ha effettivamente secolarizzato il tempo messianico e per questa ragione non avrebbe potuto usare un termine come utopico. Non solo, ma per il filosofo era giusto così . Mi servirò allora di un’analogia con il cristianesimo. Pensando al tempo messianico, Gesù per i cristiani è colui che afferma: sono io quello che attendevate. Dunque l’incarnazione della divinità e tutto ciò che ne consegue, compresi i rimandi alle scritture che avrebbero profetizzato il suo arrivo. Il Marx di Benjamin risponde in modo categorico a una diversa domanda che si potrebbe formulare così: Quando sarà il tempo dei profeti? Adesso, qui e ora. La tesi B ci permette di capire in tutte le sue sfaccettature il retroterra ebraico di questa soluzione.

Tesi B traduzione da L’ospite ingrato. Nella traduzione di Einaudi è nominata come tesi 18 A e B.

Il tempo che gli indovini interrogavano  […] da loro non era certo sperimentato né come omogeneo né come vuoto. Chi tiene presente questo forse giunge a farsi un’idea di come il tempo passato è stato sperimentato nella rammemorazione e cioè proprio così. È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece alla rammemorazione. Cioè liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quando cercano il responso o di presso gli indovini. Ma non perciò il tempo diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto, perché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia.

Alcuni spunti conclusivi e qualche fantasticheria

Di fronte a questi esiti della riflessione la critica ha storto il naso rimproverandogli in sostanza di non saper scegliere fra una visione laica della storia e una messianico-religiosa: è la stessa critica rivolta a Ernst Bloch, che Benjamin cita spesso. Il saggio di Renato Solmi dell’Angelus Novus einaudiano insiste su questo  punto; più neutri e non  così netti nel giudizio i saggi di Bonola per L’Ospite ingrato e quello di Fabrizio Desideri sul testo di Einaudi. Tale critica, che poteva essere rivolta con qualche ragione al Frammento teologico-politico del 1920, non mi sembra invece riferibile alle Tesi. La seconda critica mossa a Benjamin è di avere introdotto una dimensione catastrofica nella sua visione della storia, che è rappresentata in modo così potente nell’immagine dell’Angelo di Klee della Nona tesi. La prima considerazione, a proposito dell’ultima osservazione, è che tale critica, ancora comprensibile quando fu avanzata, è altrettanto improponibile oggi. Non vedere che il catastrofico è effettivamente entrato nelle nostre vite quotidiane diventa una forma di cecità che si manifesta in modi assai perniciosi: il complottismo prima di tutto, la ricerca di spiegazioni strane, magico-esoteriche e antiscientifiche.13

La doppia tenaglia patriarcato-capitalismo è più che sufficiente per comprendere le manifestazioni più estreme del clima, la distruzione dei sistemi sanitari e sociali, la ricorrente esplosione di epidemie su tempi brevi (Ebola, Aviaria, Sars, Covid-19), l’insostenibilità di sistemi sociali che hanno generato povertà e rivolte in tutto il mondo, infine nel ritorno delle guerre che si susseguono dalla 1991 a oggi con intensità sempre crescenti. A gettare allarmi sull’aggravarsi dei diversi scenari non sono state Cassandre improvvisate, né millenaristi d’occasione, ma scienziati e  commentatori politici che non avevano ancora spento il barlume del pensiero critico dalle teste, oppure sono venute dal pensiero femminista nelle sue diverse declinazioni. Queste voci non appartengono al mondo degli indovini – per citare Benjamin – ma a un bagaglio culturale e politico moderni di cui l’occidente è molto orgoglioso quando si tratta di gettarlo faccia alle altre culture, con atteggiamenti di superiorità neo coloniale sostenuta soltanto dagli apparati militari e niente altro.

Quanto alla dimensione messianica del discorso di Benjamin credo lo si possa accogliere in questo modo. La sua affermazione “Nell’idea della società senza classi Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico” va presa alla lettera. Marx secolarizza effettivamente il tempo messianico e dunque lo riporta nella storia: ma è il tempo ebraico, non quello cristiano, che è sempre un rimando a un secondo tempo, a un dopo. Affermare che ogni istante può essere la porta in cui entra il Messia, non significa attenderlo, ma soltanto che il giorno del giudizio universale è sempre adesso e quindi sta nella storia e non alla fine dei tempi. Importante dunque è individuare quale sia la chance specifica del momento storico che si sta vivendo e siamo dunque del tutto nella storia. La parte più oscura di questa citazione lo diventa di meno se gli accostiamo quest’altra, potente e salvifica al tempo stesso:

Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”        

Se sostituiamo alla parola storico, inteso come specialista, espressioni quali soggetti sociali che resistono e si pongono il problema di un nuovo orizzonte di senso, che il nemico sia il fascismo o un altro dei vincitori non ha alcuna importanza: è l’idea che neppure i morti sono salvi se non continuiamo a salvarli noi nel nostro presente, a nutrire l’indignazione e la resistenza.

Se questo è lo scenario quale fantasticherie possiamo coltivare per andare oltre la denuncia senza peraltro rinunciarvi? Le denunce continuano a essere necessarie e preziose, ma quello che sembra mancare del tutto è la volontà di lotta, oppure essa è dispersa in rivoli che non assomigliano a un’onda di piena ma uno spreco di acqua e di energia. Su tutto sembra sovrastare la rassegnazione che emerge sempre nelle chiacchiere che si fanno. Vado controcorrente e penso che tale rassegnazione non abbia soltanto un lato negativo ma che ne abbia due, di cui uno altamente positivo. Delusione e rassegnazione, quando vengono da sinistra, non sono solo quello che sembrano ma anche un voltare le spalle con indignato silenzio a pratiche politiche precedenti e a nauseabondi leader politici che si spacciano per quello che non sono e che hanno completamente abbandonato ogni idea di lotta e resistenza all’intreccio capitalistico patriarcale che sta portando ad esiti catastrofici. Permangono le loro dannose nomenclature che sono un fattore inquinante di ogni discorso politico. Voltare le spalle a tutto questo, togliere il più possibile consenso e spazio di manovra a queste nomenclature morenti è compiere quel gesto di distanziamento dalle consuetudini precedenti che Benjamin suggeriva di compiere dopo la firma del Patto scellerato Ribbentropp-Molotov.

Il passo successivo implica il darsi la possibilità di uscire dalla cecità guardando altrove: prima di tutto a pratiche già esistenti che in qualche caso fanno risuonare nella contemporaneità immagini antiche da salvare. Mi riferisco a tutta la riscoperta che anche in Italia si sta facendo – ma è un discorso mondiale – di società di muto soccorso, cooperative per il riciclo e il riuso: la parola cura può essere usata come sintesi di tutto questo. In secondo luogo, l’agenda femminista – uso un’espressione che è stata usata qualche anno fa e che mi sembra attuale più che mai – il sorgere di un movimento imponente contro le guerre in corso nonostante l’oscuramento mediatico di cui gode, le pratiche differenziate di chi si batte per una politica che contrasti i cambiamenti climatici di natura entropica, le nuove frontiere dei diritti LGBT plus. Certo, tutto questo agglomerato di sane fantasticherie attuali necessita di dialogo e di trovare un proprio linguaggio-gesto che non sia pretesa di sintesi ma piuttosto di costruzione di ponti e atolli di senso. L’ultima espressione in corsivo che ho usato non è neutra. Il primo a proporla diversi anni fa fu un pensatore fra i più anomali e oggi dimenticati della sinistra – quella sì radicale – di quegli anni: Furio Jesi.

Konstantin Gorbatov, La città invisibile di Kitezh, 1913


10 Benjamin introdusse questa tesi all’ultimo momento e infatti essa non si trova in tutte le traduzioni e non è presente nel manoscritto tedesco in possesso di Hanna Arendt. Tuttavia non vi è dubbio che l’intenzione fosse chiara: inserirla subito dopo la diciassettesima. La traduzione di cui mi sono avvalso con la nota che ne ricorda la genesi si trova in Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N. 3 de ‘L’ospite ingrato’, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013, pp.97-9.

11 La mia ipotesi è che quando ne parla positivamente Benjamin intende per materialismo storico né più né meno che il pensiero di Marx e di Engels anche se il secondo non lo nomina qui, ma lo aveva nominato più volte nei saggi del ’36-37. Il filosofo non si spinge a introdurre una differenziazione linguistica, ma mi piace pensare che se fosse vissuto fino agli anni ’80 avrebbe accolto con favore la distinzione introdotta dal filosofo francese Maxmilien Hrubel che invitava a distinguere il marxismo, facendolo coincidere con l’esperienza del socialismo reale, dal pensiero di Marx. Fu lui a introdurre la categoria di marxiano per indicare chi si rifaceva a un Marx libero dai marxismi novecenteschi. Benjamin, ancora a ridosso degli eventi, rimase fedele a quel pensiero e alla Lega di Spartaco, ma era consapevole che per la sua generazione quel lume si era spento. Purtroppo ci sono vite, come la sua,  che sembrano rappresentare anche nella loro fine, la consapevolezza estrema con cui hanno vissuto.     

12 L’idea di Marx come profeta materialista, ma profeta e dunque profondamente nel solco della cultura ebraica non è nuova ma era stata sempre formulata per irridere o squalificare. Per i credenti, poi, l’ipotesi di un Marx profeta materialista poteva risultare addirittura blasfema. La famiglia Marx era di origine ebraica, il nonno era un rabbino, ma il padre, non credente come poi il figlio, aveva aderito al protestanesimo luterano per poter esercitare la sua professione e cioè l’avvocatura. In sostanza il milieu ebraico di Marx veniva rispolverato per ragioni negative e addirittura per imputargli anche una punta di antisemitismo, per alcune analisi contenute nel suo scritto giovanile sulla Questione ebraica.

13 La negazione del Covid, i deliri dei Quanon negli Stati Uniti, sono alcuni degli esempi più estremi di tale deriva.

LE TESI SULLA STORIA DI WALTER BENJAMIN

Una parte di questa riflessione è stata già pubblicata sulla rivista online Overleft (www.overleft.it), con il titolo La speranza possibile. Alla fine ho deciso di riproporlo qui nella sua forma più estesa e con alcune modifiche al fine di accorciare quelle parti che mi sono sembrate più datate rispetto al nostro presente e invece sviluppandone altre. Data la lunghezza del testo, lo pubblico in due puntate: la prima è la pars destruens della riflessione di Benjamin e si conclude con la celeberrima nona Tesi, quella in cui compare l’Angelo della storia e ha come riferimento un quadro di Klee.

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Premessa

I tragici tempi di guerra che stiamo vivendo, dopo due anni di pandemia che stanno già cadendo in un eccessivo oblio, sono assai simili a quelli che spinsero Benjamin a scrivere quest’opera, che si può considerare il suo testamento spirituale. Quello che mi ha sempre colpito di tale testo, nelle diverse riletture che ne ho fatto, è la capacità del suo autore di mantenere acceso un lume di pensiero critico, di sapienza del cuore e di speranza, nel momento più buio della storia del ‘900. Rileggere oggi quelle parole e meditarle può forse aiutarci a non cadere del tutto in un senso di impotenza che sembra sovrastarci senza alcuna via d’uscita.

Introduzione

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano, lungamente elaborata e carsica, contraddittoria e oscura in alcune parti, di una densità magmatica, i cui prodromi risalgono molto indietro nel tempo e cioè alle discussioni con Ernst Bloch da cui nacque il Frammento teologico politico del 1920.

Gli eventi tragici del biennio 1939-40 offrirono a Benjamin il contesto per giungere a una sintesi di quel percorso che va ben oltre lo scritto del ‘20. Bisogna tuttavia considerare che egli si trovava in una condizione di disperazione personale e di isolamento in quel momento. Penso che se avesse avuto il tempo di rivederle, alcune oscurità avrebbe cercato di chiarirle e del resto che si tratti di un lavoro composto in uno stato febbrile lo dimostra il continuo cambiamento nell’ordine delle tesi e le due non numerate ma indicate come Tesi A e Tesi B, aggiunte per ultime. Per di più, le versioni diverse del testo e delle traduzioni rendono ancor più complesso avvicinarsi a quest’opera. Per tale ragione seguirò un mio ordine nel commentarle e non quello delle due traduzioni italiane cui faccio riferimento, peraltro diverse anch’esse nella numerazione. Per alcuni passaggi chiave farò ricorso anche all’originale in lingua tedesca. Per non appesantire la lettura con continui rimandi alle note, indicherò nel testo a quale traduzione mi riferisco, caso per caso.1   

Al grado zero della speranza

Dalla decima tesi. (traduzione einaudiana ndr).

Gli oggetti che la regola dei conventi dava in meditazione ai fratelli, avevano il compito di distoglierli dal mondo e dalle sue faccende. Il pensiero che svolgiamo qui nasce da una determinazione analoga. Esso si propone, nel momento in cui i politici in cui avevano sperato gli avversari del fascismo, giacciono a terra e ribadiscono la disfatta col tradimento della loro causa, […] di dare l’idea di quanto deve costare, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui quei politici continuano ad attenersi.   

Dopo aver introdotto in alcune tesi precedenti, alcuni dei temi intorno ai quali si muove la riflessione, improvvisamente Benjamin compie qui una mossa laterale. Veniamo trasportati in una nicchia conventuale e invitati a disfarci del mondo e delle sue faccende; ma dopo aver ribadita tale necessità facendone addirittura il motivo che lo ha spinto a scrivere l’opera, ecco che, nella frase successiva, la storia rientra in scena con tutta la sua brutalità. Le tesi sono state scritte nel 1940, pochi mesi dopo la firma del patto scellerato Ribbentrop-Molotov, mentre tutta l’Europa e in particolare la Francia, dove Benjamin si trova, è sconfitta e umiliata dalla nascita del governo di Vichy. Il teatro mondano è dunque sempre presente e incombente quanto mai. Egli lo ricorderà quasi in ognuna delle Tesi che il contesto è quello. Nazismo e Fascismo trionfano ovunque, il 10 giugno del 1940 anche l’Italia era entrata in guerra; dall’altro c’è lo smarrimento del fronte antifascista. Portandoci in una nicchia conventuale, Benjamin non ci sta dunque invitando a una fuga dalla realtà, ma a tentare la strada di una sua comprensione più profonda. Niente però è più salvo della prassi precedente quel momento, compresi certi sodalizi che sono stati anche i suoi. In quei politici e in quei partiti nulla può essere riconosciuto come speranza e occorre avere il coraggio di voltare loro le spalle: è uno scenario che conosciamo benissimo anche noi oggi.

La regola della meditazione conventuale è un togliersi dalla lettera della storia e il farlo implica accettare il prezzo che comporta il rifiuto di colludere con il modus operandi di poco prima; tale prezzo, tuttavia, non è tanto la brutalità degli eventi in sé e neppure la propria solitudine soltanto, ma prima di tutto un affrancarsi dal proprio pensiero abituale precedente. Come sopportare tutto ciò? La regola conventuale suggeriva di farlo con oggetti che hanno il compito di distogliere e distrarre: cose qualunque, che ognuno di noi può trovare anche oggi dove meglio crede. Ciò che distrae aiuta a pagare quel prezzo perché lo rende sopportabile nel tempo e questo crea una nuova abitudine che distoglie dai trucchi del pensiero precedente, la cesura, un tempo nel quale anche Benjamin aveva collocato una speranza che si è trasformata in un’illusione. Qual è tuttavia la concezione della storia cui allude la parte finale della tesi e con cui non bisogna colludere? Lo storicismo; ma si tratta  di un termine convenzionale e tecnico che può essere frainteso e che di per sé non risponde alla necessità impellente di gettare l’allarme in un momento tragico della storia europea. Nella tesi ottava troviamo una sua maggiore concretizzazione:

La tradizione degli oppressi c’insegna che lo “stato d’emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponde a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione […]. Lo stupore per le cose che noi viviamo e sono “ancora” possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di alcuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi. (traduzione einaudiana ndr)

Lo storicismo assume qui un volto, non ancora del tutto definito, ma alcuni lineamenti iniziano a palesarsi. Il soggetto della frase iniziale – la tradizione degli oppressi – ci permette di capire che lo stato d’emergenza (der ”Ausnahmezustand“) di cui scrive Benjamin non è lo stato d’eccezione (der Ausnahmetatbestand) di Karl Schmitt, di cui si parla molto in quegli anni. Per i dannati e le dannate della terra lo stato d’emergenza è regola sociale costante e non ingegneria istituzionale di un momento. La vera eccezione sarebbe, seguendo il ragionamento di Benjamin, il rovesciamento della normalità oppressiva ed è questo l’obiettivo cui dovrebbe tendere chi vuole modificare lo stato di cose presenti. Per poterlo fare, tuttavia, occorre prima di tutto liberarsi di un’idea di storia, quella che possiamo riassumere in una frase tipica che avremo sentito centinaia di volte in momenti diversi delle nostre vite: “Ma come, succedono ancora queste cose nel 2023?”. Tale sgomento, come afferma Benjamin, non apre ad alcuna conoscenza, ma la impedisce. La storia lineare o a spirale che sia, ma sempre orientata secondo la freccia del tempo e sempre in senso progressista è il bersaglio di questa tesi e lo sarà in altre, una in particolare, la settima.

Tesi settima.  Traduzione da L’ospite ingrato.

Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medio Evo essa era il fondamento originario della tristezza. Flaubert, che ne aveva conoscenza, scrive: “Poche persone indovinerebbero fino a che punto bisogna essere tristi per resuscitare Cartagine”. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. […] L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti, tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d’insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

Il pregio di questa tesi è di essere chiara, oltre ogni dubbio ragionevole; ma tale chiarezza ne aumenta la complessità. Prima di commentarla tuttavia, è necessario una messa in guardia sull’uso del termine materialismo storico che appare in essa e in quella precedente, come antidoto allo storicismo e il cui compito – assai impegnativo – sarebbe quello di spazzolare la storia contropelo. Opportuno è leggere subito la prima tesi che si trova in nota, per comprendere che forse Benjamin non sta dicendo ciò che superficialmente appare2.

Stalin e Molotov

Al centro della tesi, c’è quell’autentico cammeo incastonato nel mezzo, la citazione di Flaubert: resuscitare Cartagine! Perché questa citazione così sorprendente? Cosa significa? La scelta di Flaubert e di Benjamin cade su una città simbolo di una sconfitta ingiusta, atroce e persino gratuita.3 Tuttavia, rimane un dubbio: in che cosa possiamo trovare utilità o consolazione nel resuscitare Cartagine nel ventunesimo secolo? Per farlo bisogna arrivare in fondo a una tristezza abissale, cioè una tristezza senza scopo e altrettanto gratuita quanto l’amore disinteressato e non orientato al possesso: perché anche nell’ingiustizia della storia esistono gradazioni diverse. Si può essere tristi a metà di fronte a certe situazioni del passato, ma solo se si riesce a provare una tristezza che le comprende tutte le ingiustizie, allora si può voler resuscitare Cartagine; o forse anche Troia, cioè due entità per le quali è difficile provare un’empatia che serva a uno scopo. E invece è proprio questo che il filosofo suggerisce di fare, in un modo che può apparire paradossale, ma che lo diventa di meno se leggiamo la dodicesima tesi, liberandola da alcuni aspetti datati.

   Il soggetto della conoscenza storica è […] la classe oppressa che lotta […]. Questa coscienza che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare del tutto il nome di un Blanqui […]. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future […]. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrifico. Entrambi, infatti, si alimentano dell’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.    

La Lega di Spartaco è la speranza precedente che Benjamin non rinnega ma che appartiene al passato, come peraltro la socialdemocrazia cui egli non ha mai riservato alcun credito. L’importanza della tesi sta nel rovesciamento di un luogo comune consolidato: è l’immagine degli antenati oppressi e non quella delle generazioni future e di un futuro di cui nulla sappiamo e possiamo sapere, che può spingere all’indignazione e alla lotta. La tesi è certamente sconcertante, ma Benjamin la riempie di concretezza e di esemplificazioni, disseminate in modo non sempre consequenziale, ma che alla fine permettono una ricostruzione del suo pensiero. Si può ritornare ora alla tesi precedente con ben altra cognizione di causa e possibilità di comprendere quanto sia radicale la critica di Benjamin allo storicismo e come egli intende tale parola, che perde nelle sue riflessioni quelle connotazioni tecniche che pure ha del tutto legittimamente per uno storico di professione, per assumerne altre. Lo storicismo per Benjamin significa in prima istanza identificarsi con tutti i vincitori, facendo propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.4 La sua non è soltanto una critica del modello eroico, cioè della storia rappresentata come una sfilata di eroi, quasi sempre e solo uomini peraltro. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile. Le radici recenti di questo capovolgimento si trovano negli scritti appena precedenti cioè “le tesi”.5 Ripensando al discorso intorno allo stato di emergenza, ecco come in un passaggio della terza Tesi troviamo una prima e importante implicazione.

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere fra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso.

In sostanza, nella storia non vi può essere niente che sia minore rispetto ad altro: è solo la selezione fatta dal vincitore che crea tale illusione ottica ed è solo distanziandosi dall’appiattimento storicista che ne deriva, che si colgono invece i rilievi, le increspature, le cesure, le figure considerate minori. Sempre nella terza tesi Benjamin fa un elogio dei cronisti medioevali, proprio perché non distinguevano fra grandi e piccoli eventi, ma registravano – per quanto potevano – tutto.6 Comunque, occorre chiarire subito che tali affermazioni non preludono a una riscrittura consolatoria della storia dalla parte degli sconfitti o dei perdenti: non è questo che Benjamin intende dire. Decidere di non far parte del coro e di non salire sul carro che accompagna il vincitore, non significa un generico ed empatico stare dalla parte delle vittime. Lo aveva già chiarito in una tesi già citata dove è la classe che lotta – noi potremmo dire il soggetto o i soggetti che lottano e resistono – ad avere titoli per rileggere la storia contropelo: non basta essere dei generici oppressi che se ne stanno tranquilli nella loro oppressione. Benjamin non è un cripto cristiano, tanto meno un cattolico e se la teologia ha uno spazio nella sua riflessione, essa è tutt’altra. Il suo affondo nei confronti della morale protestante e la sua radicale critica a Max Weber li troviamo in un passaggio dell’undicesima tesi:

 […] La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi […].

Ciò cui allude Benjamin non è solo una filosofia della storia, ma è lavoro salariato scambiato per lavoro tout-court e considerato come appendice allo sviluppo tecnico positivo in sé: la negazione che questo abbia anche un valore politico, cioè di essere una strada verso l’emancipazione, è decisiva per comprendere quanto Benjamin afferma subito dopo. 

Nel miglioramento del lavoro sta la ricchezza. Questo concetto volgar marxistico non si sofferma a lungo sulla questione di come il prodotto del lavoro agisca sui lavoratori stessi finché essi non ne possono disporre: vuol dire tener conto solo dei progressi nel dominio della natura, non dei regressi della società. […] Confrontate con questa concezione positivistica, le fantasticherie che tanto hanno contribuito alla irrisione di Fourier mostrano di avere un loro senso profondamente sano. Secondo Fourier il lavoro sociale ben organizzato, avrebbe avuto come conseguenza che quattro lune illuminassero la notte terrestre, il ghiaccio si ritirasse ai poli, il mare avrebbe perso la salinità e gli animali feroci si ponessero al servizio degli uomini. Tutto ciò illustra un lavoro ben lontano dallo sfruttare la natura, ma di sgravarla delle creazioni che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo. Al concetto corrotto di lavoro appartiene come suo complemento quella natura che, come ha detto Dietzgen: “è là gratuitamente”.   

L’occhio di Benjamin vede qui davvero lontano: non neutralità della scienza e saccheggio della natura, falso progressismo che si traduce in regresso della società sono i nostri scenari quotidiani, ottant’anni dopo queste parole. La conclusione ci dice però qualcosa di più e cioè che la natura non è gratis, un concetto con il quale ci troviamo decenni dopo a fare i conti in modo drammatico.7 Che dire però del paradossale elogio di Fourier? Prima di tutto che non si tratta di un paradosso, ma se mai di un uso del medesimo per arrivare a indicare altro. Ciò che importa ed è decisivo nella citazione di Fourier, aldilà delle bizzarrie che lo hanno reso famoso, è l’affermazione finale di Benjamin e cioè che le sue ipotesi, per quanto strampalate, esprimono una filosofia di fondo che è sana e cioè che rispetto alla natura il lavoro utile è quello che fa prevalentemente da levatrice a ciò che si trova già nel suo grembo. La sintesi che possiamo trarre da questo accostamento analogico è che la più strampalata ma sana fantasticheria è di gran lunga preferibile a qualsiasi progressismo impregnato di positivismo e di spregiudicatezza tattica senza etica alcuna. Alla luce di tutto ciò e proprio perché questa critica covava da tempo, si può ora commentare la prima Tesi, la sola che in tutte le versioni si trova sempre al primo posto.

Si dice che esistesse un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […] In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “Materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.

È per tutti i commentari la tesi più oscura ed enigmatica. Il racconto ce la rende più ostica, ma comincia a esserla meno se ci sintonizziamo sullo stile della sua scrittura. Benjamin usa l’apologo e persino la parabola e l’accostamento analogico, lo ha fatto in tutte le tesi; ma lascia sempre un vuoto nel mezzo, in questa tesi particolarmente vistoso. Non mi soffermerò in questo momento sul retroterra ebraico di questo tipo di scrittura. Fra la fine del racconto-aneddoto e la conclusione della tesi c’è uno iato, sebbene introdotto da una frase – Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia – dalla quale non possiamo tuttavia immaginare ciò che seguirà e che a una prima lettura è sorprendente. Cosa c’entra il manichino vestito da turco con il “materialismo storico”? Nominandolo espressamente Benjamin ci avverte che non sta usando una metafora – nella sua scrittura non vi è quasi mai posto per la metafora – bensì una complessa catena di similitudini. Come il nano gobbo seduto nel manichino costituisce il trucco meccanico per ingannare il pubblico, così la teologia, rimpicciolita rispetto ai secoli precedenti, si è insinuata nel materialismo storico, che Benjamin mette fra virgolette, facendone una macchinetta per avere sempre ragione, qualunque siano le scelte compiute, dal momento che sarebbe in linea con il solco deterministico della storia. Questa tesi, nei commentari, viene considerata come la sua radicale critica allo stalinismo e allo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Non vi è dubbio su questo, tuttavia cercherò di leggere le sue parole, oltre quel contesto perché la parte veramente interessante della tesi, è il nesso che egli stabilisce fra il trucco del manichino e la teologia che secondo Benjamin ha inquinato l’illuminazione materialista e profana di cui aveva scritto nel saggio sul Surrealismo del 1929.8 Anche in questa critica c’è da considerare un doppio aspetto: nell’immediato è una critica al Diamat staliniano come forma perniciosa di mistica materialista e spregiudicatezza senza alcuna etica, ma tale giudizio si estende come vedremo fino a comprendervi il falso progressismo nei suoi diversi aspetti.

La tesi nona, commentata e celeberrima quanto mai, suggella e chiude quella che considero la pars destruens del ragionamento di Benjamin e ci permette di andare oltre.   

Tesi nona.

C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove, davanti a noi, appare una catena di avvenimento, egli vede un’unica catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie  e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo di macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera.

Hugo Simberg, L’angelo ferito, 1903


1 Le traduzioni italiane di cui mi sono servito sono: Angelus novus, tascabili Einaudi a cura di Renato Solmi e un saggio di Fabrizio Desideri: la mia edizione è quella del 1995. La seconda è Walter Benjamin Testi e commenti, Quaderno N.3 de L’ospite ingrato, Periodico del centro studi Franco Fortini, a cura e commento di Gianfranco Bonola, Quodlibet 2013: questa edizione riporta anche le tesi finali che mancano nel testo einaudiano. Il testo in originale tedesco è quello dei Manuskript Hanna Arendt, che si trova anche in rete ed è corredato dalle fotocopie del manoscritto di Benjamin con le sue correzioni. Il titolo completo è: Walter Benjamin über den Begrieff der Geschichte. In questa stesura, mancano alcune tesi che verranno aggiunte più tardi e che si trovano invece nelle due traduzioni in italiano. Soltanto la prima tesi è numerata sempre così anche negli originali.

2 Questa dell’uso continuo dell’espressione materialismo storico nelle tesi è una contraddizione o almeno un’aporia non chiarita dal filosofo. Riservandomi di tornare successivamente su questo problema niente affatto minore, mi limito a porre in evidenza come l’espressione abbia almeno due significati diversi, ma si riferisca anche a due oggetti filosofici in diversi. Ecco di seguito la prima tesi nella traduzione da “L’ospite ingrato”: È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa del giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, […] sedeva davanti alla scacchiera […]. In verità, c’era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare per la filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi […] è piccola e brutta e tra l’altro non deve lasciarsi vedere. Questa tesi verrà meglio commentata successivamente nel testo.

3 Naturalmente il mio giudizio, così estremo, non è un giudizio da storico. Tuttavia, proprio per rimanere in sintonia con Benjamin e per non sottoscrivere il romanissimo Carthago delenda est, ricordare le alternative che pure furono prese in considerazione, non significa fare la storia con i se, ma rifiutare appunto l’immedesimazione deterministica con il vincitore. Il determinismo assoluto non riguarda il futuro come non riguarda il passato che era pur sempre il futuro di una volta.

4 Il concetto di immedesimazione emotiva è assai importante nell’economia del pensiero benjaminiano e le sue premesse si trovano nel saggio Che cosa è il teatro epico, scritto nel 1939. Prendendo come esempio virtuoso il teatro di Brecht, il filosofo mette in evidenza la differenza sostanziale che esiste fra immedesimazione emotiva con l’eroe, che porta alla catarsi aristotelica, e l’immedesimazione con la situazione in cui l’eroe è coinvolto. Quanto all’acedia del cuore, penso che il bersaglio sia l’etica protestante e la sua mancanza di empatia, essendo collocata del tutto nella coscienza individuale e in un rapporto diretto e personale con Dio e la Grazia.  

5 Questi saggi sono stati raccolti nell’edizione italiana einaudiana dal titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.  Anche il sottotitolo è importante: Arte e società di massa.  La scelta editoriale può essere giudicata arbitraria sotto molti aspetti, prima di tutto per una questione di datazione, ma permette di osservare da vicino una parte del lavorio che porterà alle Tesi. Il tema di quei saggi assemblati dalla casa editrice e tradotti da Filippini è la cultura di massa. Piccola storia della fotografia è del 1931, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e il saggio su Fuchs sono del ’36-’37 e sono quelli che affrontano più direttamente il tema principale e cioè la nascita della cultura di massa. Che cosa è il teatro epico è del 1939. Fra le pieghe dei cinque saggi assemblati, e specialmente in alcune note al testo, è possibile trovare le radici prossime di una critica allo storicismo, che investe prima di tutto i prodotti della cultura e che approderà, nelle Tesi, alla storia.  

6 Forse non è del tutto un caso che siano stati proprio degli storici medioevalisti a fondare in pieno ‘900 una scuola come Les Annales che assegna un ruolo prioritario alla storia materiale e alla vita quotidiana. Del resto, anche la ricerca di Gramsci, più o meno negli stessi anni, è orientata alla ricostruzione della cultura popolare, delle strutture materiali dell’esistenza e del folklore.

7 Citerò due passaggi da Dialettica della natura di Engels per la loro assonanza con le affermazioni di Benjamin e anche perché il concetto di lavoro in esse non ha nulla a che vedere con l’espressione lavoro salariato: […]  noi non la dominiamo (la natura ndr) […]  come chi è estraneo ad essa, ma le apparteniamo come carne sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura, consiste nella capacità, che si eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato […]. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini sentiranno, anche sapranno, di formare un’unità con la natura, e tanto più insostenibile sarà il concetto assurdo e innaturale, di una contrapposizione fra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo, che è penetrato in Europa dopo il collasso del mondo dell’antichità classica e che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo. Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a calcolare gli effetti naturali più remoti della nostra attività  rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più difficile per quanto riguarda gli effetti sociali di quelle attività. […] Che cos’è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? […]

L’interrogativo di Engels è retorico. La scrofola è simmetricamente il risultato di quel progresso nell’uso intensivo della coltivazione di patate che genera il regresso della società, come ha scritto Benjamin nel passaggio citato. Il secondo passaggio di Engels è tratto dal nono capitolo:

[…] Perché la mano non è solo l’organo del lavoro, è anche il prodotto del lavoro […] e con l’adattamento alle nuove operazioni, grazie all’eredità rappresentata dallo speciale sviluppo dei muscoli, dei legamenti e, sul lungo periodo, anche delle ossa. Grazie, inoltre, all’impiego ogni volta rinnovato di questi strumenti ereditati, ma soggetti a nuovi miglioramenti con operazioni sempre più complicate, la mano umana ha raggiunto quell’alto grado di perfezione che ha reso possibili la pittura di Raffaello, le statue di Thorwaldsen, la musica di Paganini.

8 La citazione occupa una parte importante nella strategia discorsiva di Benjamin, in tutte le sue opere, ma va pure chiarito in modo preliminare che il suo atteggiamento è lontano dal citazionismo postmoderno. Il filosofo anticipa molti temi tipici del postmodernismo, ma non cede alla lettera del medesimo. Le citazioni di Benjamin sono sempre degli exempla emblematici che permettono all’interlocutore di aderire o dissentire, ma prima di tutto di comprendere e non in astratto, quanto egli afferma, ma di collocarlo in una dimensione di concretezza e verificabilità. Siamo lontani anni luce dal procedimento post moderno la cui filosofia – non sempre espressa – è che la cultura sia solo citazione, cioè auto contemplazione narcisistica del passato e sfoggio di erudizione basato sul wit, parola che si può interpretare in molti diversi modi ma sempre gravitanti intorno alla brillantezza salottiera e discorsiva. Benjamin non ha mai compiuto questo passo, anche se sa vedere molto lontano: egli è un anticipatore del postmoderno, nel senso che ha visto prima di altri molte sue caratteristiche. La forza degli exempla di Benjamin sta nell’essere la concretizzazione di quella immagine che balena per un solo attimo nella storia e che deve essere afferrata e salvata, perché rompe il continuum dello storicismo. La citazione è dunque emblematica se evoca un balenìo del passato da riscattare nell’adesso: Resuscitare Cartagine per esempio, o cogliere nella vicenda storica dello schiavo Spartaco ciò che chiede oggi il proprio riscatto.

DI CHI È L’ERA?

Ezra Pound

A conclusione del lavoro critico su alcuni poeti e poete dell’universo letterario anglo statunitense, in quest’ultima parte viene affrontata una questione che è stata e continua a essere dibattuta da parte dei critici dei paesi di lingua inglse, ma che è  decisiva che chiunque si occupi della loro poesia.

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Nel numero speciale 26 del Wallace Stevens Journal del 2002, viene posta la seguente domanda: Pound/Stevens:Whose era? La domanda è anche il titolo del saggio introduttivo di Marjorie Perloff. Nel numero monografico della rivista ci si domanda, dunque, se il giudizio critico sulla poesia statunitense del ’900 possa essere sintetizzata come l’era di Stevens oppure quella di Pound.1 A proporre per primo il quesito fu Harold Bloom nel libro The poems of our climate, pubblicato a Londra nel 1977 in polemica con un altro libro di Hugh Kenner e intitolato The Pound Era. Nadia Fusini, nel suo saggio introduttivo alle Note verso la finzione suprema cita anche Frank Kermode, che sembra tenere una posizione intermedia nel senso che elogia molto le Note ma non si pronuncia sull’insieme dell’opera stevensiana; infine, il giudizio sintetico espresso da Northorp Fry, un altro decano della critica nordamericana, secondo il quale Stevens è: uno dei nostri poeti essenziali.2

In primo luogo e proprio leggendo il numero monografico, appare subito come la domanda sia un po’ troppo stretta anche per chi l’ha posta, dal momento che il nome di Eliot compare assai presto ed era inevitabile che ciò accadesse. Forse nell’interrogativo e sotto traccia (che emerge tuttavia qui e là anche in altri saggi), c’è anche il dover fare i conti con il senso di colpa nei confronti di Pound, per l’ostracismo che dovette subire e anche qualcosa di peggio: in certe università statunitensi il nome di Pound fu un tabù impronunciabile per lungo tempo.

Peraltro, se il punto di vista fosse quello europeo e si prendesse la Waste Land come emblema della crisi di un secolo o addirittura adottando il titolo di un libro assai famoso in quegli anni – Il tramonto dell’Occidente di Spengler –3 non vi è dubbio che per un europeo,  il ‘900 potrebbe essere definito come il secolo di Eliot.  

Tradizione e modernismo in Pound, Eliot, Stevens e Moore

Per Pound, le tradizioni sono una fonte continua di scoperta e ispirazione, per Eliot la tradizione era una scelta da compiere. Entrambi si rivolsero all’Europa ma le differenze sono notevoli. Pound sembra più che altro fuggire dagli Usa, trovando nel vecchio continente e in alcune sue regioni bellissime e periferiche – il Trentino e Rapallo –  l’alveo geografico protetto da cui poter spaziare verso ogni tradizione possibile. Il suo percorso mi ricorda, per analogia, la bottega del rigattiere. Pound ha seguito in modo estremo la prima parte della sentenza pronunciata da Borges  – un convitato di pietra sempre presente in questo studio –4 e cioè che per un argentino, come per uno statunitense, ovvero per due artisti appartenenti a nazioni giovani e senza tradizione, quest’ultima può essere trovata ovunque. Borges ha selezionato, reinventato, oppure inventato per selezionare, mentre Pound è stato un amorevole raccoglitore di tutto quanto incontrava nel suo peregrinare letterario. Il suo, tuttavia, non fu mai un atteggiamento di appropriazione, ma di salvaguardia, di custodia, di scoperta e anche di generosità nel mettere a disposizione di altri quanto andava raccogliendo un po’ dappertutto e, in fondo, senza una vera direzione. Del resto, lo sappiamo che nella bottega del rigattiere il kitsch e l’oggetto prezioso vivono l’uno accanto all’altro. La poesia di Pound è fatta di bagliori improvvisi, di intuizioni, di aforismi fulminanti all’interno di partiture complesse che s’avvicinano alla poesia visiva, come accade per certe incursioni – incomprensibili ai più – ma visivamente suggestive, dei caratteri cinesi e giapponesi nei suoi Cantos. Pasolini, durante un’intervista che gli fece e durante la quale Pound parlò peraltro assai poco, esprimendosi per brevissimi accenni distanti e lontani da tutto, sottolineava il dettato arcaico e barbarico della sua poesia, sia per la potenza che ne emanava, sia per una sorta di innocenza originaria, non mediata.5

Sarebbe perciò errato intendere come citazionismo il viaggio di Pound dentro i simboli e i tropi della poesia mondiale. L’amore per tutto quello che lo incuriosiva è un dato che va oltre la necessità di citare e Pound è stato anche per questo il miglior fabbro, espressione quanto mai felice, perché tutti sono passati in un modo o nell’altro dalla sua bottega di rigattiere e tutti se ne sono usciti con qualcosa. Si può dire che egli abbia nutrito, con la sua generosità, la poesia anglo americana di un secolo e basterebbe ricordare gli interventi fondamentali che suggerì a Eliot dopo avere letto la prima versione di Waste land. Si può obiettare a questa ricostruzione che anche in Pound si può rintracciare una tradizione prevalente, visto il richiamo a Dante – il primo miglior fabbro –  ma, ciò è vero con alcune precisazioni. Nel celebre Canto XLV, dell’Usura, egli si rifà a un cristianesimo talmente arcaico, da sfuggire a qualsiasi nuova codificazione.6

With Usura

With usura hath no man a house of good stone/each block cut smooth and well fitting/that design might cover their face,/

with usura/hath no man a painted paradise on his church wall/harpes et luz/or where virgin receiveth message/and halo projects from incision,/ with usura /seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines/no picture is made to endure not to live with/but it is made to sell and sell quickly/with usura, sin against nature,/is thy bread ever more of stale rags/is thy bread dry as paper/ with no mountain wheat, /no strong flour/ with usura the line grows thick/wit usura is no clear demarcation/and no man can find site for his dwelling./Stone cutter is kept form his stone/weaver is kept from his loom/

WITH USURA/

wool comes not to market/sheep bringeth no gain with usura/Usura is a murrain, /usura/blunteth the needle in the maid’s hand/and stoppeth the spinner’s cunning. Pietro Lombardo/came not by usura, Duccio came not by usura/nor Pier della Francesca; Zuan Bellin’ not by usura/nor was ‘La Calunnia’ painted./Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis,/Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit./Not by usura St. Trophime/Not by usura Saint Hilaire,/Usura rusteth the chisel/It rusteth the craft and the craftsman/It gnaweth the thread in the loom/None learneth to weave gold in her pattern;/Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroidered/Emerald findeth no Memling/Usura slayeth the child in the womb/It stayeth the young man’s courting/It hath brought palsey to bed, lyeth/between the young bride and her bridegroom/

                               CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis/Corpses are set to banquet/at behest of usura.

Con l’Usura

Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra/ciascun blocco finemente squadrato e adatto/a dipingerne la facciata,/con l’usura/nessuno avrà un paradiso affrescato sul portale di una chiesa/né harpes  et luz/o luogo dove la vergine ricevi il messaggio/e sia incisa l’aureola/con l’usura non ci sono Gonzaga, eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e vivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/con l’usura, peccato contro natura,/il pane è avanzo irrancidito/secco come carta/niente segala, /niente farina buona/con l’usura il segno diviene greve/con l’usura non vi è confine certo/e nessuno può trovare la dimora in cui vivere/il tagliatore di pietra è allontanato dalla pietra/il tessitore dal suo telaio/

CON L’USURA/la lana non arriva al mercato/le pecore allevate non portano guadagno/l’usura pestilenza/Con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta il telaio. Pietro Lombardo/non venne dall’usura, e Duccio non venne dall’usura/e neppure Pier della Francesca; Zuan Bellin non venne dall’usura/né fu dipinta La Calunnia./Non venne dall’usura Angelico; né Ambrogio Praedis/nessuna chiesa di pietra col marchio: Adamo me fecit./Né venne St. Trophime dall’usura/neppure st.HIlaire,/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo del telaio/nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello;/l’Azzurro ha un cancro con l’usura; il cremisi …./lo Smeraldo non trova il suo Memling/L’usura uccide il bambino nel grembo/trattiene il giovane nel corteggiamento/porta la paralisi nel letto, si sdraia/fra il giovane sposo e la sposa/

                                     CONTRA NATURAM

/Hanno portato le puttane  da Eleusi/cadaveri preparati per banchetto/agli ordini dell’usura.

Ciò che colpisce anche visivamente nel testo è la ripetizione ossessiva del termine usura, poi la ricchezza delle immagini. La parte più interessante sono il lessico e la grafia usate perché la lingua di questo testo non è l’inglese moderno, ma  quello arcaico – rusteth, findeth, per esempio – che si può far risalire a un’epoca in cui il Cristianesimo secondo Pound conservava una propria purezza originaria, non ancora inquinata dalla modernità, che per il poeta inizia proprio con i prestito di denaro a interesse. L’iconografia presente nel testo è più complessa perché spazia fino a Piero della Francesca e cioè in pieno Umanesimo, mentre sembra tenersi a una certa distanza dalle immagini che ricordano il pieno Rinascimento. Pound sogna un Cristianesimo che a rigore di logica dovrebbe essere precedente l’invenzione stessa del Purgatorio, dovuta alla necessità di salvare dalla dannazione assoluta un’intera categoria di professioni che si andavano imponendo: barattieri, banchieri, ecc. Il sogno rimane quello che è ma la potenza dei sui versi che rimane come monito nel tempo della necrofilia capitalistica che ci sovrasta.

Moore. Nei saggi dedicati all’opera d’arte, Karl Gustav Jung afferma fra l’altro che il grande artista è colui che fa sentire alla propria epoca ciò che più manca ad essa.8 È una definizione che calza a pennello per Moore e molto anche per Stevens. La prima natura riscoperta nel cuore di una civiltà che pensava di averla del tutto domata, è proprio la denuncia di un’illusione ottica assai pericolosa. Bisogna considerare, poi, che Marianne Moore morì nel 1972, ma che scrisse il corpus maggiore delle sue poesie in anni che vanno dal 1935 alla metà degli anni ’50, in un momento storico in cui – nonostante le distruzioni di due guerre mondiali – l’attenzione sui disastri ambientali non era ancora all’ordine del giorno. La sua natura e i suoi animali, però, sono tali perché colti nel loro habitat e con le loro caratteristiche di specie. Cani e gatti, uccelli in gabbia e altre specie troppo addomesticate non sono presenti nella sua poesia. Il suo modo di sentire il mondo animale e naturale è altrettanto lontano da certe pieghe ecologiste contemporanee, che cominciarono a imporsi successivamente alla sua morte. Pensando all’oggi, credo che sarebbe addirittura inorridita nell’osservare il processo sempre più irragionevole che attribuisce agli animali tratti antropomorfi che rasentano il grottesco e che sembrano voler trasportare le invenzioni di Walt Disney dal cartone animato alla realtà. Moore invita il lettore all’ammirazione e alla contemplazione del mondo animale, ma la natura per lei non è un giardino fiorito, ma piuttosto un’arena dove il conflitto e il confronto sono all’ordine del giorno; ma non la guerra, che appartiene solo agli umani. La sua profonda ammirazione del mondo animale può certo educare a un’etica del rispetto, ma prima di tutto a quella tipologia di rispetto che assegna a ciascuna specie il diritto di vivere secondo le proprie prerogative di speciazione.

La natura peraltro, è assai presente anche nella poesia di Stevens e in definitiva è proprio tale presenza in entrambi è fra le tematiche  che pongono fra i due ed Eliot una distanza irriducibile. Quanto al suo rapporto con la tradizione, Moore è forse la più eclettica, ma in un senso profondamente diverso dell’eclettismo di Pound. I suoi interessi per la divulgazione scientifica, per esempio, sono pari agli interessi letterari e questo le permette di usare un linguaggio poetico che ha un vasto retroterra nella scienza: l’esattezza di certe immagini viene da questo e Moore è fra i pochi poeti e poete del secolo scorso cimentarsi con linguaggi estranei alla letteratura in senso stretto.      

Eliot infine è il continuatore della tradizione che da Baudelaire passa per Laforgue, ma vi rimane intrappolato perché quella tradizione ha molti decenni alle sue spalle e non è già più la novità densa di futuro che era a metà del secolo precedente e lo stesso vale per l’ipocrita lettore, che Eliot riprende alla lettera come citazione. La dimensione urbana era stata esplorata in tutte le sue pieghe ed Eliot è l’ultimo a farlo e con lui essa diventa una totalità, dalla quale cerca di sottrarsi nei Quartetti dove, specialmente nell’ultimo e cioè in Little Gidding , è la provincia campestre e virtuosa a tornare al centro. Tuttavia, gli squarci di natura esistenti in Eliot si traducono quasi immediatamente in simboli religiosi: la rosa, il roveto ardente, o l’estate di San Martino. Oppure, ripensando ai versi iniziali di Waste land – Aprile è il mese più crudele – la natura è usata per farne immediatamente una metafora che sta per altro.

Quanto ai rapporti fra Eliot e Stevens, essi sono difficili da mettere a fuoco, prima di tutto per la voluta distanza che il secondo ha sempre posto fra sé e il mondo letterario del suo tempo. Eliot, in un’intervista riportata nell’edizione italiana dei Quartetti, a cura di Angelo Tonelli, l’intervistatore d’eccezione, il poeta polacco Milosz, lo sollecita a parlare di lui, ma egli finge di non accorgersene e passa oltre.9 Se si guardano i due percorsi, non vi è dubbio che la loro distanza sia assai grande e il fatto che qui e là si possano scorgere tematiche analoghe, appartiene di più al sentire comune di un’epoca che ad altro. Alcuni punti di partenza possono sembrare comuni – mi riferisco in particolare a Sunday Morning  se messo a confronto con alcune parti della Waste Land – A game of chess per esempio – ma sono somiglianze destinate a venir meno nel prosieguo dei loro percorsi. Stevens, al culmine della crisi di una civiltà, che anche lui sente ma con la quale non collude, si affida alla poesia e a dove essa lo porta, non a opzioni che le sono estranee. Gli esiti più alti del suo percorso si trovano alla fine della sua vita, sono cioè i frutti maturi di un’esistenza poetica che non è scesa a patti con il peso del mondo, ma è rimasta fedele a un’inspirazione originaria, che risponde solo a se stessa. Stevens, l’assicuratore anonimo, l’uomo della provincia americana, è forse l’unico poeta del ‘900, in Occidente, ad avere scommesso su una nuova sacralità della parola poetica, ma una sacralità tutta terrestre. Diverso il suo atteggiamento anche per quanto riguarda il rapporto fra poesia e interpretazione, poesia e critica. Anche Stevens si è cimentato con entrambe le discipline, ma se Eliot ha voluto sempre indicare ai critici cosa voleva dicessero di lui, Stevens fa esattamente il contrario e cioè li depista in continuazione. Memorabile, a mio avviso, è il modo in cui tiene tutti sulla corda, lasciando i critici discutere su un finto enigma: quella della famosa quarta sezione del poema Note verso la finzione suprema.

Harold Bloom


1 Il numero in questione è un’edizione speciale e monografica. I saggi esplorano diversi aspetti della questione e si aprono a valutazioni extra letterarie, come avviene per esempio nel saggio di Alan Filreis sull’atteggiamento di Stevens e Pound nei confronti della Guerra Fredda.

2 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 9. La citazione viene ripresa anche alla pag. 49 nelle note al testo.

3 Il libro fu pubblicato nell’estate del 1918 e suscitò un’enorme impressione, dato anche il momento particolare della storia europea,  alla fine di una guerra disastrosa e di una pace che lo sarebbe stata ancora di più. 

4 In n questo stesso blog si trova un saggio su Borges dedicato però a uno solo dei suoi racconto:  Deutsche requiem.

5 Il link dell’intervista di Pasolini è facilmente reperibile su Youtube

6 Il canto dell’usura fu pubblicato nei Pisan Cantos.

8 Karl Gustav Jung, Scritti sulla letteratura e l’arte. Il testo è facilmente reperibile anche in rete.

9 T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000, introduzione e intervista.

QUALCOSA SI MUOVE IN ISRAELE E A WASHINGTON

Introduzione

Le due lettere del maggiore israeliano – quella di luglio e quella più recente inviata al New York Times:  

Ora è il tempo della guerra, ma i palestinesi non sono il nemico

stanno facendo il giro del mondo. Nessuna illusione che le sue parole possano influire sull’oggi ma l’esempio di Nir Avishai Cohen come quello delle decine di migliaia di disertori ucraini e russi, fanno comunque ben sperare per il futuro. Le considerazioni dell’ufficiale israeliano della riserva, che ha scritto anche un libro dal titolo Love Israel, support Palestine, si prestano però a una riflessione più ampia, anche perché fra la presa diposizione di luglio e l’ultima lettera ci sono differenze e un’ambiguità di fondo che non viene sciolta ma che dimostra comunque un fatto incontrovertibile: il fronte interno di Israele può incrinarsi molto più di quanto appaia in superficie. Riporto per intero la dichiarazione del luglio scorso come è comparsa in rete, poi alcuni stralci della lettera al quotidiano newyorchese.

Mi rifiuto. Io, Nir Avishai Cohen, maggiore in Mill, numero personale 701874, ufficiale AGM della Brigata di fanteria, annuncio a malincuore il rifiuto. Mi rifiuto di continuare a servire nell’IDF, un esercito di un paese non democratico.

È importante per me sottolineare, non sono un volontario, servo in una riserva rispettosa della legge. Sono consapevole delle conseguenze che la mia dichiarazione può avere e sono pronto ad accettare con tutto il cuore, anche sedervi in galera. Un ordine di coscienza mi proibisce di far parte dell’esercito.

Più di chiunque altro oggi penso a mia nonna, Leah RIP, quella sopravvissuta ad Auschwitz ma tutta la sua famiglia è stata uccisa lì.

In questo giorno in cui annuncio il mio rifiuto di servire nell’esercito di un paese non democratico, penso a lei. La sua storia privata, che fa parte della storia nazionale del popolo ebraico, ci ha insegnato l’obbligo di rifiutare.

Non c’è una sola persona nel paese d’Israele che non sarebbe disposta a tornare nella macchina del tempo in Germania del 1933, un attimo dopo che aveva cessato di essere democratica, e urlare nelle mie orecchie tutti i soldati, che non gli è permesso servire l’esercito di un paese non democratico. Questo è un dovere rifiutare. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe successo se nel 1933 decine di migliaia di ufficiali e soldati si fossero rifiutati di continuare a servire nell’esercito tedesco.

Così, molto prima che qualcuno pensasse che gli orrori di Auschwitz potessero accadere, i soldati hanno dovuto rifiutare.

Ho prestato servizio nell’IDF per 24 anni. Regolarmente come ufficiale di combattimento nella Golani, e successivamente in servizio di riserva come comandante di compagnia, Stato Maggiore Generale e ora come ufficiale di Divisione AGM. Ho rischiato la vita, ho perso i miei buoni amici. Vengo sempre quando mi chiamavano, per tutta la fede di non avere altro paese, che è mio dovere.

Sono stato chiamato ogni anno per decine di giorni di riserva, solo nell’ultimo anno ho scontato 41 giorni del genere. Giorni in cui ho lasciato la mia casa e tutte le mie occupazioni e ho dato il mio contributo alla difesa del paese.

Non è un segreto che da qualche anno ho avuto una critica acuta alle gesta di FDI nei territori occupati, ci ho anche scritto un libro. Ma nonostante questo ho deciso di continuare a servire. Vero, non nei territori occupati ma in difesa del confine meridionale e legittimo d’Israele. Anche se con molta contemplazione alla luce di quanto sta accadendo nei territori, ho continuato a servire. Di tutte le innumerevoli volte che ho indossato una divisa mi sono ricordato di nonna Lea. Mi sono sempre ricordato che è tornata e ha detto che la nostra famiglia deve contribuire alla sicurezza di questo paese, che l’Olocausto non sarebbe avvenuto in quale paese e i suoi militari sarebbero esistiti. Ho deciso che da una parte continuerò a servire nelle riserve e dall’altra farò del mio meglio come cittadino per influenzare e cambiare le politiche governative. Finché il paese è democratico ci ho trovato senso, anche se sono stato criticato per la mia decisione da entrambe le direzioni, destra e sinistra.

Un dato di fatto è che un regime antidemocratico usa l’esercito, la polizia e le altre forze di sicurezza, per i bisogni personali e i desideri dei governanti, non per i veri bisogni della difesa del paese. È giunto il momento di guardare onestamente alla realtà, Israele non è riuscito ad essere un paese democratico, anche quello all’interno delle aree della linea verde. Le leggi vigenti sono solo l’inizio, molte leggi orribili, antidemocratiche, in procinto di essere promulgate. Molti gruppi di popolazione stanno affrontando un vero pericolo. Arabi, donne, persone LGBT saranno le prime a essere ferite all’interno della linea verde. Nei territori occupati aumenteranno le sofferenze della popolazione palestinese e continuerà a versare sangue palestinese in quantità.

La storia dimostra che un regime antidemocratico può richiedere all’esercito di commettere atrocità, certamente un regime dove i governanti sono Smotrich, Ben Gvir e la loro banda razzista e messia. Non molto tempo fa Bezalel Smutrich, che è anche ministro del Ministero della Difesa, chiamato “Erase Havara”, chiamata che potrebbe sicuramente diventare un ordine. Pertanto l’obbligo di rifiutare oggi può prevenire gli orrori del domani.

La storia insegna che quando gli orrori che l’esercito richiederà di fare saranno accompagnati da propaganda velenosa, sarà troppo tardi, i soldati “semplicemente adempiranno agli ordini”. Quindi non c’è scelta, ora è il momento.

In questo momento difficile penso a mia nonna. Penso quale sarebbe il destino della sua famiglia, se nel 1933 una massa critica di ufficiali e soldati si rifiutasse di servire.

Oggi faccio la mia modesta donazione, tutto sommato una maggiore semplice e poco importante. Una donazione sotto forma di rifiuto pubblico di servire nell’IDF.

Guardo il cielo ora e dico a mia nonna orgogliosa, piena di lacrime di tristezza, che non sono pronta ad essere una di quelle che “seguono solo gli ordini”, che ho imparato questa lezione anche dalla sua storia privata, che è la storia di tutti noi. Da oggi non faccio più parte dell’esercito del paese d’Israele, un paese non democratico.

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Poiché la sua lettera al New York Times è facilmente reperibile in rete ed è riportata in molti siti facilmente consultabili, non continuerò a ripetere le fonti delle citazioni che riporto.

Prigionieri di minoranze religiose

La prima considerazione importante mi sembra questa:

Milioni di palestinesi che vivono qui con noi tra il mare e la Giordania non sono nostri nemici. Proprio come la maggior parte degli israeliani, anche la maggior parte dei palestinesi vuole semplicemente vivere la propria vita in pace e dignità. Il popolo ebraico e il popolo palestinese sono prigionieri da decenni di una minoranza religiosa violenta  

La conclusione del ragionamento è che “La guerra si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Poi prosegue così:

Come tutte le innumerevoli volte in cui ho prestato servizio nella riserva, anche questa volta, finché sarò in divisa, non scriverò qui le mie opinioni personali – continua – Ma prima di tacere vorrei scrivere qui alcuni miei pensieri”. E li elenca: “Non c’è nulla al mondo che possa giustificare il massacro di centinaia di persone innocenti”. E poi ; “Adesso è tempo di guerra, la prima cosa in questo momento è proteggere la casa, il Paese. Non confondiamoci, questa non è una “guerra senza scelta”, si poteva evitare, ma ora è troppo tardi. Ora non c’è altra scelta che imbracciare le armi e difendere i cittadini di Israele. Difenderò il mio paese dai nostri nemici. I nostri nemici sono organizzazioni terroristiche assassine controllate da estremisti islamici. Al massacro di israeliani innocenti non deve corrispondere il massacro di palestinesi innocenti. È importante ricordare che il popolo palestinese non è nostro nemico”. Questa guerra prima o poi finirà. Alla fine entrambe le nazioni dovranno fare i conti con i leader.

Sulla ricostruzione storica del confitto ci sarebbe molto da dire, ma è tuttavia a importante  questa presa di posizione anche per quello che dice alla fine e cioè che sono i leader di entrambi gli schieramenti a tenere prigionieri i due popoli.

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Qui di seguito riporto dal sito Terra Madre l’iniziativa delle donne israeliane ed arabe che il giorno 6 ottobre, prima dell’inizio del conflitto, hanno manifestato insieme. Il documento invece è di ieri.

IL GIARDINO DI LIMONI

Il grido delle madri: «Fermatevi e trattiamo per gli ostaggi»

Terra Madre

Manuela Borraccino

18 ottobre 2023

Le attiviste ebree e arabe di Women Wage Peace: «Chiediamo al governo israeliano di iniziare trattative immediate per il rilascio degli ostaggi e di includere le donne nei negoziati con i palestinesi. Non è possibile che ci siano solo uomini a guidare il Paese fuori da questa crisi».


«Scioccate, ferite, in ansia, eppure continuiamo a chiedere un accordo di pace». Comincia così la dichiarazione del movimento di Women Wage Pace (che raduna 44mila attiviste israeliane, ebree ed arabe) redatta nei giorni scorsi, dopo il massacro di 1.300 israeliani da parte di Hamas nei kibbutz di frontiera con la Striscia di Gaza, avvenuto solo tre giorni dopo l’ultima marcia pacifista a Gerusalemme e sul Mar Morto. Una strage, quella del 7 ottobre, durante la quale sono state catturate, tra i 199 ostaggi, anche una delle fondatrici del movimento, la 74enne Vivian Silver, che da decenni è membro attivo di organizzazioni femministe miste israelo-palestinesi (nel kibbutz Be’eri) e Ditza Heiman, madre dell’attivista Neta Heisman (nel kibbutz Nir Oz).

Nel dolore per la mattanza perpetrata da Hamas e per le migliaia di vittime altrettanto innocenti provocate dalla rappresaglia israeliana nella Striscia di Gaza, «come madri ebree ed arabe con diverse opinioni e posizioni, piombate dentro questo film spaventoso e folle», si legge nel comunicato, «chiediamo al governo israeliano di iniziare immediatamente delle trattative per il rilascio degli ostaggi. Facciamo appello alla Croce Rossa e alla comunità internazionale di garantire la loro sicurezza e agire per la liberazione immediata. Chiediamo che Israele impedisca che prenda fuoco anche la Cisgiordania e non permetta agli estremisti di entrambe le fazioni di istigare la regione, come già avvenuto la scorsa settimana». «Questa guerra dimostra oggi più che mai che il concetto di gestire il conflitto è fallito. L’idea di posticipare all’infinito la risoluzione del conflitto si è dimostrata fondamentalmente sbagliata».

Le attiviste fanno riferimento anche alla Risoluzione Onu 1325 del 2000 Donne, pace e sicurezza sull’obbligo (finora disatteso nella maggior parte dei conflitti mondiali) di inserire negoziatrici donne nelle trattive di riconciliazione e in generale tra i decisori. «Siamo nel 2023 eppure non ci sono quasi donne nei circuiti dove si prendono le decisioni in Israele. Questa è una situazione intollerabile che deve cambiare. Chiediamo che il team negoziale per la liberazione degli ostaggi includa delle donne. Non è possibile che ci siano soltanto uomini a guidare il Paese durante questa crisi».

La dichiarazione passa in rassegna l’angoscia, lo sgomento, la preoccupazione, il senso di impotenza che le madri di entrambi i popoli stanno provando da 11 giorni di fronte al nuovo conflitto. «Dobbiamo unirci a tutte le donne del mondo per fermare questa follia. Le nostre parole possono suonare ingenue e irrealistiche, ma questa è la verità: ogni madre, ebrea e araba, mette al mondo i propri figli per vederli crescere e fiorire, non per seppellirli». Per questo le attiviste chiedono al governo israeliano «di considerare i propri passi e le proprie azioni in modo responsabile e morale e prevenire morti inutili di civili e di soldati e, allo stesso tempo, laddove possibile, di impedire danni agli innocenti a Gaza».

Chiedono altresì risposte a queste domande: «Un’invasione di terra, la distruzione di Gaza, costringere un milione di palestinesi a lasciare le proprie case… tutto questo porterà forse a un futuro di sicurezza? E che cosa accadrà il giorno dopo? Non è forse essenziale dare la priorità alla liberazione degli ostaggi? I nostri leader cosa rispondono?». Dopo tutti gli sforzi fatti per stimolare l’adesione al movimento anche di cittadine arabe israeliane, le firmatarie della dichiarazione chiosano: «Dobbiamo rafforzare la solidarietà e unità fra il pubblico ebraico e arabo in Israele e continuare ad agire contro il razzismo e l’odio. Il pubblico arabo, che ha convissuto per anni con il dissidio interno di essere cittadini di Israele e parte del popolo palestinese, ha marciato insieme a noi in questi difficili tempi di crisi per la salvezza dell’intera società in Israele».


Infine la diretta mandata in onda dal Corriere del Ticino sulla manifestazione che negli Usa. In Italia questa notizia è stata data dalla Sette, e da Radio popolare. Di seguito tutti i link per chi volesse approfondire le questioni

10 ore fa — Migliaia di manifestanti di associazioni ebraiche hanno marciato mercoledì a Washington per chiedere il cessate il fuoco immediato fra Israele e …

https://tg.la7.it/esteri/washington-la-manifestazione-gli-ebrei-pacifisti-pro-palestina-500-arresti-19-10-2023-196476

11 ore fa — Decine di ebrei americani manifestano al Congresso per chiedere il cessate a fuoco a Gaza. Le immagini mostrate da media americani mostrano …

https://www.cdt.ch/news/mondo/manifestanti-al-congresso-usa-chiedono-il-cessate-il-fuoco-330757

ELIOT E L’ITALIA: OVVERO PRAZ, ELIOT, MONTALE

Questa parte del saggio fu pubblicata sull’annuario di Poesia Crocetti del 2002.

Eliot si è imposto lentamente in Italia. Non vi è alcuna sua influenza sull’avanguardia dei primi decenni del secolo, giudicata con sufficienza dai poeti più autorevoli del mondo anglo statunitense. Pound definiva il futurismo italiano un:

impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione. 22

Quanto a Eliot, egli fu affascinato dalle affermazioni pirotecniche contenute nel Manifesto Futurista pubblicato da Le figaro nel 1909, ma non le prese mai alla lettera, anche se le userà con ironia e disincanto. La sua reazione anti romantica è più rivolta al tardo romanticismo inglese di poeti come Swimburne e Pater e ostile al sentimentalismo e all’autobiografismo nel linguaggio poetico; ma niente affatto demolitore della tradizione. Inoltre Eliot parte da Laforgue e dietro quest’ultimo ci sta Baudelaire; ma la sua visione della poesia attinge a un vasto patrimonio che si rifà all’antropologia e alle scienze e non soltanto alla tradizione letteraria. Infine il richiamo a Dante è quanto di più lontano si possa immaginare dai futuristi italiani.

Il nome del poeta comincia a circolare dopo il 1920, ma la fonte non è diretta: sono alcune riviste francesi a veicolarlo in Italia. La testimonianza di Montale è preziosa al riguardo. In un articolo del 1947 per la rivista L’immagine dal titolo Eliot e noi il poeta afferma:

Prima di allora [è il 1928 come dirà più avanti nello stesso articolo] non avevo letto di Eliot che una o due delle sue liriche giovanili, del periodo che fu chiamato laforguiano: Portrait of a lady e Prufrock.23

La rivista La Ronda lo ignora. È un nuovo periodico milanese nato nel 1925 (La Fiera letteraria) a occuparsi di lui. Si tratta di un foglio più eclettico e curioso, ma anche per i suoi redattori Eliot rimane un poeta difficile da digerire: Linati lo definisce:

poeta oscuro e critico perfetto.24

La svolta va ascritta all’opera di Mario Praz, il primo che dimostra di possedere gli strumenti culturali per cogliere l’importanza della poesia del poeta di Saint Luis. È il sostrato della poesia eliotiana ad affascinare lo studioso, uomo dai vasti orizzonti. È lui a tradurre Eliot per gli italiani; ma fa anche di più perché, da critico acuto qual è e da stratega delle lettere italiane di quegli anni in rapporto alla cultura europea, Praz diventerà il fabbro di una costruzione che avrà vita lunga e occuperà la scena nazionale, attraversando il primo novecento per approdare al secondo, quando Eliot s’imporrà definitivamente nel nostro paese.

È Mario Praz a proporre al poeta anglo statunitense la pubblicazione in Inghilterra di Arsenio. La poesia uscirà sulla rivista Criterion nel 1928. Il traduttore è lo stesso Praz e non si può non notare la stranezza, perché la prassi più consueta vuole che chi traduce un testo poetico sia un parlante la lingua di ricezione. Se fosse solo una stravaganza la cosa potrebbe non avere alcuna importanza; se non che, la versione inglese sembra fatta per forzare il testo montaliano fino a renderlo il più possibile affine, per atmosfera e stilemi, a una poesia di Eliot. Sebbene non sia il solo ad avere notato la cosa, cercherò di portare qualche prova per suffragare affermato, esaminando alcuni passaggi del testo e della traduzione a cominciare dall’inizio. 25

/I turbini sollevano la polvere/sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi/deserti, ove i cavalli incappucciati/annusano la terra, fermi innanzi/ai vetri luccicanti degli alberghi./Sul corso, in faccia al mare, tu discendi/in questo giorno/or piovorno ora acceso, in cui par scatti/a sconvolgerne l’ore/uguali, strette in trama, un ritornello/di castagnette./

Praz traduce in questo modo:

/Dust, dust is blown about the roof, in eddies/It eddies on the roofs and on the places/Deserted, where are seen the hooded horses/Sniffing the ground, motionless/In front of the glistening lattices of the hotels./Along the promenade, facing the sea you slide,/Upon this afternoon of sun and rain,/Whose even close knit hours/Are shattered, so it seems, now and again/by a snappy refrain/of castanets./

Le peculiarità saltano subito all’occhio. L’attacco dà un’impronta molto decisa al testo grazie alle parole dust, eddies e roof, la cui iterazione è invece inesistente in Montale. È vero che il mulinello implica la polvere e anche il vorticare degli oggetti, ma la scelta operata da Praz di ripetere la stessa parola conferisce alla poesia quella particolare solennità che è tipica di molti attacchi eliotiani.

In The love song of J. Alfred Prufrock, ecco un esempio:

… /The yellow fog that rubs its back upon the window-panes,/The yellow smoke that rubs its muzzle on the window-panes,/

(La nebbia gialla che si gratta la schiena alle finestre,/il fumo giallo che si gratta il muso ai vetri delle finestre,/…) 26

Le citazioni potrebbero continuare a lungo perché l’iterazione è una caratteristica costante dello stile eliotiano.

Il procedimento di Montale va in senso addirittura opposto. Giocando sulla differenziazione dei significanti il poeta italiano sfrutta tutte le possibilità musicali della nostra lingua: mulinelli è parola che gli serve per un’allitterazione con cavalli nel verso successivo e non semplicemente per caricare di ulteriore senso l’uso precedente di turbini. Il testo di Montale è evocativo, mentre la traduzione di Praz è orientata nel senso della precisione e dell’esattezza. A parte l’arbitrarietà di ripetere ben tre vocaboli, anche l’uso del singolare roof, la prima volta, va nel senso della precisione; Montale usa il plurale tetti perché il suo paesaggio, per usare una metafora cinematografica, è visto in piano medio, non in primo piano come avviene in Eliot. Per il poeta anglo statunitense l’immagine o l’oggetto sono individuati e messi a fuoco. Ancora due versi di questa prima strofa:

/in questo giorno/ or piovorno ora acceso …/.

Praz traduce con:

 /Upon this afternoon of sun and rain/.27

A parte la bizzarria di questo giorno che diventa del tutto arbitrariamente un pomeriggio, la versione inglese elimina gli elementi aulici (piovorno), che Montale, un po’ artificiosamente, si porta appresso per poter costruire la rima con giorno, spezzando però il verso, così da renderne più martellante e ritmica la dizione. Anche ammettendo che un equivalente inglese di piovorno si possa trovare solo in un dizionario storico, Praz prende un po’ troppo la palla al balzo, eliminando anche la melodia dei versi. L’or ora montaliano, infatti, serve a dare un ritmo plastico all’alternanza dei diversi tempi atmosferici; insomma, mentre Montale gioca su ritmo, melodia e contrappunto, seguendo il suo istinto musicale che deriva anche dai suoi studi da baritono e dunque nutrito dal gusto melodrammatico così tipicamente italiano. Praz, invece, prosciuga il testo dai suoi tratti retro, rendendolo così più moderno. Nel prosieguo il traduttore ricorre più volte ancora alle iterazioni indebite, come quando usa per due volte le parole waves e moments nella seconda strofa. In questa parte tuttavia, un altro particolare balza all’occhio ed è la traduzione di nembo, che Praz traduce con wirlwind. La parola inglese indica il mulinello, il vortice, uno stato di turbolenza. È vero che tutta la poesia è percorsa dal movimento turbinoso degli elementi naturali che fanno da contrappunto all’immobilità di Arsenio, ma la parola ha pur sempre, in poesia, il suo primato e in questo caso Montale usa nembo.

Il poeta italiano ricorre spesso a parole auliche: abbiamo visto piovorno, ora nembo, figge nell’ultima parte. Anche il ricorso a parole tronche (fremer invece di fremere), si richiama a una tradizione classica, che fa da contrappunto all’introduzione di parole moderne e dal suono stridente: le castagnette della prima strofa e l’acetilene nella penultima. Già nei primi poemetti, i procedimenti iterativi conferiscono drammaticità e caricano di senso il dettato eliotiano e vorrei citare a questo proposito i versi che nel Prufrock si richiamano all’Ecclesiaste:

/And indeed there will be time/For the yellow smoke that slides along the street/Rubbing its back uopon the window-panes;/There will be time, there will be time,//To prepare the face to meet the faces that you meet;/There will be time to murder and create,/…

(E in effetti ci sarà tempo/per il fumo giallo che scivola lungo la strada/grattandosi il dorso ai vetri delle finestre;/ci sarà tempo, ci sarà tempo per preparare/una faccia per incontrare le facce da incontrare;/ci sarà tempo per uccidere e creare/…)28

In Montale, invece, il contrappunto fra parole della tradizione poetica e altre consapevolmente moderne risponde essenzialmente a esigenze linguistico musicali, con rimandi a luoghi ed episodi biografici. Viste da vicino le differenze sono più evidenti delle somiglianze, a meno di non ridurre tutto al comune uso, in entrambi, delle dramatis personae; sebbene, anche in questo caso, le diversità nel modo di farlo siano profonde perché diversi, sono i personaggi e perché l’uso che Eliot fa delle maschere non rimane lo stesso. Confrontiamo, per esempio, l’Arsenio di Montale con Prufrock e con  la Lady del Portrait.

Il personaggio montaliano discende un viale che porta sul lungomare, mentre il cielo è percorso dalla turbolenza tipica delle cittadine mediterranee in primavera. Il paesaggio è luminoso nonostante il vento e l’atmosfera tempestosa. Arsenio è un osservatore solitario, spiritualmente immobile, ma anche i suoi movimenti fisici sono impacciati. La vita gli scorre a fianco, rappresentata da elementi talvolta improbabili e curiosi (l’orchestrina di violini zigani); oppure dall’immagine tipicamente marina dei gozzi in rada. Arsenio continua la sua passeggiata fino a che la pioggia non scroscia improvvisa; anch’essa simbolo di una vitalità che non sembra scuoterlo. Il poeta, infatti, si rivolge a lui, nel finale con questi versi:

…/e se un gesto ti sfiora, una parola/ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,/nell’ora che si scioglie, il cenno d’una/vita strozzata per te sorta, e il vento/la porta con la cenere degli astri./29

Consideriamo ora l’inizio di Prufrock e l’attacco della seconda parte di Portrait of a lady.

/Let us go then, you and I,/ When the evening is spread out against the sky/ Like a patient etherised upon a table;/ Let us go, through half deserted streets,/ The muttering retreats/ Of restless nights in one-night cheap hotels/ And sawdust restaurants with oyster-shells:/ Streets that follow like a tedious argument/ Of insidious intent/ To lead you to an overwhelming question…/ Oh, do not ask, “What is it?”/ Let us go and make our visit.// In the room the women come and go/Talking of Michelangelo.

( Andiamo dunque, tu ed io,/quando la sera è stesa contro il cielo/come un paziente anestetizzato sul tavolo;/andiamo, per certe strade semi deserte, /rifugi borbottanti/di notti inquiete in locande da una notte/e ristoranti con segatura e gusci d’ostrica:/ strade che seguono come una discussione noiosa/ dall’intenzione insidiosa/ per condurti a una domanda ineluttabile …/No, non chiedermi qual è./ Andiamo piuttosto, facciamo la nostra visita.// Le donne vanno e vengono nei salotti/parlando di Michelangelo Buonarroti./) 30

Sebbene il tedio, la proustiana paresse, ma anche lo spleen baudleriano, accomuni queste figure ad Arsenio, molto altro le differenzia. Il monologo di Prufrock ha un interlocutore diretto, il tu che si accompagna al protagonista. La drammatizzazione muove entrambi i personaggi e il poeta diviene un regista di scena, mentre nell’Arsenio di Montale è un io diretto a rivolgersi a lui nel finale. Diverso è poi lo scenario. I personaggi di Eliot si muovono nella città che Baudelaire ha intuito per primo come impasto di sordido e di sublime, di esperienza routinière e di possibilità d’incontri fuori dal comune. Eliot assume questa lezione e ridisegna la materia del poeta francese trasformandola in un inferno trasportato nell’al di qua. Lo vediamo dagli hotels che, nonostante le apparenti affinità sono invece affatto diversi. Alberghi a ore per incontri fugaci quelli del poeta inglese; più consueti quelli di Montale, dove i cavalli incappucciati danno alla scena tratti ottocenteschi, ma di un ottocento diverso da quello industriale e fuligginoso dei bassifondi parigini o londinesi.

Le due maschere eliotiane devono compiere una visita in un salotto borghese, dove impera il vaniloquio. È già presente in Eliot quel sentore di una società di massa intrisa di consumismo culturale e narcisismo salottiero, dove il protagonista è un demi monde che orecchia e ripete; del tutto assente in Montale.

In Portrait of a lady la protagonista è un equivalente femminile di Prufrock; cambia invece il modo della rappresentazione:

/ Now that lilacs are in bloom/She has a bowl of lilacs in the room/And twists one in her fingers while she talks./ “Ah my friend, you do noto know, you do not know/What life is, you who holds it in your hands;”/(Slowly twisting the lilacs stalks)/ “You let it flow from you, you let it flow,/And youth is cruel, and has no more remorse/And smiles at situations which it cannot see.”/ I smile, of course,/ and go on drinking tea.

(/Ora che i lillà sono in fiore/essa ha un vaso di lillà nella stanza/e ne attorciglia uno fra le dita mentre parla./”Ah, amico mio voi non sapete, non sapete/ cos’è la vita, dovreste tenerla in mano;”/ (Attorcigliando lentamente gli steli dei lillà.)/ “Voi lasciate che scorra, la lasciate scorrere,/ e la gioventù è crudele, non ha rimorsi/ e sorride delle situazioni che non vede.”/Io sorrido, naturalmente,/ e continuo a bere./) 31

Introducendo il virgolettato, Eliot non compie semplicemente un’operazione di tipo stilistico. Il monologo di Browning diventa dialogo drammatizzato, in un’alternanza di versificazione, dove gli intercalari fra i dialoghi sembrano quasi delle note di regia. Nel finale il poeta ride dei suoi personaggi e della pantomima messa in scena da questa lady, depositaria di pseudo verità; ma la presa di distanza è già avvenuta. Con Gerontion, Eliot, in un certo senso, uccide il personaggio di Prufrock per poterlo resuscitare spogliato dai tratti di compiaciuta identificazione che restano evidenti nelle prime produzioni. Quest’ultimo poemetto, infatti, annuncia il poema maggiore. La sintesi di questo percorso sarà proprio La terra desolata, dove gli elementi precedenti vengono fusi di nuovo e tenuti insieme da un sentimento tragico della crisi che si è, nel tempo, approfondito. L’ironia e lo scherzo sono presenti nel poema eliotiano, ma non sono più l’elemento dominante. Rimane il mondo infernale, ma si può convenire con Luigi Berti quando, riprendendo un’osservazione di Stephen Spender sulle affinità e differenze fra i due poeti, afferma a proposito della città che:

nella luce di questa poesia è evidente che come Baudelaire vi scorgeva tutto ciò che poteva essere condannato, Eliot, forse più modestamente, vi cerca tutto ciò che può essere salvato.32

Nel 1950, riflettendo proprio su questo percorso, in un saggio dal significativo titolo What Dante means to me (Ciò che Dante significa per me) e ristampato nel 65 nella raccolta di saggi To criticize the critic and other writings Eliot scriverà:

Credo che da Baudelaire imparai per la prima volta un precedente per le possibilità poetiche, mai sviluppate da un poeta nella mia lingua … della possibilità di fondere ciò che è realisticamente sordido e il fantasmagorico, la possibilità di giustapporre i fatti e il fantastico. Da lui come da Laforgue […] capii che il tipo di esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana poteva essere materiale di poesia, e che la fonte di nuova poesia poteva trovarsi in ciò che era stato fin qui considerato intrattabile, sterile, impoetico33

Diverso il procedimento di Montale. Arsenio, pur avendo dei tratti che ricordano le dramatis personae eliotiane, rimane un episodio isolato, quasi estraneo alle atmosfere di Ossi di seppia. Tuttavia, si potrà obiettare che sono Le occasioni, e non l’opera d’esordio, quella che dalla critica è stata più avvicinata alla poesia di Eliot; anche se, come abbiamo visto, la pubblicazione di Arsenio in Gran Bretagna è un passaggio rilevantissimo nel rapporto fra Montale ed Eliot, sempre mediato da Mario Praz.

Vi accenna Mengaldo, ma anche altri hanno sottolineato tale contiguità. Barberi Squarotti si mantiene invece in una posizione più guardinga, limitandosi a osservare il superamento del soggetto. Secondo altri fra cui Eugenio Scarpati, il debito di Montale nei confronti di Eliot:

è culturale prima che poetico. 34

Il poeta stesso, dirà, riferendosi alle Occasioni, di una maggiore oggettività e pulizia, rispetto agli elementi spuri e soggettivi ancora presenti nell’opera precedente. Anche in questo caso, tuttavia, i dubbi rimangono forti. Una prima considerazione che s’impone è di carattere strutturale. Manca in Montale l’intento poematico, presente in Eliot, seppure nella forma aperta e cinematografica della costruzione a sketches. Visto nella sua prospettiva storica il poema eliotiano appare oltretutto più unitario di quanto non vedessero i suoi primi critici, colpiti dalla novità della partitura. Non solo la figura di Tiresia, ma anche la sequenza delle scene e il fitto intreccio di rimandi interni, costituiscono un insieme semantico molto strutturato. Infine, l’uso quasi esclusivo del tempo verbale al presente indicativo e il ricorso frequente alla drammatizzazione servono a cogliere tutto in presa diretta. La stratificazione dei significati non è data dalla memoria soggettiva dell’autore ma dalla compresenza oggettiva di elementi diversi e talvolta disparati; come quando, nel visitare una città gravida di storia, possiamo vedere nella stessa piazza una rovina arcaica, una chiesa del ‘500 e un palazzo in vetro e acciaio.    

Vediamo Le occasioni. Così inizia il primo testo, intitolato Vecchi versi.

/Ricordo la farfalla ch’era entrata/dai vetri schiusi nella sera fumida/su la costa raccolta, dilavata/dal trascorrere iroso delle spume./

La parola chiave di questo attacco è ricordo. Il tempo presente del verbo non è qui in presa diretta, ma introduce il punto di vista della memoria soggettiva; la scena successiva è evocativa, l’oggetto farfalla diventa subito simbolico. Nel prosieguo la memoria affolla la scena di altri personaggi: la madre del poeta, il tavolo ingombro dalle carte da gioco, i bambini che dormono. Siamo dunque in un interno, cui fanno da contrappunto: il faro pulsante dell’isola del Tino, il rombo sordo del mare delle Cinque Terre. La farfalla diviene l’elemento che porta la natura dentro questo tranquillo interno di una casa borghese. La sua presenza si fa minacciosa:

/Era un insetto orribile dal becco/aguzzo, gli occhi avvolti come d’una/ rossastra fotosfera, al dosso il teschio/umano; e attorno dava se una mano/tentava di ghermirlo un acre sibilo/ che agghiacciava./

Questo segno perturbante, che ricorda assai l’Acherontia Atropos di Gozzano,  sconvolge appena lievemente la scena, creando un forte momento epifanico; ma lo fa nel senso soggettivo proustiano non in quello oggettivo eliotiano. La farfalla di Montale assomiglia più alla madeleine. Il finale celebra un tema che appartiene alla poesia di tutti i tempi. La farfalla muore al contatto della luce e precipita su tavolo:

…/e fu per sempre/con le cose che chiudono in un giro/sicuro come il giorno,…/. 35

Il tema è quello della inesorabilità del destino che accomuna cose, animali, esseri umani. La caducità, colta nell’essere minaccioso e fragile di questa farfalla, viene estesa in questo bellissimo aprirsi finale del testo a ogni cosa, vivente o inanimata che sia; ma chi compie questo prodigio è ancora una volta, la memoria, parola chiave di questa parte. È la memoria a ingigantire il volo effimero di questa farfalla che viene associata al ricordo di una giovane morta precocemente – Annetta – che sarà anche la protagonista de La casa dei doganieri:

 /la memoria/in sé le cresce, sole vive d’una/vita che disparì sotterra: insieme/coi volti famigliari che oggi sperde/non più il sonno ma un’altra noia; accanto/ai muri antichi, ai lidi, alla tartana/ che imbarcava/ tronchi di pino a riva ad ogni mese,/al segno del torrente che discende/ancora al mare e la sua via si scava./ 36

L’elemento nuovo che Montale introduce è quello della noia che spegne queste vite, si direbbe, prima che abbiano compiuto il loro corso; questa novità si può collegare al tedio e all’immobilità di Arsenio e delle maschere eliotiane, ma è troppo poco per spingere le somiglianze oltre un certo limite. Non è qui in gioco, naturalmente, il valore di questa poesia e le suggestioni che essa sa riproporre su un tema così alto, ma l’affinità o meno con i procedimenti eliotiani. Piuttosto, è il Gozzano di Farfalle che viene alla mente.

Infine, due poesie intitolate Dora Markus e a un celebre Mottetto.

/Fu dove il ponte di legno/mette a Porto Corsini sul mare alto/e rari uomini, quasi immoti, affondano/o salpano le reti. Con un segno/della mano additavi all’altra sponda/invisibile la tua patria vera./Poi seguimmo il canale fino alla darsena/della città, lucida di fuliggine,/nella bassura dove s’affondava/una primavera inerte, senza memoria./ 38

Non mancano temi eliotiani in questo inizio: la primavera inerte, la lucida fuliggine, i rari uomini quasi immoti. Tuttavia è ancora una volta la memoria a tenere insieme tutto questo, il ricordo di un incontro con questa donna, di cui vi è una labile traccia in una lettera di Roberto Bazlen.

Dora, dal canto suo, ricorda il personaggio della signora nel boudoir di The game of chess (Una partita a scacchi), ne La terra desolata, ma ancora una volta le differenze sono più vistose. Così il testo di Montale:

…/Non so come stremata tu resisti/in questo lago/d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse/ti salva un amuleto che tu tieni/vicino alla matita delle labbra,/al piumino, alla lima: un topo bianco,/d’avorio; e così esisti!/.

Così quello di Eliot:

…/The glitter of her jewels rose to meet it,/From satin cases poured in rich profusion./ In vials of ivory and coloured glass/ Unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,/Unguent, powdered, or liquid – troubled, confused/…

(/lo scintillio le si levava incontro/ da astucci di raso versato a profusione;/ in fiale d’avorio e vetro colorato/dischiuse i suoi profumi stavano in agguato/ sintetici e strani/ unguenti ciprie e liquidi – turbavano e confondevano/…). 39

Sono gli oggetti a essere molto simili, ma è diverso il loro senso. Dora esiste attraverso di essi, come dice il poeta, mentre la signora del boudoir ne è pesantemente gravata. Nel prosieguo il sovraccarico di oggetti preziosi fra i quali la signora si muove descrivono in realtà una prigione dorata. Ed è allora che scatta una delle più commoventi e tragiche correlazioni dell’intero poema. Fra gli oggetti del boudoir vi è un quadro, il cui tema è il mito di Filomela, violentata da un re barbaro e trasformata in usignolo, condannato a cantare in gabbia. La relazione fra la rappresentazione nel quadro e la condizione di prigioniera introduce una drammatica messa in scena in forma di dialogo della nevrosi di cui soffre la donna.

Torniamo alla Dora Markus di Montale:

…/La tua irrequietudine mi fa pensare/agli uccelli di passo che urtano ai fari/ nelle sere tempestose:/ è una tempesta anche la tua dolcezza,/ turbina e non appare,/ e i suoi riposi sono anche più rari./ 40

Anche l’irrequietudine di Dora ha tratti nevrotici, ma essa rimane quello che è: una donna probabilmente mai incontrata, vista attraverso lo sguardo di un poeta che è anche un uomo. Nella seconda poesia a lei dedicata viene evocata la sua terra, la Carinzia, un luogo quasi esotico e lontano, irraggiungibile come forse la stessa Dora Markus. In definitiva il tema di Montale è l’incontro mancato con quella donna, ma non la condizione epocale di incomunicabilità fra uomini e donne in una relazione d’amore.

E veniamo al Mottetto

/La canna che dispiuma/ mollemente il suo rosso/ flabello a primavera;/ la rèdola nel fosso, su la nera/ correntìa sorvolata di libellule;/e il cane trafelato che rincasa/ col suo fardello in bocca,// oggi qui non mi tocca riconoscere;/ ma là dove il riverbero più cuoce/ e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue/ pupille ormai remote, solo due/ fasci di luce in croce./ E il tempo passa./ 41

Il mottetto è nettamente diviso in due parti, sottolineate anche dalla più ampia spaziatura esistente fra la prima e la seconda. La prima scena ci presenta una serie di elementi vitali e primaverili: il susseguirsi delle stagioni e il ridestarsi della natura dopo l’inverno da un lato, l’attività dell’animale domestico ma ancora libero dall’altro. In questo contesto non privo di un sentore di arcadia campestre, s’insinua improvviso un elemento di morte suscitato dal nuvolo che si abbassa. Ancora una volta è il ricordo di due pupille ormai remote a sospendere sia il movimento, sia la primavera. La trasfigurazione finale che muta gli occhi di questa donna in due fasci di luce in croce non allude, nonostante le apparenze, ad alcuna redenzione perché non vi è rientro nella natura secondo il ciclo vita morte rinascita, ma neppure una scelta decisa verso la soluzione cristiana del resto guardata da Montale con scettico agnosticismo se non proprio con rifiuto. La chiusa, un dantesco colpo di maglio, allude alla condizione di transito di ogni cosa, ma s’impone per la sua forte connotazione ritmica e musicale, senza ulteriori apporti di senso. In realtà, considerando il Mottetto nel suo insieme, il poeta gioca sul contrasto piuttosto che sulla correlazione. La morte che si insinua, mediata dalla memoria, non è in dialettica con la vitale descrizione della prima parte, ma semplicemente vi si giustappone. Ciò che rende suggestiva questa poesia è la concentrazione di epifanie in uno spazio testuale così breve; sono momenti che hanno un forte valore intrinseco, secondo i canoni migliori della poesia simbolista, dalla quale non si distaccano. I singoli fotogrammi di questa scena, il lampo finale che dissolve tutto in una luce accecante e il richiamo al tempo lineare che trascorre ci portano in due direzioni precise: da un punto di vista filosofico verso l’esaltazione del tempo come istante epifanico piuttosto che come lunga durata alla Bergson e poeticamente verso il Mallarmè più rarefatto. Senza dimenticare mai, tuttavia, che il verso oggi qui non mi tocca riconoscere, con cui si apre la seconda parte del Mottetto, introduce un punto di vista squisitamente soggettivo.

Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920 riferendosi al processo che porta alla poesia, Eliot lo definisce in questo modo:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.

È veramente curioso, a questo punto, rilevare come un poeta così legato alla biografia e ad alcuni luoghi privilegiati, venga associato a Eliot che critica apertamente l’irruzione di elementi biografici nel linguaggio poetico!

Negli studi di un italianista come Frederik Jones, forse perché più distaccato e capace di vedere le cose da una prospettiva più decentrata, ho trovato una ricostruzione convincente del percorso montaliano. Per lo studioso inglese il punto di partenza del poeta ligure è proprio Gozzano, da cui lo differenzia però

la fede continua e sostenuta nella validità dell’atto decisivo, capace di rievocare associativamente attraverso la memoria, le esperienze passate.

Continua ancora Jones: “… I suoi ricordi esteticamente sono spesso simili a certe evocazioni delle vecchie stampe gozzaniane, ma Montale ha su Gozzano il vantaggio di credere che la rappresentazione del patrimonio esistenziale del poeta possa avvenire in due modi: mediante immagini sia statiche sia dinamiche.

Nel merito più diretto della sua poesia essa:

Deve essere vista come una dialettica della memoria fondata su una religione nettamente immanente di sopravvivenza oltre la morte … Per lui una persona morta può essere immaginata solo come un insieme di atti incapsulati nel ricordo dei vivi … Tale conclusione è molto vicina alla teoria mallarmeana dell’essere ideale, ma in sostanza la sua forte carica emotiva l’avvicina piuttosto alle teorie proustiane della rievocazione memoriale ….

In tutto questo in nome di Eliot non compare mai. 42

Dal 1928 comincia una relazione intensa fra Montale ed Eliot, che culminerà anche in un paio di incontri e di cui Praz sarà l’assiduo tessitore. L’ambiente fiorentino è condizionato da questo sodalizio: l’esordio di poeti come Luzi, Bigongiari e Betocchi avviene in quest’atmosfera. Fino al ‘37 Praz e Montale saranno i soli traduttori di Eliot in Italia e i testi eliotiani suggestionano fortemente il poeta italiano. Negli interventi critici del poeta ligure sul suo interlocutore, Montale insiste sulla musicalità dei versi di Eliot, ma lascia in secondo piano i riferimenti culturali. Senza nulla togliere alla qualità musicale del poeta di oltre Manica, non è tuttavia per questo che si ricordano i suoi versi e comunque il suo rapporto con la musica è differente; le variazioni di Eliot sono jazzistiche, la sua cultura musicale, se vogliamo mantenere questo paragone, è eclettica e risente anche delle sue origini statunitensi. La musica di Montale è quella melodica e talvolta patetica del melodramma italiano e persino dell’operetta e in certe sonorità si possono riscontrare anche echi di poeti come Metastasio. Montale sembra assumere il calco eliotiano, ma non entra nel merito di problemi di poetica e quando lo fa le differenze sono evidenti. Due passaggi mi sembrano alquanto rivelatori. Dice Eliot:

L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel  trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione …

Dice Montale:

Non si dà poesia senza artificio; il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma altresì lavorare la sua materia verbale fino a un certo momento e dare alla propria intuizione quello che Eliot chiama un correlativo oggettivo.”43

Eliot parla d’emozione in senso universale e non biografico, si riferisce a un vasto universo di riferimenti, non parla di effusione del sentimento, ma specialmente non usa la parola artificio. Per lui il correlativo oggettivo è necessario per dare il massimo di universalità possibile e d’impersonalità all’esito artistico, dove la parola va intesa nel senso del rigore della rappresentazione e non come è stato detto troppe volte nel senso della freddezza emotiva. Quando Eliot pensa al duro lavoro sul verso, ha in mente il fabbro e cioè il modo di operare dell’artigiano che se mai è un virtuoso, ma non un artificioso. In questo contesto, l’omaggio che Montale rivolge alla formula eliotiana, appare strumentale e infatti troverà modo di liberarsene anni dopo. Nella Intervista immaginaria. Sulla poesia del 1946 il poeta dirà fra l’altro, a proposito de Le occasioni, che esse erano l’espressione di:

… Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui fui mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del correlativo oggettivo non credo esistesse ancora nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato sul Criterion)…

Questa dichiarazione contiene una mistificazione e una palese inesattezza. Il poeta dice di essere stato mosso dall’istinto nell’andare in una certa direzione: si può credergli, visto che aveva parlato in altro contesto della poesia come artificio? Istinto e artificio mal si conciliano. Quanto all’inesattezza non è vero che nel ’28 la teoria del correlativo oggettivo non esistesse, in quanto essa fu formulata in un saggio del 1919; ma non è neppure vero che Montale la ignorasse! È lui stesso a lasciarlo intendere nella recensione scritta per un libro di Corrado Pavolini del 1929, quando riferendosi proprio al correlativo oggettivo lo presenta come quella:

famosa definizione che tende a fare di ogni lirica moderna un oggetto di poesia (il correlativo oggettivo) secondo la nota teoria di Eliot. 44

A parte l’interpretazione discutibile del dettato eliotiano, se la formula gli era così ampiamente nota nel ’29, è difficile pensare che la ignorasse completamente nel ’28! E comunque Montale se ne scorda nel ’46, mentre se ne ricordava benissimo nel ’31: perché? Forse perché per tutti gli anni ’30 le ali del grande anglo statunitense potevano essere un ottimo usbergo per il giovane (e poco noto in Europa) poeta italiano, mentre nel ’46 le stesse ali, divenute ancora più estese, potevano risultare ingombranti. In questo contesto l’intervista immaginaria che il poeta rivolge a se stesso va vista come un tentativo di dare organicità al proprio percorso, costruendo una propria originalità anche di poetica.

Concluderei questa parte ricordando un intervento di Oreste Macrì, letto in occasione del convegno internazionale sulla poesia di Montale tenutosi nel 1982. Soffermandosi proprio sui rapporti con Eliot lo studioso afferma:

È un momento cruciale questo dell’incontro con la poesia più che con la poetica di Eliot, sul quale Montale proietterà tutte le sue complesse e contraddittorie istanze, alla ricerca di una nuova sintesi superiore abbracciante i dati del lirismo e della prosa, del generico e del particolare del continuo e del salto,… della storia e dell’universale. I primi termini sono considerati dei dati …. L’universale ha gli stessi diritti del particolare; un mito, un simbolo, un rito antichissimi si possono sincronizzare e amalgamare in un contesto contemporaneo … Fu questa la riforma eliotiana, rielaborata da Montale alla buona, a punti di spillo, casualmente, con l’empiria e il buon senso dell’uomo della strada.” 45

La vera fortuna di Eliot in Italia inizia nel secondo dopoguerra, quando aumentano, fino a diventare numerosissimi, gli studi su di lui; specialmente dopo l’attribuzione del Nobel, avvenuta nel 1948. Da un semplice esame della bibliografia si evince subito come sia la sua opera di drammaturgo a tenere ancora banco. Il poeta è in seconda linea e della sua produzione poetica molti studi sono dedicati alle opere giovanili e alla Waste Land mentre quelli dedicati ai Quartetti sono in netta minoranza. Saranno le traduzioni successive di Sanesi, Tonelli e altri a renderli più noti, ma siamo negli anni’80 e ’90.

Un altro filone della critica si occupa di Eliot in quanto esponente di prestigio della cultura cristiana: si pensi ai lavori di Margherita Guidacci, Angelo Romanò e specialmente a quelli di Luigi Berti che insistono su opere meno considerate da altri, quali, per esempio Ash-Wednesday o pièce teatrali molto rappresentate in quegli anni come Assassinio nella cattedrale o Cocktail party.

Le ragioni per cui continua a piacere sono dovute a uno strano melange che riguarda certamente la sua poesia e la sua poetica, ma anche il personaggio che egli sembra incarnare: quello dimesso e scettico, tipicamente moderno, del poeta agli antipodi del vate romantico o d’annunziano.

Filtrata dalla vicenda montaliana, il modo in cui il poeta viene accolto risente ancora di più di quella predisposizione simbolista, tardo ermetica, oppure crepuscolare che continuava e per certi aspetti continua a gravare sulla poesia italiana. La sua diventa da un lato una poetica dell’aridità che fa tutt’uno con la figura dimessa del poeta uomo comune, prototipo di quell’uomo senza qualità che è una figura tipica dell’anti eroe novecentesco. Dall’altro lato una poetica dell’oggetto, che è cosa diversa dal correlativo oggettivo.

La citazione di un brano del saggio di Silvio Ramat sulla poesia di Bartolo Cattafi mi sembra a questo proposito emblematica, non tanto per quanto egli dice sul poeta siciliano ma per il modo di intendere Eliot:

Il mutamento operatosi nel rapporto soggetto-oggetto va posto in relazione a un processo tipico della letteratura novecentesca. È un processo che aveva conosciuto in Eliot e, contemporaneamente in Montale, la sua stagione decisiva, dando luogo in termini di riepilogo critico alla formula eliotiana del correlativo oggettivo.46

Oltre che a dare per scontato il parallelismo fra i due autori Ramat mette l’accento sullo spostamento fra soggetto e oggetto, a favore di quest’ultimo, intendendo con questo il superamento dell’io lirico o il suo decentramento. Non è questo però che interessa al poeta anglo-statunitense; tale dibattito sarà molto presente nella scena italiana. Per Eliot il correlativo oggettivo è un vero e proprio flusso che si manifesta in concrezioni semantiche ricche di rimandi interni, estrema forza sintetica e profondità antropologica, mentre la poetica dell’oggetto è, nelle sue espressioni migliori come è per esempio nei Mottetti montaliani, una sequenza di epifanie isolate le une dalle altre, quasi sempre legate alla soggettività di chi scrive e un’esperienza biografica sempre più o meno presente direttamente nel testo.

Sono questi in definitiva i modi in cui la poesia italiana assumerà la lezione eliotiana. Nei poeti italiani del secondo Novecento, dove sono riscontrabili tracce della sua poetica, è la selezione circoscritta di temi e oggetti corrispondenti ad operare, declinati in senso intimistico e minimalista; oppure assurti a emblemi di romanzi famigliari.

In Giudici, come in altri (perché il problema riguarda un ambito più vasto), si assiste addirittura al trionfo, non della poetica eliotiana, ma delle sue prime maschere, con le quali il poeta sembra identificarsi in toto, forzandone i tratti patetici. Accade così che il poeta proletario, che secondo la definizione di Giancarlo Ferretti sarebbe il protagonista della poesia di Giudici, è in realtà un hollow man piccolo borghese, erede decaduto e sempre più patetico dei protagonisti delle poesie dei maggiori poeti crepuscolari (Gozzano in Piemonte, Corazzini a Roma); oppure del travet che conobbe il punto massimo di celebrazione del suo decoro nel Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi. 47

Siamo lontani dal crollo di una civiltà: crollano piccoli mondi personali e tutto si sminuzza fino alla polvere. Non siamo più allo specchio infranto, i cui pezzi, però, rimangono lì dove sono come evidenza visibile di una catastrofe: ogni piccolo pezzo diviene una totalità separata dagli altri.

Mario Praz

22 Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la Review of the great English verse conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.

23 Le riviste in questione sono Commerce e Le navire d’Argent. La citazione di Montale si trova alla pagina 27 del testo  T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’ Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

24 È il titolo di un articolo scritto da Linati per Il Corriere della sera del 13-1-1926.

25 Così si esprime per esempio Laura Caretti nel saggio dal titolo Eliot in Italia: “Si potrà così notare che Praz abbia in un certo qual modo interpretato in chiave eliotiana il testo di Montale e che sia anche ricorso in più punti alla accentuazione di alcuni tipici mezzi stilistici del poeta inglese.” Pag. 59.

26 Il testo di Arsenio è riportato da Eugenio Montale. L’opera in versi a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, collana I Millenni, Giulio Einaudi editore pag. 81. La traduzione di Praz si trova nel testo già citato di Laura Caretti: T.S Eliot in Italia,  Pag. 58 e 59.

27 Ivi.

28 Da ‘T.S. Eliot. Poesie 1905/1920 per la cura e la traduzione di massimo Bacigalupo. Grandi Tascabili economici Newton Poesia. Newton Compton Editore. Pag. 30-31.

29 Tutte le citazioni tratte da poesie di Montale, oppure le note collegate ai testi sono ricavate Da I Millenni: Eugenio Montale. L’opera in versi. Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Einaudi Editore 1980.

30 I brani citati dalle due opere eliotiane si trovano in T. S. Eliot. Poesie 1905-1920, a cura e traduzione di Massimo Bacigalupo. Newton Compton editore 1995, pag. 30 e 41.

31 Op. cit. Pp. 30-41.

32 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

33 In T.S. Eliot. Poesie. Traduzione e prefazione di Luigi Berti, Guanda Editore, 1941 pag. 11.

34 Da Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale,  Librex editore. Anno 1982. I brani citati sono alle pagine 171 e seguenti per Barberi Squarotti, che intitola il suo intervento Montale o il superamento del soggetto. La citazione di Scarpati è alla pag. 255. Il citato saggio di Pier Vincenzo Mengaldo su Montale si trova in Poeti italiani del 900, Grandi classici Mondadori, 2001, pag. 517 e seguenti.

35 Eugenio Montale, Opera in versi I Millenni, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Einaudi, 1980, pp-112-13.

36 Ivi.

38 Op.cit. pag.125.

39 T:S: Eliot, Waste Land La terra desolata.

40 Eugenio Montale, op. cit. pag.125.

41 Op. cit. pag.151.

42 Tutte le citazioni sono tratte da La poesia italiana contemporanea da Gozzano a Quasimodo di Frederic Jones. D’Anna editrice, pagine 326-331-332-333. La citazione di Eliot da Il bosco sacro, rimanda a una nota  precedente, la numero 10 dell’introduzione che si trova nel blog..

43 La formulazione così chiara e sintetica della teoria del correlativo oggettivo, si trova nel saggio del 1919 Hamlet and his problem, dedicato alla tragedia shakespeariana. La traduzione qui riportata è di Luciano Anceschi ed è riportata nel testo di Laura Caretti T.S. Eliot in Italia alla pagina 75. Eugenio Motale in La Gazzetta del popolo del 4-11-1931.

La citazione si trova in Intenzioni. Intervista immaginaria . In questo caso l’ho ricavata dal testo di Giorgio Zampa intitolato Eugenio Montale. Sulla poesia, dove l’intervista si trova alla pagina 564.

44 Ivi.

45 Dal saggio di Oreste Macrì in Atti del convegno internazionale sulla poesia di Eugenio Montale’ Anno 1982, pag.421-22. Mi riferisco all’introduzione, scritta da poeta stesso, al testo T.S. Eliot tradotto da Montale. Collana All’insegna del pesce d’oro. Editore Vanni Scheiwiller, 195

46 Ivi.

47 Giancarlo Ferretti: La letteratura del rifiuto. A cura di Giorgio Barberi Squarotti, Giovanni Getto e Edoardo Sanguineti. Mursia editore. Il saggio in questione si sofferma più volte sulla figura del poeta proletario e va dunque considerato nel suo insieme.

T.S. ELIOT: IL TEMPO E LA STORIA

Apocalypse

La questione del tempo e del luogo, come abbiamo già visto abbondantemente, è cruciale fin dall’esergo eracliteo del Quartetti qui di seguito e nei primi cinque versi della prima sezione citati in precedenza:

Benché la parola sia comune a tutti, la maggioranza degli uomini vive come se ciascuno di essi avesse una saggezza particolare … La via che sale e la via che discende sono una medesima cosa.18 

All’inizio della prima sezione dell’ultimo Quartetto – Little Gidding –  Eliot riprende un tema molto celebrato di Waste land:

Midwinter spring is its own season/Sempiternal though sodden towards, sundown,/

(Primavera cresciuta  a mezzo inverno/è la sola stagione sempiterna/)19

Dall’aprile mese più crudele il poeta trova un approdo in questa immagine, in cui forse si può intravedere anche l’estate di San Martino.

La stagione sempiterna non può essere l’estate, perché la pienezza non appartiene agli umani, è solo un inganno. Nel caso di Eliot si può di certo parlare di una poesia del tempo di povertà molto più che per altri. Una volta indicato il tempo atmosferico e i colori di questo quartetto, autunnale seppure temperato, altrettanto importante è il luogo. Little Gidding, è il nome di un villaggio che fu sede di una delle più importanti comunità religiose inglesi, fondata nel 1600. Durante tutto il secolo, il villaggio fu visitato da personalità illustri del cristianesimo britannico; tuttavia non fu solo questo, ma anche il luogo dove il fuggiasco Re Carlo cercò rifugio prima di essere di essere arrestato e poi decapitato dalle truppe puritane e repubblicane di Cromwell. La storia entra quindi nel testo possiamo vedere nella scelta anche un modo da parte di Eliot per marcare la sua lontananza dalla rivoluzione repubblicana e puritana. Sempre nella prima sezione si chiarisce meglio in che modo: 

If you came this way,/taking the route you would be likely to take/From the place you would be likely to come from,/In you came this way in may time you would find the hedges/White again in May, with voluptuary sweetness./It would be the same and the end of the journey…

(Se tu in questi luoghi fossi giunto,/per una via qualunque, partendo da un luogo qualunque/in qualsiasi stagione e in ogni tempo,/sarebbe stato uguale …)

La comunità di Little Gidding, vista in modo retrospettivo, è per Eliot il luogo che ha riscattato il 1600 dai suoi orrori. Nella conclusione del primo movimento, il paese sede della comunità diventa l’Inghilterra intera, ma potrebbe essere qualunque luogo.

Simboli e riferimenti s’inseguono nel testo: da un famoso motto di Maria Stuarda, si passa a una figura storica del misticismo britannico, Giuliana di Norwick. La storia ha una duplice valenza nella partitura dei Quartetti: mentre la contemporaneità viene vista da Eliot nella sua concretezza e mai elusa, il passato viene rivisitato solo attraverso il filtro della comunità cristiana.20 Credo che in questa asimmetria vada riconosciuto prima di tutto la natura del suo misticismo, che il poeta traduce in una suggestiva raffigurazione rovesciata dell’Angelo della Storia di Walter Benjamin: quest’ultimo corre in avanti e ha gli occhi rivolti all’indietro, così da vedere l’immane distruzione che il suo procedere si lascia alle spalle. L’angelo di Eliot, corre all’indietro, ma i suoi occhi sono puntati sia sul passato alla ricerca di una prefigurazione di salvezza, sia davanti, così da vedere le distruzioni e le immani tragedie del momento: un angelo Giano quello di Eliot. Il rapporto con l’escatologia cristiana assume una declinazione molto particolare. Le origini statunitensi di Eliot mostrano la grana che sta sotto l’apparenza: la sua educazione avvenne pur sempre in un ambiente prevalentemente protestante. Che Dio è allora quello del poeta? Più che Gesù di Nazareth o quello dei Vangeli, è piuttosto il Dio dell’Apocalisse di Giovanni. Se il tempo storico non può essere redento, è tutta la vicenda umana a non poterlo essere. Eliot è però convinto che si possano rintracciare i segni, seppure intermittenti, di una prefigurazione futura della città di Dio e questo può avvenire solo all’interno della comunità cristiana: l’immagine della Tenda di Dio piantata nel mondo che si trova nelle visioni apocalittiche di Giovanni, può aiutare a comprendere la presenza di queste comunità che sono la prefigurazione di quanto accadrà alla fine dei tempi: Little Gidding è una di esse. Il mondo per Eliot è sempre uguale, la contemporaneità comprende in sé ed è sintesi – come ripete più volte nei suoi versi – di presente, passato e futuro. I tre momenti sono mescolati in un intreccio inesplicabile, che soltanto guardando all’indietro rivela qualcosa. Perciò i segni di questa prefigurazione non possono essere visti nel presente. Il Dio di Eliot è apocalittico sia nel senso proprio del termine e cioè di rivelazione, sia nell’altro senso – come nozione corrente – e cioè di catastrofe apocalittica che riguarda l’intera storia mondana. Eliot scelse l’Europa, non solo l’Inghilterra, perché scelse prima di tutto la tradizione cristiana europea, inscindibile dalla sua poetica, dal momento che ne costituisce il nerbo, intorno al quale ruotano come intorno a un sole: il neohegelismo di Bradley, l’antropologia di Frazer, il folklore britannico, qualche maldestra incursione nel salotto di Madame Blavatskj. È la cultura di un conservatore europeo cristiano, con punte reazionarie, qualche traccia di antisemitismo e di manie esoteriche, che ripete in termini moderni il ciclo dantesco. Dall’immersione nell’inferno metropolitano (Prufrock e i primi poemi) al purgatorio di Waste Land, fino all’ascesa e il tentativo di una nuova sintesi nei Quartetti. Ripercorrendo oggi l’intera sua opera, essa appare datata in tutte le sue parti. Essa s’inscrive in una narrazione del ‘900 che è diventata nel tempo un’icona ma anche un guardarsi allo specchio, per quanto infranto esso sia, tanto da assumere anche un aspetto di manierismo narcisista, che si coglie nelle sue citazioni, che sono citazioni e niente altro. La contemplazione della decadenza, alla fine, è diventata un meta discorso, al quale Eliot cerca di sottrarsi nei Quartetti, esorcizzando però il fatto che in definitiva, il cristianesimo europeo, in tutte le sue componenti, non è stato una risposta alla crisi di civiltà ma un aspetto della medesima: non bastano due guerre mondiali, dove i popoli cristiani si sono scannati come belve a sancirlo?22 Eliot cercherà di fare un passo indietro (o avanti) rispetto alla visione apocalittica che ispira l’ultimo Quartetto – Little Gidding – affermando, al contrario, che era ancora possibile ricreare la comunità cristiana anche nel presente storico. Il tentativo si risolse in una modesta proposta nel momento in cui il poeta pretese addirittura di trasportarla dal piano poetico a quello sociale. L’illusione di ristabilire una neo medioevalista comunità cristiana non poteva che cadere nel nulla.

Little Gidding

18 Ivi.

19 Op. cit. pag.63.

20 È facile notare che, qualora si fosse interrogati su che cosa ricordiamo del ‘600 inglese e quali siano i nomi e le vicende che per primi ci vengono alla mente pensando a quel secolo, pochi storici e forse neppure molti credenti indicherebbero ai primi posti Little Gidding e Giuliana di Norwick. Si ricorderebbero la morte d’Elisabetta, di Giacomo I e quella di Shakespeare, la cui celebrità costruita nel secolo precedente è ormai affermata; si ricorderebbero  di John Donne e di John Milton, di Cromwell e della decapitazione di Carlo. Molti si ricorderebbero Locke e Hobbes e anche di Newton, che muove i suoi primi passi nel secolo. Se proprio si dovessero nominare dei gruppi religiosi probabilmente si citerebbero i Diggers e i Levellers. Tutto questo non viene considerato nell’orizzonte eliotiano e non ritengo ragionevole né esaustiva l’obiezione che alla poesia non si debba chiedere la fedeltà alla storia: prima di tutto perché per Eliot medesimo non è così e tutta la sua riflessione sul correlativo oggettivo lo dimostra.  

22 Credo sia utile ricordare il dibattito che ci fu in merito alla necessità di inserire  un richiamo alle radici cristiane dell’Europa nello statuto che fonda l’Unione Europea. La proposta fu giudicata irricevibile, direi del tutto opportunamente, dal momento che le radici europee, assai meticce e frutto di contaminazioni disparate, o vengono nominate tutte (cosa assai difficile), oppure lasciate alla sensibilità di ciascuna cultura senza ulteriori precisazioni.

T. S. ELIOT: I QUARTETTI

East Coker

Nel secolo della relatività dei concetti di spazio/tempo, Eliot ritrova l’eterno come archetipo e su di esso proietta lo scenario del secolo tragico che sta alle nostre spalle. Versi come:

O Dark dark dark. They all go into the dark/The vacant interstellar spaces, the vacant into the vacant/ The captains, merchant bankers, eminent men of letters,/The generous patrons of art, the statesmen and the rulers,/Distinguished civil servants, chairmen of many committees,/ Industrial lords and petty contractors,/ all go into the dark.

(O tenebra tenebra tenebra. Loro/tutti vanno nelle tenebre, nei vuoti/spazi interstellari, il vuoto/va nel vuoto, capitani uomini/d’affari, eminenti letterati generosi/patroni delle arti, uomini di stato/ e governanti, insigni/funzionari, presidenti/di molti comitati, signori/dell’industria e piccoli/imprenditori,/tutti vanno nelle tenebre, e tenebre./) 7

colpiscono profondamente chi li legge per la loro semplicità, per l’immediatezza del loro impatto sonoro e d’immagine, per gli echi che rimandano. Questo è già stato detto eppure risuona come nuovo, non l’abbiamo mai udito in questa forma, sebbene ci sia familiare. Il letterato o chi è abituato a leggere molta poesia sentirà immediatamente l’eco di riferimenti scontati: dal memento mori, al Gongora di alcuni sonetti. Anche chi letterato non è sentirà in questi versi l’eco di qualcosa di profondo e smisurato. Cosa crea questo effetto? Penso che abbiamo qui a che fare con un procedimento che consiste nell’accostare due concretezze in una similitudine asimmetrica. L’elenco di personaggi normalmente considerati impoetici (presidenti, funzionari, piccoli imprenditori ecc.) si accoppia all’altrettanto concreta indicazione di un orizzonte (la tenebra) come luogo e destino di ciò che è stato nominato in precedenza. Tornando allora alla concretezza dell’elenco precedente, ci rendiamo conto della sua finitezza e storicità; dunque della sua intrinseca limitatezza. Quell’elenco di figure che, in altri contesti, incarnano il massimo della potenza mondana, vengono da questi versi sigillati e ricondotti alla loro piccolezza. Sono due concretezze diverse che si accostano; quella di ciò che è infinitamente piccolo (pur apparendo potente) e quella di ciò che è infinitamente grande. Poste l’una vicina all’altra esse creano un corto circuito mentale ed emozionale insieme, oltre che la forza delle immagini. La precisione di Eliot nell’elencare fa risaltare questi figure e le rende  immediatamente riconoscibili; non abbiamo a che fare solo con il concreto e l’astratto, tanto meno con il generico, ma neppure con qualcosa di spiritualistico e disincarnato. È solo dopo avere dato concretezza a ognuna di queste figure e al destino che le attende che il poeta può liberare la sua poesia fino a estendere la visione a quella che chiamiamo convenzionalmente condizione umana:

And all we go with them, into the silent funeral/

(E noi tutti andiamo con loro/nel funerale silenzioso/) 8

Torniamo ancora una volta per un momento a queste figure che corrono verso la tenebra. In esse riconosciamo facilmente la mondanità del ‘900; non manca nessuno e c’è da credere che se Eliot fosse stato vivo nel pieno degli anni ’90, il suo scrupoloso elencare non avrebbe trascurato operatori di Internet, gnomi della finanza, funzionari della Big Science, guru della Silicon Valley, anchor men televisivi, brokers e riviste di informatica. È la potenza del mondo e dei suoi burocrati e funzionari, che sfilano sotto i nostri occhi; vedendo il loro destino ultimo Eliot li riduce a ombre e li fa rientrare nella condizione che ci vuole sottoposti a una legge più grande dell’umana potenza; ma c’è anche qualcosa di più perché se pensiamo bene a questo elenco e lo riportiamo all’oggi, capiremmo subito come alcune di quelle figure sono già passate in giudicato. In sostanza, la potenza mondana muta più in fretta di quanto non si creda, anche all’interno del suo codice. Con la sua precisa nominazione Eliot dice indirettamente che il poeta troppo attento al mondo o che scambia l’attualità per la storia, può finire in un vicolo cieco e non potrà certo scrivere una grande poesia. Ciò che importa però non è tanto la ripetizione di una verità che il sermone cristiano ha tramandato nei secoli con le modalità che gli sono proprie, ma la rappresentazione scenica, l’effetto di contrasto fra tempo storico ed eternità, tempo umano e tempo cosmico; la percezione di entrambi è immediata e concreta perché incarnata nella storia così come in figure emblematiche.

Eliot ha descritto questo procedimento con l’espressione di correlativo oggettivo, un concetto complesso che è il risultato di un lento distillato di riflessioni.

Se si guarda al testo poetico va detto che con esso si ritorna alla concretezza della similitudine per arrivare alla metafora e all’allegoria. Nel procedimento di Eliot la metafora non è una similitudine cui siano stati elisi i connettivi, perché essa stessa è il punto di partenza; così come lo era in John Donne, cui Eliot deve più che qualcosa, anche se quando si pensa a lui i riferimenti sono solitamente altri, Dante in primo luogo.

La prima sezione dei Four Quartets, intitolata Burnt Norton, ripropone il nesso fra luogo, tempo storico ed eternità. Nell’esplorare tale relazione Eliot si trova nel mezzo di una contraddizione: per lui, nella storia così come nella politica che la produce, non vi può essere redenzione. Il poeta, dunque, deve aprirsi a una dimensione che travalica la vicenda umana. È da questo che nasce una concezione del tempo che Eliot vede come un’unità fra passato e futuro che precipita sempre nel presente:

/Time past and time future/What might have been and what has been/Point to one end, which is always present./  9

(Il tempo passato e il tempo futuro/ciò che poteva essere e ciò che è stato/Tendono a un solo fine, che è sempre presente./)

È una concezione vicina a quella espressa da Jung nei saggi sulla sincronicità; senza per questo ipotizzare alcuna influenza diretta o indiretta, sebbene la questione vada almeno accennata.

La definizione che Eliot stesso ha dato di correlativo oggettivo, si trova un passaggio celeberrimo e molto citato dei suoi scritti teorici. Nei saggi raccolti sotto il titolo Il bosco sacro composti dal 1917 al 1920, così scrive:

Si tratta di un processo di concentrazione, di una cosa nuova che ne risulta da moltissime esperienze che alla persona pratica e attiva non sembrerebbero tali … Le esperienze non sono rievocate … Il cattivo poeta è di solito incosciente laddove dovrebbe essere cosciente e cosciente dove dovrebbe essere incosciente. Tutti e due gli errori tendono a farlo personale.” E più oltre così continua: “L’unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte, consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscono la formula di quella particolare emozione 10

Se restiamo alla lettera e allo spirito della citazione il correlativo oggettivo eliotiano non ha nulla a che vedere con il ricordo e la memoria in senso soggettivo (e la differenza con Montale, associato spesso ma arbitrariamente a lui, è cruciale), ma neppure con le epifanie joyciane o proustiane.

La memoria soggettiva, volontaria o involontaria che sia, presuppone un soggetto e un dato (oppure un oggetto ricordato), che riguardano soltanto la persona che ricorda. Naturalmente il grande poeta sa rendere universale le emozioni indipendentemente dal punto di partenza, ma qui non è in gioco il valore di un testo in sé, ma la comprensione di un procedimento: che rimane differente, perché il correlativo oggettivo necessita di una soggettività dal ruolo diverso. Il problema sta proprio nel soggetto che seleziona gli oggetti a partire da sé, mentre nel correlativo oggettivo il punto di partenza è dato da una concatenazione di oggetti o stratificazioni che portano in sé dei significati, che sono esposti allo sguardo e che hanno una relativa autonomia da chi li osserva.

Il caso più emblematico di procedimento soggettivo è quello ben noto della madeleine proustiana, un oggetto attraverso il quale il soggetto può accedere a un rimosso, facendolo rivivere; ma la madeleine di Proust sarà sempre la sua, mentre London Bridge o Burnt Norton non sono ricordi personali di T. S. Eliot, ma luoghi continuamente esposti alla vista che in un certo momento appare non semplicemente per ciò che mostra a tutti, ma trasfigurato.

Il correlativo oggettivo è altra cosa anche perché ha prima di tutto a che fare con lo spazio entro il quale sono collocati degli oggetti che portano su di essi il marchio della stratificazione delle età, come accade ai tronchi degli alberi quando vengono tagliati; mentre la madeleine proustiana ha a che fare solo con il tempo, la rimozione e lo psichico.

L’inizio della seconda sezione di Burnt Norton, più precisamente i primi quindici versi, sono un esempio emblematico del modo di operare del correlativo oggettivo eliotiano. Il primo verso è una citazione di Mallarmè, tratta da un testo che è un omaggio a Baudelaire:

/Garlic and sapphires in the mud/.

(/Aglio e zaffiri nel fango./)

In questo modo il poeta stabilisce una genealogia, una catena che instaura una fraternità poetica rivolta ai suoi sodali più vicini nel tempo: i modernisti di cui fa parte anche Laforgue, che ispirò i testi giovanili di Eliot.

Aglio, zaffiro e fango, tuttavia, sono anche tre parole molto concrete; c’è un carro che avanza faticosamente in questi versi, trattenuto da tre elementi che costituiscono la natura organica:

/Garlic and sapphires in the mud/Clot the bedded axle-tree./

(/Aglio e zaffiri nel fango./S’aggrumano sul mozzo confitto./)

Preso nel suo insieme il distico è una concrezione di senso e costituisce, come vedremo, il primo termine di paragone di una similitudine. I versi seguenti indicano una situazione intermedia:

 /The trilling wire in the blood/

(/Il filo vibrante del sangue/)

può essere il segno lasciato dal carro, metafora della condizione umana. Tuttavia questo filo non è soltanto doloroso perché:

/Sings below inveterate scars /11

(/Canta sotto le vecchie ferite/)

L’ossimoro rappresentato in questo sangue che canta, chiude una prima fase.

Il lenimento del dolore, il peso della storia, confluiscono in questo intreccio fra similitudine e metafora. I tre versi successivi diventano il secondo termine di paragone della similitudine: la raffigurazione e rappresentazione del corso degli astri. Anche in questi versi troviamo una condensazione che per forza sintetica richiama il primo distico:  

/The dance along the artery/The circulation of the lymph/are figured in the drift of stars/Ascend to summer in the tree/.12

(/La danza lungo l’arteria/la circolazione della linfa/Han figura nel corso degli astri,/raggiungono l’estate nell’albero./)

La concretezza della dizione (corso degli astri è un’espressione molto comune), richiama sia i segni dello zodiaco sia le costellazioni. Ancora una volta due concretezze asimmetriche creano un effetto di moltiplicazione del senso. Lo zodiaco e le costellazioni diventano il luogo su cui si proiettano le vicende umane; come su una tela simile a quella dove Aracne aveva rappresentato le vicende che riguardavano gli dei. Il soggetto del passaggio alla seconda parte è una danza complessa, attraverso l’arteria in cui circola la linfa vitale. Essa ha il potere di ascendere nell’albero e noi – elemento umano che compare per la prima volta nel testo – ascendiamo più in alto dell’albero stesso. In tale ascesa:

/We move above the moving tree/In light upon the figured leaf/And hear upon the sodden floor/Below, the boarhound and the boar/Pursue their pattern as before/But reconciled among the stars./ 13

(/Noi muoviamo al di sopra dell’albero/In moto/nella luce sopra le foglie/Istoriate/E udiamo sul suolo bagnato/ Lì sotto, il veltro e il cinghiale/Continuare la trama di sempre/ ma riconciliati tra gli astri./)

Ancora una volta torna in questi versi che chiudono i primi quindici una forte concentrazione di elementi concreti e simbolici. Eliot cita Dante, suo primo maestro, ma ciò che importa è quel piano acquitrinoso che segue la legge di sempre. Siamo qui in presenza di una spiritualità impastata con il fango, il peso della storia; non un’entità disincarnata. Il mondo segue la legge di sempre, ma proiettato sulla sfera celeste esso appare riconciliato perché ricondotto a un ordine superiore. Tale ordine, tuttavia, non è semplicemente quello cristiano: non si tratta in sostanza di un’assunzione al cielo. La ciclicità cui si allude in questi versi coniuga la sapienza antica dello zodiaco con il mito cristiano; ma in una mescolanza che la poesia rende inestricabile.

L’inizio della seconda sezione termina dunque con l’indicazione di un luogo, o meglio di due mondi – l’uno terrestre, l’altro celeste – che diventano i due termini di paragone di questo fitto intreccio di similitudini, ma anche di metonimie.

Nel prosieguo, tale luogo della proiezione diviene l’immobile punto dell’universo che ruota, il perno di ogni senso; simile al punto di Lagrange fra la Terra e la Luna, dove le forze gravitazionali s’equivalgono così da creare una sorta di culla astrale. È il punto della rigenerazione, molto vicino al concetto di vuoto per il Tao Te Ching; ma può essere anche interpretato come motore immobile. Più che un dio personale siamo in presenza dell’energia cosmica:

 /And the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless;/ Neither from not towards; at the still point, there the dance is,/ But neither arrest or movement. And do not call it fixity,/ Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,/ Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point,/ There would be no dance, and there is only the dance./

(/Al punto fermo del mondo che ruota. Né corporeo, né incorporeo;/Ne muove dà né verso; al punto fermo. Là è la danza,/Ma né arresto né movimento. E non la chiamate fissità,/Quella dove sono riuniti il passato e il futuro. Né moto da né verso,/Né ascesa né declino./Tranne che per il punto, il punto fermo./Non ci sarebbe la danza, e c’è solo la danza./)

Nel prosieguo della ricompaiono tutti gli elementi che ripropongono la drammaticità irrisolta del rovello eliotiano.

/But only in time can the moment in the rose-garden, The moment in the harbour where the rain beat,/The moment in the draughty church at smoke fall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered./ 14

(/Ma solo nel tempo il momento nel giardino delle rose./Il momento sotto la pergola dove la pioggia batteva,/Il momento nella chiesa piena di correnti d’aria all’ora che il fumo ristagna,/Possono essere ricordati, mischiati al passato e al futuro,/Solo col tempo si conquista il tempo./

È nel tempo, nel momento in cui si manifesta la rosa, ma non si tratta del tempo storico.

La terza sezione dei Quartets, East Cocker, può da sola costituire una sintesi dell’opera. I primi nove versi solenni, già citati, delineano uno scenario di grande suggestione e potenza. Gli echi che rimandano sono tanti, alcuni già ricordati. Il tono, per esempio, ricorda l’Ecclesiaste, ma anche il verso più solenne di John Donne e addirittura una eco dei suoi sermoni. Eppure la sorpresa permane. È vero che abbiamo già udito queste parole e sarà lo stesso Eliot a ricordarcelo in un verso:

/You say I am repeating/ Something  I have said before. I will say it again./

(/Dici che sto ripetendo/Qualcosa che ho già detto. Lo dirò ancora./)

Riflettendo ancora sulla concretezza della similitudine possiamo constatare che l’effetto della concatenazione diviene sempre più rarefatto e sottile; ma sempre legato a quella concretezza iniziale. L’effetto ottenuto da Eliot è lo stesso del gettare un sasso in uno stagno. I cerchi d’acqua diventano sempre più tenui quanto più ci si allontana dal punto d’impatto. Probabilmente la loro espansione è indefinita e se avessimo strumenti di misurazione potremmo verificarlo, ma anche senza di essi sappiamo intuitivamente che così è. La concretezza e la materialità di quel gesto iniziale produce un’espansione che diviene rarefatta. Mutatis mutandis, la forza della similitudine porta con sé le sottigliezze della metafora, ma le porta non astrattamente ma concretamente in sé. La rarefazione non nasce dal nulla o da un puro volo della fantasia, ma ha un ancoraggio preciso che mai viene meno e dunque non perde la sua incarnazione.

A partire da:

/I said to my soul…/

(/Dissi alla mia anima…/)

la sezione riprende il tono solenne dei primi nove versi, ma vi è anche un cambio di scena suggerito da Eliot stesso con la metafora del teatro. L’Io che viene messo in scena qui è paradossalmente impersonale. Eliot non usa noi oppure un altro pronome personale di cui la lingua inglese solitamente si serve per il pronome impersonale perché in questo caso l’io sta proprio per l’umanità intera ridotta alla sua piccolezza. Le similitudini che seguono, piuttosto elementari, si addicono proprio alle dimensioni di questo io-noi. Siamo piccoli in preda a piccoli espedienti di suggestione: siamo sgomenti persino a teatro quando cambia scena, perché avevamo sospeso il giudizio e creduto a quei colli di cartone che vedevamo; così come è sufficiente un treno fermo fra due stazioni della metropolitana per gettarci nel panico. Torniamo ora a quel distico che ci siamo lasciati alle spalle: il nono e il decimo, che chiude la sfilata delle ombre in questo modo:

/And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ 15

(/E tutti andiamo con loro, nel funerale silenzioso/Il funerale di nessuno, perché nessuno è da seppellire./)

Esso fa da cerniera fra i primi nove e il nuovo attacco che abbiamo già visto. È veramente necessario tale stacco da un punto di vista poetico, oppure abbassa il tono senza aggiungere altro al senso profondo di questa sezione? L’immagine del funerale silenzioso era già implicita e concretissima nella sfilata. Eliot pensa alla resurrezione nel verso finale?

La quarta sezione di East Cocker riporta al centro la figura del Cristo come chirurgo e la terra ritorna ad essere la valle di lacrime. Non sono però due Eliot; ancora una volta si ripropone qui il suo solito dilemma. Il poeta vede certamente nella conversione il modo di resistere agli aspetti deteriori della modernità, ma il ricorso al mito cristiano come elemento portante della tradizione occidentale appare a volte come una sovrapposizione alla sua poesia, altre volte come un dei tanti elementi; un mito, appunto, una narrazione non diversa da altri miti. È per questo, in definitiva, che la sua poesia è intrisa di elementi esoterici, spazia indefinitamente anche oltre la simbologia biblica.  

La quinta sezione può essere considerata una dichiarazione di poetica in versi. L’inizio è un richiamo esplicito alla Commedia

So here I am, in the middle way, having had twenty years,/Twenty years largely wasted, the years of entre deux guerres,

(/Così qui mi trovo, nel mezzo della vita, avendo avuto/ vent’anni – /vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres – /)

La consapevolezza della crisi in cui il poeta si trova e che richiama la crisi personale di Dante medesimo, assume qui degli accenti drammatici che hanno perso ogni orpello collusivo, ancora presente in Waste land, dove il sentimento della crisi non si è ancora confrontato con la seconda tragedia secolare: non bisogna mai dimenticare che questa parte dei Quartetti fu scritta nel 1942. Lo sgomento e lo smarrimento sono espressi in versi che sembrano azzerare la sezione precedente dove il chirurgo e cioè Cristo, sembrava ancora poter risanare le ferite della storia. Invece ora sperimenta:

Is a wholly new start, and a different kind of failure,/Because one has only learnt to get the better o f the words/For the thing on no longer has to say,  or the way in which one is no longer disposed to say it. And so each venture/Is a new beginning, a raid on the inarticulate/With shabby equipment always deteriorating…/ In a general mess f imprecision of feeling/Undisciplined squash  of emotions.

(/… una nuova e completa partenza, un genere diverso di /sconfitta,/perché uno ha imparato soltanto le più esatte parole/per la cosa che ormai non ha da dire, e nel modo nel quale /a dirla non è più disposto. E così ogni avventura/è un nuovo principio, un irrompere inarticolato/un equipaggiamento lacero e sempre alterato,/nel generale disordine dell’impreciso sentire,/schiere indisciplinate di emozione …/)

Il ritmo distorto, jazzistico fino all’esasperazione, fatto di cesure che si sforzano di aderire al caos che sta rappresentando sono un’irruzione che disarticola ogni parola possibile.16 Che fare allora? Nell’ultima parte, più pacata, il poeta ritrova il linguaggio solenne dell’Ecclesiaste:

There is a time for the evening under starlight A time for the evening under lamplight

(/C’è un tempo per la sera sotto al luce stellare,/un tempo per la sera sotto la lampada accesa/)

Nella chiusa si compie la metamorfosi dall’uomo che ha attraversato mille esperienze al vecchio:

Old men ought to be explorers/Here and there does not matter/We must still and still moving/Into another intensity/For a further union, a deeper communion,/Through the dark cold and the empty desolation,/The wave cry, the wind cry,  the vast waters/of the petrel and the porpoise. In my end is my beginning.

(/I vecchi dovrebbero esplorare/ non importa qua o là/noi dobbiamo esser quieti e quieti muovere in un’altra intensità/per una più intima unione, per una comunione più profonda/attraverso il rigore tenebroso e la vuota desolazione,/Nell’onda che grida, nel vento che urla, nelle acque immense/dell’Orca e della Procellaria. Nella mia fine è il mio principio.) 17

L’irruzione della storia e di un presente drammatico, si chiude a questi punto con un ritorno circolare su se stessa. Sarà nell’ultimo dei Quartetti che Eliot compirà un passo successivo e in qualche modo definitivo.

Funzionari

7 Da La terra desolata e Quattro Quartetti. Traduzione e cura di Angelo Tonelli, introduzione di Milosz, Feltrinelli 2000 pag. 11.  I saggi introduttivi alle sue opere sono tutti assai interessanti. A parte quelli già citati e che lo saranno nel prosieguo, importanti sono quelli scritti da Roberto Sanesi.

8 Op. cit. pag. 11.

9 Op. cit. pag. 12-13

10 T.S. Eliot, Il bosco sacro, Saggi sulla poesia e la critica, traduzione di V. Di Giuro e A. Orbetello, Bompiani 2016.

11 T.S. Eliot, Quattro Quartetti, Burnt Norton seconda sezione.

12 Ivi.

13 Ivi.

14 Ivi.

15 Ivi.

16 Attilio Brilli, è forse il critico italiano che ha più evidenziato che i Quartetti hanno una struttura sia concettuale sia musicale. In alcuni casi il primo tempo presenta due temi contrastanti eppure connessi tra loro. Rimando all’analisi da lui compiuta per approfondire tale tematica sebbene a me sembri che la variazione jazzistica, più che non il riferimento alla partitura di una sinfonia, sia l’elemento musicale più presente nella sua opera. Eliot è un modernista convinto anche quando critica la modernità e non mi sembra un caso, peraltro, che l’ultimo dei Quartetti – Little Gidding – sia stato musicato da Stravinskij e da Sofia Gubaidulina, esponenti dell’avanguardia musicale novecentesca. 

17 T.S. Eliot. Quattro quartetti, Traduzione di Roberto Sanesi, Book editore ed eredi Sanesi, Milano 2002, pag.46.

T. S. ELIOT, GIANO NOVECENTESCO

Introduzione

Il dilemma e l’ambivalenza in cui si dibatte l’intera opera di T.S.Eliot hanno accompagnato decenni di riflessioni sulla poesia, ma sono diventati anche il limite che ci sta sempre più distanziando dalla modernità e dalla post modernità.

Intorno al nome di Eliot, inoltre, si gioca un discorso tutto italiano che riguarda il modo in cui la sua opera è stata recepita da noi e ancor più l’accostamento che è stato proposto fra il poeta anglo statunitense ed Eugenio Montale.

Eliot è stato un personaggio icona delle lettere novecentesche, ma occorre andare un po’ più indietro nel tempo per trovare alcuni presupposti della sua opera.

Fu Hugo Von Hofmannsthal, nella Lettera di Lord Chandos, a proporre per primo un’immagine che s’imporrà negli anni successivi la fine della Prima Guerra Mondiale e che diventerà, con il tempo, uno slogan e un’icona del ‘900: lo specchio infranto e la conseguente moltiplicazione dei punti di vista come metafora della disintegrazione di un mondo e di una civiltà fondati su una solida identità.1 Che tale unitarietà e solidità esistessero davvero, prima di quel tempo, è assai discutibile e infatti tale punto di partenza è anche in parte il frutto di un equivoco, perché von Hofmannsthal fa parte di quella schiera di intellettuali della finis Austriae che colsero per primi la crisi dell’Impero austro ungarico, rimanendone però dentro i suoi recinti. La Gran Bretagna era lontana anni luce da quel mondo, eppure la Waste land è sembrata incarnare, pochi decenni dopo lo scrittore mitteleuropeo, la metafora dello specchio infranto; non solo perché un verso della prima parte riecheggia l’espressione usata da Von Hofmannsthal,2 ma per il modo stesso in cui il Novecento ha percepito se stesso.

Il poema aperto, disincantato, l’uso di registri linguistici diversi, il tono allusivo che chiama il lettore a una complicità un po’ pelosa, sono diventati nel tempo gli emblemi di tante crisi diverse fra loro, per finire nella constatazione dolente, ma più spesso compiaciuta, del relativismo e del nichilismo.

A questo quadro La terra desolata e ancora di più le opere giovanili di Eliot, quali The love song of J. Alfred Prufrock, Portrait of a lady, nonché l’immagine sintetica degli hollow men, hanno dato il loro potente contributo. Così ne parla Attilio Brilli:

The waste land, pubblicata nel 1922 … è forse l’opera del Novecento che ha maggiormente influenzato intere generazioni di poeti … La terra desolata è per antonomasia la poesia dell’angoscia e dell’alienazione. Essa mantiene integro il suo fascino di drammatica testimonianza di un’epoca nella forma frammentaria, ove l’unità è il frutto della cooperazione del lettore … ormai avvezzo e quasi naturalmente scaltrito ad operare all’interno di un sistema di agganci e di allusioni culturali.3

Si può dire che queste poche parole esprimano coerentemente uno degli assi di lettura dell’intero Novecento. La sua influenza è stata così vasta da travalicare i confini delle arti e si può convenire con Czeslav Milosz quando afferma che certe atmosfere dei film di Antonioni e Fellini:

sembrano la traduzione di una poesia di Eliot 4

Eppure, svoltato il crinale del cambio di secolo da oltre un ventennio, è lecito domandarsi se tale lettura, non sia ormai troppo datata. E se è vero che, come afferma Brilli:

pochi poemi hanno influenzato come questo intere generazioni di poeti 5

va anche detto che all’ordine del giorno di oggi non sembra più esserci la modernità in quanto tale, neppure per criticarla; nel suo inferno ci siamo scesi molte volte, il cosiddetto abisso è stato esplorato. Il postmodernismo, peraltro, ha rielaborato in forme parodistiche e paradossali i materiali della modernità, ma di fronte al caos sistemico di oggi, al ritorno delle guerre come modo di soluzione dei conflitti, abbiamo bisogno d’altro per cercare di tornare a significare il mondo in cui viviamo.

Eliot e l’eredità del ‘900.

Eliot ha rivendicato nei suoi scritti teorici la necessità di non leggere la sua opera in modo storicistico o evoluzionistico: non vi è sviluppo in essa, né progressione, a meno di sposare la tesi di un Eliot prima della conversione e di un secondo dopo la stessa. Il poeta di Saint Luis non è Manzoni; anzi, le parti della sua opera in versi più esplicitamente e dichiaratamente ispirate dalla conversione cattolico-anglicana, quali per esempio i Cori de La Rocca, sono testi minori; mentre per l’autore de I promessi sposi avviene il contrario.

Nell’opera poetica di Eliot vi è la presenza costante di alcuni temi sui quali egli ritorna, mantenendo rispetto a essi un’ambivalenza che non verrà mai meno, sebbene nell’Eliot giovane prevalga la messa a punto delle sue dramatis personae preferite: il dandy salottiero, la signora annoiata, i protagonisti del demi monde culturale di massa: The Love song of Alfred Prufrock, Portrait of a Lady. Questi testi vengono successivamente metabolizzati e resi drammatici nella Waste Land e in Hollow men.6

Quando mi avvicinai per la prima volta a Eliot da studente delle scuole superiori, il poeta era in seconda linea, almeno in Italia; a quel tempo egli trionfava come autore di teatro e ricordo una memorabile rappresentazione di Assassinio nella cattedrale cui assistemmo come classe. I Quartetti non venivano mai citati, The waste land sì, ma la lessi per la prima volta da studente universitario. Dovevano passare ancora molti anni e molte riletture prima di imbattermi nei Quartetti. Da allora in poi si rafforzò in me la convinzione che i Quartetti fossero l’opera più importante scritta da Eliot, ma anche quella che permette maggiormente di capire il limite novecentesco  dell’intero suo percorso e non soltanto di una parte di esso.

T. S. Eliot


1 . Allora … tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità: il mondo spirituale e quello fisico non mi sembravano giustapporsi, né l’essere cortese né quello animale, né l’arte e la non arte, la solitudine e la compagnia;”  Dopo aver così descritto lo stato unitario del mondo, alcune pagine più avanti così prosegue la lettera: “… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni … Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto.”

Da Lettera di Lord Chandos, introduzione di Claudio Magris, traduzione di Magda Vidusso Feriani, biblioteca Universale Rizzoli 1974. Pag. 37 e 43.

2 /A heap of broken images, where the sun beats,/… (/un cumulo di frante immagini, là dove batte il sole./) Da La sepoltura dei morti, in ‘T.S. Eliot. La terra desolata e Quattro quartetti.’Traduzione e cura di Angelo Tonelli, Universale economica Feltrinelli, aprile 2000. Pag. 33.

3 Attilio Brilli, introduzione a Quattro quartetti. Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

4 Da T. S. Eliot La terra desolata e Quattro quartetti, traduzione e cura di Angelo Tonelli. Introduzione di Czeslav Milosz. Universale Economica Feltrinelli . Aprile 2000, pag.11.

5 Attilio Brilli. Introduzione a Quattro Quartetti, Traduzione di Filippo Donati. Garzanti editore 1986. Pag. vii.

6 I critici cattolici insistono  molto sull’importanza di  Ash-Wendnesday (Mercoledì delel ceneri).

WALLACE STEVENS: LE LEZIONI DI POETICA

Gaston Bachelard

Introduzione

Con questa parte, la settima,  si conclude il saggio sull’opera di Wallace Stevens. Il prossimo autore di cui mi occuperò in questa rubrica sarà T. S. Eliot e con lui terminerà il percorso di anglistica e americanistica che comprende anche Marianne Moore e William Blake. Su quest’ultimo non aggiungerò nulla mentre sugli altri tre e su alcuni convitati di pietra pubblicherò un saggio conclusivo sui modi di attingere alle diverse tradizioni letterarie. 

——

Esiste una tematica centrale negli scritti di poetica di Stevens, che funga da attrattore? Ce ne sono a mio avviso quattro di cui una però preminente: il rapporto fra realtà e immaginazione, il vero rovello della poetica stevensiana. La seconda è il rapporto fra poesia e pittura; la terza, che si avvicina alla speculazione filosofica, è l’idea del mondo come meditazione. L’ultima emerge con chiarezza da uno solo di questi saggi dal titolo Effetti dell’analogia ed è l’importanza che il poeta assegna alla similitudine come figura retorica. 

Lo stile di questi saggi è ellittico, la divagazione vi regna sovrana, ma alla fine, quando con le sue sintesi egli stringe le fila del discorso, ecco che si ritorna all’uno o all’altro degli attrattori.

In quanto lettore, Stevens era una spugna, ma anche svagato. Quando sembra che le sue letture siano approfondite per l’acutezza di certi giudizi, si scopre poi che tutto questo è assai vivo nel testo poetico, ma se si va oltre non si trova nulla o poco; oppure che il poeta è riuscito a dissimulare molto bene.

Vi sono a mio giudizio due filosofi e pensatori europei contemporanei a lui che Stevens aveva ben presenti: Henry Bergson e Gaston Bachelard. Al primo dedica anche una citazione in uno dei saggi de L’angelo necessario,83 il secondo è più sotto traccia ma altrettanto importante.

Per entrambi i filosofi e per Stevens, la realtà fisica è la base imprescindibile di ogni forma di conoscenza e quando Bergson afferma che la percezione non aggiunge nulla all’immagine percepita, riscontriamo un’assonanza con l’affermazione di Stevens che l’immaginazione non aggiunge nulla all’oggetto, ma lo intensifica. In Bachelard, addirittura, è la realtà fisica a suggerire le metafore più ardite e illuminanti, a questo proposito, sono le pagine che egli dedica alla scoperta del fuoco.84

Un’altra assonanza con Bergson possiamo riscontrarla nel modo di trattare la memoria da parte di entrambi e nel concetto di flusso che in parte si sovrappone a quello di durata. Abbiamo visto come in Stevens il processo decreativo non sia un passaggio da ciò che è creato al nulla, ma a ciò che creato non è o non lo è ancora. Il flusso, in secondo luogo, porta all’endless poem, cioè al poema senza fine, che non significa incompiuto e neppure senza una conclusione, ma che allude alla tendenziale inarrestabilità del flusso. Vale forse la pena di notare come la parola morte compaia pochissimo nei testi di Stevens; anzi, ricordo una sola forte presenza nella sezione finale di Peter Quince at the clavier, oppure indirettamente in Omone rosso che legge e in alcuni testi dedicati al soldati defunti in guerra. Sia Bergson, sia Bachelard, sia Stevens, sono diffidenti quando non ostili nei confronti dell’invenzione e della fantasia, mentre considerano la scoperta e l’immaginazione veramente importanti. Nel caso dei due filosofi farò riferimento solo ai testi e a un saggio pubblicato sul Wallace Stevens Journal e che ritengo esaustivo (specialmente per quanto riguarda i rapporti con Bergson).85 Quanto a Stevens, per capire cosa lui intende nel contesto della poesia e della critica letteraria, mi servirò di due citazioni in momenti e situazioni diverse, accostandole. La prima è tratta da una conferenza compresa nella raccolta L’Angelo necessario e suona in questo modo:

… Una delle caratteristiche dell’arte moderna è la sua intransigenza. In questo, essa assomiglia alla politica moderna … Un’altra caratteristica dell’arte moderna è che essa è plausibile. Ha una spiegazione per ogni cosa. Anche l’assenza di spiegazioni diventa una spiegazione. Picasso rimane sorpreso quando gli chiedono cosa significhi un quadro  e dice che i quadri non sono concepiti per avere un senso. Questo spiega tutto. Un’altra caratteristica dell’arte moderna è il suo settarismo … Anche nella poesia moderna abbiamo la stessa incapacità di scendere a compromessi … Per illustrare questo punto dividerò la poesia moderna in due categorie: la prima categoria è moderna per ciò che dice, la seconda lo è per la sua forma. La forma non interessa particolarmente i poeti del primo gruppo. … Oggi si vede moltissima poesia, grazie forse a Un coup de dès di Mallarmé, in cui l’interesse per la forma si risolve solo nell’uso di lettere minuscole al posto delle maiuscole, su originali chiusure di verso, di troppa o troppo poca punteggiatura … Per la prima categoria che si concede una forma ordinaria, è persino dannoso suggerire che i suoi poeti sono meno artificiali di quelli della seconda … Ognuna delle due categorie, mostra una totale intransigenza nei confronti dell’altra.86

La seconda citazione è una sentenza, pubblicata per la prima volta insieme ad altre e ad alcuni aforismi, sulla rivista View nel 1940, cui ne seguirono altri nel ’42:

L’errore fondamentale del surrealismo è che inventa e non scopre. Un mollusco che suona la fisarmonica è un’invenzione non una scoperta. L’osservazione dell’inconscio, per quanto sia possibile osservarlo, dovrebbe svelare cose di cui prima eravamo inconsapevoli, non le cose famigliari di cui siamo ben consapevoli, più la fantasia. 87

Ancora una volta Bergson può soccorrerci. Anche per lui la metafisica intuizionale è fondamentale nella scoperta scientifica, ma niente è più nefasto alla scienza dell’invenzione. La scienza non inventa, scopre: sebbene nel formulare una teoria o un’ipotesi possa partire da una metafora o da un’intuizione matematica, essa deve poi trovare una concretizzazione nella realtà fisica, altrimenti rimane una congettura priva di sostanza. 

Cosa rimprovera Stevens, allora, alle avanguardie europee? In primo luogo gli eccessi e la mancanza di misura; in secondo luogo, nella sentenza di cui sopra, che la mancanza di misura impedisce di distinguere fra invenzione e scoperta, perché l’invenzione, in sostanza, non tiene conto della realtà fisica dell’oggetto e lo manipola. Su quanto afferma sull’inconscio si dovrebbe rimanere più a lungo, ma mi sembrano queste le distinzioni prima di tutto decisive. L’immaginazione ha una funzione di scoperta, mentre la fantasia è arbitraria, sebbene possa essere un punto di partenza. Da quanto detto sopra si può capire meglio la distanza che separa Stevens dal postmodernismo, che in fondo non è altro che un’accentuazione di tutti gli aspetti deteriori delle avanguardie storiche, senza conservare quelli virtuosi. Si può comprendere forse meglio, allora, la predilezione di Stevens per la similitudine e l’analogia, ma anche lo stile paratattico del suo linguaggio. L’accostamento, che porta all’analogia e alla similitudine piuttosto che alla metafora, lascia i diversi elementi accostati in uno stato di fluidità maggiore, di oscillazione del senso, ma anche di maggiore libertà di ciascun elemento di ritornare a essere quello che è al di fuori della connessione e dell’accostamento. Il procedimento paratattico di Stevens va allora messo in relazione con il suo concetto di decreazione che è appunto un passaggio da ciò che è creato all’increato o al non ancora creato. Lo abbiamo visto sempre in alcuni snodi della sua poesia: nell’ottava sezione di Sunday Morning, ma anche nel passaggio dalle figure dei due leoni poi al canonico Aspirina per approdare all’Angelo necessario: l’accostamento paratattico può essere sciolto per creare di nuovo le condizioni di una successiva ricreazione, alla quale però nuovi apporti non cancellano del tutto gli apporti precedenti. Accostamento paratattico, analogia e decreazione sono gli elementi combinati di un processo metamorfico continuo. L’analogia, peraltro, ci riporta anche a Bachelard che ne fa largo uso. Non per caso, dunque, uno dei saggio più importanti di Stevens s’intitola proprio Effetti dell’analogia.88

Conclusioni in divenire

Per Stevens, lo abbiamo visto, le tradizioni cui attingere sono molte, anche se alcune sono prevalenti; esse non sono un peso, né una fonte ingenua di scoperta, ma un oggetto di riflessione e di meditazione. Il procedimento decreativo, la metamorfosi, la rinuncia alle antinomie – per dirla con le sue parole non o, o (aut aut) ma e, e, la scelta del che ripete più volte dando a questa espressione il valore di un’adesione senza tentennamenti alla nuda vita, sono le architravi della sua poetica e da questo scaturisce il suo rifiuto a vivere la storia del ‘900 come un cultore dell’abisso. Allora vale forse la pena di domandarsi non quanto della tradizione occidentale Stevens conservi, ma dove si affaccia alla fine la sua ricerca. Da parte della critica che si è occupata di lui affiora qui e là la parola zen, seppure per ridimensionarne la portata. Guido Carboni nella sua ricognizione sui possibili referenti della poesia stevensiana, si esprime così:

Quando Stevens inizia la sua meditazione pensare il paradosso doveva essere ancor più difficile perché non c’erano molti strumenti a disposizione. Non c’erano le speculazioni di Bateson sul rapporto mente e natura, non le riflessioni sul metodo di Cartesio … né quella di Maturana sull’autopoiesi … C’era naturalmente lo zen, cui molti scrittori contemporanei o appena più giovani di Stevens si andavano avvicinando, ma non se ne trova traccia diretta in lui, il suo orientalismo è un fatto degli inizi della sua carriera poetica e appare come assolutamente estetico.92

Non concordo con l’ultima parte perché la grande poesia ha sempre un valore conoscitivo e non la si può ridurre a un valore puramente estetico. Se Carboni, dopo avere evocato lo zen, pare metterci una pietra sopra, il dubbio sembra venire anche a Massimo Bacigalupo che nell’introduzione all’Opus Posthumus, a proposito della poesia dal titolo The course of the particular, di cui ci siamo occupati afferma:

L’eroe di Stevens è la mente umana alla ricerca di un modus vivendi anche minimo, e questo non può darsi se non attraverso il superamento dell’inimicizia fra mente e materia … ma non si tratta di riesumare l’organicismo deistico dei romantici … bensì di preparare l’uomo alla sua cancellazione escludendo rigorosamente ogni protezione antropomorfica … cancellazione che si compie … e si fonda sulla convinzione che solo attraverso la disperazione, un azzeramento quasi zen del significato, passi la vita di ciò che è sufficiente.93

Questa affermazione mi sembra assai interessante e a mio modesto parere bisogna imboccare con maggiore coraggio questa strada, senza fare per questo del poeta un antesignano delle mode degli anni ‘60 o di quelle attuali. Il secondo spunto viene dal titolo stesso di una delle sue opere finali: Il mondo come meditazione. Le parole che un poeta sceglie non sono casuali e la parola meditazione ha un peso e una consistenza particolari. La sua poesia è stata spesso definita una poesia di ossimori. Questa costatazione, quasi ovvia, va tuttavia precisata meglio perché se prendiamo questi versi:

… Fra origine e ritorno//C’è un’assenza in realtà/ Le cose come sono. O così pare/,94

ci rendiamo subito conto di essere in presenza non di una semplice figura retorica. Quello di Stevens è un vero e proprio ossimoro concettuale, cioè un paradosso, e proprio il ricorso ai paradossi, poco comune nella poesia occidentale, si presta a un accostamento a certi modi orientali di manifestare il pensiero: i koan giapponesi ne sono l’esempio più illustre. Stevens era un profondo conoscitore del teatro e della cultura giapponesi e lo è rimasto per tutta la vita. Infine, in certi passaggi da un verso all’altro vi sono allusioni al concetto di vuoto come lo intende il buddismo e cioè in modo assai diverso da quello che la parola potrebbe evocare per noi occidentali. Il vuoto, anche nella concezione del Tao, per esempio, non è il nulla ma uno spazio libero dove si forma qualcosa: pensato in questi termini è un concetto assai prossimo a quello di decreazione in Stevens, cioè il passaggio dal creato all’increato ma anche al non ancora creato. Lo si potrebbe descrivere anche come il silenzio che circonda la parola poetica prima del suo sorgere e dopo.

Infine in rapporto alle cose, il suo mondo irreligioso non è ostile al mistero, ma non porta sulle tracce del divino, almeno nel senso che questa espressione ha assunto, dopo Heidegger. Come va intesa allora questa sua non ostilità al mistero e forse anche sacro? Nel senso che tutto ciò che abita il mondo è per Stevens animato, possiede una sua propria musica, persino la roccia, metafora di una durezza che resiste all’immaginazione. C’è un alone che circonda le cose ed esso può essere inteso anche come una sorta di danza dionisiaca della materia, senza che questo ricada in un credo di tipo panteistico, poiché anche per i panteisti ciò che si manifesta nella natura rimane pur sempre il dio personale, dalle sembianze alla fine antropomorfe, seppure immanenti.

Il canto della terra è per Stevens una qualità fine della materia che l’immaginazione sa cogliere perché entrambe sono parti di uno stesso cosmo non più scindibile in una neutra realtà oggettiva e nello sguardo esterno del cogito che la osserva e la manipola. Siamo dunque distanti da Cartesio, che Stevens tuttavia conosce bene, tanto da farne spesso l’oggetto di versi ironici anche se non sempre appropriati e fondati in parte sull’equivoco di considerare Cartesio come il primo degli illuministi. Cartesio, invece, dedicò l’intera sua vita alla res extensa, più che al cogito e cioè, paradossalmente, proprio a quella realtà fisica e organica dalla quale anche per Stevens non si può prescindere. Tornando allora con una breve parentesi ai suoi referenti filosofici, oltre ai nomi già citati, alcune sue descrizioni entusiastiche di fenomeni naturali ricordano da vicino proprio un filosofo e poeta dell’antichità: Lucrezio. 

Ci sono due terre promesse alla fine del poema infinito di Stevens: una è quella stessa raggiunta da lui nel suo approdo a New Haven e nell’Opus Posthumus; la seconda più nebulosa, la intravvediamo arrampicandoci sulle sue spalle ed è una zona di confine. Perché è indubbio che Stevens arriva in un punto dove, parafrasando un verso delle sue Note, il pensiero non può più progredire in quanto tale. L’abbandono delle antinomie ci avvicina a un modo diverso di sentire anche se mi rendo conto che parlare contemporaneamente di zen e di un alone quasi animistico intorno alle cose significa accennare a due modalità molto differenti. Mi fermerò allora alla considerazione che l’endless poem di Wallace Stevens sembra alludere alla necessità di fuoriuscita dal pensiero occidentale, piuttosto che ritornare ai suoi miti originari, ignorando la modernità, che invece Stevens non ha mai smesso di attraversare. I grandi spiriti artistici, vedono i tempi nuovi con grande anticipo e forse la presunta difficoltà della sua poesia sta proprio in questo annuncio. Se è così il tempo lo rischiarirà.

Henry Bergson

83 Op. cit. pp. 113-4

84 Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante, la Psicoanalisi del fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 1973.

85 Mi riferisco al numero 1 della primavera del 2002 che contiene un saggio di Temenuga Trifonova dal titolo The poetry of matter: Stevens and Bergson: pp-41-69.

86 I rapporti fra la poesia e la pittura . Tutte le citazione sono tratte dal capitoletto intitolato  Terzo, pp.239-42.

87 Materia poetica, in Aurore d’autunno, a cura e traduzione di Nadia Fusini, Adelphi Milano 2014, pp.27. Naturalmente, questa sentenza lapidaria di Stevens, non può essere adoperata per una critica di fondo al Surrealismo, ma per certi suoi aspetti certamente sì. Del resto, se si considera un autore come Walter Benjamin – che certamente Stevens non conosce – che del Surrealismo è stato un grande estimatore tanto da scrivere sul movimento uno dei suoi saggi più importanti, alcune sue critiche molto severe rivolte a Breton hanno delle assonanze con l’affermazione di Stevens. Anche Benjamin non amava le invenzioni gratuite, specialmente quando sconfinavano nell’esoterismo. Le assonanze, in ogni caso, si fermano qui: Stevens avrebbe considerato aberrante quello che Benjamin amava di più del surrealismo e cioè il suo rapporto con le politiche rivoluzionarie.     

88 Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum, 1988, pp. 181-206

92 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, Postfazione di Guido Carboni, Einaudi 1982, pag.170

93 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo,  saggio introduttivo. Suggerisco la lettura dell’intera introduzione di Bacigalupo. Einaudi, collana i Millenni,  Torino 1994.  

94 La frase è una delle più comuni, ripetuta in varie forme sia in conferenze sia in versi come in questo caso.

WALLACE STEVENS: IL MONDO COME MEDITAZIONE

Jorge Santayana

In quest’ultima parte del saggio sulla poesia di Stevens vengono esplorati alcuni territori meno frequentati ma niente affatto minori e specialmente ci si avvia verso le sue lezioni di poetica. Il mondo come meditazione non è soltanto un insieme di testi poetici, ma anche un modo di essere che permette di aprire due altri capitoli nel viaggio affascinante a fianco del poeta di Hartford. Il primo riguarda la cultura orientale.

La storia di questo rapporto viene da lontano, addirittura dagli esordi, quando il giovane Stevens, travestito da dandy, si aggirava per il Greenwich Village. Fu allora che incontrò per la prima volta il teatro giapponese. La fascinazione fu così forte che si cimentò anche con la scrittura teatrale: ben tre opere di cui non mi occuperò sia perché non sono disponibili in italiano e poco ritrovabili anche in lingua originale e in secondo luogo perché, come sostiene più di un critico, Stevens scrisse quelle pièce solo per farci capire che non era un drammaturgo. La fascinazione e lo studio della cultura orientale, invece, non vennero meno, ma si rivolsero a quella che era la sua arte, la poesia, anche se un occhio particolare lo si dovrà riservare anche al secondo dei suoi grandi amori e cioè la pittura. Utamaro e le sue belle sono presenti nella poesia degli esordi. Tale fascinazione per l’oriente in senso lato e per il Giappone in particolare lo si può cogliere, sotto traccia, nella sua poesia e in modo costante nel tempo, tanto da costituire un altro dei percorsi che rompono la sequenza diacronica del suo poetare. Vedremo nelle conclusioni come molto altro del pensiero orientale è presente in lui in modo più implicito e nascosto. Inizio l’esplorazione da un testo intitolato Tredici modi di guardare a un merlo . La sua composizione è assai originale, anche alla sola vista. Si tratta di brevissimi flash numerati. Ne riproduco alcuni:

1.

Fra venti monti innevati/la sola cosa in movimento/era l’occhio del merlo.

2.

Ero di tre opinioni,/come un albero/in cui stanno tre merli./

3.

Il merlo vorticava nei venti d’autunno./Era una parte piccola della pantomima.

In questi primi c’è un elemento dominante ed è la qualità pittorica, che ricorda certe stampe giapponesi e cinesi. Il bianco e il nero sono i colori dominanti. Nel primo e nel terzo prevale la notazione oggettiva e descrittiva: in quello di mezzo l’osservatore entra nel testo, creando una similitudine implicita. L’asimmetria fra le opinioni dell’osservatore e i tre merli introduce la meditazione nel testo, crea un chiasmo. Altri due qui di seguito ci portano in uno scenario ancora diverso:

5.

Non so cosa preferire,/la bellezza delle inflessioni/o la bellezza delle implicazioni,/il merlo che fischia/o subito dopo.

6. Ghiaccioli riempivano la lunga finestra/con vetro barbarico./L’ombra del merlo/l’attraversava, avanti e indietro./Lo stato d’animo/rintracciava nell’ombra/una causa indecifrabile./

L’osservazione oggettiva rimane nel campo della stampa giapponese, ma la soggettività dell’osservatore registra un dilemma che ha attraversato la poesia di Stevens dall’inizio alla fine e di cui abbiamo già visto esempi molto belli e significativi nelle opere della maturità: il contrasto fra ciò che ci appartiene come umani e ciò che ci è estraneo, o almeno che non è nostro nel mondo che abitiamo: la presenza animale, per esempio. L’ombra del merlo diviene così indecifrabile. Questo motivo ritorna nell’undicesimo flash, l’inquietudine diviene paura e il Connecticut non è lontano, come atmosfere e paesaggi, dal Tennessee.

XI

Attraversò il Connecticut/in una carrozza di vetro./Una volta, una paura lo trafisse,/in quanto scambiò/l’ombra del suo equipaggio/per tre merli.

Nell’ultimo flash il ritorno alla semplice contemplazione si apre già a quel sentimento di accettazione che diventerà più maturo e consapevole nelle opere finali.   

Era sera  tutto il pomeriggio,/Nevicava/E doveva nevicare/Il merlo sedeva nei rami di cedro./67

Un secondo testo, assai importante è Studio di due pere del 1938. Anche questa poesia è fatta di piccoli flash, di cui ne riporto soltanto uno.

Studio di due pere.

Opusculum paedagogum./Le pere non sono violoncelli,/nudi o bottiglie,/Non somigliano a niente altro./68

Le valenze di questo testo sono molteplici e vanno ben oltre il riferimento alla cultura orientale. Giocando sulla misura simile a quella dell’Aiku giapponese, Stevens pronuncia una sentenza che riempirà di contenuti nelle sue lezioni di poetica e negli aforismi.

Il secondo capitolo della meditazione di Stevens in versi e nelle riflessioni, ci porta a un tema lasciato in sospeso: la relazione fra il poeta di Hartford e il sentimento religioso

In The Rock, una delle ultime opere, c’è un lungo testo, un’elegia, che Stevens dedica al suo mentore: George Santayana. La poesia s’intitola To an old philosopher in Rome. Santayana trascorse gli ultimi anni della sua vita fino alla morte, avvenuta nel 1952, tre anni prima di quella di Stevens proprio a Roma.69 Stevens considerò sempre il suo vecchio docente come un maestro. Santayana insegnava ad Harvard quando il giovane Wallace s’iscrisse alla prestigiosa università. Di origine ispanica, era nato a Boston e aveva scelto gli Usa come luogo di esilio ed elezione. Di formazione cattolica, politicamente e culturalmente fu sempre su posizioni aristocratiche e quindi avverso sia agli aspetti modernisti dell’americanismo, sia al romanticismo idealistico dei filosofi come Emerson o Thoreau; infine avverso al pragmatismo tipicamente americano, nel quale vedeva un corruzione del senso. Uno strano europeo, dunque, che scelse gli Usa solo per rifiutare ogni aspetto dell’American way of life. L’evoluzione del suo pensiero avrà molti tratti in comune con quella del suo allievo. Santayana fu un uomo molto influente nella formazione dei giovani universitari del primo ‘900, ma la sua opera è stata dimenticata nonostante fosse nota fino agli anni ’30. Il suo antiamericanismo aristocratico, in una terra in cui l’aristocrazia poteva esistere solo come frammento europeo sempre più rarefatto, fanno di lui un alieno in quella cultura e questo spiega probabilmente il suo oblio nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la cultura statunitense diventerà egemone e dominante. Ci sono caratteristiche del pensiero e dello stile di Stevens, tuttavia, che lo rendono altrettanto alieno rispetto agli Usa. Peraltro, anche il loro rapporto con la religione è altrettanto controverso.

Garth Greenwell, in un saggio dal titolo A Home against One’s Self: Religious Tradition and Stevens’Architecture of thought (Una casa contro il proprio sé: Tradizione religiosa e architettura del pensiero in Stevens, sottolinea come si possono trovare nel poeta di Hartford citazioni che autorizzano qualsiasi interpretazione, riguardo al suo atteggiamento rispetto alla religione.70 Pur concordando in prima istanza, penso che sia possibile – seguendo il percorso di Stevens in parallelo a quello di Santayana – arrivare a una diversa approssimazione.

Il mondo irreligioso in cui Stevens ci aveva portati alla fine del suo poemetto più simbolista – Mattino domenicale – viene in qualche modo smentito o confermato alla fine della sua quest? To an old philosopher in Rome è solo un omaggio al maestro o qualcosa di più, una riconciliazione finale con il pensiero religioso in senso lato cristiano?  

Una celeberrima affermazione del poeta di Hartford suona così:

i grandi poemi dell’Inferno e del Paradiso sono stati scritti, ora dobbiamo scrivere i poemi della terra.”71

Accanto ad essa un’altra affermazione altrettanto perentoria  suona invece:

No one believes in the church as an institution more than I do.”

“Nessuno crede nella chiesa come istituzione più di quanto non faccia io.” 72

A quale di queste due frasi credere e sono poi così contraddittorie? Credo che, rifacendomi al testo poetico, si possano tenere separate senza preoccuparsi per il momento della loro reale o apparente contraddittorietà. To an old philosopher in Rome e un altro testo ricordato anch’esso da Greenwall (St. Armourer Church from the Oustside), vengono solitamente citati per avanzare l’ipotesi di un tardo ritorno alla cristianità.

Nei testi citati e anche in altri dello stesso periodo emerge la profonda nostalgia di Stevens per la possibilità di credere, almeno nel solco della scommessa pascaliana. Del resto, perché stupirsene? Tutta la sua opera è una quest dentro il pensiero occidentale e di ciò il cristianesimo costituisce gran parte; se consideriamo poi l’attitudine tipica di Stevens a ritornare continuamente agli stessi tropi e snodi, non stupisce che alla fine della sua vita sia tornato a queste domande fondamentali. Tuttavia, pensando all’omaggio rivolto a Santayana, il testo a lui dedicato potrebbe essere semplicemente un tenero accompagnamento del suo maestro, giunto alla soglia della fine e anche lui nostalgicamente legato, come vedremo, alla stessa possibilità. Cosa vede però il poeta in tale fine? Gli oggetti comuni che hanno accompagnato la sua vita e che Santayana medesimo ricordava spesso:

…/The bed, the books, the chair,, the moving nuns,/The candle as it evades the sight, these are/The source of happiness, in the shape of Rome,/A shape within the ancient circles of shapes,/And these beneath the shadow of a shape./

(/Il letto, I libri, la sedia, le monache che passano,/la candela mentre si sottrae alla vista, queste sono/fonti di felicità nella forma di Roma,/una forma entro gli antichi cerchi delle forme,/e questo sotto l’ombra di una forma/)73

Siamo in un convento ma anche questo non deve trarci in inganno e già il testo lo dice alludendo all’ombra di una forma. La poesia, inoltre, è un accompagnamento da lontano, come spesso avviene per Stevens, che mai si mosse dagli Stati Uniti; anzi che visse la gran parte della sua vita in uno spazio inferiore ai 100 chilometri quadrati (a parte la settimana che ogni anno lo vedeva ospite di amici, insieme alla moglie, in Florida), come se ci fosse in questo una presa di distanza dal nomadismo intellettuale così tipicamente statunitense. Dopo altre descrizioni come quella che ho citato, ecco che il poeta si rivolge a lui, al maestro:

…/ speak to your pillow if it was yourself./Be orator but with an accurate tongue/And without eloquence, o half-asleep/Of the pity that is the memorial of this room,/….

(/Parla al tuo guanciale come fosse te stesso,/sii oratore ma con lingua accurata,/senza eloquenza, oh semi addormentato,/della pietà che è monumento di questa stanza,/)

E più avanti:

/The sounds drift in. The buildings are remembered./The life of the city never lets go, nor do you/Ever want to. It is a part of the life in your room./Its domes are the architecture of your bed,/The bells keep on repeating solemn names./

(/I suoni arrivano fiochi. Gli edifici sono ricordi./la vita della città non smette mai, né tu mai/lo vorresti. È parte della vita nella stanza./Le cupole sono le architetture del tuo letto./ le campane vanno ripetendo nomi solenni./) …

Infine la conclusione:

…/It is a kind of total grandeur at the end,/With every visible thing enlarged and yet/No more than a bed, a char and mobbing nuns,/The immensest theatre, the pillar of the porch,/The book and candle in your ambered room//Total grandeur of a total edifice,/Chosen by an inquisitor of structures/For himself. He stops upon the threshold,/As if the design of all his words takes  form/And frame from  thinking and is realized./

(/E’ una sorta di grandezza totale alla fine:/tutto il visibile accresciuto e insieme/non più di un letto, una sedia, monache che passano,/il teatro più immenso, il portico con pilastri,/il libro e la candela nella sua stanza ambrata,//grandezza totale di un edificio totale/prescelto da un inquisitore di strutture/per sé. Si ferma sulla soglia,/quasi l’intento di ogni sua parola assume forma/e fattezza del pensiero si realizza./)74

Santayana giunse, alla fine della sua vita, a voler morire in un convento, ma da non credente! Lo rileva anche Greeenwall e ricorda che, secondo Harold Bloom, Stevens lesse questa scelta del filosofo come un tropismo del pathos75 e non appunto una scelta di fede. Penso si possa avanzare l’ipotesi che Stevens abbia visto in Santayana, suo alter ego morale e spirituale, qualcosa che poteva illuminare anche lui stesso e se si seguono i due pensieri in parallelo, tale scelta diventa assai plausibile. Entrambi hanno percorso l’intero arco della civiltà occidentale (Stevens di più perché il richiamo agli dei precedenti e al mondo greco e romano sono sempre presenti sotto traccia), entrambi hanno valutato il valore della fede, ma alla fine del loro percorso, riconoscono la grandezza del mito cristiano, ma lo intendono entrambi come mito fra i miti. L’omaggio che Santayana rivolge a Roma e a uno degli edifici più simbolici della civiltà cristiana (il convento nel suo caso, insieme all’eremo e alla chiesa), sono l’omaggio a una civiltà e non alla lettera della fede: quel convento, infatti, come abbiamo visto nei versi di Stevens e ancora più nel finale della poesia, non è pieno di dei e neppure delle loro tracce, per citare il famoso slogan di Heidegger, ma di libri, di monache che vanno e vengono, di tranquilla e serena attesa della fine. Sembra logico pensare che nei versi dedicati al suo vecchio maestro, Stevens ci ha lasciato un segno che riguarda lui medesimo, che a quella soglia arriverà pochi anni dopo.  

Quanto alla sua seconda frase in cui richiama il proprio attaccamento alla chiesa come istituzione, essa potrebbe avere un altro significato. In tale affermazione Stevens parla da uomo appartenente a quell’ambiente statunitense di high middle class che poteva trovare nel vecchio aristocratico Santayana quel residuo di una cultura d’antan: l’America agiata del primo decennio del secolo. Forse fu questa appartenenza la ragione di quella particolare intesa che si avverte anche nell’epistolario che Stevens intrattenne con Marianne Moore, con la quale s’incontrò una sola volta a un convegno, ma che poteva capire benissimo, anche nelle sue diverse eccentricità. In sostanza, la high middle class non ha mai dimenticato che la Chiesa come istituzione è pur sempre il coagulo concreto e istituzionale della filosofia del popolo e un popolo che alla religione si affida, è meno incline ad assumere comportamenti ribelli o rivoluzionari. L’appartenenza di Stevens a questo modo di essere e a questo stile, prima ancora che a una classe in senso prettamente economico, è quello tipico di conservatori che lo sono per un dna che portano in sé, liberi anche di prendere posizioni suggestivamente lontane da quel cliché senza per questo fuoriuscirne: è il caso di certi interventi di Stevens.76 È un atteggiamento che ha a che fare con abitudini di vita, letture, bon ton e buen vivir. Tutto questo appartiene loro con una punta di maggiore sobrietà nel caso di Moore, per via della rigida educazione presbiteriana. Tale appartenenza alle istituzioni tipiche di quel mondo, ha un rapporto con la fede che può essere assai elastico.

Frederick Jameson, nel suo monumentale libro sul postmodernismo pubblicato nel 1991, così si esprime nel primo paragrafo, a proposito delle arti del ‘900: 

… Thus abstract expressionism in painting, existentialism in philosophy, the final forms of representation in the novel, the films,…  or the modernist school of poetry (as institutionalized and canonized in the works of Wallace Stevens) all are now seen as the final, extraordinary flowering of a high-modernist impulse which is spent and exhausted with them.

Perciò l’espressionismo astratto in pittura, l’esistenzialismo in filosofia, le forme finali di rappresentazione nel romanzo, i films … o la scuola modernista in poesia (così come è stata istituzionalizzata e canonizzata da Wallace Stevens), sono ora tutte viste come la finale straordinaria fioritura di un impulso modernista alto, che si è spento ed esaurito con loro.77

Quando Jameson parla di Stevens in questo modo non lo intende forse come l’ultimo dei classici, cioè appartenente alla grande cultura borghese, dissolta in Europa da due guerre mondali prima che dalle avanguardie artistiche, come troppo spesso si dice invertendo l’ordine di grandezza dei fattori, mentre negli Usa essa aveva ancora una vitalità che si sarebbe esaurita con quella generazione? Anche se è sempre possibile che ci sia un ultimo classico che viene dopo l’ultimo classico precedente, di certo non possiamo trovarlo in Andy Warhol, nella Beat Generation, negli urli di Ginzberg, nonostante la loro drammatica forza espressiva, nelle sbronze letterarie di Kerouac e Gregory Corso, oppure nel solitario Ferlinghetti che di quella generazione fu l’editore, ma che personalmente si tenne sempre alla larga dai loro eccessi. Forse possiamo ritrovarla in alcuni narratori, ma rimane profonda l’intuizione di Jameson: quella generazione di poeti e scrittori statunitensi, cui si possono aggiungere i nativi come William Carlos Williams, Robert Frost, Cormac McCarthy, Don De Lillo, oppure l’Arthur Miller di Morte di un commesso viaggiatore, furono gli ultimi rappresentanti della cultura borghese nelle sue vette più eccellenti. Chi venne dopo e si ribellò a certi suoi stilemi, o chi uscì come dissidente dalle società del socialismo reale, dimostra fra l’altro che il tentativo di superare la grande cultura borghese è assai arduo, fallito in alcuni tentativi quale per esempio il realismo socialista. Quanto agli uomini o alle donne come Stevens e Moore, non si può pretendere che superassero i limiti dell’ideologia personale e della loro classe. Facile rimproverare loro che proprio l’affluente sistema capitalistico statunitense avrebbe dissolto ogni vincolo sociale e cultura, aprendo le porte al postmodernismo, cui il ribellismo impotente e anche un po’ sciocco della Beat Generation offrì una sponda – appunto ribelle – ma niente affatto rivoluzionaria. Quanto accadde dagli anni ’80 in poi è lì a dimostrarlo e le conseguenze le vediamo tutte oggi con estrema chiarezza. Se mai si potrebbe aprire un altro filone di ricerca e cioè se la cultura musicale nera, Pete Seeger, Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springteen, Patty Smith, poeti e scrittori come Audre Lord, James Baldwin e Toni Morrison, possano rappresentare il germe di un percorso capace di conciliare cultura popolare di massa e alta cultura; ma questa ricerca esula dai limiti di questo studio.

Stevens morì nel 1955 quando ancora, uno come lui, che non ha mai accarezzato l’idea di una trasformazione radicale della società statunitense, poteva coltivare il sogno di un’alta cultura in una società di buone regole e bon ton. Marianne Moore, morendo nel 1972, si rese conto che ciò era sempre meno possibile: smise allora di scrivere, ritirandosi nella propria solitudine, ma senza sbattere porte. Del resto, lei che era stata editrice della rivista Dial e quindi in qualche modo militante, se n’era resa conto ben prima quando, pur pubblicandolo, aveva severamente rimproverato Ginzberg  per i suoi eccessi linguistici e non.

Stevens, infine, come tutti gli statunitensi dell’epoca, aveva un reale timore del possibile scoppio di una guerra nucleare con l’Unione Sovietica. Tuttavia, in lui non vi fu mai alcun cedimento al millenarismo apocalittico statunitense. Anzi, proprio perché aveva una paura reale e non nascosta della possibilità di una guerra atomica, il suo esempio è ancora più significativo. Le aberrazioni del millenarismo politico, l’invocazione addirittura dell’Armageddon da parte di consiglieri di stato deliranti, che continuano a essere anche oggi una parte rilevante dell’americanismo reale non trovarono in lui e in Marianne Moore una sponda. Espressioni come la missione degli Usa nel mondo e i toni mistici che tale espressione si porta dietro sono estranee al suo linguaggio e questo non è poco. 78


67 Wallace Stevens Harmonium, a cura di Massimo, Einaudi Torino 1994, pp. 116-21

68 Op. cit. pag. 271.

69 Stevens morì nel 1955 a causa di un tumore.

70 Garth Greenwell, The Wallace Stevens Journal, volume 33 numero e Autunno 2009, pag. 147.

71 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo.

72 La seconda citazione è tratta dalla lettera 348. Io l’ho ripresa dal saggio di Grath Greenwell intitolato A Home against one’s  self. Religious tradition and Stevens. Architecture of thought. Il saggio è pubblicato sul numero due  Volume 33 del Wallace Stevens Journal, pubblicato dalla Wallace Stevens Society, Usa 2009, alla pagina 148.

73 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, Einaudi Torino 19994, pp. 558-9

74 Op. cit. pp. 562-3

75 Op. cit. pag. 153 alla fine. Il saggio di Greenwall, in ogni caso è nella sua interezza assai importante. 

76 Mi riferisco a interviste varie, al dialogo che ebbe con critici che appartenevano all’ambito della sinistra e persino a un singolare omaggio a Stalin durante una conferenza dal titolo Il nobile Cavaliere e il suono della parole, che si trova nella raccolta di saggi più volte citata, dal titolo generale L’angelo necessario.

77 Frederick Jameson: Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism Verso, 1991, paragrafi iniziali.

78 Sull’uso del linguaggio apocalittico da parte di politici e consiglieri di stato statunitensi è utile leggere il libro di David Noble intitolato La Religione della tecnologia, Edizioni di Comunità, Torino 2000.

WALLACE STEVENS: LE OPERE DELLA MATURITÀ

Angelo della realtà

L’anello di congiunzione fra le Note e le opere della maturità sono le Autore d’autunno.  Il titolo stesso ci indica una direzione: gli splendori dell’estate si sono attenuati ma non sono scomparsi, l’autunno è il tempo dell’intimità, ma non del ritiro; piuttosto quello della maturità dei frutti.

Il poema è suddiviso in dieci stanze, ciascuna formata da otto terzine. In esso Stevens ripercorre tutti i temi più importanti della sua poesia. Due sono le sezioni su cui mi soffermerò: la prima e l’ottava. Data l’importanza ne citerò larghe parti. Cominciamo dalla prima stanza:

/This is where the serpent lives, the bodiless./ (/Qui vive il serpente, l’incorporeo./).52

Il qui cui si riferisce il poeta è il luogo che anche noi abitiamo, è la terra. In essa Stevens vede un serpente, animale di cui è fin troppo facile ricordare il significato simbolico: il qui del poeta non è dunque semplicemente il nostro habitat fisico, ma un luogo che fu teatro di una caduta originaria, di una rottura dell’armonia, un tema che era presente fin dagli esordi di Stevens, in quella lirica breve intitolata Anecdote of the jar di cui di è scritto nell’introduzione; ancora una volta però, tale caduta non va intesa in senso metafisico e religioso e neppure, semplicemente, come la ripetizione di quanto scritto in quel lontano testo del 1919.

Il serpente è incorporeo. Cosa sta a significare questo ossimoro?:

/His head is air. Beneath his tip at night/Eyes open and fix on us in every sky.// Or is this another wriggling out of the egg,/Another image at the end of the cave,/Another bodiless for the body’s slaugh?//

(/D’aria è la testa. Sotto la punta a notte/Occhi s’aprono e ci fissano in ogni cielo.// O è un altro dimenìo fuori dall’uovo,/Un’altra immagine in fondo alla caverna,/Un altro incorporeo dopo che il corpo s’è spogliato?/

La testa del serpente è fatta d’aria, non solo perché la sua immagine è stata spesso vista in cielo – basterà ricordare la cosmogonia azteca che Stevens conosceva perché a essa accenna in un poema, ma anche perché è un animale intorno al quale si sono formate delle idee mentali che l’associano naturalmente al male e al peccato originale. Il serpente non ha un nido solo nella terra ma anche in cielo ed anche nelle nostre teste, dove diventa il signore dell’intrico:

/In another nest, the master of the maze/Of body and air and forms and images,/Relentlessly in possession of happiness.//This is his poison: that we should disbelieve/Even that. His meditations in the ferns,/When he moved so slightly to make sure of sun,//Made us no less than sure. We saw in his head,/Black beaded on the rock, the flecked animal,/The moving grass, the Indian in his glade./

(In un altro nido, il signore dell’intrico/Di corpo e d’aria e forme e immagini,/Implacabile nel possesso della felicità.//Questo è il suo veleno: che anche a lui/ Smettessimo di credere. Le sue meditazioni tra le felci,/Quando si muoveva appena per assicurarsi il sole,//Ci fecero di lui non più sicuri. Vedevamo nella testa,/Perla nera contro la roccia, l’animale screziato,/L’erba mossa, l’Indiano nella prateria53

Il serpente non è solo l’animale, ma anche l’idea mentale che ne abbiamo, nella quale si coagulano le nostre paure: questo è il veleno cui bisogna smettere di credere se vorremo di nuovo afferrare la visione originaria del serpente come di ogni altra cosa.  Nelle sezioni successive che iniziano spesso con Farewell to an idea? (Addio a un’idea) Stevens ci esorta di nuovo ad abbandonare tutte le costruzioni mentali o filosofiche intorno alle cose, a spogliarcene. Torna ancora una volta l’invito a quella sospensione del giudizio, a porsi di fronte all’oggetto come se lo conoscessimo per la prima volta. L’ottava stanza è quella della svolta che anticipa, con il suo tono diverso, quelli che saranno i grandi poemi finali. Il tono in realtà era già mutato e la stessa prima stanza ne è testimonianza: i temi sono gli stessi, ma il linguaggio usato non è più quello alto delle note, ma si è fatto più sommesso e discorsivo, Tuttavia, è proprio nell’ottava sezione che tale passaggio diviene più chiaro:

/There may be always a time of innocence./There is never a place. Or if there is no time,/If it is not a thing of time, nor of place,//Existing in the idea of it, alone,/In the sense against calamity, it is not/Less real. For the oldest and coldest philosopher,//There is or may be a time of innocence/As pure principle. Its nature is its end,/That it should be, and yet not be, a thing//That pinches the pity of a pitiful man,/Like a book at evening beautiful but untrue,/Like a book on rising beautiful and true.// It is like a thing of ether that exists/almost as predicate. But it exists,/It exists, it is visible, it is it is.// So then, these lights are not a spell of light,/A saying out of a cloud, but innocence./An innocence of the earth and no false sign//Or symbol of malice. That we partake thereof,/Lie down like children in this holiness,/As if awake, we lay in the quiet of sleep,//As if the innocent mother sang in the dark/Of the room and on an accordion, half-heard,/Created the time and place in which we breathed…

(/Sempre ci sarà dell’innocenza un tempo./Mai un luogo. O se non c’è tempo,/Se non è cosa né di tempo, né di luogo,//Vivente nell’idea, lì soltanto, nel senso/Contro la sventura non è/ Meno reale. Per il più antico e freddo dei filosofi,//C’è o ci può essere come puro principio/Un tempo dell’innocenza. La sua natura il fine,/Che possa essere o non essere, una cosa/Che risveglia la pietà dell’uomo pietoso,/Come un libro di sera bello ma insincero,/Come un libro all’alba bello e sincero./ E’ come una cosa d’etere che esiste/Quasi fosse un predicato. Ma esiste,/Esiste, è visibile, è, è.//E dunque queste luci non sono malia di luci,/Miracoli di nuvola, ma innocenza./Un’innocenza della terra, non un segno falso//Né un simbolo maligno. Ne siamo parte,/Come bimbi stiamo in questa santità,/Come se svegli stessimo quieti nel sonno,// Come se la madre innocente cantasse al buio/Nella stanza, e alla fisarmonica sottovoce/Creasse il tempo e il luogo in cui respiravamo/)54

Nadia Fusini, parlando di questa ottava sezione, scrive che il tempo in cui vive questo essere a metà fra veglia e sonno ricorda il limbo. Come metafora di un luogo che sta a metà strada fra umano e divino, mi sembra assai calzante. A tale intuizione, ne aggiungerei una seconda: definire l’innocenza un tempo e non un luogo. Ancora una volta Stevens rifiuta il concetto di favoloso altrove che è naturalmente legato a un luogo e così anche il paradiso. L’innocenza può essere solo un tempo, nel luogo essa è perduta per sempre e ancora una volta ritorna l’immagine di quella giara sulle colline del Tennessee. Tuttavia questa sezione finale delle Aurore ci permette di fare qualche passo in più nel decifrare il rapporto di Stevens con la tradizione e il modo diverso di considerarla rispetto ad altri della sua stessa generazione, Eliot e Pound in primis. Abbiamo visto come molte delle liriche iniziano con Farewell to an idea (Addio a un’idea). Dal serpente come incarnazione del male, alla caverna platonica, al romanzo famigliare, sono tutte esortazioni a liberarsi delle costruzioni mentali nate intorno a quei concetti. Alla fine di questo percorso una nuova figura si affaccia: è L’angelo necessario della terra, sintesi delle figure precedenti ed è importante proprio per questo ricostruire la genesi che lo portò a scrivere il testo poetico. Lo spunto iniziale è suggerito al poeta dall’osservazione di un quadro di Tal-Coat. Stevens amava farsi spedire quadri dall’Europa ed era Paul Vidal che di solito si occupava della faccenda. Il dipinto in questione rappresenta tazze e bicchieri, bottiglie e un vaso di vetro con una piccola fronda. L’opera non si distingue per particolari spunti immaginativi, ma ecco che Stevens vede qualcosa che modifica la sua e nostra percezione dell’oggetto. Egli ribattezza il dipinto Angelo circondato dai paesani. Le terrine diventano dei contadini e la bottiglia di vetro veneziano con la piccola fronda assume le sembianze di un angelo che illumina la scena e la riscatta dalla sua povertà apparente.55

Compiuta questa prima metamorfosi, la seconda porta alla nascita di una poesia senza titolo, dove appare un’entità alata che si mostra e scompare, mai del tutto eterea mai del tutto incarnata. Balzano alla mente gli angeli di Klee, ma anche quella voce che improvvisamente ci parla nei momenti cruciali della nostra vita e che fu messa in scena in modo magistrale da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino.56 È proprio questo angelo a rappresentare l’immaginazione e la sua stessa visione, che diviene immagine della creazione e conferisce un valore nuovo a tutto ciò che esiste.

Tale immagine ci porta a quella che definirei una religiosità dell’innocenza che pervade l’opera de Stevens e in particolare i suoi grandi poemi della maturità. Il testo completo della poesia recita:

/Yet I am the necessary angel of earth,/ Since, in my sight, you see the earth again,// Cleared of its stiff and stubborn, man-locked set,/ And, in my hearing, you hear its tragic drone// Rise liquidly in liquid lingerings,/ Like watery words awash; like meanings said// By repetitions of half-meanings. Am I not,/ Myself, only half of a figure of a sort,// A figure half seen, or seen for a moment,, a man/Of the mind, an apparition apparelled in//Apparels of such lightest look that a turn/Of my shoulder and quickly, too quickly, I am gone?//

(/Eppure sono l’angelo necessario della terra/ Perché la terra nel mio sguardo rivedete, //Libera dalla sua dura e ostinata maniera umana,/E, nel mio udire, udite il suo tragico rombo// Liquidamente sollevarsi nei suoi liquidi indugi,/Come acquee parole nell’onda; come sensi detti// Con ripetizioni e approssimazioni. Non sono forse,/Io stesso una sorta di figura approssimativa,// Una figura intravista, o vista un istante, un uomo/ Della mente, un’apparizione apparsa in// Apparenze tanto lievi a vedersi che se appena/Volgo la spalla, subito, ahi subito, svanisco?//) 57

Le Aurore d’autunno (inverno 1948) aprono il ciclo delle ultime opere, alcune delle quali saranno pubblicate dopo la sua morte. Sempre del 1948 è un altro testo importante: Large red Man reading (Omone rosso che legge). Del 1949 è An ordinary evening in New Haven (Una serata qualunque a New Haven) e del 1950 Angel sorrounded by Paysans (Angelo circondato dai contadini). Infine The Rock (La roccia), un gruppo di 25 poesie scritte dal 1950 e pubblicate nel 54. Infine Opus Posthumous scritte dal 1950 fino all’anno della sua morte (1955); fra queste vi è anche il ciclo di poesie dal titolo The World as Meditation (Il mondo come meditazione), tradotte per la prima volta in Italia nel 1986 e ora comprese in Harmonium.

In queste opere tornano tutti i temi della poesia stevensiana e questo non è sorprendente; ma avviene anche un processo di selezione in due sensi. In primo luogo viene via via abbandonato il tono alto e solenne di cui si sente ancora una eco nelle Aurore d’autunno e specialmente nelle due sezioni precedentemente ricordate e commentate. L’intimità colloquiale è la cifra preponderante e corrisponde a quella curvatura verso l’umano di cui scriveva Nadia Fusini. In secondo luogo, su alcune delle sue tematiche più decisive, per esempio il rapporto fra realtà e immaginazione, Stevens ritorna con pochi tratti sintetici. In altri testi, più tematiche vengono toccate. Un esempio è Vacancy in the park:

/March … Someone has walked across the snow,/Someone looking for ho knows not what.//It is like a boat that has pulled away/From a share at night and disappeared./It is like a guitar left on a table/By a woman, who has forgotten it.//It is like the feeling of a man/Come back to see a certain house.//The four winds blow through the rustic arbor,/Under its mattresses of vines./

(/Marzo … Qualcuno ha camminato fra la neve/Qualcuno che cercava ma non sapeva cosa.//È come una barca che si è allontanata/dalla spiaggia di notte ed è scomparsa./È come una chitarra lasciata sul tavolo/Da una donna, che se n’è scordata./È come lo stato d’animo di un uomo/ritornato a vedere una certa casa.//I quattro venti soffiano attraverso la rustica pergola,/Sotto le sue matasse rampicanti./ 58

Il tema di questa lirica sono le tracce. Marzo, seguito dai puntini di sospensione, introduce il lettore nel setting della lirica: siamo alla fine dell’inverno, la primavera è vicina, ma il paesaggio è ancora immobile, in letargo, si potrebbe dire. L’orma del piede sulla neve, che diventa chitarra abbandonata nel secondo verso, cede il passo nel terzo e nei successivi a immagini d’abbandono e a sentimenti rarefatti. Nella durezza dell’inverno che permane, tali elementi presenti/assenti sono il modo che Stevens assegna all’umano nell’equilibrio del cosmo. Queste tracce visibili non sono simboli di una verità nascosta e misteriosa, ma una tenera presenza che risuona insieme a tutto il resto. I quattro venti che sibilano restituiscono a tutto ciò che umano non è la sua forza, il suo respiro, la sua musica. La chitarra, che fu un oggetto così importante da cui decenni prima e che aveva preso le mosse dalla meditazione di Stevens intorno al nesso realtà immaginazione, è qui abbandonata perché c’è una musica che non può suonare: è quella prodotta dal sibilo di questi venti che passano fra i rampicanti e si tratta di una musica che possiamo sì ascoltare ma che non ci appartiene. Quella musica abita il mondo come lo abitiamo noi, ma non è nostra, l’umano ha qui ceduto il passo a qualcosa che era prima di noi; tuttavia non è scomparso, la chitarra c’è sempre e ci sarà di nuovo qualcuno che la farà risuonare. Tali tracce sono inconfondibilmente umane, non sono tracce del divino, sono i segni di un umano assente ma anche capace di lasciare la sua impronta, il suo segno nel paesaggio, con il quale convive omeostaticamente, in equilibrio.

La seconda lirica, molto celebrata e compresa nell’Opus posthumus, è intitolata The course of the particular (Il corso del particolare.) Essa riprende i motivi di Vacancy in the park, ma anche quelli presenti in un testo assai più vecchio, quasi degli esordi e verrà ripreso successivamente anche in La Roccia.

/Today the leaves cry, hanging on branches swept by wind,/Yet the nothingness of winter becomes a little less./It is still full of icy shades and shapen snow.//The leaves cry…One holds off and merely hears the cry./It is a busy cry, concerning someone else./And though one says that one is part of everything,//There is a conflict, there is a resistance involved;/And being part is an exertion that declines;/One feels the life of that which gives life as it is./The leaves cry. It is not a cry of divine attention,/Nor the smoke-drift of pulled-out heroes, nor human cry./It is the cry of leaves that do not trascend themselves,//In the absence of a fantasia, without meaning more/Than they are in the final finding of the air, in the thing/Itself, until, at last, the cry concerns no one at all./

(/Oggi le foglie gridano, appese a rami che il vento scuote,/Eppure il nulla dell’inverno diviene un poco meno./E’ ancora pieno di ombre gelide e nivee forme.// Le foglie gridano … Ci si discosta, si ascolta solo il grido./E’ insinuante riguarda qualcun altro./E per quanto si dica che siamo parte di un tutto,//La cosa implica un conflitto, una resistenza;/E l’essere parte è uno sforzo che diminuisce:/Si sente la vita che dà la vita così come è.//Le foglie gridano. Non é un grido di attenzione divina,/Nè il fumo di eroi sfiatati, né grido umano./E’ il grido di foglie che non trascendono se stesse,//In una assenza di ogni fantasia,senza significare più/Di quel che sono nella percezione ultima dell’aria, nella cosa/In sé, infine il grido non riguarda più nessuno./)59

In questa poesia si raggiunge ancora una volta una vetta molto elevata della poesia di Stevens. Ciò che il poeta ode è quel suono particolare che nasce dalla combinazione fra un forte vento e l’attrito offerto dalle foglie. Quel grido lo riguarda, ma in che senso? Non è suo, non è umano né divino, è un grido di foglie che non hanno alcuna fantasia. Il grido, però, solleva una contraddizione perché, pur essendo parte di un tutto, si manifesta in esso qualcosa che l’umano può solo cogliere, che non è suo e che alla fine non lo riguarda e come lui nessun altro. Cosa è quel grido allora? È il canto delle cose come sono, è il canto della terra, ancora una volta, per l’ennesima volta, ma con un apporto in più perché il tono del poeta è più pacificato e tranquillo.

Questo tema che ha che fare con il rapporto fra realtà e immaginazione, ma anche con ciò che è umano e ciò che non lo è. Pur essendo tangente la sua tematica fondamentale, tale accentazione, fa di questi pochi testi disseminati nel tempo una specie di cammeo all’interno dell’intera sua opera, anche perché si tratta di testi assai preziosi e raffinati, con un gioco di rime e assonanze particolarmente dense e che non sempre si possono cogliere in pieno nelle traduzioni. Vorrei allora paragonare i due testi citati più sopra ad altri tre. Il primo è del poeta ai suoi esordi, siamo addirittura nel 1916 e la poesia s’intitola Dominion of black (Dominio del nero):

/At night by the fire,/The colors of the bushes /And of the fallen leaves,/Repeating themselves,/Turned in the room,/Like the leaves themselves,/Turning in the wind. /Yes: but the color of the heavy hemlocks/Came striding./And I remembered the cry pf the peacocks.//The colors of their tails/Were like the leaves themselves/Turning in the wind,/In the twilight wind./They swept over the room,/Just as they flew from the boughs of the hemlocks/ Down to the ground./I heard them cry against the twilight/Or against the leaves themselves/Turning in the wind,/Turning as the flames/Turned in the fire,/Loud as the hemlocks/Full of the cry of the peacocks?/Or was it a cry against the hemlocks?//Out of the window,/I saw how the planets gathered/Like the leaves themselves/Turning in the wind./I saw how the night came,/Came striding like the color of the heavy hemlocks./I felt afraid./And I remembered the cry of the peacocks.//

(/Di notte, accanto al fuoco,/i colori dei cespugli/ delle foglie cadute,/ripetendosi,/rotavano nella stanza,/come le stesse foglie/rotanti nel vento./Sì, ma il colore dei pesanti abeti/entrò a lunghi passi./E ricordai il grido dei pavoni./ I colori delle loro code/erano come le foglie stesse/rotanti nel vento,/nel vento crepuscolare./Trascorrevano sulla stanza,/proprio come volavano dai rami degli abeti/giù a terra./Li sentii gridare, i pavoni./Era forse un grido contro il crepuscolo/o contro le stesse foglie/rotanti nel vento,/rotanti come le fiamme/rotavano nel fioco,/rotanti come le code dei pavoni/rotavano nel rumoroso fuoco,/rumoroso come gli abeti,/pieni del grido dei pavoni?/O era un grido contro gli abeti?//Dalla finestra vidi i pianeti congiungersi/come le stesse foglie/rotanti nel vento./Vidi la notte venire, /venire a lunghi passi come il colore dei pesanti abeti./Ebbi paura./E ricordai il grido dei pavoni.//)60

Il secondo appartiene alle ultime opere di Stevens e s’intitolano Il senso ordinario della cose.

/After the leaves have fallen, we return,/To a plain sense of things. It is  as if/We had come to an end of the imagination,/Inanimate in an inert savoir./is difficult even to chose the adjective/For this blank cold, this sadness without cause./The great structure has become a minor house./No turban walks across the lessened floors./The greenhouse never so badly needed paint./The chimney is fifty years old and slants to one side./A fantastic effort had failed, a repetition/In the repetitiousness of men and files.//Yet the absence of the imagination had/Itself to be imagined. The great pond,/The plain sense of it, without reflections, leaves,/Mud water like dirty glass, expressing silence//Of a sort, silence of a rat come out to see,/The great pond and its waste of the lilies, all this/Had to be imagined as an inevitable knowledge,/Required, as a necessity requires.//

(/Cadute le foglie ritorniamo/a un senso ordinario delle cose. È come se/avessimo esaurito l’immaginazione,/inanimi in un savoir inerte.//È difficile scegliere persino l’aggettivo/per questo freddo vacuo, questa tristezza senza causa. La grande struttura è diventata una casa modesta./Nessun turbante percorre i pavimenti immiseriti.//La serra ha più che mai bisogno di una riverniciatura./Il comignolo ha cinquant’anni e pende da una parte./Uno sforzo fantasioso è fallito, una ripetizione/nella ripetitività di uomini e mosche.//Eppure l’assenza dell’immaginazione doveva/ essere essa stessa immaginata. La grande vasca,/il suo senso ordinario, senza riflessi, foglie,/fango, acqua come vetro opaco,espressione di un erto//silenzio, il silenzio di un topo uscito a guardare,/la grande vasca e la rovina delle ninfee, tutto ciò/doveva essere immaginato come una conoscenza inevitabile,imposta, come impone una necessità.//) 61

Infine l’ultimo che, forse, è addirittura l’ultima poesia scritta da Stevens; ma anche se così non fosse, possiamo considerarla il suo testamento spirituale, ma non definitivo, perché l’allusione all’endless poem, è un invito ai lettori ma anche agli altri poeti a continuare. Diciamo che la morte del poeta pone il suo sigillo su questo testo, ma al tempo stesso noi riconosciamo in esso quanto egli ci ha lasciato in eredità lungo il suo intero percorso: non è dunque un testo sorprendente per ciò che esso esprime, ma ancora una volta per la capacità di distillare in modo sempre cangiante, quella che è la sua verità. Il testo ha un titolo talmente emblematico da non richiedere alcuna nota aggiuntiva: Of Mere Being (Del mero essere):

/The palm at the end of the mind,/Beyond the last thought, rises/In the bronze distance,//A gold-feathered bird/Sings in the palm, without human meaning,/Without human feeling, a foreign song.//You know then that it is not the reason/That makes us happy or un happy./The bird sings/Its feather shine.//The palm stands on the edge of space,/The wind moves slowly in the branches./The bird’s fire-fangles feathers dangle down.//

(/La palma alla fine della mente,/oltre l’ultimo pensiero, sorge nella distanza bronzea,//un uccello dalle piume d’oro/canta nella palma, senza senso umano,/senza sentimento umano, un canto strano.//Sai allora che non è la ragione/a rendere felici o infelici./L’uccello canta, le piume splendono.//La palma svetta al limite dello spazio./Il vento muove piano nei rami./Le piume di fuoco ciondolano giù./)62

Che cos’hanno in comune questi testi? Prima di tutto la presenza in essi delle foglie e dei gridi o di suoni che non sono umani: da quello dei pavoni del 1916, a quello elle foglie che stridono, fino alle foglie cadute del senso ordinario delle cose. Le tracce sono un secondo elemento, diverse ma decisive sempre. Si potrebbe parlare delle tracce come di una serie di metonimie che emergono più volte nell’opera stevensiana. Infine le voci animali, i suoni di questi altri da noi che e specialmente quel topo che è uscito a guardare. Per Stevens hanno sempre qualcosa di misterioso e irriducibile, quasi mai di fraterno, a differenza della sua grande sodale Marianne Moore che invece s’identifica con il mondo animale. La sintesi di questo gruppo di testi e di queste metonimie è forse nel Soliloquio finale dell’amante interiore:

/Light the first light of evening, as in a room/In which we rest and, for small reasons think/The world imagined is the ultimate good.//This is, therefore, the intensest rendezvous./It is in that thought that we collect ourselves,/Out of all the indifferences, into one thing://Within a single thing, a single shawl/Wrapped tightly round us, since we are poor, a warmth,/A light, a power, the miraculous influence.//Here, now, we forget each other and ourselves./We feel the obscurity of and order, a whole,/A knowledge, that which arranged, the rendezvous,//Within its vital boundary, in the mind./We say God and the imagination are one…/How high that highest candle lights the dark.//Out of this same light, out of the central mind,/We make a dwelling in the evening air,/In which being there together is enough./

( /Accendi la prima luce della sera, come in una stanza/in cui riposiamo e, con poca ragione, pensiamo/il mondo immaginato è il bene supremo.//Questo è dunque il più intenso appuntamento./È in tale pensiero che ci raccogliamo/fuori da ogni indifferenza, in una cosa://entro una sola cosa un solo scialle,/che ci stringiamo intorno, essendo poveri: un calore,/Luce, potere, l’influsso prodigioso.//Qui, ora, dimentichiamo l’un l’altro e noi stessi./Sentiamo l’oscurità di un ordine, un tutto,/un conoscere, ciò che fu? l’appuntamento//entro il suo confine vitale, nella mente./Diciamo che Dio e l’immaginazione sono tutt’uno … /Quanto in alto l’altissima candela irraggia il buio.//Di questa luce stessa, della mente centrale,/facciamo un’abitazione nell’aria della sera,/tale che starvi insieme è sufficiente.//)63

La chiave è proprio il verso finale: tanto che starvi insieme è sufficiente. L’umano ha imparato a convivere e a riconoscere il suo luogo e il suo tempo:  Tutto quello che c’è è qui aveva detto Stevens in un’altra occasione ed è in questo luogo ed in questo tempo che a noi è dato di vivere; ma questo non è più un tempo di povertà come troppe volte si insiste, è piuttosto quel limbo o quello stato di semiveglia di cui abbiamo visto una memorabile rappresentazione nell’ottava sezione di Aurore d’autunno. Il suono della terra, il canto della terra non avrà e non conoscerà le altezze dell’inno o del paradiso, ma sarà ugualmente rassicurante, caldo, amichevole. Il suo canto della terra non ascende verticalmente al cielo se non per un arco che poi ripiega di nuovo verso la terra, lo si potrebbe descrivere forse come un movimento ondulatorio che trasfigura le cose, che le trascende per un attimo per poi ritornare ad esse. In questo senso mi sembra superficiale l’accostamento (in verità è un problema della critica italiana più che di altre) fra la poesia di Stevens e la filosofia di Heidegger. L’opera del filosofo tedesco s’inscrive nella tradizione della metafisica occidentale, mentre la poesia di Stevens non porta a una nuova o vecchia metafisica perché la sua curvatura ultima piega sempre verso la terra. Il canto della terra è distante dalle tracce lasciate dagli dei di Heidegger.64 Allo stesso modo mi sembra fuorviante l’accostamento di Stevens a Rilke. Pur con tutta la cautela del caso, visto che non sono nella condizione di apprezzare pienamente il poeta tedesco per la mia insufficiente conoscenza di quella lingua, mi sembra che i toni alti in Rilke siano il telos costante della sua poesia, mentre i toni alti di Stevens sono il passaggio necessario per raggiungere una meta diversa, quella dei suoi poemi finali. Vista nella sua continua metamorfosi la poesia di Stevens ha un vettore differente, anche se in poemi come Mattino domenicale o le Notes toward a supreme fiction si possono avvertire assonanze rilkiane. In ogni caso, gli studiosi americani che si sono occupati di Stevens, Bloom in primis, hanno insistito molto sulle ascendenze statunitensi piuttosto che europee: Bloom parla di Ralph Waldo Emerson, di William James, di Whitman, di una tradizione molto autoctona e per quanto riguarda l’Europ è Platone che ritorna spesso, mentre per la contemporaneità si parla talvolta di Nietzsche e Valery.

L’eterno e il quotidiano: una sera qualunque a New Haven

Il tratto distintivo del poema Una sera qualunque a New Haven, ciò che gli dà unità e cifra stilistica è il timbro della voce. New Haven è un poema conviviale, una meditazione che si fa parola discorsiva e colloquiale. Leggendolo, canto dopo canto, ci si sente portati a recitarlo a bassa voce, come quando si parla rilassati con quei pochi amici con i quali si possono scambiare le confidenze più intime: anche per questo è, fra i poemi di Stevens, quello che meno si presta a estrapolazioni. New Haven è anche il poema della piena riconciliazione con la poesia e i suoi modi ed è poema della maturità; voce autunnale che diviene canto della terra nel suo offrirsi più comune e semplice. In questo poema l’accettazione delle cose nel loro darsi empiricamente è piena e serena. Infatti, l’autunno per Stevens non è una stagione triste, ma rappresenta al contrario la pienezza della vita.

Quanto ai temi della meditazione sono i soliti: ritroviamo la caverna platonica, la tensione costante fra realtà e immaginazione, la poesia come cosa fra le cose, il colore azzurro della chitarra. Cosa rappresenta, allora, questo poema nel percorso poetico di Stevens? Da un lato è l’ennesimo punto di svolta e la porta che introdurrà all’Opus Posthumous, a The rock, cioè agli ultimi testi, scritti vicini alla sua morte; ma segna anche il ritorno a tutte le sue tematiche, in una sorta di ciclicità che è al tempo stesso bilancio di un’esperienza poetica. 

La vita di Stevens finisce ma la sua poesia allude, proprio nel suo farsi (e dunque ben prima di quel riconoscimento del valore di cui Stevens non si cura), a un processo che per sua natura non s’interrompe. Il poeta di Hartford non pronuncia in versi quel luogo comune tante volte ripetuto: la poesia è eterna. Ciò è vero, ma non è di questo che stiamo parlando e che appartiene alla sfera sempre opinabile del giudizio critico che si stratifica nel tempo e che solo in esso può trovare il proprio consolidamento. Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è che l’organismo poetico stevensiano è nel suo farsi nel tempo costruito in modo tale da evidenziare un movimento metamorfico in atto, potenzialmente ininterrotto, ma non nel senso dell’infinito; piuttosto in quello di una circolarità che si espande, di un universo in espansione di cui la realtà fisica costituisce l’aspetto più fenomenico, dal quale non si può mai prescindere. La sua espansione è una quest verso la quale incamminarsi. Potenzialmente senza soluzione di continuità questo viaggio porta a un’intensificazione della realtà stessa, senza che nulla però di essa vada perso o venga superato in senso deterministico; tutto ritorna anche se nel ritorno non vi è mai una sovrapposizione perfetta, il mutamento è un piccolo scarto.

In Una sera qualunque a New Haven tale modalità raggiunge una sintesi stilistica  particolarmente efficace. In esso, infatti, sono compresenti tre momenti diversi che sembrano stare agli antipodi ma che si rimandano invece l’uno con l’altro. New Haven è una località anonima in quanto luogo fisico, ma nel nome evoca il Paradiso (Heaven). È un luogo apparentemente senza attrattive, ma talvolta è possibile assistere in esso – come ad Hartford – a quel fenomeno naturale estremo che sono le aurore boreali. Ecco qui rappresentato il paradosso stevensiano nella sua nuda essenza: non il paradiso, non il favoloso altrove, ma l’anonimo che per un momento risplende come se fosse il paradiso, come Bergamo in cartolina, un altro verso formidabile di Stevens, che ci lascia oltretutto nel dubbio se stia parlando di una località statunitense (come la Paris Texas di Wenders), oppure proprio della città lombarda. La nona stanza rappresenta molto bene tutto questo:

/We keep coming back and coming back/To the real: to the hotel instead of the hymns/ that fall upon it out of the wind. We seek// The poem of pure reality, untouched/By trope and deviation, straight to te word,/Straight to the transfixing object, to the object//at the exactest point at which it is itself,/Transfixing by being purely what it is,/A view of New Haven, say, through the certain eye,//The eye made clear of the uncertainty, with the sight/Of simple seeing, without reflection. We seek/Nothing behind reality. Within it,/Everything, the spirits alchemicana/Included, the spirit that goes roundabout,/And through included, not merely the visible,/The solid, but the movable, the moment,/The coming on of feasts and the habits of saints,/The pattern of the heavens and high, night air.//

(/Non facciamo che tornare e ritornare/Alla realtà, all’albergo e non agli inni/che il vento vi trasporta. Cerchiamo/La poesia della realtà, vergine /Di tropi e di deviazioni, diritta alla parola,/Diritta all’oggetto che trafigge, l’oggetto//al punto esatto in cui è se stesso,/Trafiggente in quanto è ciò che è, nient’altro/New Haven mettiamo, vista da un occhio certo//Un occhio purgato di ogni incertezza, la vista/Del semplice vedere, senza riflesso. Non cerchiamo/nulla oltre la realtà. In essa//Tutto, comprese le alchimerie dello spirito,/ Compreso spirito che si muove in cerchio/E di traverso, non solo il visibile,//Il solido, ma il mobile il momento, /L’avvento delle feste, dei riti santi,/Il disegno dei cieli e la parola alta, notturna.//)65

È il tono a fare qui la differenza. Il poeta diventa il commensale al banchetto della vita: cioè di tutto ciò che è umano ma anche di ciò che non lo è, o chi si nutre di tavolini che si muovono durante le sedute spiritiche. Non solo la natura organica è per lui degna di attenzione, anche quella inorganica: la pietra, la roccia. Tutto ha una vita che risuona, al poeta spetta il compito, se ne è capace, di avvicinare il più possibile la parola a questo suono, captarlo, tradurlo, così da far risuonare quel canto della terra cui egli mira. E sembra davvero di poterlo immaginare, nel leggere il poema di New Haven, immortalato in quel suo autoritratto che è la poesia Omone rosso che legge. Autoritratto perché, con simpatica ironia, egli allude proprio alla propria massiccia molte corporea e ai suoi capelli; non vi è dubbio che sia proprio lui e che con questo testo abbia in qualche modo voluto mettere la sua firma sul grande affresco che ha tessuto per una vita intera. Il testo però è anche qualcosa di più perché ci permette di avvicinarci (almeno per quello che è il dettato poetico) al suo rapporto con il sacro, il divino, la materia religiosa. Stevens si ritrae come lettore delle sue stesse poesie, ma non siamo in un auditorium o in un teatro; piuttosto in un ambiente domestico, intimo. Qual è però il suo pubblico?

/There were ghosts that returned to earth to hear his phrases/As he sat there, reading aloud, the great blue tabulae/There were those that from the wilderness of stars that had expected more./There were those that had returned to hear him read from the poem of life,/of the pans above the stove, the posts on the table, the tulips among them./They were those who should have wet to step barefoot into reality,/That would have wept and been happy, have shivered in the frost,/And cried out to feel it again, have run fingers over leaves and against the most coiled Thorns,/have seized on what was ugly/And laughed, as he sat there reading, from out of the purple tabulae, the outlines of beings an its expressing, the syllables of the law:/poiesis poiesis, the literal characters, the vatic lines,/Which in these ears, in those thin, those spended hearts/Took on colors, took upon shape and seized the things as they are/And spoke the feeling of them, which was what they ha lacked./

(/C’erano spettri tornati sulla terra per sentire le sue frasi/Lui seduto che leggeva ad alta voce le grandi tabulae azzurre./Erano quelli del deserto delle stelle che avevano atteso di più/C’era chi tornava per sentirlo leggere il poema della vita/della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani/Erano quelli che avrebbero pianto pur di entrare scalzi nella realtà,/Avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo,/E gridando pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie,/le spine più acuminate afferrandosi al brutto,/E ridendo, mentre lui seduto leggeva , dalla tabulae di porpora,/i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe della legge:/Poiesis, poiesis, le lettere i caratteri, i versi ispirati/Che in quegli orecchi, in quei cuori sottili, esausti, /Prendevano forma colore, e la misura delle cose come sono/E dicevano per loro l’emozione, che era ciò che era loro mancato./)66

Sono i morti che, se potessero, vorrebbero ritornare a pregustare di nuovo il calore semplice delle cose di tutti i giorni, la pentola sul fuoco, il conversare insieme. Non sono i vivi che vanno verso il favoloso altrove, l’aldilà come terra promessa, ma il contrario. Dopo tremila anni di viaggi nell’Ade oppure in Inferni e in Paradisi, questo sorprendente statunitense fa il viaggio contrario e riporta i morti qui in mezzo a noi! Non so se in questo vi sia pure una eco del folklore statunitense prima che esso divenisse un’americanata e cioè le tradizioni  legate alla notte di Halloween il 31 ottobre – data conosciuta anche come il Capodanno delle donne. Il senso del canto della terra è in questa poesia più limpido che mai! Stevens ha messo alla prova il linguaggio poetico, portandolo al limite estremo. Così come Lucrezio scrisse un poema scientifico e naturalistico in versi, Stevens si cimenta con il tono filosofico e anche con i suoi eterni rovelli. Poeta controcorrente, dunque, ma anche ben mimetizzato, mai esposto al ludibrio scontato dei cultori dell’abisso, dei narcisisti del niente che hanno imperversato in larga parte del ‘900 e ai quali propose una volta di venire con lui a fare un picnic nelle rovine.

Aurora boreale.


52 Op. cit. pp.44-5

53 Op. cit. pp.44-7

54 Op. cit. pp.56-9

55La ricostruzione completa della genesi di questo testo si trova Wallace Stevens L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Roma 1988 pag.23/24.

56 Gli angeli sono una presenza in tutto il film Wenders, ma mi riferisco in particolare a una scena iniziale, quando a un uomo morente l’angelo sussurra all’orecchio la poesia di Peter Handke  Invocazione del mondo: /Come fui sul monte e arrivai/al sole dalla nebbia della valle/il fuoco ai bordi del pascolo/le patate nella cenere/il capannone delle barche sul lago/la croce del sud/l’oriente lontano/il grande nord/l’ovest selvaggio/il grande lago dell’orso/le isole Tristan da Cunha/

57 Wallace Stevens Harmonium , Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzioni di Massimo Bacigalupo, Glauco Cambon, Renato Poggioli e Giovanni Giudici, Millenium, Einaudi, Torino, 1994, pp.546-7

58 Wallace Stevens, Collected poems, Faber and Faber, Londra 1984, pag.511. La traduzione è mia.

59 Wallace Stevens, Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, pp. 594-5

60 Op.cit. pp.9-11

61 Op. cit. pp. 554-5

62 Op.cit. pp. 608-9

63 Op.cit. pp.570-1

64 La questione del rapporto fra la poesia di Stevens e la filosofia di Heidegger è stata posta talvolta dalla critica europea e ripresa con maggiore frequenza in Italia, ma è a mio avviso, almeno in parte, fuorviante. Il filosofo era fra l’altro l’inventore di formule assai affascinanti e qualcuna di esse affascinò di certo anche Stevens. L’espressione che indica nei poeti coloro che inseguirebbe le tracce lasciate dagli dei in fuga, fra le più suggestive create da Heidegger, non appare tuttavia adeguata per descrivere il percorso poetico di Stevens, anche perché tale espressione non può essere disgiunta dall’altra e cioè che l’essere umano a seguito della fuga degli dei dal mondo abiterebbe un luogo di povertà. L’uso che anche Stevens fa talvolta della parola povertà in alcuni testi è del tutto diverso, perché è diverso il telos che lo muove. L’intento di Stevens non è la ricerca di una metafisica secondo le linee del pensiero occidentale, ma piuttosto di riconciliare l’umano con la realtà fisica del suo habitat, che tuttavia non è soltanto suo.

65 Wallace Stevens, Una sera qualunque a New Haven, in Aurore d’autunno,  a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag. 191

66 Op. cit. pp.70-3.

WALLACE STEVENS: LA POESIA SFIDA IL PENSIERO

Poets in the city: Wallace Stevens

Le Notes toward a supreme fiction (Note verso una finzione suprema) sono una meditazione in versi scritta nel 1942. L’opera è suddivisa in tre parti, intitolate: It must be abstract (Deve essere astratta), It must change (Deve cambiare) e It must give pleasure (Deve dare piacere.) Queste tre sezioni sono a loro volta suddivise in dieci stanze di 21 versi ciascuna suddivisa in sette terzine. Non sono esperto di numerologia, ma diversi critici hanno sottolineato la non casualità di tali scelte. Alle tre sezioni indicate avrebbe dovuto seguirne una quarta dal titolo It must be human (Deve essere umana), che il poeta non scrisse.

La metrica è solenne, il tono è alto: sono tutti blank verse, a volte maggiorati di un piede. È la misura più classica della poesia inglese, paragonabile all’endecasillabo, nel quale spesso Stevens sconfina, peraltro. L’uso della terzina, poi, con il suo andamento concatenato che ricorda anche il passo lento e costante di un viaggiatore che s’incammina verso una meta, sono una spia ulteriore dell’intenzione del poeta. Il richiamo dantesco è presente nel testo, ma non dobbiamo intenderlo in senso metafisico, né come citazionismo. Le Note, come ben afferma Nadia Fusini nel suo studio dedicato a quest’opera, sono una vera e propria quête, cioè un viaggio iniziatico, la cui meta però non sono le altezze del paradiso, ma quello che Stevens definirà come Canto della terra.28 L’anno in cui il poema è stato composto è per gli Usa la fine dell’illusione di star fuori dal conflitto mondiale: dopo Pearl Harbour i preparativi sono divenuti frenetici e le ultime resistenze della popolazione sono cadute. Non vi è una traccia diretta degli eventi storici nel poema – Stevens lo farà in un altro testo – ma se si torna al discorso dei due leoni, della necessità cioè che il leone del liuto non sia una pura fantasticheria ma un severo confronto con la pressione esercitata dal leone del reale, forse non è causale che la meditazione probabilmente più alta dell’intero percorso compiuto dal poeta, si collochi proprio in quel momento storico. L’inizio e cioè i primi sei versi della prima sezione indicano il tema del poema:

/Begin, ephebe, by perceiving the idea/Of this invention, this invented world,/The inconceivable idea of the sun.//You must become an ignorant man again/And see the sun again with ignorant eye/And see it clearly in the idea of it.//

(/Comincia, o efebo, col percepir l’idea/Di questa invenzione, questo mondo inventato,/L’inconcepibile idea del sole.//Devi tornare l’uomo ingenuo che eri/E vedere il sole con occhio ingenuo/ E vederlo chiaramente nell’idea.//)

Tale invocazione, non si rivolge alla musa o a figure trascendentali, ma a un efebo, immagine di una verginità dello spirito, tendenzialmente ermafrodito. Continuando sempre con la prima sezione e sempre rivolto all’efebo Stevens scrive:

/Never suppose an inventing mind as source/Of this idea not for that mind compose/ A voluminous master folded in his fire.//How clean the sun when seen in its idea/Washed in the remotest cleaness of a heaven/That has expelled us and our images …/

(/Non supporre mai una mente che crea all’origine/Dell’idea non creare per quella mente un ingombrante/Padrone avvolto in lingue di fuoco.//Com’è terso il sole se visto nell’idea/Purificato nella remota chiarità di un cielo/Liberatosi delle nostre immagini e di noi …//) 29

È solo tornando all’idea originaria del sole, che noi possiamo vederlo nella sua essenza, senza caricarlo di simboli o di idee che l’umano ha elaborato intorno alla stella: torna in questi versi una eco dell’ottava sezione di Sunday Morning.

Il tema è la meditazione sulla poesia, i suoi strumenti, il suo valore conoscitivo e il suo ruolo nella contemporaneità. La polarità immaginazione-realtà è qui in seconda linea perché la necessità primaria è porsi di fronte all’oggetto sgombri da ogni pregiudizio o idea precedente: questo il senso dell’esortazione a tornare ingenuo, rivolta all’efebo.30 È ancora una volta il tema dell’ultima sezione di Mattino domenicale, che da meditazione finale di quel percorso, diventa nelle Note punto di partenza. In Stevens, come dice ancora Nadia Fusini:

Il senso si costruisce così, per insistenza, ripetizione, ritorno31

Tuttavia un altro elemento va considerato oltre a questi: si tratta delle variazioni che il poeta introduce ogni volta che ritorna ai luoghi topici della sua poesia, variazioni che con il tempo non solo chiariscono sempre di più, con apporti continui di senso, la ricchezza della sua trama poetica, ma che diventano delle vere e proprie metamorfosi in atto. È quest’ultima caratteristica che diviene essenziale anche per chi legge: abbiamo sì la sensazione di tornare sempre laddove siamo già stati, ma il procedimento decreativo di Stevens non è una tela di Penelope, è una costruzione che si modifica ogni volta senza mai buttare via tutto quello che si era raggiunto in precedenza, ma conservandone invece una parte per trasformarla. Si tratta piuttosto di liberarsi di volta in volta delle scorie, salvando però il nucleo centrale dell’intuizione. Tale procedimento non porta all’accumulo, ma alla necessità di cambiamento che viene indicata nella seconda sezione delle Note (It must change). Torniamo però alla prima sezione intitolata Deve essere astratta. L’idea di astrazione, in Stevens, va intesa diversamente da come normalmente si pensa a questa parola, specialmente in relazione alla filosofia. Il poeta esorta l’efebo a liberarsi, nel guardare il sole, di tutte quelle ombre della lingua e del pensiero che impediscono alla visione di afferrarne la prima idea, l’idea originaria del sole. Piuttosto che di astrazione, siamo qui in presenza di un procedimento di spoliazione o rarefazione progressiva, di un invito a sospendere tutte le affermazioni fatte intorno alle cose reali, così da poterle vedere nella loro nuda essenza. È solo quando avremo tolto questi orpelli del pensiero, le scorie di cui si è detto più sopra, che – secondo Stevens – la realtà si risveglierà, al di là di ogni metaforica evasione; le cose, allora, cominceranno a parlare la loro lingua, a risuonare della loro musica: è il canto della terra.

Lo stile stevensiano, fatto di ripetizioni e accostamenti paratattici, ci permette d’introdurre un discorso che riguarda la tradizione. Vi sono concetti e parole che hanno una storia e anche un peso, se noi accettiamo di considerare il punto di vista di una tradizione che si estende a tutte le civiltà poetiche. Per rimanere in occidente, un lessico apparentemente così comune come quello usato da Stevens (il sole, il giorno e la notte), può essere accolto da uno sguardo ingenuo solo se si libera delle troppe costruzioni di senso. Le parole chiave di questa prima sezione girano intorno al tema dell’idea prima, dell’origine, su cui grava il peso della storia, ma anche quello della nostra semplice presenza di umani in un mondo che non è solo nostro. A volte il pensiero poetante di Stevens sfugge nella meditazione pura, non sempre facile da seguire, creando immagini concettuali  sorprendenti e a volte oscure, che sfociano però sempre in soluzioni che creano nuove immagini di grande limpidezza espressiva. Così nella quarta stanza Adamo è già padre di Cartesio, nel senso che la razionalizzazione matematico geometrica del mondo inizia già nell’Eden e quanto agli umani:

We are the mimics. Clouds are padagogues//… (/Noi siamo i mimi. Le nuvole i nostri maestri./) 33

L’umano turba l’idea prima e svolge un ruolo ambivalente che tormenterà il poeta per tutta la vita. Nella chiusa della quinta stanza, seppure con un tono ironico, la presenza dei sapiens sapiens rompe l’equilibrio naturale:

/These are the heroic children whom times breeds//Against the first idea – to lash the lion,/Caparison elephants, teach bears to juggle//…

(/Questi sono i giovani eroi che l’epoca genera//Contro la prima idea – per frustare il leone/Bardare l’elefante, domesticare l’orso nel circo.//) 34

Gli umani come progetto sbagliato della natura? Ci sono scienziati che lo sostengono, ma vennero tutti dopo.

Tuttavia, nella settima stanza, il destino degli umani si muta in qualcosa di diverso, cioè in un accesso possibile che sa ancora aprirsi a quell’andare fortuito verso le cose, che metta fra parentesi la ragione; allora:

/The truth depends on a walk around a lake … (/La verità dipende da una passeggiata/intorno al lago…)

e  nella chiusa della medesima:

/Perhaps there are moments of awakening./Extreme, fortuitous, personal in which//We more than awaken, sit on the edge of sleep,/As on an elevation, and behold/The academies like structures in a mist.//

(/Forse ci sono momenti di risveglio,/Estremi, fortuiti, personali, quando/…/Più che svegli, sediamo sull’orlo del sonno,/ Come su un’altura, e guardiamo/le accademie come fossero strutture di nebbia./) 35

Nell’ultima stanza Stevens si rivolge di nuovo all’efebo e torna all’umano, ma un umano che ha perso i suoi orpelli e che ritroveremo nelle opere della maturità: non più l’eroe che combatte (e siamo nel 1942!), ma l’uomo comune. Riporto l’intera sezione nella traduzione di Nadia Fusini:

/The major abstraction is the idea of man/And major man is the exponent, abler/In the abstract than in his singular,//More fecund as principle than particle,/Happy fecundity, flor-abundant force,/In being o more than an exception, part.//Though an heroic part, of a commonal,/The major abstraction is the commonal, /The inanimate, difficult visage. Who is it?//What rabbi, grown furious with human wish,/What chieftain, walking by himself, crying/Most miserable, most victorious,//Does not see the separate, figures one by  one,/And yet see the only one, in his old coat, /His slouching pantaloons, beyond the towns,//Looking for what was, where it used to be?/Cloudless the morning. It is he. The man/In his old coat, those sagging pantaloons,/it is of him, ephebe, to make, to confect,/the final elegance, non to console/Nor sanctify, but plainly to propound. //

(/L’astrazione maggiore è l’idea di uomo/E l’uomo maggiore il suo esponente, più capace/Nell’astratto che nel singolo caso,//Più fecondo come principio che come particella,/Felice abbondanza forza flor-abundante,/In quanto parte più che eccezione,//parte anche se eroica di ciò che è comune./L’astrazione più grande è il volto/Difficile, anonimo, dell’uomo comune. Chi è?//Quale rabbino, invasato di umano fervore/Quale capitano che cammini solo, piangente,/Il più miserabile, o il più vittorioso,//Non vede queste figure staccate, una per una?/E tuttavia una sola, un vecchio cappotto,/Un paio di pantaloni sgualciti, di là dal villaggio,//In cerca di ciò ch’è stato, com’era una volta.//Senza nubi il mattino. È lui l’uomo ravvolto/Nel vecchio cappotto, i pantaloni cascanti,//Di lui, efebo, dovrai fabbricare, ad arte/Confezionare l’eleganza finale, non per consolare/Né consacrare, ma solo presentare./)36

La seconda sezione s’intitola Deve cambiare. L’idea di metamorfosi è una presenza costante nell’opera di Stevens, ma in questo caso viene nominata espressamente. Dalla pittura l’accento si sposta sulla scultura, un’arte del tutto particolare, nel senso che la durezza dei suoi materiali evoca la pesantezza della staticità e quindi il contrario del cambiamento. Nella terza stanza la scultura è quella che immortala il generale Du Puy e sarà un’altra statua – quella di Bartolomeo Colleoni scolpita da Verrocchio – a occupare larga parte di uno dei suoi saggi più importanti.37

 /The great statue of general Du Puy/Rested immobile, though neighboring catafalques/Bore off the residents of its noble Place.//The rights, uplifted foreleg of the horse/Suggested that, at the final funeral,/The music halted and the horse stood still.//On Sundays, lawyers in their promenades/Approached this strongly-heightened effigy/To study the past, and doctors, having bathed//Themselves with care, sought out the nerveless frame/Of a suspension, a permanence, so rigid,/That it made their General a bit absurd,//Changed its true flesh to an inhuman bronze./There never had been, never could be, , such /A man. The lawyers disbelieved, the doctors,//Said that as keen, illustrious ornament,/As a setting for geraniums, the General,/The very Place Du Puys, in fact, belonged//Among our more vestigial states of mind./Nothing had happened because nothing had changed./Yet the General was rubbish in the  end.

(/La grande statua del generale Du Puy rimase /Immobile, mentre i vicini catafalchi inghiottivano/I residenti della nobile piazza.//La zampa destra del cavallo alzata/ Suggeriva che all’atto conclusivo del funerale/La musica/s’era arrestata e il cavallo ristette immobile.//La domenica gli avvocati passeggiando/Accostavano l’effigie austera in alto levata/Per studiare il passato, e i dottori,//Dopo accurati lavacri,indagavano la struttura/Inerte sospesa a una permanenza tanto rigida/Che rendeva il generale alquanto ridicolo,//E mutava la carne vera in bronzo inumano./Non c’era mai stato, né avrebbe potuto, un uomo/Così gli avvocati dubitavano, i dottori//Dicevano che il generale, la piazza Du Puy stessa,/Erano l’ornamento illustre, perfetto/Per i gerani, il vanto, la testimonianza//Tra le vestigia del nostro intelletto./Nulla era accaduto poiché nulla era mutato./Eppure il generale finì nell’immondizia.//)38

Una sottile ironia percorre l’intero testo, evocando al tempo stesso l’immutabilità della storia e il suo peso: la statua sopravvive a tutti coloro che hanno popolato quella piazza, ma solo come immagine sinistra d’immutabilità. Vale forse la pena di ricordare che non è estranea all’ironia il ricorso stesso a una figura come un generale tutto sommato anonimo, nel quale si possono anche identificare due personaggi diversi, anche se penso che si riferisca a quello che ebbe una parte importante nella Rivoluzione Francese. Nella stanza che segue, la quarta, Stevens contrappone alla staticità della scultura, l’immagine degli opposti che danno vita la cambiamento:

/Two things of opposite nature seem to depend/One another, as a man depends/On a woman, day on night, the imagined//On the real. This is the origin of change./Winter and spring, cold copulars, embrace/And forth the particulars of rapture come.//

(/Due cose di opposta natura sembrano dipendere/L’una dall’altra, come l’uomo dipende/Dalla donna,/il giorno dalla notte, l’immaginato//Da ciò che è reale. Questa è l’origine del mutamento/L’inverno e la primavera, gelidi congiunti, s’abbracciano/E alla luce nascono i particolari dell’estasi./)

La chiusa della sezione è ancora più esplicita:

/The partaker  partakes of that which changes him./The child that touches takes character from the thing,/The body, it touches. The captain and his men//Are one and the sailor and the sea are one./Follow after, O my companion, my fellow, my self,/Sister and solace, brother and delight.//

(/Chi partecipa ha parte in ciò che lo muta./Il bimbo che tocca prende il carattere della cosa,/Del corpo che tocca. Il capitano e i suoi uomini//Sono tutt’uno e così il mare e i marinai./Seguita tu compagno, mio prossimo, me stesso, /Sorella e sostegno, fratello e diletto.//) 39

In questi versi Stevens rovescia la figura dell’ipocrita lettore di Baudelaire, ripreso da Eliot, per farne una figura del tutto diversa. Penso che il poeta di Hartford, in ogni caso, avesse in mente il secondo e non il primo perché, pur essendo identiche, le due formule hanno un senso diverso, dal momento che una citazione ha comunque un altro valore rispetto all’originale. Il verso di Baudelaire smascherava il linguaggio aulico e la figura sacrale del poeta contrapposta all’uomo comune, rovesciando al tempo stesso il linguaggio amoroso nel suo controcanto e invitando il lettore a uscire egli stesso dall’inganno e dalla complicità con il poeta. L’ipocrita lettore di Eliot, invece, s’inscrive nel solco del Tramonto dell’Occidente, per citare il libro di Spengler. Quello che Stevens propone al lettore è un patto di tipo nuovo, che spazza via ogni indulgenza verso il narcisismo del decadere, che del verso di Baudelaire hanno fatto in troppi, proponendo invece un patto di fratellanza e di sorellanza fondato sulla comune appartenenza al genere umano.40

Nella quinta stanza, all’inizio, Stevens ritorna al tema delle cose che permangono dopo di noi (un tema carissimo anche a Borges), ma in questo caso, esse a differenza della statua, esse sono un esempio di mutamento:

/On a blue Island in a sky-wide water/The wild orange trees continued to bloom and to bear,/Long after the planter’s death. A few limes remained,//Where his house had fallen, three scraggy trees weighted /With garbled green. These were the planter’s turquoise/And his orange blotches, these were his zero green,//A green backed greener in the greenest sun./…

(/Su un’isola azzurra in un ampio cielo d’acqua/gli aranci selvaggi seguitarono a dar fiore e frutto,/molto tempo dopo la morte del piantatore. Rimanevano//dov’era caduta la sua casa, tre scabri alberi di cedrina/grevi di mutilo verde./ Erano le chiazze turchesi e arance/del piantatore, erano il suo verde assoluto./…) 41

L’agricoltura, la base di ogni vita, delle stagioni che ritornano, i colori fulgidi ma anche normali di una natura che il lavoro umano non ha distrutto, ma valorizzato. Le stanze finali andrebbero citate tutte e per intero, sia per la loro bellezza, sia per la densità che esprimono. In esse, precisamente nell’ottava, appare rapidamente un’altra delle figure di Stevens, Nanzia Nunzio, la sposa di Ozymandias, che rimanda a Shelley. Metafora dell’incontro fra uomo e donna ma anche di realtà e immaginazione, il matrimonio non può essere mai del tutto raggiunto ma sempre sul punto di esserlo. Il poeta romantico inglese, evocato in questa sezione, torna della decima e ultima con la citazione del vento occidentale come fattore di mutamento continuo, di rimescolamento e metamorfosi ininterrotta.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere ed è fra le tre la più complessa e anche quella in cui il pensiero poetante entra ed esce dai confini che lo separano dalla filosofia. Il piacere di cui il poeta intende trattare è di ordine estetico e conoscitivo. La figura centrale di questa parte è il canonico Aspirin, non lontano dall’Angelo, anzi, tappa di avvicinamento a questa figura che il poeta metterà compiutamente in scena alla fine di Auroras of autumn.

Per delineare i contorni del piacere che la poesia deve dare Stevens ricorre a una serie di esempi, fra i quali scelgo per primo quello della festa.

/We drank Meursault, ate lobster Bombay with mango/Chutney. Then the Canon Aspirin declaimed/of his sister, in what a sensible ecstasy/She lived in her house…

(/Bevemmo Meursault, mangiammo aragosta Bombay/con salsa di mango. Poi il Canonico Aspirina declamò/della sorella/in quale estasi composta/abitasse la sua casa/)

Quando leggiamo questi versi, non sappiamo chi sia il soggetto della narrazione. L’iniziale noi si riferisce a un gruppo generico di persone. Con il secondo verso il Canonico Aspirina diviene protagonista del testo, ma è qualcun altro che sta parlando di lui. Il linguaggio è colloquiale e piano, il setting facile da definire: una festa importante, vista la preziosità dei cibi.  

Il Canonico Aspirina declama, una parola altisonante e in apparenza distante dall’atmosfera famigliare e ciò che egli declama è ancora più sorprendente: come sua sorella viva felice nella propria casa. Per lei, la sorella, tutto questo rappresenta una concreta estasi, un’altra coppia di termini di una certa importanza. Tuttavia, ancora  una volta, i protagonisti del canto sono destinati a cambiare rapidamente, ma è sempre qualcun altro che parla di volta in volta di loro. La sorella del Canonico è ora divenuta la figura in primo piano, solo che – come vedremo presto – è assente. Questa prospettiva tridimensionale costruita attraverso il linguaggio rimanda alla pittura: 

/…She had two daughters, one/Of four, and one of seven, whom she dressed/The way a painter of pauvred colors paints.// But still she painted them, appropriate to their poverty…./ 

(/Aveva due figlie, una /di Quattro anni l’altra di sette, che abbigliava/come dipinge un pittore parco di colore./Ma pur le dipingeva, in maniera conforme/alla loro povertà./)

Il dipingere, in questo caso, diviene metafora della poesia e sembra che Stevens stia suggerendo che anche la poesia può essere fatta di elementi poveri e prendere ispirazione dalle cose più comuni; per esempio una serata famigliare e colloquiale.  C’è di più: i colori, le forme, gli strumenti, sono appropriati alla loro povertà. Quanto al modo di procedere del testo è anch’esso assai pittorico e al lettore sembra quasi di assistere alla composizione di un affresco: prima un dettaglio sulla tavola imbandita, poi un personaggio, poi un altro. Solo alla fine del canto, forse, riusciremo ad afferrare il senso dell’intera composizione? Ci aspetteremmo qualcosa di più sulla sorella; invece, dopo aver continuato a descrivere i colori usati da lei, il Canonico tace. 

/The Canon Aspirin, having said these things,/Reflected, humming an outline of a fugue/Of praise, a conjugation done by choirs.//Yet when her children slept, his sister herself/Demanded of sleep, in the excitements of silence/Only the unmuddled self of sleep, for them/ 

(/Il Canonico Aspirina, dette queste cose, rifletté, canticchiando una fuga abbozzata/di elogio, una coniugazione per cori//Però quando le bimbe dormivano, sua sorella/chiese per se stessa il sonno/nel giubilo del silenzio/per loro soltanto l’io inconfuso del sonno./) 42

Questi versi sono davvero sorprendenti e polisemantici! Non solo tutto quanto precede è un parlare di assenti, ma nel momento in cui la sorella – vera protagonista della serata e della festa che si svolge proprio a casa sua – si materializza, lo fa per porre fine alla serata. La fuga improvvisata dal Canonico, anticipa quel momento di silenzio ed esaurimento del parlar conviviale, che precede i saluti di congedo. La composizione finale della scena ci fa comprendere, come in una retrospettiva, che la serata era andata avanti da molto tempo e che la sorella si era assentata proprio per mettere a letto le due figlie.

Fermiamoci un momento e poniamoci una domanda. I versi di cui sopra sono tratti dalla quinta stanza. Se Stevens, nella stanza successiva, avesse cambiato scenario, nessuno – credo – potrebbe pensare che quella precedente non sia risolta. La sua complessità, la tridimensionalità e le qualità pittoriche sono tutti elementi adeguati e coerenti con la situazione. Tuttavia, il Canonico Aspirina (un personaggio metafora della poesia stessa) non può fermarsi a questo.

La terza sezione s’intitola Deve dare piacere, ma si tratta di un piacere diverso da quello che può scaturire dalla rappresentazione di una festa conviviale, sebbene anche da questo la poesia possa partire. Del resto, Stevens lo aveva scritto nel primo canto di questa terza sezione:

/To sing jubilas at exact, accustomed times,/……./To speak of joy and to sing of it, borne on/the shoulders of joyous men,… This is a facile exercise …

(/Cantar jubila a scadenze esatte e fisse,/… parlar di gioia e cantarne,/portati a spalla da uomini gioiosi … Questo è un facile esercizio …/) 43

Anche condividere una festa può essere un facile esercizio. Ciò che accade nella sesta sezione è la trasformazione alchemica di quell’esperienza concreta, in sé già preziosa, in una metamorfosi che trasfigura la sostanza dell’esperienza festa, ora che essa è finita. Il silenzio che segue e che era stato anticipato dalla intonazione di una fuga, diviene il preludio a qualcosa d’altro. Il Canonico – tornato nel frattempo a casa sua e in procinto di addormentarsi – vive l’esperienza della solitudine, quel vuoto che segue gli incontri conviviali piacevoli.

/The nothingness was a nakedness, a point,// Beyond which fact could not progress as fact./

(/Il nulla fu una nudità, un punto/Oltre il quale il fatto in quanto fatto naufragava./)

Il piacere di condividere una festa non può essere esteso in modo indefinito, in quanto evento concreto, ma solo essere trasfigurato e tale processo ha a che fare con un materiale diverso, di tipo mentale. Si tratta di intonare il nudo fatto con la sua trasfigurazione e allora cosa vede il Canonico Aspirina?

/So that he was the ascending wings he saw/And moved on them in orbits’ outer stars/Descending to the children’s bed, on which// They lay. Forth then with huge pathetic force/Straight to the utmost crown of the night he flew./The nothingness was a nakedness, a point// Beyond which thought could not progress as thought./…

(/Così egli divenne le ali stesse della visione che vedeva/e ascese alle orbite più lontane delle stelle/discese al letto delle bimbe, dove/esse dormivano. Poi con impeto di passione/volò diritto al culmine della notte/Il nulla fu una nudità, un punto/oltre il quale il pensiero come tale naufragava./) 44

Le orbite delle stelle più lontane e il letto delle bambine sono i due estremi di una più ampia armonia che va oltre il pensiero perché è fusione fra la sostanza materiale delle cose e la sostanza materiale della mente. Tale più ampia consapevolezza non proviene dal pensiero o da un occhio che guarda dal di fuori e che domina la scena, ma da una percezione che sta internamente sia alle cose comuni, sia a quelle più vertiginose: le stelle più lontane (metafora delle altezze cui può aspirare la poesia) e il letto dove dormono le nipotine hanno la stessa importanza. In questi due canti Stevens non si limita a riproporre uno dei leit motiv  più celebrati della sua opera e cioè il confronto fra il leone del liuto e il leone della pietra, di cui si è già scritto a proposito del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra.

Nella parte conclusiva del sesto canto, il poeta fa un passo in più:

/He had to choose. But it was not a choice/Between excluding things. It was not a choice// Between, but of. He chose to include the things/That in each other are included, the whole, /The complicate, the amassing harmony.//

(/Dovette scegliere ma non fu una scelta /fra termini che si escludono. Non fu una scelta fra/ma di. Scelse di includere le cose/che s’includono a vicenda, l’intero/ la complessa, l’affollata armonia./) 45

Questi sono i versi chiave. Nel suo volo, il Canonico Aspirina viene messo di fronte a una delle antinomie tipiche del pensiero occidentale e si rende conto che la visione le comprende entrambe. Invece di insistere sulla mancanza che il poeta avverte dopo avere condiviso con altri l’esperienza a tutti comune, scopre l’impossibilità di separare l’esperienza comune dall’immaginazione. La sintesi è una nuova armonia in cui le figure stesse dei due leoni vengono superate. Essa è una quarta dimensione che potremmo paragonare al puro colore della pittura astratta, quando ogni sembiante figurativo si è dissolto. Tuttavia, il materiale della mente e quello dell’immaginazione non sono fatti di una sostanza diversa rispetto alle normali cose. Un chiaro di luna e un tramonto ci scuotono anche prima della loro trasfigurazione in versi memorabili. Se non fosse così la metamorfosi non sarebbe neppure possibile. Perciò la realtà non è solo il fardello del mondo, ma anche la sorgente di ogni ispirazione. Il poeta è un demiurgo e questo implica anche un passaggio nel silenzio e nella solitudine, un momento di vuoto; ma solo un momento, perché quando la metamorfosi è compiuta, nulla è andato perso. Soltanto separando perdiamo qualcosa, sia nel caso in cui rimaniamo legati e prigionieri alla lettera degli avvenimenti, sia perseguendo le rotte delle stelle come fuga, cadendo così in un vuoto spiritualismo. Il poeta demiurgo vola fra queste due polarità, ma Stevens ci sta forse suggerendo che per chiunque tale esperienza è possibile. Naturalmente siamo distanti dal modo ridicolo in cui una formula apparentemente simile è venuta in auge nel post modernismo italiano della fine degli anni ’90 e cioè che chiunque è poeta; ma nel senso che chiunque può raggiungere il concreto materiale della propria mente e della propria immaginazione, nei modi diversi accessibili a ciascuno. Quando siamo commossi fino alle lacrime, quando siamo colpiti da un ricordo improvviso, tale emozione non è differente da un processo di trasfigurazione. Il nudo fatto non è più presente in quel momento, ma è capace di agire a distanza di tempo e di luogo. Che tipo di esperienza è questa? È forse separabile da quel volto, quella voce, quel tramonto che hanno provocato il ricordo e fatto scattare quell’emozione? La poesia è più intensa, il poeta demiurgo è partecipe di esperienze comuni come tutti ma anche memorabili per chiunque, così che tutti possiamo a nostra volta rispecchiarci nelle medesime; altrimenti non potremmo. Probabilmente la grande poesia è quella in cui è attiva anche una capacità di sospendere il giudizio, di accedere a una dimensione astratta e per Stevens astratto non è l’opposto di concreto ma un andare verso un’esperienza concreta come se la si facesse per la prima volta. In definitiva, qual è allora la differenza fra il condividere il piacere di una festa e la poesia che la trasfigura? E fra il poeta e la persona comune nel sentire un’emozione? Abbiamo visto come per Stevens è un demiurgo, ma egli accompagna la parola a un aggettivo molto particolare: debole.

/The man-hero is not the exceptional monster,/But he that of repetition is most master./

(/L’uomo eroe non è il mostro eccezionale;/ma colui che della ripetizione è il miglior mastro./) 46

Soltanto tornando più volte alla stessa esperienza e raffinandola sempre di più è possibile intensificarne il senso: ma ripetere è l’opposto del separare e chi separa troppo cade in quello che i greci definivano hybris, l’arroganza, l’imporre ordine. Il nome del canonico – Aspirina – appare al fine del percorso, niente affatto una bizzarria. L’aspirina, con la sua debole effervescenza, scioglie comunque gli acidi e le incrostazioni, permette alla visione di togliere all’esperienza comune ciò che è troppo comune, per farla risplendere di una luce diversa: il debole demiurgo e l’aspirina condividono tale peculiarità e anche il poeta deve rinunciare alla propria di finzione, eccetto che in un caso:

…../ the fiction of an absolute-Angel,/Be silent in your luminous cloud and hear/The luminous melody of proper sound./ 

(/la finzione di un Angelo assoluto,/sii silente nella tua nube luminosa e ascolta/la luminosa melodia del suono appropriato./) 47 

Nella figura dell’Angelo precipitano (e uso il termine nel significato di reazione chimica) tutte le altre figure di cui di volta Stevens si è servito: ora è diventato l’Angelo della realtà che condivide la sostanza umana e quella divina, che altro non è se non  la parte eccedente noi stessi, ma che a noi ritorna sempre, senza allusioni a un favoloso altrove.

Stevens, coerentemente a quanto veniva scoprendo, rinunciò a darci una definizione esaustiva della Finzione Suprema, limitandosi a fornircene alcune Note, sebbene abbia lasciato qualche traccia della direzione che avrebbe preso la parte non scritta del Poema. Come Mosè egli ha puntato il suo dito verso la terra Promessa della Finzione Suprema. L’armonia molteplice è la contemplazione pacata e accolta del confine, cioè del limite: lo sguardo che da lì e per un attimo coglie l’intero, stando però un passo indietro. Qualcosa di simile deve aver sentito Michelangelo Buonarroti quando, nell’affrescare la Cappella Sistina, lasciò uno spazio vuoto fra il dito di Dio e quello dell’uomo.

Questa terza sezione del poema è quella nella quale Stevens raggiunge i toni più alti, le vette più estreme. Proprio in questo punto, però, la meditazione s’interrompe e la famosa quarta sezione, It must be human, rimane nella penna del poeta. Perché? Ed è proprio vero poi? Su tale mancanza i critici si sono arrovellati e hanno pure interrogato lo stesso Stevens, il quale – con il suo solito modo disarmante – ha risposto in modo a mio avviso esauriente, esponendo i motivi per cui la sezione quarta non fu scritta nella forma in cui lui stesso all’inizio aveva in mente: oppure, come sono propenso a credere, che abbia finto di avere in mente. Seguiamo il suo ragionamento. In una lettera all’amico Henry Church Stevens scrive:

Il nucleo della faccenda è espresso nel titolo…  E in un’altra lettera a Simons: Non ho certamente definito la finzione suprema, le note si limitano ad affermare alcune caratteristiche necessarie ad una finzione suprema48

E continua più avanti, sempre rivolta a Montague:

Per molto tempo ho pensato di aggiungere alle note altre sezioni, una in particolare – Deve essere umana -…Che il lavoro di un uomo rimanga incompiuto, è spesso un fatto intenzionale. Ad esempio, se devo pensare ad una finzione suprema, non riesco ad immaginare niente di più fatale che il definirla categoricamente e senza le necessarie cautele.” 49

A furia di pensarlo come un poeta oscuro, capita di equivocare la chiarezza di Stevens anche quando parla in prosa: forse basterebbe avere il semplice coraggio di prenderlo alla lettera. Quando il poeta afferma che il nocciolo della questione sta nel titolo, dice il vero perché il titolo è lì a dirlo. Le sue non sono Note about, circa oppure on (sulla)  finzione suprema, ma toward. Cosa significa la parola inglese usata da lui? Significa verso, indica cioè una direzione ma non il raggiungimento di una meta specifica, nella forma almeno della meditazione sulla propria poesia e poetica. In un’altra dichiarazione Stevens dice qualcosa di più che illumina definitivamente la questione anche a questo proposito, che illumina il senso delle note. Stevens sente di avere raggiunto il limite oltre il quale il pensiero poetante rischia di diventare filosofia pura e semplice, perciò la definizione di finzione assoluta non può essere raggiunta in poesia; ma manchiamo forse d’indicazione sulla terra promessa della finzione suprema? Niente affatto. Dopo avere toccato il vertice del linguaggio e dello stile alto e dopo essersi allontanato dall’umano troppo umano cioè, dopo avere indicato la via di una spoliazione della tentazione di rendere tutto antropomorfo, dopo avere indicato nell’idea prima della cosa il suo punto di arrivo, Stevens, vuole reintegrare l’umano in tutto questo, un umano però cosciente dei suoi limiti, ma anche della sua grandezza nell’insieme del cosmo.

Nadia Fusini ha bene intravisto questo percorso quando afferma nell’opera già citata:

C’è una curva che si descrive, una traiettoria che piega verso la terra. Comprendiamo che la finzione suprema, se fosse dato raggiungerla, avrebbe quell’inclinazione verso l’umano. 50

Ma non è forse vero – allora – che la quarta sezione non è affatto mancante ma che è stata scritta da Stevens in un altro modo, come una messa in pratica – se così si può dire – di quanto aveva intuito nei punti più alti delle Note? Se posso usare una analogia un po’ ardita direi che lo Stevens che giunge al punto più alto delle note è un Mosè alato che indica la terra promessa e che lo Stevens che scrive il poema le Aurore d’autunno, Un giorno qualunque a New Heaven, The rock e l’Opus postumus, è un Mosè che ha perso le ali ma che non ha rinunciato ad entrare nella terra promessa e che anzi ha compreso che per raggiungerla doveva farlo in altro modo, magari a piedi e anche senza farsi troppo riconoscere. E quale è la terra promessa cui Stevens finalmente approda? Semplicemente quella cui la sua poesia tende fin dagli inizi, in un processo di metamorfosi continua grazie alla quale la meta diventa sempre più chiara al poeta stesso: quel canto della terra e quel linguaggio semplice delle cose colte nella loro essenzialità, la luce che emana anche ciò che è comune e quotidiano.

Nei suoi grandi poemi finali ha raggiunto questa misura e infatti il tono altissimo delle Note cede il passo a quello meditativo e più sommesso, ma non basso: è lo splendore tenue ma costante della maturità autunnale, la luce che non abbaglia ma che rende tutto intimo e confortevole, è il tono di un umano finalmente reintegrato e riconciliato con le cose, persino con la roccia, cioè con il nocciolo duro e più ottuso della terra. La poesia di Stevens fa risplendere tutto questo della sua luce che non è più quella delle vertigini, che evocano:

il favoloso altrove che non esiste e che se anche esistesse non ci servirebbe qui dove siamo” 51

ma il canto di ciò che è più comune: della materia che risuona, della realtà che ha la sua musica. Nei suoi poemi finali Stevens dà a ciò che è più comune la dignità di essere parte di un cosmo.


28 Nadia Fusini, Note sulla finzione suprema, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag.33.

29 Op. cit. pp. 29-30

30 Quella che Stevens mette in atto è un invito alla sospensione del giudizio che diventerà ancora più chiaro in opere successive e in particolare in Aurore d’autunno. Il criterio della sospensione del giudizio ha una lunga storia nella filosofia occidentale. Se modernamente può essere fatta risalire a Kant e a come il filosofo tratta l’aspetto fenomenico dell’esperienza e poi nel ‘900 a Husserl, nell’antichità greca lo troviamo in Sesto Empirico. Stevens non ci lascia tracce evidenti dei suoi possibili riferimenti a questi autori o altro, tuttavia il modo di procedere sembra avere qualche ancoraggio a tali autori, in particolare quelli più antichi, insieme a Husserl.

31 Nadia Fusini, Op. cit. pag. 10.

33 Op. cit. pp.64-5

34 Op. cot. pp. 66-7

35 Op. cit. pp.70-1

36 Op.cit. pp. 77-8. Fusini a piè pagina del testo inglese e della sua traduzione cita molto opportunamente alcuni passaggi di lettere che Stevens indirizzò a Church e a Herringman e che si ricollegano a questo testo, ma che sono pure espressioni assai note che Stevens ha usato in altri contesti. Una l’abbiamo già citata, ma riproporla qui mi sembra assai significativo: “Caro Church, per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta, e la poesia non è che la difficile ricerca di questo.”

37 Wallace Stevens L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum editore, pp.77-112.

38 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, pp 84-5

39 Nadia Fusini, op. cit. pp.86-7.

40 Charles Baudelaire, I fiori del male, in Tutte le poesie, a cura e traduzione di Claudio Rendina con saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1972, pp.50-1.

41 In questo caso ho preferito la traduzione di Massimo Bacigalupo in Wallace Stevens Harmonium, Einaudi pag. 465.

42 Op. cit. pp.480-1

43 Op.cit. pp. 474-5

44 Op. cit. pp. 480-1

45 Su questo passaggio decisivo occorre soffermarsi molto, anche perché le differenze nelle traduzioni sono rilevanti. Il testo in lingua originale, le giustifica tutte, ma esse non sono ovviamente neutre l’una rispetto all’altra. Mi riferisco in particolare all’ultimo verso: The complicate, the amassing harmony. Ho scelto la traduzione di Nadia Fusini che rispetta prima di tutto la presenza della virgola fra l’aggettivo complicate e ciò che segue. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma non lo è affatto perché a mio giudizio Stevens voleva proprio distaccare i due concetti: l’armonia in altre parole non è complessa perché affollata, ma neppure il contrario. Detto ciò, alla traduzione affollata io avrei preferito la parola molteplice, ma è del tutto ragionevole che Fusini abbia fatto la sua scelta perché in una lettera a Simons riportata in calce alla traduzione, Stevens usa gli stessi termini anche in prosa.Non mi convincono invece le traduzioni che vedono nell’aggettivo amassing qualcosa che ha a che fare con l’accumulo. Da Nadia Fusini pp.112-13.

46 Wallace Stevens Note verso la finzione suprema, terza parte, stanza nona. La traduzione è mia

47 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, in Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, I millenni Einaudi, Torino, pp. 484-5

48 Wallace Stevens, Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale editrice, Venezia 1987, pag 53. Il corredo di lettere che Fusini mette in calce alle tradizioni è preziosissimo. Ho mescolato in questo caso due citazioni da lettere diverse, ma si può dire che in ognuna di queste missive, Stevens ritorna più volte sullo stesso argomento precisandolo sempre di più.  

49 Op. cit. pag 154 nota 22

50 Ivi.

51 L’espressione è usata da Nadia Fusini nella sua introduzione alle Aurore d’autunno, Adelphi, Milano 2012, pag 42. Fusini ricorda l’assonanza con un’analoga espressione usata da Kafka.

MASCHIO NON PIÙ GUERRIERO? UNA PICCOLA O GRANDE SPERANZA

Elogio della diserzione

Premessa

Finalmente, il Manifesto ha rotto il silenzio della stampa mainstream e delle televisioni italiane sulle diserzioni di massa sia in Ucraina sia in Russia: prima di questo articolo era stato il quotidiano Avvenire a sollevare il problema e durante lo scorso anno molte iniziative si sono tenute in Italia a sostegno dei pacifisti russi e ucraini. Ne ricordo due di cui una si è tenuta presso il CIQ a Milano; sempre nel silenzio dei media.  L’articolo dal titolo:  

I PACIFISTI RUSSI E UCRAINI NON FANNO NOTIZIA!

è stato poi ripreso in facebook dal sito Il cuore a Sinistra e sta finalmente girando. Naturalmente è una goccia nel mare dell’informazione inquinata, se guardiamo tutto dal punto di vista dei signori della guerra italiani e dei loro pifferai, ma se lo guardiamo dal lato delle cifre imponenti del fenomeno, i numeri fanno di certo paura ai guerrafondai e il loro silenzio è anche di paura. Certo, in occidente, hanno già provveduto da tempo a smantellare gli eserciti di massa e puntare tutto sui guerrieri di professione, ma quanto sta accadendo ha una grande importanza. La guerra comincia a non attirare più come un tempo? Gli uomini cominciano a sottrarsi? In ogni caso, il fenomeno non è soltanto uno spontaneo moto di ribellione. Ecco qui di seguito l’introduzione riportata in Il cuore a sinistra e le indicazioni di tutti i link per avere maggiori informazioni 

Di renitenti alla leva e disertori si continua ben comprensibilmente a riferire con la massima circospezione nelle cronache belliche del nostro Paese.

Tuttavia, ‘The Economist’ e altre testate di rilievo internazionale, anche polacche e tedesche, seguitano a pubblicare inchieste su un argomento sgradito in Occidente.

Il fenomeno è diffuso tanto in Russia quanto in Ucraina: https://m.facebook.com/groups/248463850589095/permalink/648036947298448/.

Il ‘Bild’, primo quotidiano per diffusione in Europa, riporta i dati del Ministero dell’Interno tedesco: “163.287 ucraini maschi e normodotati” hanno riparato in Germania dall’inizio del conflitto allo scorso marzo.

Analogamente il quotidiano polacco ‘Rzeczpospolita’ riferisce che nello stesso periodo 80mila giovani idonei alla leva si sono trasferiti nel Paese senza far ritorno in patria.

Numeri alti, se rapportati alla politica di Zelensky incentrata sul patriottismo militarista.

Andrea Sceresini, giovane e audace giornalista di guerra, ne dà conto su ‘Il Manifesto’ di ieri.

#Russia

#Ucraina

#renitentiallaguerra

Fin qui l’articolo e i link. Che riflessione possiamo trarne? A parte la necessità di solidarizzare sempre e in tutte le forme possibili con i disertori di entrambe le parti, il problema maggiore è come aggirare il silenzio dei media e allora ricostruire le ragioni per cui l’industria della armi e della guerra è così fiorente in Italia può aiutare a comprendere meglio perché tale unanimità. La prima riflessione riguarda l’assetto industriale italiano. Le eccellenze sono poche, ma per quel che riguarda questa riflessione solo una è veramente interessante e cioè Finmeccanica che oggi si chiama Leonardo. Si tratta di un’azienda di punta nel settore della ricerca spaziale e degli armamenti. I dati sono impressionanti e la sintesi che ne segue incrocia quelli riportati da diversi siti reperibili facilmente in rete:

Leonardo scala posizioni nella classifica mondiale delle vendite di armi redatta dall’istituto indipendente svedese Sipri. Secondo i dati raccolti dall’istituto da fonti aperte, il gruppo italiano ha realizzato vendite per circa 13,9 miliardi nel 2021 con un incremento del 18% sull’anno precedente.

Subito dopo il varo del governo Meloni ci sono state diverse inchieste sul confitto di interessi del ministro della difesa Crosetto. Anche in questo caso riporto una sintesi basta su fonti diverse e facilmente reperibili:

Crosetto, … a proseguire la sua carriera di manager ed imprenditore, viene nominato, proprio nel 2014, Presidente di AIAD (federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), la quale è membro di Confindustria. Inoltre, nel 2020, Crosetto è stato nominato Presidente del Cda di Orizzonte sistemi navali, una società controllata da Fincantieri e Leonardo.

Tutto vero, ma dopo un momento di effervescenza, su Crosetto è caduta una relativa sordina. In sostanza anche chi ha sollevato il problema non se l’è sentita di domandarsi come mai alcune vistose figure in quota Pd  sono diventate negli anni, in tempi diversi, uomini di punta della Leonardo-Finmeccanica. E’ il caso di Gianni De Gennaro che è stato promosso nel ruolo di Presidente di Finmeccanica dopo i fatti di  Genova nel 2001 e culminati con l’assassinio di Carlo Giuliani e il massacro alla scuola Diaz. Ma è anche il caso ancora più spettacolare quello di Marco Minniti: dopo avere firmato, come Ministro degli interni, gli accordi anti migranti con le bande criminali libiche e avere fatto di tutto per screditare  Mimmo Lucano, è stato promosso a un nuovo incarico per Leonardo.

La sintesi è piuttosto facile da trarre. Il partito della guerra in Italia è un bipartizan e abbarbicato all’unica industria che tira in un paese che ha cessato da decenni di avere una politica industriale. Questo spiega i silenzi e le complicità, le omertà mafiose e la vergogna come l’ultima in ordine di tempo compiuta a Milano dal sindaco Sala: autorizzare una mostra indecente sui nazisti del battaglione Azov ucraino. Anche per questo le centinaia di migliaia di disertori dall’una e dall’altra parte sono fra le poche buone notizie del momento.     

Il disertore

WALLACE STEVENS: DAL GIARDINO INCANTATO AI DUE LEONI

Blue Guitar

Sunday morning (Mattino domenicale) è l’opera più simbolista scritta da Stevens. ll poemetto è del 1923 ed è diviso in otto brevi sezioni. Il setting è un giardino nel quale una dama medita solitaria una domenica mattina:

Complacencies of the peignoir, and late/ Coffee and oranges in a sunny chair,/And the green freedom of a cockatoo/Upon a rug mingle to dissipate/The holy hush of ancient sacrifice/.

(Lusinghe di vestaglia, ad ora tarda/ Caffè ed arance sulla sedia al sole,/La verde libertà di un pappagallo,/Su un tappeto si fondono a disperdere/Silenzi d’un arcaico sacrificio.) 14

Rispetto allo scenario di Wordsworth, il giardino di Stevens è il luogo di una natura addomesticata ed elegante, che si manifesta anche nella presenza di un pappagallo, un animale esotico, ma anche imprigionato. Il gioco dei rimandi simbolici è raffinato, la dama dovrebbe recarsi a messa come vuole la sua tradizione religiosa, ma preferisce una meditazione solitaria, mentre il richiamo della divinità è lontano, non più in grado di muovere passioni. Nelle sezioni successive Stevens rivisita i diversi aspetti del tema. È un excursus che va dal dio cristiano agli dei precedenti del Pantheon occidentale, dentro una partitura testuale densa, con rime interne raffinate, nel metro più classico della poesia inglese, il blank verse. Gli echi e in particolare quello di Wordsworth sono presenti in più di un testo ma in particolare nella parte conclusiva della quinta sezione:

…/She makes the willow shiver in the sun/For maidens who were wont to sit and gaze/Upon the grass, relinquished to their feet./She causes boys to pile new plums and pears/On disregarded plate. The maidens taste/And stray impassioned in the littering leaves.

(/Ma essa fa tremare al sole il salice/Per le fanciulle avvezze a contemplare/I prati abbandonati ai loro piedi./Essa fa sì che ammucchino i ragazzi/pere e susine sui vassoi. Gustandone,/fra vie di foglie assorte errano le vergini./) 15 

Nelle sette sezioni del poema è riflesso anche il tema biblico dei sette giorni della creazione, se non che Stevens aggiunge un’ottava e ultima sezione, con la quale imprime una svolta al suo pensiero poetante. Usando un procedimento che Stevens medesimo ha definito decreativo 16, egli spezza la catena simbolica, sottrae gli oggetti al disegno interpretativo dato fino a quel momento e li restituisce nella loro nuda realtà all’occhio e all’orecchio del lettore; non al nulla dunque, ma all’increato, cioè alla loro sostanza come elementi, fisici o meno, che vengono liberati dalla catena simbolica entro la quale erano stati inscritti, anche dalla tradizione letteraria. Data la sua importanza riprodurrò la sezione ottava per intero:

/She hear, upon the water without sound,/A voice that cries: “The tomb in Palestine/is not the porch of spirit lingering./It is the grave of Jesus where he  lay”. We live in an  the old chaos of the sun,/Or old dependency of day and night,/Or island solitude, unsponsored and free,/of that wide water, inescapable./Deer walk upon our mountain, and the quail/Whistle about us their spontaneous cries;/Sweet berries ripened in the wilderness;/And, in the isolation of the sky,/At evening, causal flocks of pigeons make/Ambiguous undulations as they sink,/Downward to darkness, on extended wings./

(/Essa ode sull’acqua senza suono/Una voce che dice: “In Palestina/luogo non v’è d’indugio per gli spiriti,/Ma solo per la tomba di Gesù”./O sole, noi viviamo nel tuo caos, /Nel vincolo del giorno e della notte,/In un’isola libera e deserta,/Orfana in un oceano senza scampo./Sui nostri monti vanno i daini, e il fischio/Delle quaglie spontaneo ci risponde./Dolci bacche maturano nei boschi,/Passano rari stormi di colombi,/Che ambiguamente oscillano su tese/Ali quando sprofondano nel buio./) 17

Stevens è giunto al limite estremo della parabola simbolista, ma con questa sezione  si congeda da quella poetica e da questo momento la sua meditazione riprende per approdare a esiti diversi. Il mondo nel quale Stevens ci porta con l’ultima sezione del poema è un mondo irreligioso e di misteriosa bellezza. Il sole, il giorno e la notte ritrovano il loro significato originario, scandiscono i tempi del vivere, legano l’umano a una radice primordiale che preesiste all’umano, ma liberi anche dalla catena simbolico-religiosa costruita intorno ad essi. Il sole assume un ruolo fondamentale nella settima sezione:

Supple and turbulent, a ring of men/Shall chant in orgy on a summer morn/Their boisterous devotion to the sun,/Not as a god, but a god might be,/naked among them , like a savage source./

(… Un mattino d’estate agile e fiera, Un’orgiastica ronda di creature/canterà al sole inni di fedeltà:/Non un iddio, ma degno d’esser dio/nudo fra loro come una sorgiva …/) 18

Questo vero e proprio inno al sole, che ha evidenti tratti pagani, assume una notevole importanza nell’ultima sezione considerata in precedenza, perché apre le porte a un mondo irreligioso. Al Cristianesimo della croce, egli contrappone la vitalità dei riti pagani precedenti e ancora una volta in questa danza orgiastica di uomini e fenomeni naturali, non ritroviamo affatto Keats, ma ancora una volta Wordsworth, seppure in un contesto completamente diverso. Il romantico inglese, a differenza di Stevens, non rompeva la catena simbolica che per lui era la tradizione protestante inglese, ma celebrava la natura per contrapporla alla nascente società industriale. Per Stevens l’approdo a questo mondo irreligioso sembra qui definitivo anche se vedremo successivamente che le cose sono più complesse. Le immagini di una natura splendente, ma non titanica come era in Wordsworth, il ritorno a elementi così primari del vivere in senso puramente fisico (il sole, la notte, il giorno), sono l’avvio di un percorso del tutto nuovo, che emergerà nel tempo, costruendosi passo dopo passo.19 Quella che viene sicuramente abbandonata con quest’opera, è la poetica simbolista e anche quel rischio di estetismo che il simbolismo porta sempre con sé. Tale abbandono coincide, per Stevens, con un cambiamento radicale di prospettiva: è la poesia stessa a divenire oggetto della sua poesia e con essa l’immaginazione. Cosa sono entrambe? E quale rapporto hanno con la realtà?

La prima realizzazione matura in un testo poetico della meditazione stevensiana intorno al rapporto fra realtà e immaginazione si trova nel poemetto The man and the blue guitar (L’uomo e la chitarra azzurra), pubblicato nel 1937, ma già in Peter Quincy at the clavier, (1915), si era cimentato con il tema. La prima sezione del poemetto contiene un verso che diventerà celebre nel tempo e costituirà una specie di icona: le cose come sono.

The man bent over his guitar,/A shearsmen of sorts. The day was green.//They said: “You have a blue guitar,/ you do not play things as they are”.//The man replied: “Things as they are/ are changed upon the blue guitar.//And they said again:”But play, you must,/A tune beyond us, yet ourselves,//A tune upon the blue guitar/Of things exactly as they are.”/

(/L’uomo chinato sulla sua chitarra/Nella verde giornata. Forse un sarto.//Gli dissero:“Sulla chitarra azzurra /Tu non suoni le cose come sono.”//Egli disse: “Le cose come sono/Si cambiano sulla chitarra azzurra.”//Risposero:“Ma tu devi suonare/un’aria che sia noi e ci trascenda,//Un’aria sopra la chitarra azzurra/Delle cose così come esse sono.) 20

Questo primo testo si rifà alla lirica Introduzione che apre I canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake. La scena ha qualcosa di analogo ma la diversa scelta dei personaggi è assai interessante. Blake immagina un suonatore di piffero cui appare una figura angelica e cioè un bimbo su una nuvola che gli rivolge un invito: Suona una canzone dell’Agnello!. La scena è agreste come si evince facilmente dal testo, il suonatore stesso potrebbe essere un pastore. Il pifferaio accoglie l’invito ma successivamente il bimbo gli consiglia di fare di quelle canzoni un libro. Il suonatore allora abbandona lo strumento musicale e:

…And I pluck’d a hollow reed,//And I made a rural pen,/And I stain’d the water clear ,/And I wrote my happy songs,/Every child may joy to hear.!!

(Ed io staccai una canna vuota,/E ne feci una penna agreste/E macchia la limpida acqua/E scrissi le mie canzoni felici/Che ogni bimbo può sentire con gioia./21

Nella poesia di Stevens abbiamo un sarto, dunque un artigiano. In entrambi i casi abbiamo a che fare con persone semplici e con le cose come sono, cioè l’icona di una realtà persino modesta, ma che la chitarra azzurra però deve cambiare. Il tema viene svolto in diversi modi nelle sezioni successive con alcune parole chiave che si ripetono, finché non arriviamo a un primo snodo che ci riporta anche ai motivi che avevano ispirato Mattino domenicale e che ritroviamo proprio nei versi conclusivi della quinta  sezione:

Exceeding music must take the place/Of empty heaven and its hymns,/Ourselves in poetry must take that place,/even in the chattering of your guitar./

(La musica trascende e tiene luogo/Del cielo vuoto e dei suoi inni. Il loro//Posto prendiamo noi nella poesia,/E nelle ciarle della tua chitarra.) 22

La musica è metafora della poesia e prende il posto degli inni religiosi rivolti a un cielo ormai vuoto di dei. Nella dodicesima sezione, il suonatore si rivolge al suo pubblico in questi termini:

Tom-tom, c’est moi. The blue guitar/ and I are one. The orchestra //fills the high wall with shuffling men/High as the hall. The whirling noise/ of a multitude dwindles, all said,/To his breath that lies awake at night./…

(Tom-tom, c’est moi. Io e la chitarra azzurra/ siamo una cosa unica. L’orchestra// Riempie l’aula di gente scalpicciante, /Alta fino al soffitto. Il vorticoso// Clamore d’una turba si riduce/Solo a un alito vigile di notte.) 23

Qual è l’elemento sorprendente di questi versi che peraltro continua a ritornare? È l’azzurro, che non siamo abituati ad associare all’oggetto in questione e cioè una chitarra: ma siamo proprio sicuri che Stevens alluda al colore dello strumento fisico e non invece a qualcos’altro? I versi successivi, il primo distico ci danno una risposta quasi ovvia: è la musica ciò cui il poeta allude e l’azzurro24 esprime una qualità dell’oggetto che lo trascende e lo trasfigura pur non potendo prescinderne. La trascendenza cui porta la musica, tuttavia, non ha nulla di metafisico, non porta ai cieli vuoti. Tuttavia nella sezione di cui sopra è avvenuta anche una piccola metamorfosi perché il suonatore e l’oggetto chitarra sono diventati una cosa sola. Il sarto della prima sezione, cioè l’immagine dell’uomo comune nella sua semplicità, è diventato altro perché ha incorporato in sé lo strumento e la sua musica; anche lui si è colorato d’azzurro pur rimanendo un uomo semplice. Nella diciannovesima sezione del poemetto, troviamo un primo momento di sintesi, dove Stevens paragona realtà e immaginazione a due leoni:

/That I may reduce the monster to/Myself, and then may be myself// In face of the monster, be more than part/Of it, more than the monstrous player of// One of his monstrous lutes, not be/Alone, but reduce the monster and be,// Two things, the two together as one,/ And play of the monster and of myself,//Or better not as myself at all,/But of that as its intelligence,//Being the lion in the lute/Before the lion locked in stone./

(Oh ch’io possa ridurre il mostro a me/ Medesimo, e poi essere me stesso// Di fronte al mostro, più che una sua parte,/O più che il mostruoso suonatore// D’uno dei liuti mostruosi; solo// Non rimanere, ma trionfarne e farsi// Due cose, le due insieme come una,/ E suonare del mostro e di me stesso,// O meglio non di me ma sol di lui,/Della sua mostruosa intelligenza,// Ed il leone essere del liuto, Di fronte a quello chiuso nella pietra.) 25

La poesia nasce dunque da una tensione mai risolta fra realtà e immaginazione e dunque la scelta di due leoni implica l’impossibilità dell’uno di vincere in modo definitivo sull’altro. Se l’esercizio della facoltà immaginativa fosse inconsapevole della forza degli ostacoli con cui deve misurarsi, per il poeta statunitense finirebbe per dare vita a pure fantasticherie; soltanto cimentandosi con la durezza della realtà, con il suo peso, la sua impenetrabilità, essa si affina diventando il leone del liuto. D’altro canto se i poeti cedessero al peso di una realtà greve, la poesia perderebbe la propria prerogativa, diventando essa stessa prosa del mondo. La sfida consiste proprio nel sapere infondere il soffio vitale anche nella materia più dura e a questo proposito, come non ricordare l’opera che Gaston Bachelard dedica proprio all’elemento terra e alla forgia che ne doma la durezza?26

Per riuscire in questo intento, tuttavia, il poeta stesso deve trasfigurarsi (a questo allude Stevens quando definisce mostruoso il suonatore), cioè andare oltre il proprio io ed entrare in un diverso stato di coscienza. Nella sezione ventiduesima, il poeta torna alla poesia con un testo che si può considerare una prima e compiuta dichiarazione di poetica in versi, cui ne seguiranno altre:

Poetry is the subject of the poem,/From this the issue and//To this returns. Between the two,/Between issue and return, there is //An absence in reality,/Things as they are. Or so we say//But are these separate? Is it/An absence for the poems, which acquires//Its true appearances there, sun’s green/Cloud’s red earth feeling, sky that thinks//From these it takes. Perhaps it gives, /In the universal intercorse./

(La poesia è il tema del poema./Da ciò il poema ha origine ed a ciò//Fa ritorno. Fra questi due estremi,/fra origine e ritorno,//C’è un’assenza in realtà,/Le cose come sono .O così pare.//Ma sono i due distinti? Ed è l’assenza/Che al poema dà le vere parvenze//Verde il sole, porpora di nuvola,/Terra che sente, cielo che riflette.//Da questi prende. E forse anche ne rende/In universa reciprocità//27

Come affermavo più sopra i due leoni sono una prima incarnazione in figure che si trasformeranno in altre con un andamento metamorfico incessante. Stevens le mette in scena ritornando sempre alle sue tematiche, ma introducendo di volta in volta un elemento in più: non è la coazione a ripetere che lo spinge a ritornare sugli stessi luoghi topici, ma un processo incessante di chiarificazione e anche di rarefazione e di decreazione come abbiamo già visto. Inseguire tutte le figure è quasi impossibile e non è di certo il mio intento; solo soffermarmi su alcune di esse e arrivare all’ultima, quella dell’Angelo Necessario della terra che chiude le Aurore d’autunno.

Nella sezione trentaduesima del poemetto L’uomo e la chitarra azzurra, ritroviamo di nuovo assonanze che ci riportano a Blake, per introdurre un nuovo elemento che sarà ulteriormente elaborato nelle opere successive:

Throw away the lights, the  definitions,/And say of what you see in the dark//That it is this or that it is that,/But do not use the rotten names.//How should you walk in that space and know/Nothing of the madness of space,//Nothing of its jocular procreations?/Throw the lights away. Nothing must stand///Between you and the shapes you take//When the crust of shape Has been destroyed.//You as you are? You are yourself. /The blue guitar surprises you.//28

(Getta via le formule, le lampade,/E dì ciò che tu scorgi nelle tenebre//Dì che è questo o che è quello,/Senza usare i vocaboli corrotti./Come potrai avanzare in quello spazio,/Se dello spazio ignori la follia,//Se ignori le allegre procreazioni?/Getta via le tue lampade. E che nulla//stia tra te e le parvenze che tu assumi Quando alle cose si rompe la crosta.//Tu come sei? Tu sei te stesso./Ma ti sorprende la chitarra azzurra.//

Le parole corrotte sono quelle di una realtà fine a se stessa e misura di tutto, non colorata dall’immaginazione, ma sono anche il peso della storia. In Blake tale perorazione che abbiamo visto nell’Introduzione alle Canzoni, assume un tono spiccatamente religioso con la metafora dell’Agnello, ma l’invito a usare parole semplici, alla penna rurale rimane in Stevens in un’altra forma e cioè nella necessità da parte del linguaggio poetico di stare il più possibile vicino alle cose come sono nella loro semplicità.

Il giardino incantato

14 Wallace Stevens, Mattino domenicale, a cura di Renato Poggioli, con testo a fronte e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino 1988, prima pagina.   

15 Op.cit. pp.12-13. In questa parte del testo si ritrova l’eco di una delle più celebri poesie di Wordsworth, The solitary reaper (la mietitrice solitaria).

16 Su questo termine e il suo uso è necessario qualche chiarimento. In un saggio che fu pubblicato insieme ad altri nel 1951, Stevens usa questo termine citando Simone Weil, ma equivocando il senso del termine da lei usato. Nel contesto di cui sopra, il termine da me usato indica semplicemente un modo di procedere della poesia di Stevens. In ogni caso anch’egli ci ha dato la sua definizione di ‘decreazione’ nel saggio dal titolo I rapporti tra la poesia e la pittura: “Decreare significa passare da ciò che è creato a ciò che non lo è mentre distruggere è passare da ciò che è creato al nulla. In Wallace Stevens, l’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore Milano 1988, pag.247.

17 Op. cit. pp18-19.

18 Op.cit. pp-16-17

19 Il sole ritornerà spesso nella poesia di Stevens. Il critico che si è maggiormente occupato di questo aspetto è Harold Bloom nell’opera The poems of our climate.

20 Wallace Stevens L’uomo e la chitarra azzurra, in Mattino domenicale  e altre poesie, a cura di Renato Poggioli e nota critica di Guido Carboni, Einaudi Torino, 1988 pp.50-1. Parlando di questo poemetto il curatore indica nella pittura di Picasso uno dei motivi ispiratori e ricorda come la prima edizione dell’opera portasse in copertina proprio una chitarra azzurra, che ricorda il periodo blu dell’opera picassiana; del resto, il rapporto con la pittura è costante nell’opera di Stevens, sebbene nel caso specifico il poeta si mostri prudente nell’indicare un quadro preciso del grande pittore spagnolo come fonte della sua ispirazione.

21 William Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, Introduzione. Il testo si trova facilmente in rete, La traduzione è mia.

22 Op. cit. pag. 37

23 Op. cit. pp.50. Questo capitolo è la riproduzione quasi integrale di un saggio dal titolo L’angelo della terra, pubblicato sulla rivista Fare anima, diretta da Gabriella Galzio, nel 2001.

24 Fra l’altro il colore azzurro è associato all’infinito.

25 Op. cit. pp. 60-1

26 Gaston Bacheard: La terra e le forze. Le immagini della volontà, Red edizioni, collana a cura di Cludio Risè, traduzione di Anna Chiara Peduzzi e Mariella Citterio. La relazione fra le intuizioni di Bachelard, la sua filosofia e la poesia di Stevens è stata considerata sia da Bloom sia da altri critici ed è una problematica essenziale per l’interpretazione filosofica che si può dare della poesia del poeta di Hartford.

27 Op.cit. pp. 70-1

28 Op. cit. pp.90-1.

WALLACE STEVENS: UNA GIARA NEL TENNESSEE

Al confine nord del Tennessee

In questa seconda parte del saggio viene preso in considerazione un testo degli esordi, spesso trascurato.  

Perché Stevens è così decentrato rispetto alla temperie del suo tempo? È bene ritornare a un testo pubblicato nel 1919 dalla rivista Poetry e intitolato Anecdote of the jar.

I placed a jar in Tennessee

And round it was upon a hill

It made the slovenly wilderness

Sorround the hill.

The wilderness rose up to it,

And sprawled around no longer wild.

The jar was round upon the ground

And tall and of port in air.

It took dominion everywhere

The jar was grey and bare.

It did not give of bird and bush,

Like nothing else in Tennessee.

———–

Posai una giara nel Tennessee,

Ed era tonda sopra un colle.

Obbligò la sciatta selva

A circondare il colle.

La selva sorse alla sua altezza,

attorno adagiata non più selvaggia,.

La giara era tonda sulla terra

E alta e ben portante in aria.

Prese a dominare tutto.

La giara era grigia e spoglia.

Non sapeva di cespo o uccello,

come nient’altro nel Tennessee.4

Il tema di questo componimento verte su uno dei tanti contrasti latenti intorno ai quali ruota e medita la poesia di Stevens: ordine e caos, oppure natura selvaggia ed elemento umano. Non è difficile trovare i termini che si contrappongono nel testo: jar e wilderness. Tuttavia, se di guarda meglio la varietà di significati possibili di queste parole, cominciano a delinearsi alcune sorprese.

Se si sta al dizionario, il termine natura sfiora ma non tocca direttamente la parola wilderness: è l’aggettivo sostantivato wild che ha una precisa curvatura naturalistica, mentre wilderness è un vocabolo più concreto che definisce il territorio selvaggio, disabitato, non coltivato. Il vocabolo è assai meno evocativo e più comune, intermedio, quasi prosaico e adatto a formare una coppia asimmetrica con jar: una giara, infatti, non è l’opposto simmetrico dello spazio incolto. La curvatura che assume la parola wilderness si precisa ancor meglio se si guarda all’aggettivo con cui essa è accoppiata nella seconda strofa: slovenly. Apparentemente si tratta di un’inutile ripetizione dal momento che la parola significa sciatto, trasandato e solo in terza istanza disordinato. Slovenly, invece, serve a Stevens per avvicinare sempre più la parola wilderness al suo terzo significato, quello di landa desolata. Priva dell’elemento umano? L’umano aleggia eccome in questa poesia ma vedremo in che modo. Stevens sembra sì alludere a ordine e caos, ma lo fa in modo così obliquo da far pensare che ci sia altro sotto traccia. Infatti, se si torna alla parola jar scopriamo che non ha solo il significato che sembra ovvio, tanto che quasi tutte le traduzioni insistono nel tradurre il termine con la parola italiana barattolo a volte aggiungendo per maggiore precisione di vetro. La parola inglese jar infatti è anche un termine onomatopeico che significa suono stridente e disarmonico, dissonante, come quello fatto da un oggetto che viene sfregato contro qualcosa. Stevens, sfruttando a fondo la molteplicità di significati dei sostantivi inglesi, mette qui in scena una complessità di senso molto elevata. L’elemento umano rappresentato dalla giara non sembra portare ordine, bensì una disarmonia, un suono stridente, mirabilmente coerente, peraltro, con le scelte lessicali compiute dal poeta e che m’inducono anche a preferire di gran lunga la traduzione del termine jar con giara, il solo che in italiano possa dare l’idea di un suono stridente. Prendiamo infatti il primo verso: I placed a jar in Tennessee seguito nel secondo verso dalla parola wilderness: il ruolo delle sibilanti evoca certamente il frusciare di alberi, il vento, o anche il silenzio della natura incontaminata, mentre la parola jar spezza l’armonia con un suono, appunto, dissonante e stridente.

Ritorniamo ora all’inizio di questa lirica. L’uso del simple past (passato remoto) e del soggetto I, danno un tono solenne ma anche misterioso alla poesia. Il simple past è il tempo della narrazione mitica: e chi è poi questo misterioso Io che ha posto la giara nel Tennessee? Se la scelta verbale ci proietta nel tempo astorico della favola, del racconto orale, questo andamento solenne contrasta con il titolo ed anche con l’oggetto concreto della visione. Anecdote è una parola prosaica la cui traduzione è scontata, mentre dal canto suo giara non è un oggetto qualunque e astorico, non è un prodotto metafisico della civiltà o del lavoro umano astratto: si tratta di un manufatto. La tensione fra il tempo verbale e l’oggetto concreto della visione è massima. L’oggetto della visione, è sopra una collina circondato dalla landa desolata; ciò che mette in fuga wilderness è proprio jar, l’elemento umano. Nel ritrarsi della wilderness c’è qualcosa di sinistro, sembra una fuga disordinata ed infatti l’inizio dell’ultima quartina lo testimonia: It took dominion everywhere. La giara prese il potere ovunque! Qui Stevens usa un’espressione che ricalca il linguaggio politico, ma che incarna anche l’idea di un’azione di forza. Facciamo un passo indietro. La conclusione della seconda quartina suona così: The jar was round upon the ground/ And tall and of a port in air. La ripetizione con rima interna è un richiamo martellante, evoca una presenza sinistra, prepara l’ultima quartina preannunciando il dominio della giara, ben saldo sulla terra ma anche in alto. Si trova lì perché la collina è alta o per qualche altra ragione? All’inizio non vi è dubbio che  si trovi sulla cima di una collina, ma ora esso è in alto anche perché domina. E come se non bastasse port e portly sono un segnale di arroganza: port è la persona che si gonfia il petto ma anche la sentinella militare che guarda il territorio. Le giare si sono moltiplicate: è una collina di giare ciò che Stevens vede!

Continuiamo: The jar was grey and bare (la giara era grigia e spoglia) scrive il poeta. L’aggettivo bare può sembrare a prima vista una scelta gratuita associata ad una giara, dal momento che esso è usato per costruire fruste metafore autunnali. Se però lo poniamo in connessione con l’aggettivo slovenly precedentemente accoppiato a wilderness ci rendiamo conto che Stevens ha costruito una similitudine interna al testo: la landa è desolata rispetto alla natura tanto quanto la giara lo è nei confronti dell’umano.

Jar non porta ordine, ma una desolazione di tipo diverso, creata dall’essere umano. L’ordine è solo una maschera perché jar did not give of bird and bush (la giara non ha nulla a che vedere con il cespuglio e con l’uccello. Essa non domina solo sulla landa desolata ma anche sulla natura che si ordina da sé. Siamo all’epilogo. Così come il viaggio testuale era iniziato con un ritorno indietro imprecisato nel tempo mitico della narrazione e in quello storico della nascita del manufatto, Stevens lo chiude con un bruciante ritorno al qui e ora cioè al presente del Tennessee e vi torna con un finale enigmatico che rilancia tutta la questione. Egli infatti non vede solo il presente e cioè che nulla più della giara è oggi più estraneo al Tennessee, ma anche il futuro, allorché più nulla avrà a che fare con bird e bush, cioè con la natura incontaminata. La sua poesia vive nel mezzo, corre da un punto all’altro del tempo che lega insieme mito e aneddoto, storia e cronaca, presente, passato e futuro. La poesia non si ferma su alcuno di questi punti ma li ripercorre tutti e li fa risuonare ma in modo dissonante. È la disarmonia e non l’ordine il tema di questa lirica, una disarmonia intervenuta nel rapporto fra l’umano ed il suo ambiente, oppure se si vuole fra natura e cultura; oppure ancora fra prima e seconda natura. L’io che campeggia in questo testo non è dunque lirico; in realtà è un noi, l’indicazione apparentemente impersonale di un soggetto collettivo che ha introdotto una disarmonia. Se questo è l’aneddoto che il poeta ci racconta qual è la scena maggiore? La disarmonia, la rottura di un equilibrio. La giara, è un manufatto, è un prodotto industriale.5

La parabola poetica di Stevens comincia da qui e lo porterà molto lontano. Alcuni critici hanno parlato dell’influenza di Keats su questa poesia, ma essa mi sembra superficiale, basata solo su qualche assonanza che potrebbe apparire come una citazione ironica dell’Ode sull’urna greca, sostituita appunto da una comunissima giara o da un ancor più comune barattolo. Inoltre è stato pure notato che l’anno di pubblicazione della poesia di Stevens (1919), viene proprio a cento anni dalla stesura delle grandi odi del poeta inglese.6  In Keats, tuttavia, il ritorno alla classicità è una fuga nel mondo passato, mentre – nel caso di Stevens – è alla prima generazione dei romantici che a mio avviso occorre guardare, a Wordsworth e a Coleridge (al primo dei due in particolare)  per i quali è viva, presente e operante (lo era stato in precedenza anche per Blake), la visione di uno shock provocato dalle trasformazioni nella società inglese del tempo e quindi una fervida attenzione al presente.7

La Prefazione alle Ballate liriche indica con chiarezza proprio questo proposito:

The subject is indeed important! For the human mind is capable of excitement without the application of gross and violent stimulants; and he must have a very faint perception of its beauty and dignity who does not know this, and who does not further know that one being is elevated above another in proportion as he possesses this capability… enlarge this capability is one of the best services in which, at any period, a Writer can be engaged; but this service, excellent at all times, is especially so at the present day.

Il soggetto, è davvero importante! Dal momento che la mente umana è capace di eccitarsi senza che siano necessari chissà quali e violenti stimolanti; e deve avere davvero una debole percezione della sua bellezza e dignità colui che non sa questo, e chi non si propone inoltre di sapere che un essere umano si eleva sopra un altro in proporzione a quanto possieda o meno tale capacità… allargare tale capacità è uno dei migliori servizi in cui un scrittore, in qualsiasi epoca, si debba sentire coinvolto: ma tale servizio, eccellente sempre, lo è specialmente nel tempo presente…

La ragione per cui Wordsworth e Coleridge pensano che tale compito sia quanto mai importante nell’Inghilterra del suo tempo, viene resa esplicita subito dopo:

For a multitude of causes unknown to former times are now acting with a combined force to blunt the discriminating powers of the mind,… to reduce it to a state of almost savage torpor. The most effective of these causes are the great national events which are daily taking place, and the encreasing accumulation of men in cities, where the uniformity of their occupations produces a craving for extraordinary incident which the rapid communication of intelligence hourly gratifies. To this tendency of life and manners the literature and theatrical exhibitions of the country have conformed themselves…

Per una serie di ragioni, sconosciute nelle epoche precedenti, agiscono sul presente forze che combinate insieme ottundono la capacità del discernimento della mente, … per ridurla a uno stato di torpore selvaggio. La parte più consistente di queste cause è costituita dagli eventi che avvengono a livello nazionale, la sempre crescente concentrazione di uomini nelle grandi città, dove l’uniformità del loro lavoro produce miseria … A tale tendenza tutte le rappresentazioni teatrali e letterarie si stanno uniformando.  8

La polemica diventa chiarissima in questo passaggio: la vita urbana e specialmente la vita industriale, la concentrazione nelle fabbriche e nei quartieri è vista come una minaccia e un corrompimento dei costumi. A tutto questo si oppone la semplicità della vita rurale come esempio, la natura in quanto suscitatrice di emozioni e non la natura matematizzata e geometrizzata della rivoluzione scientifica e della ratio illuminista. Tuttavia il poeta inglese e il suo sodale non hanno in mente un disegno di tipo aristocratico ma il contrario:  

La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”9

Siamo così lontani dagli esiti ultimi della poesia di Stevens, quando il poeta invoca la necessità di scrivere (cito a memoria) i poemi della terra e non del cielo inteso come paradiso, e di avvicinarsi alle cose come sono, nella loro semplicità? In una lettera a Henry Church, si esprimerà con una chiarezza ancora maggiore:

Caro Church … per me il gioiello inaccessibile è la vita ordinaria, la vita tutta e la poesia non è che la ricerca difficile di questo.10

La seconda generazione dei romantici inglesi (Keats, Shelley, Byron) aveva già indirizzato la propria poetica per altre e diverse strade, ma ugualmente cospiranti nel rompere la difficile unità d’intenti che Wordsworth e Coleridge cercarono di proporre nelle Lyrical Ballads: riforma del linguaggio poetico in senso popolare, critica della società industriale sul piano simbolico (L’ode all’antico marinaio), rifiuto della modernità. Tuttavia, già in Coleridge sono evidenti le scelte sempre più visionarie e rivolte all’interiorità, mentre Wordsworth espresse anche personalmente il suo rifiuto, barricandosi nella sua casa di campagna nel Lake Distritct, lontano da tutto e da tutti. L’eredità che la seconda generazione romantica raccolse andava ormai in tre direzioni diverse: il culto del passato classico come rifugio (Keats), la natura come fonte di meditazione intima e personale e dunque la rinuncia a vederne una sorta di contraltare al mondo industriale, nei confronti del quale opporre invece la critica sociale (Shelley), la riscoperta delle radici dei popoli europei e la passione politica e risorgimentale (Byron). In fondo, quella espressa dalla prima generazione dei romantici inglesi, fu l’ultima, estrema e vana resistenza alla modernità, ma Wordsworth e Coleridge ebbero l’enorme merito di rivoluzionare il linguaggio della poesia inglese e questo in definitiva fu il loro grande contributo:

“Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza.”11

Nella seconda generazione dei poeti romantici, la scissione fra individuo, natura e società è già compiuta e le diverse scelte dei tre esponenti maggiori lo dimostrano.12

Di lì a poco sarebbe esplosa in tutta Europa la stagione del realismo, ma i protagonisti sarebbero stati narratori, romanzieri, pittori, caricaturisti e musicisti. La poesia inglese si sarebbe sempre più ritirata nella meditazione solitaria e nell’intimismo, che conosce le sue vette più alte con Tennyson; nell’Europa intera saranno Leopardi e Baudelaire ad aprire nuove strade alla poesia.

Stevens, in Anecdote of the jar, si trova più vicino alla prima generazione, ma più di cento anni dopo e in un contesto diverso. Come per Wordsworth e Coleridge, anche per lui nulla sarebbe stato come prima: gli Usa dei grandi spazi e dei grandi fiumi, della natura incontaminata e selvaggia, oppure dell’intimità domestica nel ranch e nelle praterie, erano già stati rappresentati da Whitman, da Dickinson, da Twain. La lezione del bardo americano per eccellenza è ben presente e operante in Stevens, così come nei testi più brevi è presente la eco di Emily Dickinson; ma la New York di Whitman non poteva più essere la sua. Se mai vi fu davvero un tempo dell’innocenza statunitense (c’è molto da dubitarne e lo si dovrebbe comunque domandare ai popoli nativi di quelle terre e ai neri statunitensi), esso era finito. Per questa ragione, Stevens sente le ragioni di  Wordsworth come una eco profonda, nel senso che vede analoghe trasformazioni in atto nella società statunitense. Ecco come affronterà questa problematica molti anni dopo in una conferenza. In essa, Stevens si confronta, come farà per tutta la sua vita di autore sulla relazione fra realtà e immaginazione. Parlando della prima e della vita statunitense, ecco cosa scrive:

… La realtà è data dalle cose così come sono … Dapprima abbiamo una realtà che viene data per scontata, latente e tutto sommato ignorata. È l’agiata vita americana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e del primo decennio dell’attuale. C’è poi una realtà che ha cessato di essere irrilevante, e questo si è avuto quando, una volta accantonati i vittoriani, le minoranze intellettuali e sociali hanno cominciato ad occupare il loro posto, trasformando la nostra vita in qualcosa di potenzialmente instabile. Di fronte a questa realtà, molto più vitale, quella precedente appare simile a un libro di litografie stampate da Rudolf Ackermann o a uno dei libri di schizzi svizzeri di Töpffer…

Il manufatto porta il marchio del lavoro industriale ma anche della modernità statunitense, rispetto al secolo precedente e ai primi dieci anni, ancora sognanti e immersi in quella che il poeta definisce come agiata vita americana. Nella collina delle giare del Tennessee s’intravede la potenza dell’industria che avanza, la modernità, le ciminiere delle fabbriche.

Nel modo di tornare a quel momento storico e alla moderna caduta, si palesa tuttavia da subito la differenza e la distanza che lo separano da Wordsworth. Se la natura rappresentata dal romantico inglese era un mondo splendente, lussureggiante, dai colori forti – come è pure nelle rappresentazioni di Whitman – una sorta di paradiso terrestre da contrapporre come un Titano al grigio e orrido mondo della produzione industriale – la natura di Stevens può essere anche una wilderness, oppure il giardino elegante, ma immobile e incantato, di Sunday Morning.

Il poeta statunitense non ha bisogno d’immaginarsi il paradiso terrestre. La disarmonia può introdursi anche laddove il paesaggio è desolato pur essendo naturale: la disarmonia riguarda il rapporto fra l’umano e l’ambiente naturale e la società vittoriana precedente, ma la natura non deve essere per forza di straordinaria bellezza, può essere plain e cioè normale o addirittura piatta, un aggettivo che Stevens userà sempre più spesso. Ribadirà un concetto analogo anche in un altro dei saggio de L’Angelo necessario, dal titolo L’immaginazione come valore:

La generazione precedente alla nostra avrebbe detto che l’immaginazione era un aspetto del conflitto fra uomo e natura; oggi siamo più inclini a dire che si tratta di un aspetto del conflitto fra l’uomo e l’organizzazione sociale. 13

L’America agiata, forse un po’ sognata, era quella di una presunta innocenza, mentre quella attuale sta dentro i conflitti sociali della modernità. Stevens lo capisce molto di più di certi suoi critici, anche se non si può pretendere da lui che ne tragga tutte le conseguenze. L’organizzazione sociale e anche la guerra, oppure la storia, come vedremo meglio più avanti, sono per Stevens la pressione massima che la realtà esercita sugli individui e quindi l’ostacolo maggiore che l’immaginazione incontra per esercitare il suo diritto a stare nel mondo.


4 Wallace Stevens, Anectode of the Jar. In Harmonium, a cura di Massimo Bacigalupo, con testo a fronte, Einaudi Torino, 1994, pp. 98-9. Ho scelto questa edizione e la traduzione di Bacigalupo poiché ritengo, come viene spiegato nel testo, che la traduzione di jar con giara sia la più felice possibile.

5 Mi si potrebbe obiettare, a questo punto, che la parola barattolo, sarebbe stata più adatta come traduzione perché la giara infondo è più legata a un mondo ancora artigianale e preindustriale e a noi italiani, oltretutto, ricorda proprio un memorabile racconto di Pirandello, fortemente legato a quel mondo. Tuttavia, ritengo che il traduttore abbia privilegiato l’aspetto onomatopeico e abbia fatto bene, anche perché l’onomatopea non è un’eccezione nella poesia di Stevens. Nelle traduzioni, lo sappiamo, si perde sempre qualcosa, in particolare da una lingua che vede nell’estensione dei significati lessicali, più che non nelle strutture della frase – come è per esempio per la lingua tedesca – una delle sue caratteristiche più rilevanti.

6 Gert Buelens e Bart Eeckhout ne scrivono in un interessante saggio pubblicato sul numero 1 volume 34 di The Wallace Stevens Journal, primavera 2010. Nel saggio, che mette fra l’altro in evidenza l’influenza di William James sulle opere di Stevens, si sostiene che la giara del poeta di Hartford sarebbe un ironico contrappunto all’urna greca di Keats. Se anche così fosse, tuttavia, significherebbe che Stevens è del tutto alieno da quella fuga nel passato come rifugio che un poeta come Keats, di fronte ai diversi orrori o delusioni del suo tempo, ha cercato. Keats non era il solo e anche il suo viaggio a Roma e la sua morte nella città eterna lo dimostrano. Fu un’intera generazione di poeti che, per ragioni diverse, prese la via del Grand Tour e dell’Oriente. Si pensi a Goethe dopo il 1815 e il suo Divano Occidentale orientale.

7 I canti dell’innocenza e dell’esperienza furono la prima opera in cui, nella società inglese, si percepiva una frattura che sarebbe diventata sempre più acuta fra natura, cultura e società. L’idea stevensiana di caduta è più vicina alla sensibilità della prima generazione dei romantici inglesi, anche se ritengo eccessivo definire Stevens come l’ultimo dei romantici. Se mai, lo accomuna a Wordsworth l’appartenenza, almeno come punto di partenza, ai poeti della tradizione protestante. Ne scrive Massimo Bacigalupo nell’introduzione a L’angelo necessario Coliaeum editore, Milano 1988, pag.10.

8 La prefazione alle Ballate Liriche si trova on line in diversi siti britannici. Mi sono servito  della versione inglese di Wikimedia, ma ne esistono altre. Nelle citazioni che seguono riporterò solo la traduzione italiana, vista la facilità con cui si può attingere agli originali in inglese. A volte la traduzione è mia come in questo caso, altre volte tratta da siti italiani.

9 Questa parte della prefazione è tratta dal sito italiano La soffitta incantata, il mio mondo fra parole e sogni.

10Egli (il poeta ndr) ha perduto il mondo soprattutto perché i grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra … Questa citazione, ripetuta anche in altre forme, ricorre più volte in Stevens; nel caso specifico si trova in L’angelo necessario a cura di Massimo Bacigalupo traduzione di Gino Scatasta, Coliseum editore, Milano 1988, pag. 216. La seconda citazione è tratta dalla lettera 521, indirizzata appunto a Henry Church.

11 Anche questa citazione dalla Prefazione alle Ballate liriche è tratta dal sito italiano La soffitta incantata.

12 Sebbene il loro apporto non si discosti dai canoni indicati in precedenza, è utile riscoprire la poesia delle poete romantiche, molto seguite e del tutto integrate nei consessi letterari del tempo, ma poi dimenticate. Va dato merito all’editore italiano Carocci, di averle riscoperte alcuni anni fa e pubblicate con testo a fronte. Le loro opere cambiano qualcosa nelle gerarchie del valore, rispetto alla canonizzazione tradizionale?  Una risposta esaustiva è impossibile darla per la scarsità di studi anche da parte della critica letteraria nata in ambito femminista. Tuttavia, almeno una di loro e cioè Mary Blachford Thige (18772-1810), va posta nel Pantheon delle voci più originali di entrambe le generazioni. In: Antologia delle poetesse romantiche inglesi, a cura di Lilla Maria Crisafulli, in due volumi, Carocci editore, Roma 2003. 

13 Wallace Stevens, L’Angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, Coliseum, Milano 1988, pag. 101. La prima citazione è tratta dal saggio Il nobile cavaliere e il suono della parole. Esso fu letto all’università di Princeton durante un convegno dal titolo Il linguaggio della poesia, organizzato da Barbara Church.   Successivamente fu pubblicata nel 1942 per Princeton University Press.  La seconda si trova nello stesso libro ma in un saggio dal titolo L’immaginazione come valore, alla pag. 224.

WALLACE STEVENS: IL BARDO DELLA MENTE

Greenwich Village

Premessa

Lo studio che segue, dedicato al poeta statunitense Wallace Stevens, è il più lungo fra quelli già pubblicati in questo blog e dedicati a Marianne Moore e William Blake. A quello su Stevens seguirà infine il saggio su Eliot. Tutti insieme potrebbero formare un libro, ma essendo l’anglistica e l’americanistica italiane un mondo molto bloccato e inaccessibile a un outsider come me, ho deciso che non perderò ulteriore tempo nella ricerca inutile di un editore. Il saggio in questione, come i precedenti, può essere stampato da chi legge. Chiedo soltanto di essere citato qualora lo utilizziate per vostri scritti o riflessioni. Vista la lunghezza ho deciso di pubblicarlo per parti che saranno introdotte da una brevissima premessa come questa.   

    

Introduzione 

La fortuna di Wallace Stevens è cresciuta lentamente nel tempo. Schivo e aristocratico, egli mantenne rapporti cordiali, ma distaccati, con l’ambiente letterario e tale atteggiamento, in una società sovraesposta come quella statunitense, dove tutto tende a diventare spettacolo, fa di lui un raro esempio di mimetismo, seppure non così estremo come quello cui ricorsero i suoi contemporanei Jerome Salinger e Marianne Moore, con la quale il poeta intrattenne un interessante epistolario, rimasto per lungo tempo sconosciuto.

Quanto alla sua notorietà in Italia, dobbiamo considerare che vi è stato un asse privilegiato di lettura della poesia anglo-statunitense nel nostro paese, intorno al binomio Pound-Eliot. Tale coppia ha talmente dominato la scena che, per il pubblico che va oltre la cerchia degli specialisti, soltanto alcune altre opere si sono imposte; più qualche movimento letterario, ma per ragioni spesso estranee, almeno in parte, alla letteratura. È stato così per l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (anche per merito di Fabrizio De Andrè e di Fernanda Pivano), per la Beat Generation, per la letteratura afro-americana o per la coppia maledetta Silvia Plath-Anne Sexton. In un simile contesto non stupisce che poeti come Stevens e Moore, abbiano faticato a diventare visibili.

Le prime traduzioni di Stevens si trovano in antologie: nel 1949 in Poeti americani 1662-1945 di G. Baldini e in Poesia americana contemporanea di Carlo Izzo. Nel 1953, Renato Poggioli scrisse l’introduzione a Mattino domenicale che Einaudi avrebbe pubblicato l’anno successivo. Nello stesso libro, la nota critica di Guido Carboni costituisce un primo momento di riflessione sull’opera più simbolista scritta dal poeta. Tuttavia, pur importante, quel libro non suscitò un grande interesse e anche negli ambienti universitari italiani la sua opera rimase ai margini. I due maggiori critici italiani che si sono dedicati a lui, oltre ai già citati, sono Glauco Cambon e Massimo Bacigalupo, ma anche con loro si rimane all’interno di una cerchia ristretta di estimatori. Lo scenario cominciò a cambiare durante gli anni ’80, sia per Stevens, sia –  in misura minore – per Marianne Moore grazie alla pubblicazione da parte di Adelphi, per la traduzione e la cura di Lina Angioletti, della sua opera omnia. Di Stevens, nel 1987 uscivano le Note sulla finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, per Arsenale editrice. L’edizione comprende anche un saggio assai importante della curatrice. Tale svolta culminò con la pubblicazione nel 1992 di Aurore d’autunno, sempre a cura e traduzione di Nadia Fusini e, nel 1994, di Harmonium nella collana I Millenni di Einaudi, a cura di Massimo Bacigalupo.1

Successivamente a questo periodo fortunato, Stevens è ritornato in un relativo oblio. Nel 2014, tuttavia, è stata pubblicata da Adelphi una nuova edizione delle Aurore d’autunno, sempre a cura e traduzione di Nadia Fusini, contenente anche alcune preziose lettere, aforismi  e prese di posizione del poeta, tutte assai interessanti.

Uno dei grandi meriti di Stevens sta in questo: nel momento in cui l’inglese s’affermava sempre di più come lingua veicolare mondiale, subendo così un processo d’impoverimento sia nel restringimento del lessico, sia nella semplificazione delle strutture sintattiche, la sua lingua ampia e generosa ha dato un contributo fondamentale nel mantenerne la ricchezza, sottraendola a un destino di pura comunicazione: un merito analogo va riconosciuto a Marianne Moore e naturalmente a Eliot e a Pound.

L’importanza del poeta di Reading, tuttavia, travalica questo orizzonte. Se vi sono poeti importantissimi per la cultura e la lingua a cui appartengono e soltanto per quella, altri lo sono per un universo più ampio. Alcuni, pochissimi, riescono a superare tutti i confini e a imporsi come poeti trasversali alle lingue e alle culture. Stevens sta dentro questa esigua schiera e per rendersene conto basta scorrere l’indice del Wallace Stevens Journal, una meritoria impresa editoriale. L’interesse verso la sua poesia è vivissimo ovunque, la sua importanza – ancora relativamente poco cresciuta in senso verticale e cioè per numero di lettori – si è amplificata in senso orizzontale e nello spazio, tanto da coprire il mondo intero. Egli è uno dei pochissimi poeti del secolo scorso capaci di parlare a generazioni diverse e a latitudini così diverse. Per noi che apparteniamo non solo alla cultura italiana ma a quella occidentale in senso lato, la poesia di Stevens apre nuove prospettive, sia per la varietà di stili, metriche e figure retoriche di cui è pervasa, sia che si allarghi l’orizzonte fino ad abbracciare il valore conoscitivo e non soltanto estetico che la grande poesia possiede.

Sebbene l’appartenenza a un continente giovane come le Americhe non basti a spiegare la vastità degli orizzonti di Stevens, pur tuttavia essa ha il suo peso e lo si può riscontrare anche in altri autori, diversissimi da lui, ma che condividono con lui l’appartenenza a quel mondo di vasti spazi disabitati e popoli giovani. Jorge Luis Borges, parlando del rapporto con la tradizione, afferma che per un argentino essa coincide in un certo senso con la letteratura mondiale, non avendone una propria radicata in un lungo passato. Qualcosa di analogo lo afferma anche un altro poeta, assai diverso da Stevens: Derek Walcott. Ciò non significa negare le radici statunitensi di Stevens, che sono assai robuste, ma di vederle in un contesto in cui è normale per un americano (del nord come del sud), attingere ovunque quando si parla di tradizione: quello che muta è il modo in cui servirsene e Stevens, per esempio, lo fece in modo assai diverso rispetto a Pound e a Eliot.   

Un fiore di serra vagamente profumato

Wallace Stevens nasce nel 1879 a Reading in Pensylvania e cioè in quella parte degli Stati Uniti d’America più legata alle origini inglesi e in senso lato europee.

I suoi studi di legge sono regolari, si laurea ad Harvard ed esercita l’avvocatura a New York dal 1916. Nel 1919 si trasferisce ad Hartford dove trascorrerà l’intera vita, a parte qualche viaggio, e dove morirà nel 1955; quest’ultima città, insieme a New York è il suo vero habitat.

Il periodo newyorchese fu decisivo per la sua formazione, nonostante la brevità della permanenza. A New York, peraltro, Stevens sarà sempre di casa, perché Hartford si trova a poca distanza dalla metropoli e il poeta ha sempre apprezzato la preziosa opportunità di poter vivere in un’appartata cittadina di provincia, ma vicina alla rutilante frenesia newyorchese.

Fu nella città atlantica (che non dobbiamo considerare, come oggi noi la viviamo e cioè come la capitale dell’Occidente, ma solo come una grande metropoli statunitense), che egli entrò in contatto con il mondo artistico e con la sua prima grande passione: la pittura. Anche dopo averla abbandonata, Stevens si considerò sempre un poeta della vista, come dirà anche nelle sue lezioni di poetica e l’arte pittorica ha una parte rilevante in tutto il suo percorso.

A New York frequenta il Greenwich Village e si traveste da dandy ironico, incline a prendersi in giro. Entra in contatto con l’espressionismo, l’avanguardia e con quell’atmosfera da bohème un po’ inventata e importata dalla Francia. Fin dagli esordi la sua presenza nel mondo artistico sembra distratta, ma sufficientemente attenta da fargli comprendere che l’ambiente del Greenwich non risponde alle sue esigenze d’autore. Nello stesso tempo studia profondamente il teatro giapponese, manifestando da subito una curiosità che si spinge oltre i confini della cultura occidentale.

Come poeta esordisce tardi e su rivista: precisamente nel 1914 quando ha già 35 anni. La sua prima raccolta pubblicata è Harmonium, nel 1923; dopo di essa un lungo silenzio che verrà rotto nel 1936 con la pubblicazione di Ideas of order. Un’ultima data vorrei ricordare: il 1919, anno in cui pubblica sulla rivista Poetry un testo decisivo per comprendere da quale nucleo tematico e problematico prende avvio la sua poesia: Anecdote of the jar.

In quale contesto letterario e culturale esordisce il poeta Stevens?

Gli intellettuali statunitensi più in vista di quegli anni sembrano appartenere tutti a un’unica schiera: si sentono orfani dell’Inghilterra, dell’Europa intera o dell’Africa, se sono di colore. Tendenzialmente ripudiano tutti, in modi più o meno netti, le loro radici statunitensi: o perché le sentono già tradite (è il caso di Pound), oppure perché si sentono sradicati in una nazione che non possiede una storia e tanto meno una storia culturale. Quanto ai neri, mai entrati nell’American dream, molti di loro sognano di ritornare nelle terre d’origine: l’intellettuale e militante politico di colore più autorevole in quegli anni, Du Bois, pensa che il ritorno in Africa sia il destino naturale della popolazione di colore. Un episodio illuminante può chiarire quanto sto dicendo ben più che le mie stesse parole. Quando nel 1916, il Governo degli Usa scelse momentaneamente la neutralità piuttosto che entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra, Henry James rifiutò la nazionalità americana e optò per quella inglese. In sostanza, dopo ben oltre cento anni dalla proclamazione dell’Indipendenza, il più grande romanziere statunitense del suo tempo si sentiva più inglese che statunitense! James è solo la punta dell’iceberg: Eliot, nato nel Missouri, scelse l’Inghilterra come patria letteraria d’adozione e lì nasceranno i suoi capolavori a cominciare dalla Waste Land, pubblicata nel 1922. Insieme a lui Pound, con l’aspirazione a una poesia universale, poi Hemingway perennemente in fuga dagli Usa e forse anche da se stesso. Infine l’ossessione erotico sentimentale di Henry Miller, che lo portò nei bordelli di Parigi come si ritorna a una grande madre. Tornando al discorso precedente sulla tradizione, o meglio sulle tradizioni, questa schiera sembra perseguire piuttosto un ritorno anche fisico alle origini europee, una sorta di nomadismo sradicato, una versione planetaria del flaneur urbano.

Opposta alla schiera degli orfani ce n’era un’altra in formazione ma ancora silente. Sarebbe esplosa più tardi e il suo esponente di primo piano sarebbe stato William Carlos Williams. È la schiera dei nativi, che rivendicano, a differenza dei primi, la loro appartenenza alla cultura statunitense. I maggiori interpreti, a parte Williams, sono perlopiù romanzieri: William Faulkner, John Dos Passos, John Steinbeck. Molti di loro, e non è un caso, vengono dal sud, perché in fondo è proprio nella terra dei Confederati sconfitti che gli umori profondi della società americana si sono formati: fra schiavismo e scontri razziali, ma anche nella lontananza culturale da New York, da Washington e dallo stato federale. Alcuni film memorabili – a parte Via col vento – hanno rappresentato assai bene tali atmosfere.2

Da quel crogiolo nasceranno opere come l’Urlo e Furore, di William Faulkner. Alcuni di quei romanzieri, specie durante la Guerra Fredda, saranno violentemente anti comunisti, tranne Steinbeck. Con il passare degli anni la schiera dei nativi si amplierà comprendendo anche autori neri come Gwendoleen Brooks e Countee Culllen; più vicini a noi nel tempo, la premio Nobel Tony Morrison, James Baldwin e Audre Lorde, sebbene – in questi ultimi due casi – sono i ghetti urbani del nord il setting delle loro opere.

Stevens era lontano sia dai nativi sia dai nomadici. Il suo esordio tardivo da un punto di vista editoriale è dovuto anche a questo sentirsi fuori posto. Per un poeta, l’habitat in cui depositare i propri versi è molto importante e l’isolamento può essere un’arma a doppio taglio. Nel caso del poeta di Hartford credo sia stata un’evenienza molto felice. Possiamo immaginare cosa volesse dire per un autore di lingua inglese pubblicare nel ‘23 la sua prima opera, un anno dopo l’uscita de La terra desolata di Eliot! Il rischio era quello di essere tacciati da epigoni, se troppo vicini a un poeta che era già considerato un maestro; oppure da ribelli sciocchi se troppo lontani da lui. Passare inosservato fu la forza di Stevens. Quando la critica cominciò ad accorgersi della sua opera, la raccolta Harmonium aveva già avuto il suo tempo per essere digerita e il poeta se n’era già andato per la propria strada. Stevens cominciava a essere visto, ma con una certa circospezione. Ho intitolato questa parte dell’introduzione alla sua opera con una battuta molto significativa che circolava su di lui. Proprio così veniva definito il poeta di Hartford: un fiore di serra vagamente profumato. 3


1 Wallace Stevens, Harmonium, Poesie 1915-1955, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzioni di Massimo Bacigalupo, Giovanni Giudici, Glauco Cambon, Renato Poggioli, I Millenni, Einaudi editore, Torino 1994.

2 Ci sono molti film ambientati in quel mondo, alcuni dei quali tratti da romanzi classici come per esempio Il Buio oltre la siepe. Ne voglio ricordare solo uno, Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (Fried Green Tomatoes)  diretto da Jon Avnet e anch’esso basato,  ma in modo molto disinvolto, dal romanzo di Fannie Flag. Proprio perché non si tratta di un classico, con tutto l’alone anche mitico che circonda alcuni film e romanzi, questa pellicola del 1991, ambientata negli anni ’30, rappresenta molto bene il crogiolo sudista, dove l’aggettivo vuole indicare un complesso di umori e di sentimenti, piuttosto che una dimensione territoriale legata alla Guerra di Secessione.

3 L’espressione viene citata da Carboni, alla pagina 161 della sua nota critica alla ristampa di Mattino domenicale del 1988 per le edizioni Einaudi. Fu Harold Bloom a usarla, ma solo per riferirsi alla critica in generale; non di certo a sé medesimo, che di Stevens fu da subito un estimatore convinto: “l’immagine che di Stevens aveva l’accademia era quella di una sorta di squisito fiore di serra, vagamente profumato.”

Wallace Stevens at Columbia University

LA NOSTRA GRANDIOSA GUERRA

Rosa Luxemburg

Premessa

Questo testo fu pubblicato sulla rivista Overleft nella rubrica spigolature: www.overleft.it.  Lo ripropongo oggi senza alcuna modifica perché lo ritengo persino più attuale rispetto a quel momento.   

A Berlino, mi ritrovo a parlare di Rosa Luxemburg e di Antonio Gramsci con un’amica. Le dico della mia idea di dedicarmi alle Lettere dal carcere e non soltanto ai Quaderni: lei mi risponde che anche Luxemburg ha scritto un epistolario di tutto rispetto. Lo sapevo, ma tuttora ho delle idee confuse sulla sua estensione; mi ricordavo, invece, di una lettera in particolare, assai intensa e che mi fece una grande impressione quando la lessi, anni fa. Ricordo alla mia amica l’argomento, commettendo però un’imprecisione che Corinne mi corregge subito. Il giorno dopo fa di meglio e mi porta un libretto di Adelphi di 65 pagine, minuto, ed è così che vengo in possesso di un prezioso cammeo, una vera gemma per cui bisogna essere grati all’amica che te lo fa conoscere ma anche al curatore – Marco Rispoli – che ha avuto l’idea  di assemblare in così poche pagine, scritti tanto brevi quanto densi (compresa la sua nota finale), che mettono chi legge di fronte a scritture tanto essenziali quanto assolute (gli imperdonabili di cui scrive Cristina Campo nei suoi saggi migliori). Non dirò nulla sul tema, o i temi che vengono toccati, perché qualunque definizione iniziale sarebbe più che riduttiva; spero di riuscire a farli emergere strada facendo.

Il titolo prima di tutto. Rosa Luxemburg: Un po’ di compassione. A cura di Marco Rispoli, Adelphi, Milano 2007. Alla lettera seguono: l’introduzione di Karl Kraus alla missiva della rivoluzionaria polacca, che lo scrittore pubblicò sulla rivista Fackel, la lettera al direttore di una lettrice della rivista, cui Kraus risponde, un racconto di Kafka, il commento di Canetti al racconto di Kafka e uno scritto di Joseph Roth. A concludere, la nota di Rispoli.

La lettera di Rosa

Nel dicembre del 1917, Rosa Luxemburg scrive a Sonja Liebknecht (Sonicka), mentre si trova nel carcere di Breslavia da tre anni. Nella prima parte della lettera si occupa di questioni politiche e invita la sua interlocutrice e tutto l’entourage spartachista a non prestare ascolto alla stampa borghese in merito a ciò che avviene in Russia e ad avere fiducia. A tratti, il suo linguaggio si fa perentorio, come si conviene a una leader politica che intende orientare e prendersi le sue responsabilità. Nella seconda parte la lettera si fa più personale e intima: prima il ricordo di Karl Liebknecht, imprigionato anche lui, poi quello dell’ultimo Natale trascorso tutti insieme intorno a un grande abete, mentre quello che ha in carcere è così piccolo e modesto. L’accenno all’albero la porta al ricordo nostalgico delle escursioni nello Stiglitzer Park a Berlino e in mezzo ai suoi fiori e piante: ligustri, mirti e altri vegetali e arbusti che Luxemburg descrive in pochi tratti, tanto poetici quanto competenti. Dopo altri ricordi e un breve excursus di carattere letterario, la lettera vira improvvisamente e assume un tono solenne e drammatico:

 Aihmè Soniucka; qui ho provato un dolore molto intenso.

Non può essere il carcere di per sé, cui lei è ormai avvezza, deve trattarsi qualcosa d’altro e di più decisivo, tanto decisivo che citerò il testo pressoché integralmente fino alla sua conclusione. All’incipit solenne, segue una breve descrizione del contesto. Siamo nel cortile del carcere durante l’ora d’aria, quando le capita di assistere all’arrivo dei carri che portano masserizie varie. Recentemente i carretti, invece di essere tirati da cavalli o da buoi, lo sono anche da bufali.

Di struttura più robusta e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore … Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra … I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto vae victis … Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese così a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione  per gli animali. Neanche per noi uomini c’è compassione, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte … Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava … Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per esser dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa e perché … gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella dolorosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto erano irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania!… E qui, in questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseante e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei  e terribili … le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi impotenti e torbidi, e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto, i carcerati correvano operosi qui e là intorno al carro … ; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò, fra sé una canzonaccia.

 E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi.

 Scrivetemi presto. Vi abbraccio Sonicka. La vostra Rosa.

Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi  e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!

Karl Kraus, in partenza per una serie di conferenze in Germania e Austria, lesse per caso la lettera sulla Arbeite Zeitung. Ne rimase così impressionato che decise di darne lettura durante tutto il ciclo dei suoi incontri. Tornato a Vienna, La pubblicò sulla Fackel nel luglio del 1920, con una sua breve introduzione nella quale si augura che lo scritto della rivoluzionaria polacca sia inserito in tutte le antologie per le scuole! Accade poi che una lettrice della rivista interviene con un testo di commento piuttosto acido, per non dire peggio, al quale Kraus risponde per le rime.

Molto probabilmente, la lettrice non è mai esistita, anche il curatore propende per tale ipotesi. Ci sono tre indizi che lo fanno pensare: prima di tutto Kraus scriveva la Fackel per intero, cambiando registri linguistici e altre volte era già ricorso alle false lettere al direttore. Secondo indizio: la lettera in questione sarebbe stata inviata da una proprietaria terriera ungherese che fra l’altro, sostenendo di conoscere bene i bufali in quanto ne possiede alcuni, si permette di irridere i sentimenti della Luxemburg. Il tono vorrebbe essere sarcastico, ma la lettera rivela una tale angustia mentale da risultare in contrasto con il linguaggio usato e … arriviamo qui al terzo indizio. Sebbene scritta in uno stile più basso di quello sontuoso di Kraus, la lettera della finta lettrice lo è solo di un poco, quel tanto che dovrebbe bastare per depistare il lettore, facendogli credere che davvero si tratta della lettera di una possidente ungherese. La megera, come talvolta la definisce, è Kraus stesso, ma a differenza di altre volte in cui l’escamotage finisce per essere uno sfoggio narcisistico di cui il nostro era ricco in quantità industriali, diventa in questo caso il trampolino necessario per un’appassionata e indignata requisitoria nei confronti del mondo che aveva decretato la morte di Luxemburg: un mondo fatto di poteri alti e bassi, di livore di classe e meschinità piccolo borghesi. La risposta di Kraus diviene così uno dei più forti scritti di denuncia nei confronti dei suoi assassini.

Era passato ormai un anno dal delitto, avvenuto nel 1919 (Kraus pubblica la lettera nel 1920) e mi sembra degno di nota che per commemorare la grande rivoluzionaria polacca egli scelga proprio questo testo, apparentemente laterale rispetto all’attività di una leader politica quale lei era, eppure così decisivo. Merito di Kraus, grande scrittore e grande antipatico, ma di certo dall’intuito fine. Per questo la sua testimonianza è altrettanto rilevante!

Nella sua requisitoria Kraus mette alla berlina la borghesia tedesca, l’ipocrisia del ricco borghese, riversa la bestialità sugli esseri umani, sceglie il punto di vista di Luxemburg, di identificarsi con l’altro da sé più lontano: il bufalo, definito il fratello più caro.

Rispoli, nella sua nota finale, ricorda come tutto il secolo diciannovesimo aveva visto imporsi un pensiero che, a partire da Shopenhauer, vedeva con occhi diversi l’animale:

… l’uomo, affrancandosi dal principio di individuazione, non poteva che estendere anche agli animali, la propria compassione.” (pag 54).

Dopo il filosofo tedesco erano stati Dostojevski e Nietzsche (l’episodio in cui a Torino, abbraccia un cavallo definendolo fratello), a mettere al centro della riflessione etica anche il rapporto fra la specie umana le altre; infine, Rispoli cita le nuove correnti del pensiero ebraico che proponevano una diversa visione del mondo animale.

Tutto questo era certamente conosciuto anche da Luxemburg, che aveva cultura e interessi vastissimi, ma la grandezza del suo scritto sta nella sua immediatezza, nella presa diretta sulla realtà, nell’assenza di metafora e nella piena adesione a un processo d’identificazione con l’altro da sé che provoca in lei una vera e propria metamorfosi, concentrata in poche righe densissime.

Prima lo sguardo: il volto del bufalo che diviene quello di un bambino che ha pianto a lungo è il primo passo. La sensibilità tutta femminile contenuta in questa immagine, è un breve transito verso il secondo passaggio. Non sono le sue lacrime ma quelle del bufalo che lei sente scorrerle addosso:   l’identificazione è compiuta. Dopo avere idealmente abbracciato il più amato fratello, con la frase finale che conclude la lettera vera e propria e precede i saluti, lo sguardo di Luxemburg si estende ancora:

E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi …

Ho parlato di metamorfosi perché nel momento di concludere, Luxemburg stabilisce un parallelismo ardito e decisivo. Il bufalo non è la metafora di qualcosa d’altro, ma diventa, alla fine del processo di identificazione, l’individuo nel quale precipita e diventa leggibile la totalità della sofferenza, racchiusa in quella guerra, dove l’aggettivo grandioso che la definisce sta qui a indicare in modo amaro e dolente la sua riduzione da grande evento storico a manifestazione di violenza gratuita e insulsa.

La lettera, però, non è finita. Forse timorosa di avere troppo angustiato la sua interlocutrice, Luxemburg ha un vero e proprio colpo d’ala: ritorna alla conciliazione con l’umano in un abbraccio finale che comprende tutto. Non ricordo un augurio di buon natale tanto potente e liberatorio, tanto lontano dalla ritualità da risultare appunto catartico.

Natura e cultura

Il racconto di Kafka s’intitola Una vecchia pagina e si trova nella raccolta Un medico condotto.

Il protagonista narratore è un calzolaio che osserva quanto avviene nella piazza antistante il palazzo imperiale. I nomadi, un’entità non meglio definita, l’hanno trasformata in una stalla. Essi non parlano, si esprimono a gesti. Il calzolaio viene derubato come altri nella piazza e osserva tutto quanto accade sgomento, ma del tutto impotente. Non si può dire che i nomadi usino violenza, semplicemente invadono e occupano lo spazio. L’imperatore che dovrebbe proteggere la città sembra, un giorno, comparire rapidamente a una finestra del palazzo, ma non si è certi neppure di ciò. Tutti gli artigiani della piazza sono in balia dei nomadi, finché un mattino, il macellaio, visto che la piazza è piena di animali, pensa bene di portarci anche il proprio bue. È a questo punto che il racconto ha una virata tragica. I nomadi si gettano sull’animale e gli strappano pezzi di carne con i denti. Nel silenzio assoluto del linguaggio umano i muggiti disperati del bue sono la sola voce che si ode. Alla fine, il calzolaio constata l’impossibilità da parte degli artigiani della piazza di salvare la città.

Il commento di Canetti al racconto si allarga alla Metamorfosi: il calzolaio, infatti, quando ode il muggito disperato dell’animale si getta a terra e cerca di strisciare per non sentirlo e di rimpicciolire più che può. Riprendendo un passaggio di una lettera a Felice, dove il grande praghese scrive dell’angoscia della posizione eretta, Canetti vede nell’identificazione con i piccoli animali, fino all’insetto più insignificante, il modo di difendersi sia dall’orrore sia dal potere, ma anche il modo di prendere le distanze da quella posizione di dominio sul mondo che è la tragedia dell’essere bipede: dominare senza potere fermare l’orrore.

 Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati …  (pag.39).

La metamorfosi in ciò che è più piccolo e dunque fino a una sorta di grado zero della vita, diviene anche un gesto di umiltà. Clarice Lispector, decenni dopo, nel romanzo La passione secondo Gh porterà fino alle estreme conseguenze l’identificazione, incorporando l’animale più vile, in una comunione reale e simbolica capace di oltrepassare tutte le barriere che separano l’umana dalle altre specie animali; e un’altra grande autrice, la poeta statunitense Marianne Moore, farà lo stesso, dando vita a un bestiario originalissimo.

Infine, Joseph Roth con Scene dal mattatoio di St. Marx. Lo scrittore descrive la moderna macellazione industriale come un meccanismo cui sono estranei il sacrifico, il senso arcaico di un gesto che si accompagnava a rituali di ordine religioso e di purificazione. Non più omaggio agli dei o al dio della tradizione ebraica e poi cristiana, la macellazione industriale appare, agli occhi delle scrittore viennese, come una tragedia asettica senza catarsi. Lo scrittore ne rammenta i momenti e i titoli dicono già quasi tutto, scandendo la sequenza come se si trattasse di una catena di montaggio taylorista: Verso la macellazione, i macelli in funzione, 233 celle frigorifere.

Le note di Rispoli, con le quali termina il libro, non sono improntate a una facile cultura animalista, tanto meno sono giudicanti, come nessuno dei testi che ha così felicemente assemblato. Proprio per ciò traspare da questo testo così minuto un respiro etico di grande portata. La lettera di Rosa Luxemburg è l’architrave che regge questo libro sapiente: una mini tragedia in tre brevissimi atti e un epilogo, nella quale precipita tutta la ricchezza umana e la vastità dello sguardo della rivoluzionaria polacca, capace di certo di abbracciare una realtà più ampia di quella porzione che si trova racchiusa nel semplice agire politico, di cui peraltro, fu maestra impareggiabile. In questo testo, l’intelligenza del cuore si colloca alla stessa altezza della sua lungimiranza politica: il pane e le rose e queste ultime mancarono spesso ai suoi compagni di partito in Germania e altrove. E chissà che anche questa non sia una delle cause di tanti disastri!

Tuttavia, questo piccolo libro parla a noi oggi, non è un semplice collage di testi letterari bellissimi.

Isabelle Stengers e Ilya Prigogine scrissero anni fa un libro che per un periodo andò molto di moda: s’intitolava La Nuova alleanza. In esso, sottolineavano la necessità di ristabilire fra natura e cultura un nuovo patto, capace di superare l’attitudine predatoria che, dall’avvento della società industriale in poi, minacciava di distruggere l’habitat in cui viviamo e la natura organica: l’aria, la terra, l’acqua. Quando oggi parliamo di beni comuni, dobbiamo prendere atto al tempo stesso che quella alleanza non c’è stata e che la propensione a predare è continuata, travolgendo i rapporti sociali, approfondendo la violenza dei rapporti fra i generi e anche con il mondo animale. Quando Vandana Shiva, in un suo recente scritto, sottolinea il nesso fra violenza sulla terra e violenza sulle donne, quando mette in evidenza tutta la follia presente nella creazione di semi che hanno in sé un principio mortale (il cosiddetto seme terminator), che obbliga i contadini indiani a rifornirsi ogni anno presso le multinazionali dei semi per continuare a produrre, il messaggio contenuto in queste pagine scritte all’inizio del secolo scorso arriva fino a noi, ma non come una eco bensì come un grido di allarme, un monito. Quando parliamo di reti di solidarietà, democrazia partecipata, prospettiva di genere stiamo parlando (forse non avendone sempre coscienza), proprio di questa nuova alleanza. Consumare meglio, ritrovare un equilibrio fra risorse territoriali e catena alimentare (tutta la problematica del chilometro zero, dei gas, della filiera corta) può essere il nostro modo di cominciare a imboccare una diversa strada, senza le illusioni troppo facili dell’ideologia vegetariana. Sappiamo ormai dalla scienza che anche una pianta tagliata emette un grido di dolore, ha delle sensazioni di morte come qualunque altro organismo vivente. La catena alimentare è crudele in sé, ma può essere governata in altro modo.

PENSARE CON I PIEDI

Garrincha

Premessa

Una versione di questo articolo fu pubblicato sulla rubrica culturale del Wall Street Journal Italia nel 2014. Ho modificato il testo in alcune parti troppo datate e aggiunte altre riflessioni più contemporanee.

Ho rubato il titolo di questa riflessione rapsodica ed estiva sul calcio e nel pieno del mondiale femminile che si sta concludendo a uno degli scrittori più grandi che di questo gioco hanno scritto: Osvaldo Soriano, una perdita gravissima per la letteratura mondiale, tanto più dolorosa perché avvenuta in età giovane e nel pieno della sua creatività, il 29 gennaio del 1997. Un ricordo personale mi lega alla sua morte. Nel 1996, pochi mesi prima del suo decesso, partecipai insieme a mio figlio Ulisse al primo Incontro Intercontinentale per l’Umanità e contro il Neoliberismo che si tenne nelle zone della guerriglia zapatista del Messico. A quell’incontro parteciparono anche molti artisti, pittori, scrittori e mi colpì l’atteggiamento di rispetto che quelle popolazioni avevano, con tutti i loro problemi, nei confronti delle arti. La musica, in particolare, essenziale in qualunque momento della vita e a qualunque prezzo. Ci raccontarono delle fughe notturne, mentre erano inseguiti dall’esercito, ma sempre trascinandosi dietro la marimba, lo strumento prediletto dalle popolazione indigene del centro America: e non è come dire fuggire nella giungla con una marimba in spalla, che assomiglia a un piccolo pianoforte! Che anche la letteratura godesse dello stesso credito e rispetto non lo sospettavo, però: fra tutte le arti, è la meno avvicinabile per popolazioni con un tasso scarso di alfabetizzazione. Certo, il sub comandante Marcos era ed è anche uno scrittore, pubblicava racconti con lo pseudonimo da tutti conosciuto di Don Durito della Lacandona, ma sembrava più un suo vezzo che altro. Mi accorsi che non era così quando morì Soriano: ero tornato da mesi dal Messico e la notizia del suo decesso fu un fulmine a cielo sereno. Quello che più mi colpì fu il lutto dell’intera America Latina e quello delle comunità zapatiste. La guerriglia si era fermata, tutti si erano fermati e Marcos aveva parlato dello scrittore argentino nel cordoglio unanime di una comunità di indios, esclusi da tutto, ma che piangevano la morte di uno degli ultimi cantori dell’America latina. Avendoli conosciuti, la vista di quelle donne e di quegli uomini immobili, raccolti in un silenzio teso, mi commosse quanto mai. Nessuno scrittore europeo potrà avere un cordoglio così unanime e sentito. Lo ebbero in passato i grandi maestri della narrativa (i funerali di Victor Hugo per esempio), oppure i jazzisti statunitensi di colore (Charlie Parker), ma sempre più raramente possono più averlo da noi dove da tempo non interpretano più i sentimenti profondi di un popolo: forse sono certi cantautori o interpreti a poter suscitare un’emozione così forte. Le ragioni sono tante e non è il caso di parlarne in questa sede, se non per due di esse che mi riportano anche al tema di queste riflessioni. L’America Latina, pur con tutti i contrasti fra i diversi popoli, ha, fra gli altri, due fortissimi legami comuni, la lingua e l’identità india, riscoperta di recente ma fondamentale quanto mai. Nel vivere collettivamente, in una grande cerimonia corale, il lutto per la morte di Soriano, c’era tutto questo.

Il calcio e i suoi miti

Osvaldo Soriano

Pensare con i piedi è il titolo della sua raccolta di racconti più famosa, con una sezione finale interamente dedicata al calcio. Inizio però da un altro racconto, contenuto in un’opera meno nota, dal titolo Artisti, pazzi e criminali. Il libro raccoglie una miscellanea di scritti che stanno sul crinale fra giornalismo e narrazione. Si tratta di testimonianze in diretta, pubblicate nel supplemento del quotidiano l’Opinion, che si chiamava La Historia de vida. Come s’intuisce dal titolo dell’inserto, il materiale era costituito da testimonianze di vita, raccolte con il registratore. Soriano le trasformava in racconto, cercando il più possibile di rimanere fedele al personaggio intervistato. È un genere che lo scrittore medesimo definisce assai difficile perché, come nel caso in questione, i testimoni non sempre hanno capacità linguistiche e narrative tali da interessare un lettore; ma nello stesso tempo, lo scrittore non può manipolarle più di tanto, ma deve piuttosto lavorare di cesello sul materiale che ha. Il racconto in questione s’intitola Il riposo del re del centrocampo e il personaggio che rende la sua testimonianza, è Obdulio Varela, un nome che starebbe benissimo in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Anche chi, come il sottoscritto, è un grande appassionato di calcio, forse non lo ricorderà, ma sicuramente non gli saranno estranei altri suoi due connazionali, Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino, gli autori dei due gol che diedero all’Uruguay il titolo mondiale nel 1950 e che hanno ispirato anche una famosa canzone di Paolo Conte: Sudamerica. Obdulio Varela era il capitano di quella squadra, un gigante buono del centrocampo, abituato alla fatica e condannato a Una vita da mediano, come recita la canzone che Ligabue ha dedicato al centrocampista dell’Inter e della nazionale Lele Oriali. In quella memorabile finale del 1950, Obdulio fu cattivo e lucido quanto bastava per mettere paura ai brasiliani. Non si può raccontare con altre parole un brano struggente e perfetto come questo, se non segnalandolo.

A parte qualche incursione poetica (Saba e Pasolini), anche in Italia sono stati i romanzieri a dedicarsi al calcio e direttamente sulla stampa sportiva. Memorabili le cronache di Luciano Bianciardi sul Guerin sportivo diretto da Gianni Brera e altrettanto memorabili quelle di Brera medesimo. Il fuorigioco mi sta antipatico, il titolo con cui da Stampa Alternativa, ha ripubblicato di recente le risposte di Bianciardi alle lettere dei lettori, dimostra una volta di più che il calcio non è l’ultima delle lenti attraverso le quali si può guardare a una società intera. Partendo dal gioco e dalle sue tattiche, Bianciardi metteva alla berlina i vizi nazionali, lo faceva da grande istrione provocatorio qual era, ma sempre documentato, anche in materia calcistica. Un capitolo a parte, meritano poi le radiocronache. Quelle di Niccolò Carosio erano esempi di narrazione orale, talvolta vere e proprio invenzioni che con la partita in oggetto avevano un relazione assai complessa. Carosio veniva dalla retorica fascista, che, seppure depurata, ancora si avvertiva nel tono che usava e nelle cadenze. A lui mi lega un altro ricordo personale. Chi per primo mi avvicinò al calcio e me ne fece appassionare fu mio padre. Proprio con lui, nel 1962, ascoltai la radiocronaca della partita Cile Italia, ai mondiali che si tenevano nel paese sudamericano. La radiocronaca fu un esempio di linguaggio epico moderno. L’Italia, bistrattata da un arbitraggio scandaloso e menata niente male dai cileni, perse due a uno, fra gli alti lai del cronista. Purtroppo per Carosio, di quella partita il film esisteva e molti anni dopo, incuriosito, volli vederlo: l’esito fu grottesco. Carosio aveva trasformato una partita combattuta e che l’Italia aveva giustamente perso, in una battaglia campale, nel racconto della quale confluivano frustrazioni che con il calcio avevano poco a che vedere! Oggi le cronache come quella di cui sopra non sarebbero più possibili: la televisione non permette voli pindarici, le immagini smascherano facilmente la retorica e tutto sommato non è un male. Tuttavia, ogni nuova tecnologia e linguaggio ha la sua retorica e quella di oggi consiste in interminabili chiacchiere sul calcio, ma senza le invenzioni linguistiche che tenevano incollati i lettori agli articoli scritti dai grandi narratori o giornalisti di un tempo. Questo mi riporta al Soriano di Pensare con i piedi. È un libro complesso, che ci offre uno spaccato dell’Argentina con tutti i suoi immaginari: dal mito di Buenos Aires, al tango e naturalmente al calcio. Il nomadismo è un altro tema di fondo di questo romanzo picaresco, insieme alla particolarità della natura argentina, specialmente a sud, dove finisce il mondo, per parafrasare Bergoglio. Proprio nella valle del Rio Negro e in Patagonia, sono ambientati i capitoli finali che danno poi il titolo all’intero libro. Sono tre i racconti più importanti: Il rigore più lungo del mondoIl figlio di Butch Cassidy e Finale con i rossi a Ushuaia, il capoluogo della provincia argentina della Terra del Fuoco. Difficile capire dove finisce la testimonianza e comincia il sogno, quando i personaggi sono inventati, oppure talmente realistici da superare ogni fantasia. Nei tre racconti succede di tutto, ma sull’ultimo in particolare mi soffermo: è la storia di un mondiale di calcio che si sarebbe svolto nel 1942, nella Patagonia argentina, giocato da fuoriusciti dai paesi in guerra e da chi si trovava in Argentina per motivi di lavoro. Secondo la ricostruzione di Soriano, pare che gli indiani mapuche, partecipanti anche loro al torneo, approfittando di una pausa, rubassero le porte dal campo di calcio per impedire la sconfitta della loro squadra! Tutto inventato? Forse no, perché la Fifa ha dichiarato di avere avuto notizia di quello strano torneo, ma di non essere in grado di dire chi lo vinse.

Il calcio oggi

Mi sono chiesto molte volte in che cosa consista il fascino del calcio e perché è diventato lo sport della globalizzazione come nessun altro, tanto da coinvolgere persino gli Stati Uniti. La domanda si ripropone oggi ancora di più perché siamo arrivati a un punto critico: il calcio maschile è in una crisi profonda e rischia di fare la fine della rana cinese di un famoso racconto, che a furia d’ingrassare finì per esplodere. Tenendo sullo sfondo questo scenario che riprenderò nelle conclusioni, provo a suggerire qualche risposta sul perché del fascino di questo gioco, come è nato e come si è evoluto nel tempo. Il football è lo sport moderno, democratico e di massa per eccellenza, legato alla fisicità del corpo, ma senza protesi: anche i casi di doping documentati dimostrano che non portano a nulla, nel senso che in un gioco collettivo con così tanti giocatori in campo, le dinamiche sono troppo complesse.1  La parola democratico forse stupirà, ma proverò a dimostrarlo. Altri due sport condividono lo stesso appeal, il ciclismo e un tempo anche il pugilato, ma il secondo è caduto molto rispetto a decenni fa nella popolarità. Il ciclismo è fatica e mantiene la sua capacità di mobilitare le folle, ma solo in certi momenti. Il calcio è stato lo sport della classe operaia, degli oratori nei paesi cattolici e dei campetti di periferia e sulle spiagge ovunque: per quella strada e nel tempo ha radunato intorno a sé masse di spettatori impensabili per qualunque altro sport: non stupisce che stia avvenendo anche per il calcio femminile, nonostante la scarsa copertura mediatica in Italia, ma non altrove. Quanto alle altre discipline, il paragone con le Olimpiadi della Grecia antica è proponibile solo per l’atletica leggera, perché la distanza fra gli atleti e l’uomo o la donna comuni è tanto grande quanto lo era allora. Vedendo correre Usein Bolt e Marcel Jacobs, assistere ai lanci di una giavellottista come Kelsey Lee Roberts, oppure vedere la campionessa di salto con l’asta Isimbaeva, la sensazione è di guardare delle statue in movimento: si può rimanere stupefatti, ma la distanza che ci separa da loro è incommensurabile: assomigliano di più agli dei di un moderno Olimpo che non a umani come noi. Chi gioca a calcio è diverso dagli altri, anche oggi che è cresciuto il tono atletico e questo vale anche per le donne. Abituati anche per via della pubblicità, ad ammirare i bicipiti di Cristiano Ronaldo, ci sfugge che il calciatore e la calciatrice media sono uomini e donne comuni, a volte persino bruttin*: è sufficiente guardare le formazioni quando le riprese televisive le inquadrano durante l’esecuzione degli inni nazionali. Il caso storico più eclatante, dolce e tragico al tempo medesimo, è quello di uno dei più grandi calciatori di sempre: il brasiliano Manoel Francisco dos Santos, detto Manè Garrincha. Nato nello stato di Pau, egli era un bambino della giungla, che viveva fra fiumi e foresta tropicale. Ingenuo fino poter sospettare una psicologia mai divenuta veramente adulta, fin da bambino fu afflitto da diversi difetti congeniti dovuti alla malnutrizione e addirittura – secondo alcune fonti – a una leggera forma di poliomielite. Oltre allo strabismo, Garrincha aveva la spina dorsale deformata da uno sbilanciamento del bacino, le ginocchia afflitte da disturbi congeniti e operate più volte. Infine, l’ultimo problema, addirittura stupefacente per un calciatore: una gamba sei centimetri più corta dell’altra, a causa di un’operazione! In quale altro sport avrebbe potuto eccellere? Eppure Garrincha fu fra i più grandi di sempre. Il soprannome gli viene proprio dal suo corpo gracile e gli fu dato dalla sorella: la garrincha è un piccolo uccello minuto e simpatico. Al campione brasiliano ha dedicato un racconto assai bello Ugo Riccarelli, lo scrittore romano purtroppo scomparso, nella sua più bella raccolta, intitolata L’angelo di Coppi. La sua storia è costellata di aneddoti che tutti brasiliani conoscono. Uno assai divertente accadde durante la cerimonia di premiazione nei mondiali del ’58 in Svezia. Mentre sfilavano sul palco d’onore Garrincha, del tutto estraneo a quanto stava accadendo e perso nel suo mondo, si rivolse al capitano della squadra chiedendogli:

“Ma cosa sta succedendo?”

“Manè, abbiamo vinto il mondiale” rispose il compagno sorpreso e lui di rimando:

“Sì, ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”

Per concludere

Ciò che ingrassa troppo il calcio maschile è notorio: il denaro, ma anche la pretesa che sia uno spettacolo a ciclo continuo, distribuito praticamente su tutti i giorni della settimana per poter alimentare il circo mediatico delle piattaforme. L’anno calcistico scorso e quanto accaduto in questa sessione estiva del mercato costituiscono una ulteriore accelerazione di questo fenomeno. Tuttavia, potrebbe non essere un male che l’Arabia Saudita diventi un cimitero degli elefanti sia per ex calciatori, sia per teleutenti che hanno voglia di spendere soldi per assistere a un finto campionato. Gli altri continueranno a guardare il calcio europeo, che tuttavia perde pubblico in continuazione. Il calcio femminile potrà rilanciare l’interesse verso il gioco? In Italia sembra di no, ma nel nostro caso abbiamo a che fare con lo stereotipo sessista che ha ben altre e più gravi manifestazioni in altri ambiti: dalla violenza maschile sulle donne, alla misoginia diffusa. Solo la rete televisiva LA7 trasmette la domenica una partita del campionato femminile di serie A. Il pregiudizio, poi, che non si tratti di vero calcio, pur non espresso, è largamente pensato. Eppure chi ha assistito all’ultima finale del mondiale femminile fra Inghilterra e Spagna dovrebbe convincersi che di calcio si tratta. Una partita bellissima e avvincente, meritatamente vinta dalla spagnole anche contro il loro allenatore e calciatrici spettacolari come Olga Carmona e specialmente Aitana Bonmatì. Brave anche le inglesi campionesse d’Europa, con una portiera straordinaria  come Earps.

Come andrà a finire? È possibile che il calcio maschile esploda per i suoi debiti e gli stipendi esorbitanti, ma non sarà la fine del calcio. Anche in Italia le squadre con i conti a posto e che fanno campionati brillanti senza spendere molto ci sono già, specialmente in provincia. Qualche tonfo clamoroso ci sarà e c’è già stato: altri ne verranno e non sarà un male.               

Aitana Bonmatì Women’s Champions League – FC Bayern München vs FC Barcelona 21.04.2019

1 Vi è un altro aspetto della modernità nello sport  e cioè le discipline motoristiche, che sono un altro mondo a se stante. Quanto al doping c’è una distinzione da fare fra il doping vero e proprio,i cui casi nel calcio sono molto limitati e l’uso di integratori che probabilmente è causa di patologie anche gravi ma che non erano e non sono considerati doping e sono largamente usati anche da chi fa sport dilettantistico.

REGISTI DA RISCOPRIRE: EDOARDO WINSPEARE GUICCIARDI

La pizzica salentina

Premessa

Questo articolo fu pubblicato sulla rivista Wall Street Journal nel 2014: lo ripropongo nel blog con alcune modifiche e integrazioni.

L’ospite discreto

Winspeare è una presenza costante nel panorama culturale italiano: eclettica nel modo di porsi, ma anche protetta da un cono di riservatezza. Molto attivo nel cinema, oltre alla cinepresa, che egli conosce sia nel ruolo di regista sia in quello di attore (interpretava Nisco nel film Noi credevamo di Mario Martone), sia in quello di documentarista, ha dato vita a complessi musicali, ma si può parlare di lui anche come antropologo delle tradizioni salentine. Il Salento, infatti, è il microcosmo da cui il regista, formatosi alla scuola di cinema di Monaco, guarda alla realtà attuale. Dal 2004 ha fondato Coppula tisa: associazione per la Bellezza dei luoghi, un’organizzazione no profit che ha come scopo di ripristinare i luoghi del Salento colpiti dall’abuso edilizio e da altri scempi.  

La mia riflessione sulla sua opera cinematografica inizia da In grazia di Dio, una sintesi riuscita di questo suo eclettismo, il suo film più maturo, seppure non esente da qualche pecca. La storia è molto semplice e può essere raccontata senza tema di tradire il pubblico che non lo ha ancora visto: è ambientata in un triangolo di paesi dell’immediato retroterra della costa salentina intorno a Tricase. Una famiglia di sarte composta da quattro donne e un uomo che esce subito di scena, cerca di fronteggiare la crisi del settore. Confezionano abiti per le case di moda del nord che chiedono continui ribassi del costo di produzione. L’ultima spiaggia è un cliente di Treviso con il quale hanno rapporti da tempo: sperano che egli capisca che oltre un certo limite non si può scendere, ma al rifiuto da parte dei trevigiani non rimane che chiudere la fabbrica. Dietro lo scenario, s’intravede la concorrenza dei laboratori clandestini, cinesi e non, descritti anche in Gomorra; fatto sta che non rimane altra scelta. Le quattro protagoniste sono: Salvatrice, da tempo vedova, le due figlie di lei Maria Concetta e Adele e la figlia di quest’ultima, Ina. Maria Concetta ha velleità d’attrice e spera in un provino che ci sarà a Lecce, mentre Ina, la ragazza, è una studentessa svogliata; Adele è, almeno in prima istanza, il perno della famiglia. Riescono finalmente a vendere e a sanare buona parte dei debiti; si trasferiscono in campagna nel fondo di famiglia e pian piano riusciranno a ricostruire la loro esistenza, aiutati anche da un contadino, Cosimo (che ritroverà un suo ruolo grazie a loro) e sostenute dalla solidarietà attiva di altri. Nella loro rinascita partono dall’anello più basso della catena economica e cioè barattano i prodotti della loro terra con altri generi necessari, finché non riescono a vendere nei mercati locali e a dare un assetto stabile alla loro nuova esistenza.

Quattro donne, tre generazioni

Con il trasferimento al fondo e l’emigrazione in Svizzera dell’unico maschio della famiglia (del marito separato di Adele dirò in seguito), prende avvio una saga famigliare al femminile, che è il vero motore del film. Le quattro donne rappresentano tre generazioni diverse, ma nel prosieguo della pellicola Winspeare confonde assai le carte e in modo il più delle volte felice, perché ognuna di loro, alla fine, si colloca fuori dagli stereotipi, con esiti sorprendenti, anche comici. La più anziana, Salvatrice, peraltro una nonna giovane visto che ha 65 anni, sarà di gran lunga il personaggio più equilibrato, capace di saggezza e di tenuta anche nei momenti più difficili; ma anche di sapersi godere la vita in una misura sconosciuta alle altre tre protagoniste. Il motore che spinge in avanti la narrazione è la dinamica delle relazioni che s’instaurano fra queste quattro donne molto diverse fra loro, ma sarebbe fuorviante a mio avviso il paragone con il film di Monicelli Speriamo che sia femmina, che qualche critico ha proposto: il romanzo famigliare al femminile di Winspeare non è solo psicologico, ma nel modo sommesso, tipico del suo cinema, attraverso l’intreccio dei loro diversi modi di affrontare la vita in tutti i suoi aspetti, emergono in superficie le dinamiche sociali di una comunità e non semplicemente una galleria di personaggi femminili peraltro assai delineati e memorabili nel senso letterale della parole e cioè degni di essere ricordati.

Adele (Celeste Casciaro) è una donna forte e autoritaria; si capisce che era lei la vera spina dorsale della fabbrica, molto più del fratello emigrato in Svizzera. È lei a guidare con polso sicuro l’intera famiglia. Si lamenta di dover fare tutto e non ha torto, ma è anche il suo carattere che non le permette di delegare ad altri certi ruoli: non stima Maria Concetta (Barbara De Matteis), nei momenti di rabbia le dice cose tremende e offensive. La sorella, peraltro, è comicamente desolante nelle sue velleità d’attrice. Adele è autoritaria anche con la figlia Ina (Laura Licchetta), di cui non capisce le inquietudini generazionali. La rimprovera di non fare nulla, ha nei suoi confronti improvvise esplosioni di rabbia che tuttavia non portano a niente. Adele, nevrotica, in perenne lotta con tutti e specialmente con se stessa, non sa godersi la vita. Il suo egoismo ne fa un personaggio estremo e riuscitissimo; vittima di se stessa, ma anche di una falsa idea di emancipazione che lascia intatto un sostrato arcaico. Quando vede la figlia Ina indossare un suo vestito assai seducente, la insegue e l’apostrofa, reagendo come la matrigna cattiva di Biancaneve; ma non riesce ad avere del tutto ragione (ne avrebbe molte) anche quando rifiuta il corteggiamento impacciato in un modo a dir poco desolante di Stefano, il suo vecchio compagno di scuola che vive ancora con la madre novantenne. Quanto a Maria Concetta sembra non contemplare l’universo maschile nel suo modo di porsi; forse anche perché la sorella Adele, molto più bella di lei, glielo fa continuamente pesare.

Ina, la più giovane del quartetto, è una ragazza sbandata: rischia di essere bocciata per l’ennesima volta, esce con ragazzi diversi cui si concede per noia, senza un vero trasporto con nessuno di loro, ricambiata peraltro nello stesso modo: emblematica e assai riuscita la rapida scena in cui, dentro un automobile, insieme a uno dei suoi occasionali compagni, quest’ultimo le palpa le tette (nella totale indifferenza di lei) con lo stesso trasporto emotivo con cui potrebbe giocare con due palle da tennis. Si riscatterà dalla sua deriva solo quando scoprirà di essere incinta. Decide di tenere il bambino nonostante le urla della madre Adele, che le rimprovera di essere una irresponsabile a mettere al mondo un figlio di cui non sa neppure chi sia veramente il padre. Il figlio in arrivo la spinge anche a studiare come si deve, aiutata da Stefano, un vecchio compagno di scuola della madre.

Una delle costanti della cinematografia del regista pugliese è il ruolo minore che rivestono i personaggi maschili: minore in tutti i sensi e prima di tutto rispetto alla forza di quelli femminili. Insomma, per il regista, il Salento e tutto il sud sono ancora il regno della Grande Madre Mediterranea. Credo che questo sia vero fino a un certo punto, a dispetto di quanto Winspeare stesso possa credere e così altri registi che si sono espressi su tematiche simili: penso per esempio al film di alcuni anni fa La Terra di Sergio Rubini. Tuttavia, da questa forte convinzione occorre partire, anche perché i personaggi che il regista mette in scena sono il più delle volte credibili, con qualche eccezione proprio per quest’ultimo, In grazia di Dio. In Galantuomini, per esempio, il film con maggiore presenza di personaggi maschili memorabili, essi – e non a caso – sono tutti dei malavitosi, esponenti della nascente Sacra Corona Unita; ma anche in quel film, il personaggio più forte è ancora una volta una donna, Lucia, la spietata e seducente capobanda che guida i suoi uomini nella sfida mortale con i concorrenti. In quest’ultimo film, In grazia di Dio, non mancano i personaggi maschili positivi, seppure sempre ancillari: Stefano (Gustavo Caputo), l’ex compagno di classe, ora funzionario di Equitalia che aiuta Adele a ridurre le multe che ancora deve pagare e che a modo suo la corteggia; ma specialmente Cosimo, il vecchio contadino silenzioso, concreto e solido, che è diventato il nuovo compagno di Salvatrice, la nonna. I personaggi maschili del tutto negativi o anonimi, invece, non sempre sono riusciti. Senz’altro ottimamente rappresentati sono i giovani compagni di strada di Ina, disperati e sbandati come lei, ma violenti e incapaci di riscatto, a differenza della ragazza. La scena in cui lei viene picchiata da uno di essi quando le rivela di essere incinta e di sospettare che sia lui il padre, Winspeare la rappresenta con tutta la delicatezza possibile, facendola intuire e vedere soltanto dopo attraverso gli effetti sul corpo di lei. Deboli e non del tutto credibili sono invece il fratello di Adele e di Maria Concetta, e il marito separato di Adele, un piccolo malavitoso fallito, ancora in carcere per aver cercato di mettere in piedi uno strampalato business e cioè il trasporto di migranti clandestini nel canale d’Otranto. Insieme al fratello di Adele, vengono scoperti, a causa della loro totale imperizia. Semmai non è tanto la scelta di tenere gli uomini in un ruolo ancillare il problema: è quando tale lateralità diventa troppo caricaturale fino a divenire bozzettistica che il film cade un po’.

Il mondo salvato dalle nonne … e dai bambini

Nel primo film che gli diede la notorietà, Il miracolo, i protagonisti principali sono una ragazza adolescente ribelle e border line, che rischia continuamente di perdersi. Ciò che la salva è la relazione di amicizia con un bambino nel quale s’identifica in parte vedendo tramite lui, la propria storia infantile. Alla fine del film sarà proprio lui a strapparla all’ultimo momento dal suicidio. In quest’ultimo film sono Salvatrice e Cosimo i soli in armonia con la natura, la cultura e la vita, ed è ancora una volta la generazione di mezzo, quella dei padri e delle madri a mancare totalmente, sebbene la giovane età della nonna la collochi temporalmente in una situazione di cerniera fra le generazioni; ma tant’è. Anche le altre tre donne, infatti, pur forti, determinate, e – ripeto memorabili – sono figure che non riescono a essere del tutto positive, sentono la mancanza di uomini autorevoli a fianco, ma a vederle si direbbe pure che sarebbe assai difficile avere una relazione con loro, tranne che – ancora una volta – con Salvatrice, il cui nome dice tutto. Il pregio di Winspeare è proprio questo: la seduzione e il fascino che il mondo femminile esercitano su di lui sono profondi e sinceri e questo gli permette di mettere in scena figure memorabili perché non sono mai agiografiche. Egli vede con grande acutezza e profondità anche nelle contraddizioni dei suoi personaggi femminili, che risultano per questo complessi e problematici. Del mondo femminile il regista pugliese sa cogliere sottigliezze con uno sguardo che riesce sempre ad avere in egual misura durezza quando serve (ma senza esagerare) e delicatezza. Nel rappresentare le quattro donne di In grazia di Dio, il pregio maggiore è forse quello di sapere cogliere alcune differenze fondamentali nel modo di gestire i conflitti e le situazioni estreme, fra uomini e donne.

Il fratello e il marito separato di Adele, di fronte alla situazione disperata della famiglia, cercano subito la soluzione, una qualsiasi, ed è per quello che s’imbarcano in quella strampalata idea di trasportare migranti clandestini. Le donne, invece, sanno aspettare, è la soluzione che le cerca nel senso che essa ha più a che fare con la capacità di ascoltare e cogliere i segni piuttosto che agire immediatamente. Questo nel film è rappresentato in alcuni momenti emblematici e in modo assai convincente. Nella prima parte, quando Adele decide di vendere anche sotto costo la fabbrica perché capisce che rinviare quella decisione porterebbe davvero al disastro; ma anni dopo, quando la proprietà è diventata qualcosa di più che non un mezzo di sopravvivenza, Adele e Salvatrice hanno il coraggio di rifiutare un’offerta di acquisto proveniente da un riccone del nord, il cui mediatore è lo stesso affarista locale in odore di criminalità che aveva gestito la vendita dell’azienda. Il ritorno alla terra, la solidità di una vita ricostruita spinge Adele al rifiuto, ma emblematica ancora una volta è la frase con cui Salvatrice suggella la bontà della scelta:

“Diciamolo fra qualche anno a Ina e a Concetta”

perché ha capito benissimo come sarebbe difficile far digerire alla ragazza un rifiuto del genere, visto che Ina è del tutto prigioniera dei peggiori stereotipi del consumismo, della moda e di altro.

Il secondo aspetto riguarda proprio i rapporti fra loro quattro. Se al loro posto ci fossero stati quattro uomini che si fossero scambiati le parole aspre e talvolta spietate che si sono scambiate le quattro protagoniste, si sarebbe arrivati ai coltelli dopo una settimana di convivenza. Invece, esse hanno una capacità di reggere il conflitto senza che esso si trasformi in guerra. Certamente, è fondamentale in questo il ruolo di Salvatrice, ma non si tratta di una matriarca autoritaria e cattiva, ma piuttosto buona e silenziosa. Non interviene sempre, anzi quasi mai, anche perché le piace farsi la propria vita; soltanto quando l’asprezza del conflitto è giunto davvero vicino al punto di degenerare, allora si fa sentire. Lo si vede bene quando le quattro donne si ritrovano unite intorno al letto, dove giace Ina ferita, ma salva insieme al suo bambino nonostante le botte. La macchina da presa le inquadra prima da vicino, poi in piano medio che sfuma nel lungo, mentre le cantano una ninna nanna: un quadro di Van Gogh con la luce di un Caravaggio.

Arcaico e moderno

A ogni uscita di un film di Winspeare è difficile evitare di discutere intorno al magico salentino, al suo mondo arcaico e anche al rapporto con il sacro. Vale anche per questo film, sebbene in misura minore che non per Il miracolo, che già nel titolo stesso si richiama a una dimensione sacrale e religiosa. Anzi, il regista si prende qualche ironica libertà in quest’ultimo, come quando Adele, vinta dalla fatica e dallo sconforto si rivolge con una preghiera alla statua della Madonna, invocando di farne andare bene almeno una. Suonano alla porta e si presenta l’agente delle tasse. Certo, il fascino della natura, certi silenzi, il mare appena intravisto in alcuni momenti, la terra che si trasforma sotto gli occhi dello spettatore, creano intorno al film un alone di magia, ma essa corre come sempre nelle pieghe, si affaccia in punta di piedi e nel caso di In grazia Dio, è prima di tutto legata all’uso sapiente del dialetto, la vera colonna sonora del film. Un momento di grande tenerezza e commozione avviene quando Cosimo e Salvatrice decidono di sposarsi: la semplice religiosità di entrambi si affaccia delicatamente, ma pur essendo rivolta ai simboli cristiani è impossibile non avvertire dietro la lunga scia un mondo pagano che nel Salento ha diverse e notissime sfaccettature a cominciare dalla pizzica.

Qualche critico ha rivolto un’accusa di passatismo, critica che Winspeare ha – a mio avviso con ragione – respinto. La pellicola semmai, mette in discussione i falsi miti di una certa modernizzazione, ne dissolve la patina facile e superficiale dietro la quale le costanti antropologiche, le strutture della lunga durata di cui ha scritto Braudel, ritornano in primo piano. Però va subito aggiunto che una nonna come Salvatrice non potrebbe esistere se non ci fossero stati il ’68 e il femminismo. Anche lei, pur con tutta la sua antica sapienza da matriarca, è stata toccata dai fermenti nuovi. Semmai ci sarebbe da chiedersi dove si siano perduti quei fermenti nei passaggi da una generazione all’altra se la nipote Ina può parlare di lei con tale disprezzo e incapacità di accettare che una donna di 65 anni possa innamorarsi e fare l’amore con un uomo peraltro suo coetaneo! Infatti, è proprio Ina la più fragile fra le quattro, nonostante il suo avviato riscatto. Su di lei come sui suoi coetanei si abbatte tutto il precipitato sociale di una crisi che è cominciata negli anni ’80 e che fa della sua generazione la prima, dopo cento e più anni di crescita del tenore di vita, quella che sta peggio sia dei suoi genitori che dei suoi nonni. Tuttavia, emerge anche tutta la disgregazione culturale e i falsi valori che tale generazione ha introiettato: cinici e impotenti, disimpegnati in tutto ma attenti al consumismo, a questi giovani non va lisciato il pelo, ma vanno richiamati alle loro responsabilità. I padri assenti, ma anche le madri come Adele, non riescono a farlo: saranno le nonne a salvare il mondo? Oppure ci salverà un mondo di Arianne e Telemachi che cominceranno a prendere fra le mani il loro destino?

UN DOCUMENTARIO SUI DISERTORI UCRAINI E RUSSI SU RAI 3

Dopo la guerra

PREMESSA

Lunedì sera prossimo in seconda serata e nella trasmissione Il fattore umano la seconda parte del documentario Dov’è la vittoria di Giuseppe Borello, Andrea Sceresini e Matteo del Bo sui disertori ucraini e russi. Ci sono stati molti interventi e qualche iniziativa all’inizio della guerra, poi non se ne è parlato più. Credo che occorra rilanciare il più possibile questa iniziativa .

Dov’è la vittoria

Andrea Sceresini: “Quello dei disertori – russi e ucraini – è uno dei temi meno trattati di questa guerra. Per un certo periodo non se ne è potuto quasi nemmeno accennare, forse perché mal si intonava con la martellante propaganda bellicista che risuonava su entrambi i lati del fronte. Eppure, parliamo di decine di migliaia di uomini – spesso giovanissimi – che pur di non essere costretti a impugnare un fucile hanno preferito rischiare il carcere o addirittura la morte. In un seminterrato di Tbilisi abbiamo incontrato un gruppo di ragazzi russi – perlopiù anarchici – che ce lo hanno detto chiaramente in faccia, “che questo conflitto è stato voluto dai grandi oligarchi e dalla borghesia, che prima ti sfrutta in tempo di pace e poi ti manda al massacro quando è l’ora di fare la guerra”. Anche Ivan la pensa allo stesso modo – solo che Ivan è ucraino di Kharkiv, e un anno fa, pur di non finire in guerra, ha attraversato illegalmente il confine con la Moldavia. E ancora: c’è chi per lasciare il fronte si è sparato un colpo di Kalashnikov nella gamba, e chi da mesi vive barricato in casa, nella propria città, perché teme di essere arruolato a forza per la strada. Il documentario dove abbiamo cercato di raccontare queste e altre storie si intitola “Dov’è la vittoria” e andrà in onda lunedì in seconda serata su Rai3, all’interno del format “Il fattore umano” – uno degli spazi liberi più eccezionali della TV italiana. Lo abbiamo fatto io, Giuseppe Borello e Matteo Del Bo.”

UN GIORNO DEVI ANDARE di Giorgio Diritti

Rio delle Amazzoni

Introduzione

Il film va iscritto nel novero delle opere mistiche del nostro tempo, almeno per quello che sembrano le intenzioni del regista. Mi rifaccio all’etimologia della parola: essa comprende in sé i concetti di mistero, del chiudere e del tacere, che sfociano nella contemplazione. Lévy-Bruhl parlava, a questo proposito, di partecipazione mistica per quanto attiene le religioni primitive, cioè quel sentimento che riscontra il sacro ovunque, in qualsiasi fenomeno naturale di una certa rilevanza. Naturalmente, quanto più ci si distacca da quel sentimento effusivo e di fusione con la natura organica, processo che avviene sia con le religioni cosiddette positive sia con la cultura laica e il materialismo moderno, tanto più l’esperienza mistica deve essere anche ricercata, in qualche modo perseguita, con la meditazione, il silenzio, l’ascolto di sé, ricorrendo anche a tecniche appropriate. Tali percorsi sono squisitamente individuali, ma nel concetto di mistico nel senso cui si riferiva Lévy-Bruhl, l’aspetto sociale non poteva essere scisso da quello personale e individuale. Mi avvicino così al film di Giorgio Diritti, considerandolo da quello che mi sembra il punto di vista scelto dal regista, il suo filtro per guardare al mondo e al sociale, presente in quest’opera come nelle precedenti, fin dall’indimenticabile Il vento fa il suo giro. A me sembra che Diritti, con la sua cinematografia, cerchi da un lato di scandagliare alcune esperienze eretiche appartenenti a sensibilità religiose diverse, dall’altro si pone l’interrogativo se l’esperienza mistica sia compatibile con la modernità.

Quattro donne e due comunità

A una prima approssimazione, il film ha una protagonista principale, Augusta, una giovane donna italiana. È la prima che lo spettatore vede sullo schermo e sarà l’ultima a essere inquadrata: o meglio la sua barca. Tuttavia, essa non ha la forza di un’eroina che da sola occupa la scena. Inoltre, pur essendo la prima figura umana che il pubblico vede, di notte, mentre piange sul ponte del battello, la sua inquadratura è preceduta da una lunga sequenza in cui la luna è schermata dalle nubi. L’immagine si trasforma in un quadro dai contorni prima imprecisi, poi sempre più chiari: è un feto nel ventre di una madre. Da quella inquadratura si passa lentamente al volto di Augusta: dunque, è lei che, scorgendo la luna, piange o sogna un figlio.

Augusta è una ragazza molto normale, persino un po’ antipatica, che s’allontana da una storia personale molto dolorosa. Del resto, crisi esistenziale e fuga sono, dagli anni ’60 in poi, un clichè abbastanza praticato dalla gioventù europea. Se mai la curiosità sta nella scelta del luogo dove fuggire: non la Turchia, l’India o il Nepal, ma il profondo sud ovest brasiliano. I silenzi di Augusta, per una lunga parte del film, non sono di meditazione, ma di fastidio, sgomento e fatica a entrare in quel mondo. Per dirla con Chatwin, sembra sempre sul punto di domandarsi: ma che ci faccio qui?

La seconda donna a entrare in scena è Franca, una suora laica cattolica, che percorre il fiume con un battello che serve a tante cose: presidio medico, solidarietà con le comunità indigene più disperse, cui porta cibo, santini e un’evangelizzazione piuttosto ingenua e alla buona, che i bambini sembrano accogliere in modo non troppo convinto.

A queste due prime protagoniste fanno da contrappunto altre due donne e un secondo gruppo, sempre femminile: Anna, madre di Augusta e Antonia la nonna della ragazza.

Vivono in una cittadina del trentino e si dedicano a opere di solidarietà: fanno parte di un gruppo di suore laiche, qualcosa di più e diverso dalle famose dame si san Vincenzo, prima di tutto per la differente estrazione sociale. Il nesso fra le due comunità è molto chiaro: alla staticità della comunità trentina, sostanzialmente dedita alla preghiera, alla raccolta di vestiti, il disegno delle icone e poco altro, si contrappone il dinamismo della comunità cattolica brasiliana, impegnata nella costruzione di pollai e centri residenziali che, al di là di ogni possibile sforzo di fantasia, assomigliano sempre a dei villaggi turistici; naturalmente, il capitale investito viene dall’Italia o da donazioni provenienti dal ricco mondo occidentale. Il missionario barbuto che gestisce capitali e progetti sembra un nonno dei fiori sessantottino che mostra carte, mappe e grafici all’indio che gli sta davanti. Immediato il riferimento al primo film di Diritti, Il vento fa il suo giro: il solerte amministratore locale progressista della comunità occitana, che fa da guida ai giornalisti per promuovere il suo programma di rilancio della valle, ricorda assai il missionario.

Due universi

Il motore del film sta nel rapporto dialettico fra questi due universi, ma è sempre più Augusta a divenire una sorta di catalizzatore telepatico, è lei a mettere in moto il montaggio del film, che passa con sequenze rapidissime da una comunità all’altra, non in base a qualcosa di oggettivo, ma rispetto alle sensazioni, le intuizioni (più spesso quelle di Augusta, ma talvolta provenienti anche dal lontano Trentino innevato). In Brasile domina la difficoltà di comprensione fra indigeni che resistono a ogni forma di cambiamento e una tipologia di missionario che pretende sempre di proporre le migliori soluzioni. Anche la versione più positiva di tale atteggiamento, rappresentato da Franca, la suora laica anziana, si scontra con una realtà che lei comprende fino a un certo punto, e rispetto alla quale non si pone grandi domande: cerca di fare bene il suo lavoro e si accontenta di ciò. Augusta reagisce con insofferenza giovanile, è polemica – a volte gratuitamente – finché non si arriva a una svolta del film, che ne chiude la prima parte: la ragazza decide di lasciare Franca, vuole proseguire da sola il suo viaggio e sceglie di vivere nella favela di Manaus, dove può contare sull’appoggio di una struttura comunitaria anch’essa religiosa. Dalla natura immensa e abbacinante lungo il fiume, si ritrova nell’inferno urbano. Vive presso una famiglia, i cui figli provengono da padri diversi: conosce così Arizete, Janina e Paulo Joao, l’unico con cui pare esservi un dialogo fatto di delicata seduzione. Nella favela di Manaus esplodono tutte le contraddizioni della comunità brasiliana, nella quale Augusta comincia a muoversi con autorevolezza e buon senso. Cerca di aiutare in modo discreto e rispettoso, diverso dai modi delle religiose, tranne in un caso che la spingerà a cambiare di nuovo. Quando il governo il primo governo Lula  propone il trasferimento della comunità in un nuovo quartiere di brutte villette con una sola strada nel mezzo, lei difende l’idea di rimanere nella favela e quando gli uomini lavorano per il nuovo progetto li affronta bruscamente. La risposta piccata di uno di essi la riporta alla realtà, seppure dopo un momento di rabbia. Augusta è pur sempre una gringa, una occidentale, non è la sua comunità quella. Per un istante, anche lei cede al vezzo tutto nostro di sapere sempre quali sono le soluzioni migliori, ma è solo un momento. Quando nella comunità si consuma la tragedia del bambino venduto, ma ritenuto morto annegato, Augusta tira le sue conclusioni: non il ritorno in Italia e neppure la vita nella favela, ma il proseguimento del viaggio in una solitudine estrema. Prima di quest’ultimo passaggio il film ritorna dall’altra parte del mondo. Augusta ha aiutato Jainina a trasferirsi in Trentino per diventare la badante della nonna di Augusta, che muore però dopo poco tempo. Con la preghiera funebre intensissima e anche molto pagana di Jainina il film si congeda dalla comunità trentina.

Favela brasiliana

Quanto ad Augusta,  la natura ritorna prepotentemente a chiamarla a sé e lei vive tutta una serie di esperienze al limite della propria tenuta fisica, ma finalmente entra in contatto con essa. Ce ne accorgiamo perché Diritti si avvale di una finezza della colonna sonora, per molti altri aspetti la sola parte debole del film: Augusta ode per la prima volta in modo vistoso (e anche noi spettatori lo condividiamo con lei), i rumori e i suoni della selva, un linguaggio sconosciuto che fino a quel momento era rimasto ai margini della sua sensibilità uditiva. Sente per la prima volta il luogo, la sua forza, il suo genius, i versi dei piccoli animali, con una intensità che prima le era sconosciuta. La sua casa è un’amaca sotto un grande intreccio di alberi su cui è appesa anche una icona con il volto di Cristo, che lei guarda interrogativamente e intensamente, ma con un fondo di scetticismo.

Con l’immersione piena nella natura inizia e si conclude la brevissima terza parte del film. Augusta vive ormai di quello che trova, come un’arcaica raccoglitrice, oppure di quello che le lascia il pescatore indigeno, senza avere bisogno di alcuna parola, dal momento in cui l’uomo comprende la radicalità della sua scelta di vita. Un giorno arriva alla sua amaca un bambino con cui lei gioca tutto il pomeriggio, felice di ritrovare un contatto umano, ma anche di ritrovare in qualche modo il figlio che, ora sappiamo, lei ha perduto. L’incontro, tuttavia, non è il prodromo a una soluzione di buoni sentimenti: il bambino ritorna a casa sua con i genitori a fine giornata, Augusta ha fatto quello che doveva fare, ma quel figlio non è suo e quando l’ultima scena del film inquadra la punta della sua barca che fende lentamente le alghe, capiamo che Augusta non tornerà, ma che ha imparato a lasciare.

Maschile seriale, donne plurali

I protagonisti maschili del film impressionano tutti per la loro disperante miseria morale e inettitudine (tranne Paulo Joao) e questo è uno dei motivi che corrono sotto traccia rispetto alla trama di superficie e che si rivela alla fine un controcanto importantissimo proprio perché Diritti non voleva fare un film sulle differenze di genere, né ammiccare al femminismo. Perciò l’apparire di queste maschere risulta alla fine potente e miserando al tempo stesso. Del missionario nonno dei fiori ho già scritto, ma anche l’indigeno con la sua staticità, refrattario a qualsiasi cambiamento, per non parlare di quelli che considerano impure le due donne europee. Le espressioni più tragicomiche di questo maschile seriale sono il telepredicatore e il sacerdote (laico o meno non si capisce), che con una radio improvvisata si rivolge dalla poltrona, dalla quale non si distacca quasi mai, all’intera comunità della favela di Manaus. La sua casa con balcone è prospiciente un fatiscente campetto nel quale avvengono tutte le cerimonie pubbliche e gli svaghi di massa della comunità: il ballo, il gioco dei bambini, le partite di calcio. Per fare la radiocronaca degli incontri,  che da quella posizione vede solo in parte, piuttosto che usare un altro stratagemma – per esempio allungare il filo del microfono – scosta la tendina e segue la partita stando sempre seduto. Questa specie di Oblomov della favela non può convincere nessuno e infatti i suoi proclami e le sue prediche vengono seguite nella generale indifferenza. Anche quando difende la comunità e il suo diritto a rimanere nella favela, temendo che il trasferimento ne provochi la disgregazione, non è credibile perché sembra difendere più che altro la sua postazione sul divano di casa. Lo vediamo finalmente in piedi e addirittura a camminare solo una volta, quando segue nelle ultime fila il funerale del bimbo venduto, ma che lui crede come tutti (ma non dovrebbe forse dubitarne visto che sa come vanno le cose?) annegato.

Le case dove si traferiranno sono certamente brutte, il luogo anonimo, ma una comunità non è fatta di persone? Forse c’era anche una qualche ragione nel difendere quel luogo, ma una volta persa la partita non si può ricreare la comunità, seppure in situazioni diverse? Invece reitera le sue stanche critiche al governo, senza fare niente altro. Infatti, anche le donne, che pure hanno qualche dubbio sul trasferimento, non lo ascoltano neppure loro, ma accettano di rapportarsi alla novità!

Il tragico panorama maschile finisce con le due figure più orrende: il padre che vende il figlio al mercante per un po’di denaro e poi lo fa credere annegato e il marito di Augusta, che l’aveva abbandonata dopo che lei aveva perso il figlio.   

Le donne protagoniste del film non sono eccezionali. Tuttavia, hanno quasi tutte una caratteristica che manca in misura maggiore o minore agli uomini: la flessibilità necessaria per aderire al cambiamento anche senza approvarlo del tutto (anche loro hanno dubbi sulla validità del trasferimento della comunità in un nuovo quartiere), ma con una capacità di immergersi nella realtà diversa che si trovano a dover affrontare, di accettarla seppure criticamente. La sola eccezione è Franca, la missionaria che sembra peraltro non del tutto convinta lei stessa di quello che fa: trasmette una sfiducia di fondo che è  un po’ il contraltare dell’ottimismo acefalo del missionario. Quando rimprovera Augusta, specialmente all’inizio del film,  ha spesso ragione, ma è una ragione povera in definitiva, perché non sa rispondere ad alcuna delle domande decisive e ragionevoli che la giovane donna le pone.

Di Anna e Antonia, la madre e la nonna di Augusta non vi è molto da dire. Il solidarismo cattolico è il loro orizzonte, lo praticano come una tradizione che si perde nel tempo e che non viene più interrogata nelle sue ragioni e negli effetti che produce.

Fra le donne della comunità brasiliana è Janina la più interessante. Accoglie la possibilità di un lavoro che aiuterà la famiglia come un’occasione da cogliere subito, si trasferisce in Trentino e nel suo sguardo appare talvolta anche un certo sgomento nel ritrovarsi in un mondo così diverso dal suo; ma fa bene il suo lavoro è attenta e sollecita, ma è di fronte alla morte di Antonia che dà il meglio di sé. È lei che si trova, da sola, ad accompagnare l’anziana donna. Non si scompone, accetta ciò che si compie ai suoi occhi. Alla fine si avvicina al corpo, lo tocca dolcemente in più parti e per ognuna di esse trova le parole giuste per valorizzare ciò che Antonia ha compiuto di buono nella sua vita: nel silenzio e nella solitudine del momento, la sua voce flebile ma chiara e dolce, intona un canto funebre di rara potenza.  

Infine, ancora Augusta che lascio però alle conclusioni.     

Sacro e gratuito nella crisi della modernità     

Questo film contiene in sé la domanda se l’esperienza del mistico possa essere salvaguardata come valore nelle nostre società. La risposta è almeno apparentemente negativa. Il film ironizza – con leggerezza – sulle figure religiose istituzionali. Nel film Il vento fa il suo giro, peraltro, aveva messo in mora la visione illuminista, rappresentata dall’amministratore locale. La forza del cinema di Diritti, tuttavia, sta nelle domande che pone e nella capacità di evitare le risposte semplicistiche. Al centro di questo film a me sembra ce ne siano due.

Vi è prima di tutto una domanda sociale, che si può formulare così: può una comunità fare a meno della gratuità assoluta, del dono senza ricompensa? A tale interrogativo il film non dà alcuna riposta ma invita a guardare comunque a quelle che la politica può fornire: le famose villette brutte erano pur sempre un modo di togliere dalla povertà estrema una comunità di persone. D’altro canto, tutta l’imponente ricerca femminista a partire dagli ’70 ha prodotto dovizia di materiali dai quali si deduce che le nostre società vivono largamente sul lavoro non pagato delle donne. Il fatto che tale problema non sia nell’orizzonte tematico del film di Diritti, non per questo può essere dimenticato e lo riprenderò nelle conclusioni.

La seconda domanda riguarda l’individuo, maschio o femmina che sia. Il finale del film, più drammatico di quanto appaia superficialmente, mi ha ricordato una celebre storia sufi di cui esistono molte versioni: la riassumo.

Un maestro sufi si attarda nel deserto e non s’accorge che la notte sta per arrivare. Quando se ne avvede ne ha paura, ma poi scorge in lontananza una luce che sembra indicare un accampamento. Accelera e infatti scorge tre uomini che stanno discutendo animatamente e piangendo: sono tre fratelli. Non appena lo vedono e riconoscono in lui un sufi, lo accolgono con reverenza e lui chiede quale sia la causa di tale angustia. Il maggiore spiega che è per via del loro padre che li ha lasciati orfani ma ha aggiunto a questo dolore il peso di un’eredità che non possono dividere fra loro: essa è costituita da nove cammelli che l’uomo mostra al maestro. Questi chiede il motivo di ciò e l’uomo spiega che il padre ha lasciato scritto di dividerli in questo modo: due terzi al maggiore dei figli la metà di quelli che rimangono al secondogenito e la metà successiva al terzo: una divisione impossibile per porterebbe a dividere in due uno dei cammelli. Il sufi, allora, si chiude in raccoglimento e traccia dei segni sulla sabbia: alla fine si rivolge ai fratelli e regala loro il proprio cammello.  Con dieci cammelli il calcolo viene perfettamente ma rimane come resto un cammello con il quale il sufi si allontana dall’accampamento mentre i fratelli si abbracciano felici.

Augusta s’allontana da sola con la sua barca, corre verso l’ignoto come il maestro che, lasciato l’accampamento dei fratelli, va verso la notte nel deserto e senza alcuna protezione: può essere un andare verso la morte. Anche la scelta estrema di Augusta, ci consegna un messaggio da decifrare. Mentre vediamo la barca che fende le acque senza che lei venga più inquadrata, in sovraimpressione appare il titolo del film: Un giorno devi andare. La frase si apre a una molteplicità di significati assai ampia. Credo che Diritti volesse sottolineare con essa il senso profondo e il valore della metamorfosi, che non ha un punto d’arrivo e infatti il film si chiude bruscamente su quella immagine. Il destino di Augusta rimane fuori dalla scena così come il maestro sufi, con l’atto finale, esce dal racconto: ciò che entrambi hanno fatto è accettare un cambiamento che per diverse ragioni non potevano rifiutare. Per entrambi è la capacità di lasciare, di non trattenere per sé, di rinunciare al potere che i loro stessi gesti hanno messo alla loro portata. Sembrerebbe dunque di vedere, nell’esperienza di Augusta, la possibilità di far vivere nella nostra contemporaneità, la saggezza che traspare dal racconto sufi, ma in realtà si tratta di un’illusione ottica. Quella del maestro aveva una valenza sociale riconosciuta, quella di Augusta può essere solo una scelta personale, peraltro fondata su due presupposti dai piedi d’argilla: il primo è la possibilità di ripristinare un rapporto armonico con la prima natura, anche quella più estrema. In realtà, le acque che Augusta fende nel finale del film sono quelle della foresta Amazzonica. Da quando la pellicola di Diritti è stata girata a oggi, quella foresta è stata violata e saccheggiata al ritmo della superficie di un campo di calcio ogni 24 ore. Se Augusta non andrà verso la morte, come è probabile sia avvenuto per il maestro sufi, è perché s’imbatterà nelle ruspe di una multinazionale  che  costruisce autostrade nella foresta. Il secondo presupposto sarebbe la possibilità di ristabilire quel rapporto di partecipazione mistica che apparteneva alle religioni animistiche o arcaiche. Augusta forse lo ha pensato quando rivela tutto il suo scetticismo osservando l’icona di Cristo, ma è illusorio pensare di sfuggire alla modernità seguendo quella strada. Questo non toglie valore a lei e alla sua scelta: Augusta, insieme a Janina, è di gran lunga il personaggio più positivo del film, ma del tutto scisso da una dimensione sociale.

Per concludere  

La domanda però rimane: può una società fare del tutto a meno del dono e della gratuità? Il discorso è complesso e travalica il tema di questo scritto, che è pur sempre la riflessione su un film. Essa non può essere continuata qui se non indicando alcuni orizzonti possibili. Il primo riguarda quanto prodotto dal femminismo dagli anni ’70 in poi di termini di lavoro occulto femminile. Il secondo è tutto il discorso sulla cura e i beni comuni. Il terzo riguarda il ritorno in auge del mutualismo e del concetto di mutuo soccorso che peraltro è tanta parte degli albori del movimento operaio. Infine alcune riflessioni che si trovano in due pensatori anomali come Walter Benjamin e Furio Jesi. Mi riferisco in particolare a concetti quali l’illuminazione  profana e il valore del binomio festa/rivolta. Molti di questi temi sono già presenti nel blog in altre rubriche e verranno ripresi in quel contesto. Molte altre riflessioni specialmente su cura e femminismo si trovano anche nella rivista online Overleft.     

Foresta amazzonica oggi

Una prima versione di questo saggio fu pubblicato sulla rivista online Overleft nella rubrica Spigolature

DIARIO BERLINESE: SETTIMA PARTE.

Treptower Park Berlin

Introduzione

Il titolo di quest’ultima tappa del diario berlinese è quello della mia prefazione al libro Doppia esposizione. Berlin 1985-2015 di Natascia Ancarani, Edizioni del foglio clandestino, Sesto san Giovanni 2015.

Il testo fu scritto nel 2014. Non ho cambiato una virgola del testo, ma esso necessita di qualche riflessione introduttiva. A rileggerlo oggi mi trovo io stesso in una strana posizione. Se guardo ai paragrafi conclusivi i motivi di allarme sul futuro lì indicati sono senz’altro da confermare, ma le ragioni per cui si sono addirittura aggravati sono diverse da quelle che si potevano ipotizzare allora. Il tema dominante, negli anni che vanno dal 2010 in poi e fino alla sconfitta del tentativo compiuto da governo Tsipras di cambiare radicalmente le regole europee, era molto chiaro: riuscirà l’Unione Europea a rimanere in piedi? L’euro è destinato a durare oppure no? Una prima risposta venne dal famoso discorso di Draghi del 2012 – Whatever it takes – ma poi nel 2013 fu fondata Alternative für Deutschland e sempre durante quell’anno giornali sia tedeschi sia europei si ponevano un quesito: cosa accadrebbe se la Germania decidesse di uscire unilateralmente dall’Euro? Erano solo dei sondaggi per capire quali reazioni suscitava una tale ipotesi o qualcuno in Germania ci pensò davvero? Sia come sia, questo era il tema dominante. La prefazione non ne parla esplicitamente ma le preoccupazioni espresse nel finale derivavano da quel clima. Sempre nel 2014 accadde anche qualcosa d’altro, che in quel contesto fu relegato un po’ in sordina: il colpo di stato in Ucraina, l’assalto ai sindacati da parte delle forze più reazionarie ucraine, la fuga del presidente Victor Janukovyč e poi alla rivolta del Donbass. Poi nel 2020 il Covid. 

BERLINO FUTURA

Berlino è stata una città mito dal 1989 in poi. Lo era anche prima, a dire il vero, ma per ragioni talmente diverse, tanto da sembrare persino un luogo differente.

La storia della città, però, è proprio questa dalla seconda metà del 1800 in poi, cioè da quando è diventata così importante e tragicamente decisiva per la storia tedesca ed europea.

Il primo spunto per scrivere questa introduzione lo trovo proprio nella giovinezza di questa metropoli.

Le grandi città mediterranee sono segnate dal tempo, dalla storia che si portano sulle spalle, per non parlare di quelle del vicino Oriente. Damasco ha più di tremila anni di vita, Roma quasi tremila, mentre le città del grande Nord sono recenti, alcune appena nate. Berlino è fra queste, il monumento più antico della città risale al 1700, il fazzoletto di terra (quasi un’isola) che si trova a fianco del Municipio della città, è un quartiere fra i più antichi, ma le targhe portano date che risalgono alla seconda meta del 1700. Berlino è la modernità per eccellenza, l’unica città europea – si dice solitamente – ad assomigliare alle metropoli americane. Storia davvero curiosa, che dimentica un particolare importante e cioè che si tratta del contrario: furono gli architetti del Bauhaus, nei favolosi anni ‘20, a inventare l’architettura moderna a Berlino per poi portarla oltre Atlantico dal 1933 in poi, in fuga dalla Germania hitleriana.

La fine della guerra europea secolare che possiamo in fondo fare iniziare nel 1914 e finire nel 1989, come ormai anche qualche storico comincia a sostenere, segna una netta cesura: dall’anno della caduta del Muro Berlino è un’altra città e produce un mito diverso dai precedenti. Di esso, nell’ampia narrazione di Natascia Ancarani c’è tutto: le sue belle e puntuali descrizioni sono anche una piccola storia e un’utile guida. Che altro potrei aggiungere al suo lavoro che non sia già detto da lei, sebbene sia io stesso uno dei tanti che questa città non la vivono più da turista ma ci abitano per lunghi periodo dell’anno? Allora mi sono detto che forse l’unico modo serio modo per farlo è cercare di avanzare qualche ipotesi sul futuro, non più così tranquillo, e vederlo sullo sfondo dell’Europa di oggi e proprio a ridosso di una svolta, perché le elezioni europee di maggio sono state differenti da tutte quelle che le hanno precedute.

Le cose a Berlino hanno cominciato a cambiare da qualche anno, la spinta propulsiva generata dalla fine della guerra cosiddetta fredda e dall’unificazione tedesca si è esaurita. La città ha goduto per vent’anni e oltre di finanziamenti colossali, è stata rifatta in diverse parti, a Est in particolare, sebbene la sua vastità territoriale sia tale che ci sono quartieri che si possono definire degradati o in fase di recupero, specialmente nel profondo Est, a Marzahn e al Lichtenberg. Berlino doveva essere risarcita per essere stata la frontiera più esposta di una guerra per niente fredda, denaro e progetti sono arrivati da molte parti, fino a farla diventare però una delle città più indebitate al mondo. L’entusiasmo degli anni ‘90 e di una buona metà del nuovo secolo hanno portato progetti importanti, il rifacimento di Potsdamer Platz, con il contributo di architetti provenienti da tutto il mondo, il lavoro di restauro di interi quartieri a Est e molto altro. Un cantiere aperto, ma anche una vivacità culturale che ricorda un po’ quella degli anni ‘20. In questi anni, Berlino è stata anche una città molto accogliente. Oggi su una popolazione di oltre 4,5 milioni di abitanti e che si sta avvicinando ai 5 milioni, il 12% e dunque circa 600.000 sono stranieri, ma si tratta di un dato fluttuante perché in continua crescita. I turchi sono in netta maggioranza, visti i legami storici fra Germania e Turchia e sono oltre 400.000: i latino-americani nel loro complesso vengono subito dopo, incerta la stima di italiani e spagnoli che sembrano più o meno intorno ai 70.000, poi ci sono gli altri. I polacchi a Berlino non sono così numerosi come si crede, perché sono distribuiti su tutta la Germania e molti vanno e vengono dalla Polonia; poi tutta la diaspora dall’Est europeo, ma specialmente dall’ex Jugoslavia; infine la presenza russa, che è storica e data dall’inizio del ‘900. Questa fase espansiva e accogliente è destinata a trovare il suo limite fisiologico, anche perché stanno cambiando molte cose nella stessa Germania.

Le aspettative di coloro che hanno scelto di venire qui nei vent’anni precedenti si sono coagulate intorno ad alcune costanti, che sono altrettanti ingredienti intorno ai quali è cresciuto il mito berlinese: una qualità medio alta della vita a poco prezzo, una certa tolleranza nei confronti di atteggiamenti anticonformisti, confermati dalla presenza di un tessuto assai vasto di aree occupate e centri sociali, che offrivano anche opportunità di lavoro, la possibilità di accedere a percorsi di formazione e lavorativi guidati, un’università all’avanguardia in tutti i settori.

Vediamo le prospettive di ciascuno di questi ingredienti. La qualità della vita si mantiene ancora alta e i prezzi di alcune componenti fondamentali come il cibo, la ristorazione e l’accesso alla vita culturale sono ancora più che appetibili: Londra, per esempio, può anche offrire di più in molti campi ma rimane decisamente più cara. I trasporti sono il solo vero costo abbastanza elevato; lo erano da prima e le tariffe continuano ad aumentare, ma bisogna tenere conto della grande efficienza e anche della presenza massiccia di biciclette, in una città pianeggiante, provvista di ottime piste ciclabili. Se leghiamo però questa componente alle due che seguono, il quadro si complica. Berlino rimane per chi viene da fuori una città anticonformista, ma di certo assai meno di prima. Un evento di un anno e mezzo fa circa, ha segnato una cesura sia sul piano reale, sia su quello simbolico: lo sgombero del Centro sociale più grande e famoso d’Europa, il Tacheles, in pieno centro, nonché la chiusura del museo della fotografia sempre a Kreuzberg.

Sul centro sociale vale la pena di spendere qualche parola in più perché la sua storia è emblematica e non soltanto per Berlino. Tutto cominciò dallo sfratto di una comunità di artisti che occupava uno stabile del centro da 22 anni. La resistenza del collettivo e la solidarietà della popolazione ha retto per un certo periodo di tempo, poi nel 2012 la chiusura. Il Techeles presenta alcune analogie con l’esperienza dell’Angelo Mai e del Teatro Valle occupato di Roma: recuperare spazi lasciati al degrado da privati e pubblica amministrazione e farne centri di laboratori d’arte e luoghi dove si produce cultura e politica. Tuttavia, va anche riconosciuto che negli ultimi anni, lo spirito che aveva animato l’occupazione alla sua nascita si era alquanto logorato ed esaurito, come del resto è avvenuto anche in Italia con molti centri sociali. Le esperienze italiane citate prima, cui vorrei aggiungere quella recentissima di Macao e Ri-Make a Milano, mi sembrano più orientate a comprendere le dinamiche attuali piuttosto che coltivare nostalgie del passato. Il Techeles è stato, come altri luoghi berlinesi, anche la vetrina di un Ovest tollerante e trasgressivo, a fronte del grigiore burocratico della Berlino del socialismo reale. Finita la guerra fredda, tuttavia, non c’era più bisogno della vetrina, ma questo si è tardato a capirlo.

Dopo lo sgombero sui muri della città sono comparse scritte dolenti e rassegnate più che ribelli, del tipo bye bye Kreuzberg: la convinzione che sia finita un’epoca si è fatta strada rapidamente. La speculazione edilizia è arrivata anche qui sebbene la rendita dei suoli sia ancora bassa se confrontata con quella delle altre capitali europee; ma tant’è.

Quanto ai percorsi formativi e di inserimento, essi sono stati negli ultimi vent’anni assai efficienti e di elevata capacità di inclusione, ma ora i sussidi sono stati ridotti drasticamente specialmente per chi viene dalle altre nazioni europee e in particolare da quelle meridionali. Rimane l’università come fulcro e in questo caso la Germania ha continuato saggiamente ad investire e cioè a garantire a tutti gli studenti provenienti anche dagli altri paesi, agevolazioni sociali e bonus che permettono, specialmente a Berlino, uno standard di vita e di possibilità di studio elevate. Ne fa un po’ le spese l’Università di Potsdam, non a caso collocata nel territorio della ex DDR: perché non bisogna dimenticare che più che una riunificazione, la caduta del Muro ha portato all’annessione dell’ex Germania Est a quella occidentale.

La Germania attrae i migliori cervelli e fa concorrenza su questo persino agli Usa: molti scelgono di stare in Europa piuttosto che cambiare continente. Tutte le facoltà ne sono coinvolte anche se il prestigio dell’architettura attrae più di altri rami: però anche un indirizzo di studio come quello antropologico, storicamente inglese, attira alla Humboldt Universität studenti e ricercatori da tutto il mondo.

Quanto durerà tutto questo? Fra gli italiani che vivono a Berlino ce lo si chiede sempre quando ci si ritrova a cena e la risposta è sempre più o meno questa: la Germania sarà l’ultima a cadere in Europa e Berlino l’ultima a cadere in Germania. Dopo avere pronunciato questo mantra ci si ride sopra e si brinda.

Visto che partono ancora in molti per andarci, mi sono domandato cosa risponderei a un giovane che mi chiedesse un consiglio: gli direi che i problemi di Berlino e della Germania sono gli stessi di tutti gli altri paesi europei, seppure su una scala che li vede posizionati in modo diverso da un punto di vista temporale. In sostanza, i problemi futuri della Germania, come dell’Italia e della Grecia, dipendono da che strada prenderà l’Europa: se continueranno queste politiche la campana prima o poi suonerà per tutti e sarà un suono molto sinistro, se invece ci sarà un colpo d’ala, uno scatto che inverta la marcia fallimentare di questi anni, allora Berlino rimarrà pur sempre un grande richiamo, ma forse perderà un poco del suo mito perché ci saranno opportunità anche altrove nel continente.

Tiergarten Berlin

DIARIO BERLINESE: SESTA PARTE

Castello di Charlottemburg.

Marzo 2014

A Berlino l’arte non sta nei musei, nonostante la presenza della celeberrima Inseln, una spianata ampia, dove si trova anche il brutto e imponente Duomo. In quella zona si possono ammirare l’altare di Pergamo, la porta di Ishtar e altre meraviglie. Poi ci sono gli altri musei, la Galleria nazionale, il Berrgruen. Però  l’architettura è la regina delle arti a Berlino e quella si ammira nelle strade. L’imponenza degli edifici di Potsdamer mi ricorda le città statunitensi (e del resto gli architetti tedeschi più importanti fuggirono alla persecuzione nazista rifugiandosi negli States). L’area divide l’opinione pubblica: per alcuni questi palazzi imponenti, costruiti con materiali freddi e non ergonomici, sono ostili a una vita comunitaria: più che abitazioni e uffici sono spazi. Non luoghi? A me non fanno la stessa impressione di certe stazioni e aeroporti, se mai la curiosa sensazione che si prova avventurandosi fra questi edifici è l’evidente eterogeneità dei progetti, che si spiega con una decisione che esula dal campo artistico. Lo stato tedesco, infatti, ha affidato a molti architetti provenienti da tutto il mondo la progettazione di quest’area: è uno dei tanti modi con cui la nuova Gemania ha voluto rompere con la propria storia d’intolleranza e disprezzo verso le forme artistiche moderne. Questo però ha portato a un eclettismo eccessivo, a una mescolanza di stili, di forme che s’accavallano le une sulle altre. Sì, c’è qualcosa di paradossale in tutto ciò, ma mi sembrerebbe ingeneroso non riconoscere le buone ragioni di chi ha pensato a questa soluzione. E intanto eccola di nuovo la porta di Brandeburgo, minuta ormai rispetto a ciò che la circonda, eppure sempre affascinante, in fondo al rettifilo dove, all’altro lato s’eleva la colonna con sopra la statua dorata, immortalata da Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino. Unter den Linden è più elegante che mai, anche i palazzi delle ambasciate e dei consolati degli ex paesi socialisti: tutti raggruppati qui, sembrano meno tetri. Certo, fa effetto vedere ancora nello stesso luogo la bandiera della confederazione russa, dove un militare distratto fa la guardia (si fa per dire) dentro la sua garitta. Non custodisce più nulla: i simboli attirano su di sé suggestioni e idolatrie, violenze, slanci ideali e furori ideologici, il niente non attira più nessuno anche se c’è sempre un militare addetto a custodire il bidone vuoto.

2 Aprile.

“Ma è proprio vero che a Berlino si può vivere con ottocento euro al mese? Dico vivere bene e non sopravvivere, perché questo lo fanno in molti anche a Milano e a Roma …”

“Sì” mi risponde decisa un’amica che lavora qui, che vive e lavora qui …

“Ma come è possibile?”

Più o meno ho potuto constatarlo pure io, ma m’interessa il suo parere.

“Perché la gente che vive qui ha pochi soldi e se i prezzi fossero più alti se ne andrebbero via e molte attività chiuderebbero bottega. Del resto molti che cercano lavoro nell’industria o in settori diversi dal terziario o la pubblica amministrazione se ne sono già andati. Qui il lavoro è poco, la città vive di sussidi, ma la qualità della vita è elevata …”

Il paradosso di Berlino è proprio questo. Una capitale indebitata fino al collo ma ricca e dove si può vivere bene con poco: dove si trova al mondo un luogo come questo? Dove un affitto in una casa del centro arriva al massimo ai quattrocento euro al mese? Tutte le grandi capitali dell’Occidente sono città che vivono sui servizi, l’impiego pubblico e il turismo, ma a differenza delle altre, qui la rendita dei suoli urbani non cresce vertiginosamente e la dinamica dei prezzi è contenuta.  

Intanto, chiacchiera dopo chiacchiera siamo arrivati in Weser Strasse:

“Dicono che assomigli alla Quinta Avenue …” mi dice l’amica sorridendo.

Non sono mai stato a New York e quindi …

È un viale molto lungo e diritto come tutte le arterie berlinesi, costeggiato da due filari di tigli, l’albero berlinese per eccellenza. Parte da Hermann Platz, luogo di ritrovo di giovani e di ubriachi la notte, discretamente sorvegliato dalla polizia. Non è trafficata come la parallela, Karl Marx Strasse, ed è piena di locali, che distinguo subito per uno stile comune anche a quelli che già conosco, dislocati in altri quartieri. Sono locali poveri, i tavoli, le poltrone, persino i divani sono riciclati, comperati da rigattieri e assemblati in qualche modo. In essi si tengono concerti di musica, performance, letture di poesia, rappresentazioni teatrali, almeno tre giorni la settimana. Mi ricordano quelli che ho già visto nella zona compresa fra le fermate del metro di Ederswalder e di Shönhauser, sulla linea due della metropolitana; forse in quel quartiere sono un tantino più eleganti. La vera differenza si scopre lentamente osservando le vetrine: molte si richiamano in modo esplicito all’omosessualità maschile e femminile. Alcuni locali, dalle 21 di sera in poi, sono aperti solo alle donne o solo agli uomini: altri sono misti, ma la presenza di icone omosessuali e lesbiche è esplicita. La via, lunghissima, ha un’illuminazione assai suggestiva, le vecchie lampade che creano una luce intima. Vi regna una tranquillità molto piacevole, i locali e i ristoranti sono diversissimi per prezzo ed eleganza. Ovunque, ci sono spettacoli, improvvisazioni e altro e questa  crea intorno a questa strada affascinante una molteplicità di occasioni di lavoro, specialmente per i giovani. D’inverno ci vengono anche gli anziani in questi locali, sono luoghi caldi e accoglienti e il divieto di fumo non è passato, ci sono state grandi proteste perché, specialmente d’inverno, fumare fuori sui marciapiedi a molti gradi sotto zero è impossibile e i locali rischiavano di chiudere. L’amministrazione comunale ha dovuto cedere. Ci fermiamo in uno dei più tipici, con i tavoloni in legno l’immancabile candela che viene subito accesa anche quanto si è soli, le luci basse e discrete. Il programma è nutrito: musica dal vivo, letture, mostre d’arte.

4 Aprile.

Torno in Hermann Platz e mi avvio per Kottbusser Strasse. In fondo, proprio vicino al ponte su uno dei tanti canali in cui si diramano i fiumi berlinesi, c’è il mercato turco. Si tiene due volte la settimana, il martedì e il venerdì: vi prevalgono di gran lunga i prodotti ortofrutticoli.

Come tutti i mercati del mondo è colorato, anche se lontano dalla fantasmagoria di quelli sudamericani; quello che balza subito all’occhio è che l’offerta di derrate è ben più ampia ed economica di quella che si trova in un qualsiasi supermercato. La seconda considerazione è che i tedeschi che ci vanno sono un’esigua minoranza. Sono i turchi a frequentarlo e sono in grande maggioranza rispetto a tutte le altre comunità presenti in città, che tuttavia sono visibili nella folla che si accalca alle bancarelle.

Per un italiano il mercato turco è una pacchia e infatti ne vengo via ben rifornito.  Esserci venuto, tuttavia, mi conferma una convinzione. A Berlino (non so nel resto della Germania), non prevale il modello d’integrazione alla francese. Il modello berlinese è quello della convivenza cordiale e serena fra diversi. Poche regole comuni, trasmesse in corsi che chi vive qui a lungo è tenuto a frequentare, e poi tutti secondo le proprie tradizioni e consuetudini: integrazione, mescolanze, meticciato, sono, se mai, il risultato finale di un percorso lungo e al largo, non un punto di partenza. Solo a livello individuale (i matrimoni misti esistono anche qui come dappertutto) oppure ad alto livello istituzionale, l’interscambio è più intenso e ricercato. Durante tutti i miei soggiorni, per esempio, mi è capitato di notare come siano frequenti le iniziative che riguardano la Turchia, sempre molto presente nella vita della Germania ed è sufficiente seguire quotidianamente il telegiornale per rendersene conto.

Il modello della pacifica convivenza fra diversi sembra funzionare ed essere accettato da tutti. L’investimento nella mediazione culturale è elevato e intelligente, ma comporta ovviamente un impiego massiccio di risorse umane e finanziarie. Chi decide di stabilirsi a Berlino per un lungo periodo e cerca lavoro deve frequentare un corso di lingua tedesca, cultura, usi e tradizioni, dal costo di 140 euro al mese per sei mesi. Il corso prevede esami che, se vengono superati, danno diritto a un rimborso del costo versato fino al quaranta o cinquanta per cento dell’importo totale. Tale sistema premiale risulta assai motivante e viene apprezzato da tutti. Quanto alla cultura tedesca, usi e tradizioni vengono porti sobriamente, insistendo molto sul rispetto reciproco delle differenze. Certo, vi è uno sforzo particolare dei tedeschi per far dimenticare l’intolleranza del loro passato recente, ma lo fanno con un impegno e un’intelligenza che sembrano contagiare chi vive qui.

Fino a quando potrà reggere tale modello? Il dato nevralgico è la quantità d’investimento pubblico necessario a farlo funzionare. Basso consumo di qualità e prezzi bassi alimentano un circuito di attività che regge proprio perché si mantiene a quel livello e quanto alla convivenza essa sembra tenere in larga parte della città, tranne che nel quartiere intorno alla stazione Lichtenberg, nel profondo est.

6 Aprile

Inevitabile tornarci a Lichtenberg. Lì il clima è diverso: è il quartiere dei naziskin, che si vedono poco in altre parti della città ma sono subito distinguibili. A parte la testa rasata, prerogativa peraltro comune anche ad altri che nazi non sono, indossano un lungo giubbotto nero con uno stemma rotondo in cui la parola skin è visibile. È una specie di divisa, ma non trasandata come nel militare di moda fatto di tute mimetiche sbrecciate, stivaloni indossati anche dalle ragazze; colpisce l’ordine. Ne avevo uno ieri seduto davanti a me sul metro, che sembrava a dire il vero un po’ stranito nel ritrovarsi in mezzo a gente normale che torna a casa la sera con le borse della spesa; tanto poco eroica e guerriera. A Lichtenberg invece è davvero diverso. Non mi stupisce più di tanto.

I luoghi hanno il loro genius, che può essere benefico o malefico e questa stazione mi aveva colpito anche nel 1991 per la sua tetraggine, per quel che di funesto che le si vedeva addosso e che allora poteva essere attribuito, con molte semplificazioni al clima desolante appena successivo al disfacimento della DDR.

Lontana dal centro della città, da quella stazione partivano i treni per Kiev, Mosca, Varsavia, Sofia. Nel’91 mi aveva colpito vederne uno, totalmente vuoto, diretto alla capitale ucraina. Una signora, che aveva colto lo stupore con cui osservavo la scena mi spiegò che i tedeschi non ci salivano più perché in territorio ucraino e bielorusso se c’erano occidentali a bordo i treni venivano assaliti e si veniva derubati di tutto. Rimasi perplesso e incerto se si trattasse di verità o di leggenda metropolitana, ma quando tornai in Italia vidi un servizio della BBC in cui tutto questo era documentato.

Questo luogo, funestato dalla doppia tragedia della storia tedesca, si trova oggi dalla parte opposta del pendolo, immagine di quel passato che non passa e che sembra ripercorrere le sue strade obbligate. Tuttavia nel resto della città tutto questo non si avverte, se non quando ricorrono le date di nascita di Hitler o altre ricorrenze legate al nazismo; allora anche i naziskin abbandonano i loro territori e arrivano fino in centro.

Ottobre 2018.

Il metro mi riporta in piazza Wagner, la fermata del mio rientro a casa. Il luogo è particolarmente tranquillo: ex zona inglese, in fondo al viale di Otto Suhr troneggia il castello di Charlottenburg, un avamposto dentro Berlino della città imperiale di Posdam che si trova a trenta chilometri da qui. Il fiume, in corrispondenza del castello s’allarga e forma una grande ansa, si può scendere e percorrerne le rive dove d’estate attraccano anche i battelli.

Il mio modo di sentire quando una città diventa un luogo in cui vivere è piacevole e non semplicemente un punto di transito è molto semplice: quando i siti più comuni, quelli più famosi e che per forza di cose si visitano per primi, non mi attirano più come le prime volte che ci approdavo. Il passo definitivo, però, è quando avverto il piacere di fare vita di quartiere, di stare dove sono e condividere con gli altri, anche se sconosciuti, la vita quotidiana, con le sue abitudini e la sua gente: nel mio caso, per esempio, il supermercato, il bar delle turche dove la colazione è particolarmente ricca e l’altro, sempre delle turche (li definisco così perché ci lavorano solo giovani donne turche), dove vado la sera quando ci sono le partite di Champions: la consumazione, fra l’altro, costa tre euro invece dei sei di Milano. A Berlino questo passaggio al piacere quotidiano della condivisione di vie e luoghi è avvenuto più in fretta che altrove. In fondo la sfida di un mondo vivibile possibile del futuro è proprio questa: l’utopia di potersi sentire a casa potenzialmente ovunque, utopia nel senso di un orizzonte che ti fa camminare, come scrive Galeano. Cittadini del mondo oggi non è più uno slogan: avviene quotidianamente ovunque, non può essere arrestato come processo: si può soltanto decidere se debba avvenire fra scontri civili, oppure essere il volto alternativo alla superficiale e distruttiva globalizzazione finanziaria. A Berlino sembra di potersi avvicinare a questa utopia: la Berlino non certamente elegante come Parigi, non imperiale come Londra, non stratificata sui millenni come Roma, ma capitale di un’Europa di convivenza pacifica fra diversi, ancora lontana.

Mercato turco

DIARIO BERLINESE: QUINTA PARTE

Bernauer strasse.

BERLINO E IL MURO

Anche in questo capitolo del diario, ho assemblato riflessioni avvenute su un lungo arco di tempo. Il Muro è stato ingombrante quando c’era e per alcuni anni ha continuato a esserlo anche dopo che fu abbattuto. Poi la sua immagine è divenuta più sfocata, poi è successo di tutto. Due anni di Covid e oltre un anno di guerra nel cuore dell’Europa sembrano distanziarci anni luce dalla storia successiva la fine della Seconda Guerra Mondiale; oppure no, ma in che senso è difficile dirlo. La data di inizio del diario non può che essere quella della sua caduta e il racconto comincia da Milano.

Novembre 1989.

I nostri figli avevano otto e dieci anni e, come noi adulti, avevano seguito l’abbattimento del muro in televisione, con l’attenzione e la preoccupazione che i nostri volti sorpresi e anche un po’ attoniti dovevano aver loro trasmesso. Quando ne riparlammo anni dopo mi resi conto che quello era stato il loro ingresso nel mondo dei grandi problemi, quelli che stanno fuori dalla porta di casa. Non eravamo corsi a Berlino a ridosso degli eventi, come avevano fatto molti anche da Milano, saltando sul primo treno o improvvisando macchinate zeppe d’amici e ora sorrido fra me pensando che anche a vent’anni di distanza, nel 2009, giunsi in città due giorni dopo le celebrazioni! È una festa tedesca, avevo pensato nell’89, vedevo la gioia sui volti della popolazione, quasi incredula, non c’era bisogno di cogliere l’ennesima occasione di baldoria e correre là; che fosse anche una festa europea, per quelli della mia generazione non era così scontato e per i più anziani, che avevano vissuto la Seconda Guerra Mondiale al fronte oppure nelle città devastate, lo era ancora meno.

“Voi non li avete conosciuti i tedeschi tutti insieme.”

A pronunciare queste parole, a Milano, nel 1989, era stato in vecchio signore che mi sedeva accanto sul tram 24. Io stavo sfogliando le pagine del Manifesto, con le fotografie dei giovani felici e urlanti che ballavano sul muro mezzo diroccato, mentre altri picconavano come muratori improvvisati.

Cominciammo a parlare: era un democristiano, ma vedevo in lui una sincera preoccupazione. Ritornavano nella sua mente i fantasmi che a me, nato nel 1947, erano giunti di seconda mano: prima attraverso i racconti dei genitori, poi dai libri di storia e dalla mia militanza politica. La frase cinica e lucida di Andreotti però la ricordavo bene: Amiamo così tanto la Germania che siamo felici ce ne siano due. L’avevo ripetuta al mio occasionale interlocutore e avevamo riso.

La mia prima visita a Berlino avvenne nel mezzo di un altro evento storico, tragicomico questa volta: il tentativo di colpo di stato contro Gorbaciov in Unione Sovietica. Arrivavamo dal nord Europa dopo un lungo viaggio nella penisola scandinava, era trascorso quasi un anno dalla caduta del muro e i miei figli sapevano molto della storia della città e non vedevano l’ora di passeggiare per le sue strade. Entrammo in ostello e vedemmo tutti i presenti davanti al televisore, compresi i ragazzi della reception. Il claudicante tedesco mio e di Laura c’impediva di capire subito, ma alla vista del carro armato con sopra Eltsin che arringava una folla, peraltro assai contenuta nel numero, cominciammo a comprendere. Una ragazza al mio fianco disse qualcosa come zurück, Russische zurück!

I Russi tornano indietro: possibile? Dissi fra me e me … Le antiche paure oscuravano la percezione di una realtà ormai irreversibile; anzi, quel gesto stupido e disperato, compiuto da uomini ormai completamente obnubilati e incapaci di leggere la storia, avrebbe ulteriormente accelerato la fine dei paesi socialisti.

Il giorno dopo ce n’andammo in giro per la città e bastava fare questo per capire in modo visivamente impressionante cosa fosse la dissoluzione di uno stato in presa diretta. Lo stato suggerisce immagini di grande potenza, suscita reminiscenze letterarie, lo si può intendere come Moloch, come Grande Fratello, come Castello kafkiano, oppure come il Leviatano di Hobbes. Tutto questo, lungo Unter den Linden, nel 1991, sembrava un delirio da filosofi e scrittori. I militari della ex DDR vendevano di tutto, anzi svendevano di tutto. Una folla ridanciana e addirittura entusiasta, ma con il pensiero un po’ troppo in libera uscita, s’aggirava in mezzo a motociclette militari equipaggiate di tutto, compresi cannocchiali a infrarosso che permettono di uccidere di notte una persona a un chilometro di distanza. Pensai subito, e i fatti successivi mi diedero purtroppo ragione, che quelle armi sarebbero finite da qualche parte molto presto, a riempire arsenali di mafie e gruppi etnici in lotta fra loro. La guerra nella ex Jugoslavia non ebbe bisogno di grandi finanziamenti, bastava andare a Berlino nei posti giusti, attendere, gettare uno sguardo dietro la vetrina, lanciare opportuni segnali a chi era lì pronto a coglierli e si trovava di tutto.

Ci ritornai l’anno dopo e Unter den Linden era stata ripulita, al posto dell’emporio militare a cielo aperto c’era una boutique di bigiotteria dove si vendevano gadgets e pezzi di muro; il cimelio militare più significativo cui si poteva aspirare era il colbacco grigio con la stella rossa appuntata in fronte.

La città, però, non aveva ancora cominciato a cambiare veramente; anzi, passato il tempo della sbronza, delle feste continue, del caos, nel suo centro s’era aperta una voragine. Fra l’est e l’ovest c’era la terra di nessuno, una zona di rispetto tranne che in alcune parti dove le due città si sfioravano e il muro divideva una strada. Ora quel vuoto era desolante: solo ruspe, fango e rovine. Dovevano passare alcuni anni ancora perché nascesse la nuova città.

Bernauer strasse

2008-9.

La mia ricerca del muro e di quanto ne restava cominciò subito, ma è stata assai accidentata. I reperti e i pezzi rimasti sono molti: alcuni lasciati dove erano, altri rimossi e posti altrove. Sono poche però le aree veramente decisive ed emozionati. L’americanata di Warshauer Strasse, per esempio, è proprio il modo più infausto di ricordare il muro, anche se le intenzioni furono certo nobili. Si tratta della porzione più grande conservata nel luogo in cui si trovava, in riva la fiume; anzi una doppia muraglia. Subito dopo l’abbattimento all’amministrazione venne l’idea di conservarlo e di chiedere ad artisti di dipingerne i diversi pezzi. In effetti il muro si presta benissimo a composizioni pittoriche o murales e quindi l’idea in sé era buona e già praticata in modo spontaneo anche prima quando il muro era ancora in piedi ma la parte rivolta a occidente poteva essere avvicinata e dipinta perché le torrette militari stavano solo sulla seconda muraglia. Furono pochi però gli artisti ad aderire al progetto, che fu lasciato a una spontaneità incontrollata. Tuttavia, il luogo in sé è gradevole per la presenza alle punte estreme del percorso di oltre un chilometro, di un locale – Piraten – che fu anche un punto di riferimento del partito con il nome analogo che attraversò come una meteora la politica tedesca. Alla fine del muro dall’altra parte, c’è invece un centro sociale fra i più divertenti e sgangherati che ricordi. Non avendo scritto il suo nome allora non ne ho ritrovata traccia anche perché non si tratta di certo di un centro sociale famoso come il Tachles o il Køpi, che hanno fatto la storia di Berlino. In riva al fiume e dall’assetto territoriale precario, fatto di prati accidentati calanti verso il fiume, tavolini posti in situazioni di equilibrio instabile, in mezzo a ogni genere di cose, il sito è tuttavia gradevole sia per la vista sia per la tranquillità. Con un po’ di pazienza il proprio posto dove fermarsi a leggere consumando un’ottima birra a costi ragionevoli, lo si trova sempre.

Un altro modo sobrio ma convincente di ricordare il muro, lo scoprii quasi per caso durante una visita intorno alla porta di Brandeburgo con amici e amiche in visita dall’Italia. Camminando verso la porta notai una fila di due mattoni di selciato diversi dagli altri, in alcuni punti vistosissimi, in altri che si fondevano con l’arredo urbano. Due semplici mattonelle e sampietrini, dalla foggia però inconfondibile, simili alle pietre d’inciampo. Quando li si vede si comprende subito: ecco, il muro passava di li. Semplice e geniale, anche perché quotidiano; non un monumento, ma qualcosa che accompagna il passante ogni giorno, che viene calpestato ogni giorno. Prima o poi chiunque, anche il più distratto, se ne accorge. La prima parte delle mie visite si conclude con due luoghi canonici: Il Checkpoint Charlie in Friederich Strasse e il museo della DDR a ridosso di Alexander Platz. Definirli deludenti è forse troppo, ma è pur vero che in essi ho trovato quello che in un modo o nell’altro conoscevo già, senza che le ricostruzioni riservassero novità o  particolari emozioni.

2016.

Il sito che davvero vale la pena di visitare è il Memoriale del Muro di Berlino che si trova si trova in Bernauer strasse. Sapevo della sua esistenza, ma visto che i siti precedenti in un modo o nell’altro non mi avevano convinto del tutto, continuavo a rimandare la visita. Fu la lettura in bozze di un libro di cui mi era stato chiesto di scrivere l’introduzione a convincermi ad andarci e lo ribadisco qui. Il titolo del libro è Doppia esposizione. Berlin 1985-2015 di Natascia Ancarani (Autore) Ediz. del Foglio Clandestino, Sesto san Giovanni 2015. Il libro ha molti pregi, ma primo fra tutti essere scritto da chi ha vissuto sia a est sia a ovest in quegli anni. Pr quanto mi riguarda la visita al Memoriale e al piccolo museo annesso è stata un’esperienza di grande rilevanza storica ed emotiva. Un sito sobrio, nudo nella sua essenzialità, nei materiali didascalici messi a disposizione, ma specialmente è la sua conservazione spoglia, le sue torrette dal colore brutto come tutte le installazioni militari a fare impressione. Poi ci sono la storia, il cimitero, i morti, gli aneddoti. Il libro in questione è molto esauriente nel descrivere, la visita lo è altrettanto. Anticipo che questo diario berlinese si concluderà con la pubblicazione dell’introduzione scritta per il libro. Qui voglio ricordare solo uno degli aspetti più grotteschi di tutta la questione. Gli edifici di Bernauer strasse erano collocati a est, ma per una bizzarria che viene spiegata dal libro ma che tuttavia esula un po’ dalla mia capacità di comprensione, il marciapiede sottostante gli edifici era Berlino ovest, il che portò a episodi che nel libro sono descritti, in cui il comico e il tragico si alternano.     

Memoriale del Muro

DIARIO BERLINESE: QUARTA PARTE

Fiumi ghiacciati a Berlino

1 Febbraio 2012. I giorni della merla non tradiscono mai, leggo sui giornali che una copiosa nevicata ha ricoperto Milano: anche a Berlino la temperatura è arrivata a meno otto, alcuni tratti dei canali sono ghiacciati.

20 Febbraio.

Berlino sta cambiando, si cominciano a sentire sul serio anche qui gli effetti della crisi europea. L’aumento del prezzo dei mezzi di trasporto (sebbene non siano stati praticamente toccati gli abbonamenti per studenti e altre fasce protette), la sempre più scarsa manutenzione di scale mobili e altri accessori legati alla rete metropolitana, un aumento visibile di barboni in alcune parti della città. Si vive sempre bene qui, ma i segni del mutamento ci sono tutti. Ne parlo con un lavoratore serbo che vive qui da tempo. Fuggito dalla guerra civile jugoslava ed emigrato in Germania con famiglia, dopo essere passato da Italia, Francia, Olanda. Oltre al serbo croato parla benissimo altre tre lingue (italiano, olandese e inglese) ma solo discretamente il tedesco, tanto che vuole frequentare un corso al Goethe. Fa ogni genere di lavoro che abbia a che fare con la manutenzione degli alloggi.

“Fra due anni vado via …”

“Perché? Lavori bene qui …”

“Si, ma fra due anni tutto finito …”

“Non esageri un po’?”

“Prima avevo troppo lavoro adesso sto fermo anche per un mese … è per questo che sono andato a Parigi con mia moglie e mia figlia … non avevo niente da fare … Parigi belisima.

“E dove torni?”

“A casa in Serbia …”

Lui è un termometro molto sensibile proprio per il lavoro che fa e le sue parole mi colpiscono.

“Solo due anni? Ne sei proprio convinto?”

“Vedremo.”

Fra un tema e l’altro si ricade sulla politica, ho la televisione accesa mentre parliamo e va in onda un servizio storico sulla prima guerra del Golfo.

“Gli americani non sanno fare altro … la guerra, mi ricorda quello che successo con la Serbia.”

Evito di dirgli che quella guerra fu forse voluta con altrettanta forza dagli europei e che fra l’altro ha avvantaggiato non poco la Germania … Continuiamo a parlare e mi rendo conto di quanto prestigio goda Putin presso gli slavi. Lo avvertono come un leader che resiste allo strapotere americano, anche se poi aggiunge che:

“I russi sono il peggio.”

Dopo un lungo giro si ritorna alla Germania e io accenno al saccheggio di Croazia e Slovenia …

“Certo è tutta loro la costa croata, se la sono presa: Sarajevo è tedesca e la Slovenia pure …”

“Il programma di Hitler …”

“Certo e senza sparare un colpo!” 

“Però a Berlino si vive ancora bene dai!”

11 febbraio 2013

Di nuovo verso Berlino. Leggo in aereo le corrispondenze della stampa tedesca sull’ultimo giorno da Papa di Ratzinger. Non mi aspettavo il tono spesso duro, una visione del gesto totalmente diversa da come è stata vissuta in Italia. Faccio una premessa. Ratzinger non era particolarmente amato o considerato in Germania, il soglio pontificio a un cardinale tedesco non ha mai scaldato il loro cuore più di tanto, in televisione le apparizioni del Papa non erano mai aumentate e sono lontanissime dal presenzialismo nella nostra tv, nei dibattiti di seconda serata si sentivano spesso delle critiche anche prima e quando lo scandalo pedofilia ha toccato il fratello Georg c’è chi ha chiesto le sue dimissioni da pontefice. Eppure, ora che le ha date, la stampa tedesca sembra reagire in modo del tutto diverso. Pensavo che anche qui il suo fosse considerato un gesto di coraggio e invece, a parte alcune difese d’ufficio, i commenti sono assai aspri e talvolta decisamente di cattivo gusto. Sotto il titolo di “Infallibile solo nelle dimissioni” la Berliner Zeitung rincara la dose parlando di lui come di un modesto teologo. Si potrebbe però obiettare che il quotidiano berlinese è noto per le sue posizioni progressiste e laiche ma anche Die Welt, conservatore, considera il suo un gesto adatto a un amministratore delegato ma non a un Papa e addirittura la Frankfurter Allgemeine scrive che “il culto della persona ha assunto dimensioni quasi blasfeme, fino al punto che Benedetto XVI persino in pensione si fa chiamare Sua Santità.”

Una differenza abissale con i commenti italiani, ma anche con quelli di altri paesi, per nulla in sintonia con la folla che durante gli ultimi giorni di pontificato accorreva in Piazza san Pietro. Commenti molto tedeschi, si potrebbe dire: il capitano che non può lasciare la nave, il culto del senso di responsabilità che certamente ha qualcosa di protestante e forse anche di queste antiche punture di spillo fra cristiani rimane una eco in queste prese di posizione. Quello che è totalmente assente è un qualsiasi discorso sul ruolo della curia romana in tutta la vicenda, sul peso di un assedio che a tutti è parso evidente.

12 Febbraio.

Forse si capisce di più dell’atteggiamento tedesco, se si considerano altri fattori. Da tempo in Germania le critiche al cattolicesimo investono aspetti teologici e a livello se non di massa, almeno di minoranze agguerrite. Si contesta l’immagine e la dizione Dio padre, in quanto escludente delle donne. Non è una critica che proviene solo da movimenti femministi, ma si sta facendo ampia strada in settori diversi dell’opinione pubblica. Se, infatti, il ritratto di Cristo e la sua nascita storica ne fanno un soggetto maschile senza alcuna discussione possibile, l’immagine di Dio troppo legata alla fisicità di maschio, appare paradossale e in effetti lo è. Vengono in mente anche le parole del buon Albino Luciani, che si fece di tutto per gettare nel ridicolo. Dio è anche madre (lui a dire il vero aveva detto mamma e questo aveva contribuito a suscitare commenti sarcastici e superficiali sentenze psicoanalitiche sulla sua persona), ma vedere oggi lo stesso argomento raccolto in altro modo e con dovizia di argomentazioni, fa una certa impressione; positiva peraltro.

15 Febbraio 2013.

Nasce in Germania Fermare il declino, un movimento che diventerà presto un partito. Si dichiarano europeisti, ma sono contro l’euro e per il ritorno alle monete nazionali o ad aggregazioni monetarie diverse e più leggere. Le novità sono due e forse tre. La prima: il partito è diretto dall’ex presidente della Confindustria tedesca. È una novità e assai eclatante, perché segna una rottura nel fronte dei poteri forti e fa emergere una contraddizione di cui si sapeva da tempo, ma che non era ancora esplosa: è un segnale ostile a Merkel che proviene dall´interno dell’attuale establishment ma che fino a ora era un mugugno. Il partito si chiamerà Alternative für Deutschland. Vedremo se lo stupidario europeista acefalo definirà populisti anche loro. Seconda novità implicita nella prima: un partito conservatore anti euro costringerà la Linke tedesca a chiarire meglio le sue posizioni. Fino a ora la Linke e i movimenti di Occupy Frankfurt, hanno avuto il monopolio dell’opposizione alla moneta unica, ma si sono anche dovuti difendere dalle accuse di populismo, con il risultato che la loro opposizione è risultata spesso debole o di puro principio. Oggi dovranno dire qualcosa di più. Terza novità (forse). La sensazione è che i successi del Movimento Cinque Stelle in Italia abbiano accelerato il varo di questo partito, di certo pronto da tempo a uscire allo scoperto, ma che forse avrebbe atteso le elezioni tedesche in autunno, per poi uscire in vista di quelle europee. In Germania come in Inghilterra, non temono il Grillo in Italia, ma il Grillo in Europa, nei loro paesi. In Portogallo sta nascendo qualcosa di analogo al movimento Cinque stelle e questo fa paura.

20 Febbraio

Ancora su Ratzinger. Il suo gesto è il precipitato massimo di una contraddizione. Un Papa che si dimette come se la sua carica fosse del tutto simile a una qualsiasi altra è un gesto di estrema secolarizzazione, ma da un altro lato non è forse anche un segno di umiltà? Cristo non era un eroe sconfitto per le regole mondane? Il suo comportamento,  almeno nelle intenzioni, non rovesciava il culto antico dell’eroe, legato solo a imprese belliche gloriose? Ratzinger assomiglia di più a un amministratore delegato che scappa prima che arrivino i carabinieri (è una metafora, non arriveranno mai), a sequestrare lo IOR, oppure è uno che dice, tenetevi pure il mondo io me ne vado da un’altra parte? Forse nessuna delle due ma una terza intermedia, però mi colpisce che nessuno, fra i cattolici, pensi all’altra. Solo Cardini ha parlato di una sconfitta di Ratzinger. Forse in un senso leggermente diverso, però. Ci capiremo forse qualcosa di più vedendo chi sarà il nuovo Papa, o forse mai.

10 Aprile.

Le coincidenze temporali sono sempre suggestive: ricordiamo tutti l’impressione che fece il fatto che la Rivoluzione Francese iniziasse nell’89 e che il Muro di Berlino cadesse due secoli dopo nello stesso anno. Che significa? Nulla o forse no: per esempio potrebbe significare che allora si era chiusa una parentesi di due secoli, in cui l’umanità per la prima volta ha sognato di potere realizzare una società giusta nell´al di qua e non nell’aldilà … e per di più ha avuto anche l’ardire di tentarlo e non solo di sognarlo. Che sia stata sconfitta almeno per il momento può fare ghignare soltanto i potenti, i cinici e gli stolti.

Le coincidenze si ripetono anche in questo anno di grazia e intrecciano la piccola Italia addirittura al cosmo e alla divinità. Nel breve spazio di un mese abbiamo nell’ordine: le dimissioni di un Papa, la sede presto vacante della Presidenza della repubblica, un vuoto di governo, elezioni che ci consegnano un parlamento difficilmente governabile, un nuovo Papa. Tutto ciò può anche risultare tragicomico, oppure suggerire che a volte il piccolo e il grande, unendosi in uno spazio temporale assai ristretto, possono essere l’indice o il segno di cambiamenti profondi di cui però stentiamo a vedere la direzione.

3 ottobre 2013.

Il silenzio del governo tedesco su Lampedusa è finito. Le dichiarazioni molto critiche di Shultz, presidente del Parlamento europeo e possibile ministro degli esteri di un governo di Großße Koalition erano passate un po’ inosservate, visto il ruolo istituzionale che ricopre, ma la dichiarazione di seguito che riporto, mette fine al clima di cordoglio unanime, ma pone anche fine alla retorica:

Il ministro degli Interni Hans-Peter Friedrich (Csu) … ha escluso un ripensamento delle regole che governano la politica europea sui rifugiati, ha chiesto l’inasprimento delle pene per i trafficanti di uomini e respinto l’accusa rivolta all’Ue di rinchiudersi nei propri confini.

Solo la Germania ha concesso quest’anno rifugio a 80 mila profughi. La dichiarazione che segue è ancora più chiara:

Le richieste di aiuto dell’Italia a Bruxelles sono legittime, ma a volte appaiono come misere scuse, giacché il Paese, alla fine, non è gravato dal flusso migratorio più di altri Stati membri, al contrario. Finora Roma ha concesso accoglienza ufficiale a 65 mila profughi contro i quasi 600 mila della Germania. In più l’aiuto si esaurisce solo ai rifugiati provenienti da Eritrea, Somalia e ora Siria e, una volta ottenuto il permesso, il rifugiato deve decidere da solo dove sistemarsi senza che gli venga assegnata una residenza, del denaro o adeguata assistenza sanitaria. Al fondo di questa politica c’è l’auspicio che i rifugiati decidano di emigrare ancora in altri Paesi europei, dove le condizioni assicurate sono migliori.

Per risultare credibile nell’intento di umanizzare la politica europea sui rifugiati, ha concluso il quotidiano berlinese, l’Italia deve saper mettere mano anche alla sua stessa legislazione, per esempio alla legge Bossi-Fini.  Fatte salve le ragioni di politica interna che possono avere in parte ispirato questo comunicato, esso contiene però alcune indubbie verità che in Italia si cerca di nascondere.

20 Ottobre.

Scendo dal metro un po’ prima di Postzdamer Platz e attraverso il Tiergarten. I colori autunnali sono esplosivi, è una giornata di sole. I boschi circondano Berlino, così come le acque: non solo la piccola Spree, che sembra un fiumicello se paragonato ai fratelli illustri che solcano altre grandi città europee, ma i grandi laghi. Boschi e laghi ovunque, dentro la città e intorno. Boschi e non giardini e la precisazione è d’obbligo: perché la mano umana si astiene dall’intervenire troppo per abbellire e curare. L’intervento si limita allo stretto necessario: tagli e potatura, rimozione dei rami caduti e questo è tutto; a parte le ampie strade sterrate e i sentieri dove tutti corrono o vanno in bicicletta. Per questo anche il Tiergarten conserva il suo tratto selvaggio, il ciclo vita-morte lasciato al suo procedere naturale: dal risveglio primaverile, alla contenuta esuberanza estiva che appartiene a un bosco nordico, allo smagliante tramonto autunnale, alla marcescenza invernale. Vita e morte, il ciclo ingovernabile ma saggio, che mi fa venire in mente i versi memorabili dell’antologia di Spoon River, che Edgar Lee Masters mette sulle labbra di un personaggio di nome Paul Nitze, che potrebbe persino essere di origine tedesca:

O morte, giardiniere autunnale che prepari la primavera della vita.

Tiergarten Berlin

DIARIO BERLINESE: TERZA PARTE

Sul Nazismo e altro

Premessa

In questa parte metto una sola data perché ho radunato in essa riflessioni che appartengono a momenti diversi. Tuttavia c’è un momento centrale che ha favorito l’intera riflessione: il 2010, quando fu allestita la mostra Hitler e i tedeschi, nel Museo di storia tedesca di Berlino, a 65 anni dalla caduta del regime nazista.

Prenzlauere Allee

Marzo 2010.

L’occasione è stata davvero unica per riflettere. Prima di tutto il titolo, che va preso alla lettera: è una mostra per i tedeschi e proprio per questo è molto interessante. L’edificio che l’ospitava si trova nell’isola dei Musei, un complesso monumentale della città che oggi mi appare meno vecchio e vetusto di quando vi misi piede la prima volta, diversi anni fa. Al piano superiore si trova la mostra delle opere di Begas, l’architetto scultore autore dei progetti urbanistici più importanti risalenti al periodo bismarkiano. Molti dei palazzi più antichi di Berlino (città che – è bene ricordarlo – antica non è), sono suoi, insieme ad alcune sculture e busti che ritraggono il cancelliere di ferro. Distribuito fra piano terra e un altro inferiore, si trova il Museo di storia tedesca dalle origini a oggi e, in quel contesto, la mostra Hitler e i tedeschi, un titolo semplice. Anche le didascalie in inglese, solitamente abbondanti e anche l’apparato di depliant e pubblicazioni connesse, sono questa volta in larga misura, nella sola lingua tedesca. Insomma, una mostra per ragionare come popolo tedesco intorno a una domanda che si ripropone a distanza di decenni: perché è stato possibile un Hitler? Da quando, nel 1968, la Germania ha iniziato a emanciparsi dalla rimozione che aveva accompagnato gli anni immediatamente successivi la catastrofe bellica, la riflessione sul Terzo Reich è stata profonda e incessante. Nella mostra non vi è nessuna sopravvalutazione delle pur presenti forme di resistenza provenienti dall’establishment: nessuna enfasi sulla Rosa Bianca o sul Piano Valchiria, il tentativo di colpo di stato e di attentato a Hitler del 1944, gesto tardivo e peraltro fallito. Nessuno sconto insomma, ma una nuda elencazione di fatti dopo alcune premesse, con un ampio corredo di giornali, altre pubblicazioni, manifesti, pamphlet di propaganda politica, tutta l’iconografia, i simboli, la coreografia che accompagnava le manifestazioni del regime. E ovviamente le immagini, non molte però, non usuali e senza la voce di Hitler, tranne che nella parte finale dove alcuni suoi discorsi venivano diffusi da altoparlanti a un livello di audio abbastanza basso.  

L’effetto su un non tedesco, almeno per quanto mi riguarda, è stato molto forte. Mi sono reso conto (è banale dirlo, ma non ci si pensa), che in fondo tutto quell’armamentario l’avevo visto da lontano, in filmati d’epoca cattivi, sempre in bianco e nero, dove apparivano sempre le stesse immagini. Trovarsi a contatto diretto, poter toccare le bandiere, i labari, vedere dal vivo la croce uncinata nera in campo rosso, la stoffa delle divise, i loro colori, non è la stessa cosa che vederli da lontano. Certo, in questa mostra mancava la rappresentazione del gigantismo oceanico delle mobilitazioni di massa, a parte la fotografia della striscia di luce creata dalle fiaccole accese durante la sfilata sulla Unter den Linden, subito dopo la nomina di Hitler alla cancelleria. La vista da vicino dei simboli più noti del regime nazista mi ha fatto percepire diversamente molti aspetti, soffermare su particolari che sfuggono se osservati a distanza e la prima riflessione che mi è balzata subito alla mente è che in tutta quella coreografia e anche nell’uso dei colori era presente un elemento kitsch che appartiene alla cultura tedesca (il termine è nato qui); tanto da essere presente anche oggi, quando assume aspetti favolistici e innocui, pateticamente ironici e auto ironici: certe trasmissioni televisive del sabato sera sono assolutamente imperdibili sotto tale aspetto. Tale elemento kitsch, nelle raffigurazioni pittoriche, in certi busti del Führer scolpiti da artisti mediocri, in certe sue immagini ravvicinate, diviene maschera grottesca, che raggiunge talvolta effetti di involontaria comicità. Chaplin ha colto davvero in modo profondo e non caricaturale questo effetto di maschera. I baffetti che sembrano sempre posticci, oppure come se gli colasse costantemente il sangue dal naso, la scriminatura dei capelli talmente precisa ed evidenziata (come se la mamma gli scolpisse ogni giorno la riga dei capelli prima di lasciarlo uscire di casa), sono irresistibilmente comiche; oppure l’occhio che guarda sospettoso nella macchina da presa, con uno sguardo che sembra l’imitazione mal riuscita di Buster Keaton. Mentre negli altri gerarchi prevale sempre un aspetto greve e tragico (terribile ascoltare la voce di Goebbels, il suo tono isterico e forzato fino al parossismo, più che non quella di Hitler stesso, capace di usare anche i toni pacati), la comicità involontaria è quasi sempre presente nel Führer. Il comico ha un rapporto assai contiguo con il tragico e basta poco per scivolare da una parte o dall’altra della lama del fine rasoio che le separa. Per i greci non era ovviamente così e neppure per gli antichi dei del pantheon germanici, cui Hitler ha preteso d’ispirarsi. Il nazismo fu anche rappresentazione teatrale che dalla scena ha preteso di andare prima per le strade e poi nella vita di ogni giorno. Se l’idea di trasporre le antiche mitologie nel mondo moderno significa darne una rappresentazione grottesca e caricaturale, l’idea di trasformarle in pratiche politiche produce mostri; ma sono mostri che hanno una loro estetica ipnotica, come aveva ben compreso Walter Benjamin quando denunciava il processo di estetizzazione della politica.

Dalla mostra alla musica di Wagner il passo è breve. Scelto dai nazisti come loro vate musicale, ancora oggi sono in tanti a considerarlo un predestinato al nazismo, anzi una sorta di nazista ante litteram. Il povero Wagner morì nel 1901, sarebbe bene ricordarlo ogni tanto! Naturalmente l’equazione che i nazisti pensarono è semplice da stabilire, tanto semplice e semplicistica che c’è da domandarsi per quale motivo abbia avuto tanta fortuna anche presso molti che nazisti non erano e non sono. A parte la questione che Wagner fosse un antisemita convinto (ma erano in molti a esserlo in Europa e non solo in Germania), è il culto della potenza ciò che i nazisti sentirono o pensarono di sentire nella sua musica e naturalmente il riferimento tematico costante alla mitologia germanica e alla sua grandiosità guerriera, il secondo addendo di un’addizione la cui somma creò il mito wagneriano che conosciamo. Wagner però, era un maestro ineguagliabile del sublime, talvolta patetico, mentre l’esagerazione dei toni lo fa talvolta deragliare. I suoi eccessi e forzature s’avvertono subito a un ascolto non superficiale e c’è molta più potenza, nel senso che i nazisti attribuivano a Wagner, nel frammento musicale di Richard Strauss Così parlò Zarathustra, quando viene eseguito con tutti i crismi da orchestre classiche, oppure nell’assolutismo musicale dei Carmina Burana di Orff, che non in certe fanfarate wagneriane, dove l’eccesso finisce per travolgere tutto, anche la potenza, diventandone caricatura involontaria.

Una notazione particolare, per ritornare alla mostra, meritano i tre acquarelli di Hitler esposti. Piccoli quadri minuscoli, sempre rappresentazioni di scene rurali semplicissime, quasi delle miniature. Hitler amava una ruralità dove è però assente l’essere umano: ci sono le case, i fienili, ma più di tutto colpisce una lindezza maniacale, un ordine perfetto, impossibile da ottenersi in campagna se solo uno vi ha messo piede qualche volta. È anonima la campagna nei suoi quadretti, mentre siamo abituati ad associare l’anonimia alla città moderna e tentacolare che Hitler voleva teatro di progetti faraonici, di una grandiosità smisurata. Anche Walter Speer (l’architetto del regime, le cui realizzazioni sono state così acutamente analizzate da Elias Canetti), che cercò di concretizzare i deliri architettonici del suo capo, scambia la potenza con l’accumulo: niente a che vedere con le piramidi egizie o azteche, tirate su da uomini a braccia, ma la pura rappresentazione di una potenza tragicamente travisata e dunque senza vera tragicità; solo vuoto gigantismo, horror vacui, che apre le porte alla distruzione e all’autodistruzione. 

Sono tornato al Museo ebraico dopo avere visto la Mostra. C’ero stato una prima volta appena arrivato, nel gennaio del 2008. L’impressione generale non è mutata e si può riassumere nella sproporzione esistente fra l’orrore e la sua rappresentazione: lo scarto resta incolmabile anche se in alcuni momenti la distanza si accorcia. Forse sarà proprio per questo che la storia si può ripetere: siamo in grado di produrre l’orrore e la divinità ma poi non siamo in grado di rappresentarli e senza rappresentazione non vi è introiezione definitiva del numinoso, che solo se attraversato veramente può forse essere domato. Omero o chi per lui lo fece nell’Odissea quando fece fare a Ulisse, alla corte di Alcinoo, quello che nessuno da lui si aspetterebbe: rivelare il proprio nome. Quando può farlo però? Nel momento in cui un altro gli racconta le sue gesta: messo davanti alla narrazione delle sue responsabilità Ulisse crolla e scoppia a piangere dicendo:

“Sono io la causa di quei lutti.”

O forse è proprio il Museo a essere poco adatto a rappresentare una tragedia storica come questa e nonostante sia tutto perfetto in quello di Berlino: ricostruzioni accuratissime, dovizia di materiali, analisi storica severa. Tuttavia, capita raramente che si sia colti veramente a disagio, cioè dalla consapevolezza che dietro quella fotografia pregevole artisticamente, dietro quelle linee che s’intersecano con una mirabile capacità compositiva, dietro il dipinto di un artista, si apre l’abisso di un destino difficile da decifrare.

Solo in tre momenti ci si avvicina a un disagio più accentuato: quando si finisce nei tre vicoli ciechi del museo, dai quali si può uscire solo tornando indietro. 

Il primo è il giardino degli esuli. Si accede a esso tramite una porta neppure troppo in vista e si entra in un quadrilatero di pietre altissime poste in verticale, con stretti sentieri fra l’una e l’altra e un perimetro che avvolge l’intera costruzione. Il contrasto fra un luogo idillico come il giardino e le costruzioni in muratura che ricordano quelle a cielo aperto di un altro museo della Shoah nei pressi della porta di Brandeburgo, costruite dall’architetto Eisenmahn, è soffocante. Né prigione né giardino, sembra di stare  nell’ora d’aria di un detenuto.

Il secondo vicolo cieco è la torre: alla fine di un corridoio si entra in un edificio dalle pareti altissime che si restringono in alto. Il soffitto è nero e la poca luce entra da una bocca di lupo a destra. Non vi è niente altro nella torre, nessun arredo, solo la forza soverchiante delle mura e del buio. Infine, il terzo vicolo cieco conduce a un’installazione dell’artista israeliano Menashe Kadishman, intitolata Foglie morte. La lettura della sobria spiegazione è disturbata da un continuo e sinistro clangore, di cui subito non si afferra natura e provenienza: è un suono strano, ferrigno, ma potrebbe provenire anche da una mazza che percuote qualcosa di metallico. Lo si capisce subito dopo avere abbandonato il pannello con l’introduzione. Il visitatore deve percorrere un sentiero abbastanza largo cosparso di pezzi di ferro dallo spessore piuttosto consistente, tutti di forma rotonda e di diverse dimensioni. Tutti i pezzi hanno tre buchi che rappresentano in forma stilizzata occhi e bocca. Sono i teschi calpestati da chi passa, a produrre il suono. Mi vengono in mente le corrusche armi foscoliane mentre anch’io mi avvio sullo scomodo percorso: non dico che si possa cadere, ma il disagio è grande. Guardando bene quei teschi che sto calpestando mi sembrano tutte versioni diverse dell’urlo di Munch o crani di decapitati. Lo sgomento è forte e mentre torno indietro vedo che molti rimangono interdetti, alcune donne si fermano e osservano senza intraprendere il percorso.

Menashe Kadishman, l’artista israeliano, è nato a Tel Aviv nel 1932. Come tutti avrà avuto amici, conoscenti e parenti che sono finiti nei campi di concentramento, ma non ha vissuto la tragedia come chi ne è stato vittima diretta. Sarà forse per questo che, almeno per me, la sua opera è fra tutte quello esposte, la più inquietante e fra le più inquietanti fra quelle che mi sia capitato di vedere sulla Shoah? La sua distanza dalla cosa in sé, non rappresentabile, gli ha consentito questo? Non ho risposte certe, solo un interrogativo da porre e poi la percezione di un’opera d’arte anche nel caso felice in cui tutti si sia d’accordo nel giudicarla valida, è sempre tremendamente soggettiva, sebbene fosse visibile nello sguardo dei presenti insieme a me lo sgomento e l’imbarazzo. Quello che tuttavia manca è l’elemento catartico, almeno io non l’ho minimamente avvertito. Rimane la sproporzione, l’irriducibilità della tragedia.

La mia rassegna si conclude con un ritorno alla resistenza tedesca, perché su di essa c’è molto altro da dire, ora che qualche libro è finalmente venuto alla luce per ricostruire meglio tutto quanto è accaduto in quegli anni tragici. Dobbiamo allora partire dalla fine degli anni ’20 – diciamo dal 1929 – fino al 1934. La resistenza, in Germania, si colloca prima e non alla fine come è accaduto in tutte le altre nazioni europee. Durante gli anni e anche prima e cioè dalla fine degli anni ‘20, le milizie comuniste e socialiste si confrontarono sempre, anche militarmente, con polizia ed esercito e poi dagli anni ‘30 anche con le milizie naziste. In realtà ne sapevo poco pure io ma una sera, dopo un incontro letterario alla libreria italo-tedesco-brasiliana in Tor Strasse (una bizzarria tipicamente berlinese), una delle relatrici mi invita a fare una visita in un birrificio lì vicino. L’edificio di mattoni dalla colorazione tipica, imponente e  bellissimo, nasconde molti segreti. Ci avviciniamo a una parete e lei mi mostra dei segni di pallottola: mi spiega che sono quelli sparati sono  durante gli scontri armati degli anni ‘20-30 e la documentazione lo conferma. Il quartiere è quello di Prenzlauer, più vicino alle stazioni di Bernau e Rosa Luxemburg Platz. Ognuno aveva le sue birrerie di riferimento, gli scontri avvenivano ovunque. La resistenza fu attiva fino a buona parte del 1934 quando Hitler era già al potere. L’ultimo baluardo a cadere fu il Babylon, proprio in Rosa Luxemburg Platz, che fu chiuso nel ‘34. Tuttavia, nel 1936 in occasione delle Olimpiadi, ci furono grandi scioperi e azioni di sabotaggio in tutta Berlino e altrove, tanto che il regime fu costretto a concedere aumenti salariali. La resistenza tedesca, in buona sostanza, fu annientata prima, ma molti riuscirono a fuggire e furono attivi nelle resistenze europee come già si è detto. Tutto questo, per fare giustizia una volta per tutte della narrazione largamente incompleta sulle colpe collettive del popolo tedesco. Il Nazismo godette di un larghissimo consenso, nessuno può negare questo, come del resto il Fascismo in Italia: ma tale risultato fu ottenuto anche grazie all’annientamento fisico delle opposizioni, mentre in altri paesi, la clandestinità gettò le premesse della resistenza futura. Un’ultima considerazione riguarda Berlino. Ben 1500 ebrei decisero, nel pieno della guerra, di non lasciare la città e di non darsi alla fuga: non furono denunciati. Si può immaginare cosa potesse voler dire allora non denunciare un ebreo, eppure a Berlino avvenne anche questo e 1500 sono davvero tanti. Se nessuno fu denunciato significa che la rete di protezione intorno a loro e non solo resistette a delazioni e pressioni.

Museumsinseln Berlin

DIARIO BERLINESE: SECONDA PARTE

Berlin. Alexander Platz

26 Settembre 2010.

Il ritorno a Berlino coincide questa volta con il primo giorno di scuola. Mi sono iscritto a un corso di tedesco. Arrivato ieri mi ritrovo oggi catapultato in un’aula insieme ad altri e altre giovani, ben più giovani di me. Infatti mi guardano con curiosità. Proprio durante la prima mattina ho avuto l’ennesima conferma che Berlino è un luogo del tutto particolare anche per i tedeschi. La nostra insegnante, di Monaco di Baviera e assai severa in tema di regole sociali, almeno all’apparenza, ci ha raccontato un aneddoto molto comune i Germania. Quando in una famiglia ci sono un figlio o una figlia un po’ matti (verrükt), che non vuole dire semplicemente pazzerellone, ma qualcosa di più (in italiano potrebbe stare per trasgressivo, senza regole o anche matto), i genitori e specialmente le madri lo apostrofano così: “Figlio mio, tu sei pazzo, devi andare a Berlino.”

In effetti la città ha goduto di privilegi assai significativi, specialmente per la popolazione giovane e che hanno contribuito ad attirare verso di essa, uomini e donne ribelli. Una misura per tutte: chi si trasferiva a Berlino era esentato dal servizio militare. Berlino era una città assediata anche dopo la fine del blocco sovietico: il suo ripopolamento però era necessario per cui occorreva incentivarlo con misure e bonus di varia natura. Questo favorì il trasferimento nella città di oppositori trasgressivi di ogni tipo. Le occupazioni dei centri sociali erano più che tollerate e costituivano una sorta di welfare aggiuntivo per chi arrivava in città. Tutto questo rese appetibile Berlino anche per molti giovani europei e questo ne faceva una città che agli occhi di molti tedeschi appariva senza regole.

7 Ottobre

Ieri sera il canale di storia ha mandato in onda un lunghissimo servizio unico nel suo genere e che finora non avevo visto neppure qui. Si tratta di una ricostruzione degli ultimi mesi di Guerra, dal febbraio del ‘45 fino al 9 maggio, data in cui l’Ammiraglio Donetz firmò la capitolazione della Germania senza condizioni. Niente di strano fin qui, solo che la ricostruzione storica era giorno per giorno! Il materiale cinematografico, in larga parte di fonte americana, era basato sia su documentazioni giornalistiche di inviati al fronte al seguito delle truppe, sia da filmati di cine operatori improvvisati, soldati stessi incaricati dagli ufficiali. Un materiale dunque diversificato: a volte s’intuiva una totale assenza di regia, in altri casi il contrario, una regia molto sorvegliata che aveva lavorato di tagli e montaggio in modo assai raffinato. L’accompagnamento di voce, sempre in tedesco, faceva pensare a un lavoro d’equipe successivo, anche se ogni tanto il commento fuori campo era in inglese e poi veniva tradotto. Se ne deduceva in generale che la parte tedesca avesse accettato del tutto tale documentazione ritenendola fedele in linea di massima ai fatti. Il mio giudizio di spettatore è assai problematico. Difficile valutare la natura dei tagli: non tanto perché la regia edulcori la guerra dal momento che ne mostra tutti gli orrori seppure senza indulgere in immagini che oggi definiremmo pulp, se non in rarissimi casi. Non trascura di mostrare atti di violenza gratuita da parte delle truppe alleate, anche verso soldati che si erano già arresi. L’effetto generale però appare sconcertante perché filmare ogni giorno di guerra dal febbraio rivela anche un atteggiamento un po’ maniacale. Tre particolari mi hanno colpito e in attesa di vedere le prossime puntate nelle prossime sere. L’assenza di scene di massa all’arrivo delle truppe americane come invece avveniva in Italia, il profluvio di bandiere bianche in segno di resa, sventolate non solo dalle truppe che si arrendevano, ma anche dalla popolazione civile; infine le poche immagini di campi di concentramento. Una sola scena inquadrava i morti accatastati e magrissimi che ci siamo abituati a vedere in altre immagini della Shoah. Naturalmente può essere che trattandosi di materiali mostrati molti anni dopo, la selezione abbia tenuto conto di molti altri documentari, ma se rimaniamo al discorso della presa diretta, si rimane lo stesso perplessi; ma per dare un giudizio definitivo su questo aspetto, attendo che il filmato arrivi a Buchenwald, il solo campo collocato nella parte ovest della Germania,

8 Ottobre.

L’uso della bandiera bianca in segno di resa da parte della popolazione civile, continua a sconcertarmi. Difficile da interpretare. Da un lato potrebbe significare che nell’avanzata delle truppe città per città e con i combattimenti strada per strada era difficile distinguere fra soldati e civili asserragliati nelle case, per cui tutti dovevano considerarsi in qualche modo belligeranti e quindi bersagli potenziali. Questo però contrasta con un altro particolare. L’avanzata delle truppe anglo-americane in territorio tedesco, pur lentissima, non sembra essere stata contrastata più di tanto dopo il fallimento della controffensiva tedesca a ridosso dei confini con Belgio e Olanda. Le scene mostravano interi plotoni che si arrendevano, quelle che hanno filmato veri e propri combattimenti sono poche. O i tagli sono stai fatti in modo tale da non riprendere la resistenza dell’esercito tedesco ai fini di mostrane la rotta più di quanto non fosse, oppure le cose sono andate davvero così, la tenuta della Wehrmacht fu poca cosa; ma questo non spiega (da un punto di vista militare), la lentezza dell’avanzata in territorio tedesco. L’unica supposizione è che ci fosse un accordo con l’Unione Sovietica per cui le truppe anglo americane non dovessero superare certi confini e specialmente lasciare alle truppe sovietiche il compito di entrare a Berlino. Yalta c’era già stata e la famosa mappa consegnata da Churchill a Stalin, con i confini d´Europa già tracciati e definiti quanto a sfere di influenza, era stata vistata dal leder sovietico con un certo entusiasmo, anche se poi – alla richiesta del leader britannico di esserne lui il custode – l’astuto georgiano aveva opposto un cortese rifiuto.   

9 Ottobre.

Oppure la spiegazione è un’altra e cioè che quella porzione di popolo tedesco mostrata dai vincitori, doveva apparire sconfitto come i soldati: in altre parole, i tedeschi tutti erano schierati con il regime e dunque alzavano la bandiera bianca in segno di resa perché si sentivano soldati come chi effettivamente combatteva. In effetti, i volti dolenti e sconfitti della popolazione avevano la stessa espressione delle truppe in divisa che tenevano le mani alzate. Un popolo dunque compatto che si sente partecipe della stessa sconfitta? Solo in una scena si vedono tre donne sorridenti che sventolano la bandiera bianca e che sono del tutto felici di vedere apparire le truppe alleate. Se tagli ci sono stati, eliminando del tutto le scene di entusiasmo così comuni in Italia è evidente che le ragioni andranno cercate non nella Guerra in corso, ma nel disegno del dopo. Accreditare del tutto l’asservimento del popolo italiano al Fascismo era impossibile perché la Resistenza era stata troppo forte per permetterlo: gran parte delle città erano state liberate prima dell’arrivo dei liberatori. In Germania le cose andarono diversamente ma oggi sappiamo anche che ci sono forti indizi che andarono così anche perché fu cancellata la memoria della resistenza tedesca, che pure vi fu, sebbene minoritaria in Germania ma niente affatto residuale nel resto d’Europa. 2000 disertori tedeschi hanno combattuto nella Guerra di Spagna e altri combatterono nelle resistenze europee e anche in Italia e in Unione Sovietica. Per accreditare il mantra della colpa collettiva del popolo tedesco bisognava mostrane il volto dimesso della sconfitta, le bandiere bianche in mano alla popolazione civile, significavano anche questo. Il resto fu cancellato in fretta e su di esso fu imposto il silenzio. Che Buchenwald fosse stato liberato dalla popolazione locale e dagli insorti del campo stesso è stato cancellato per decenni dalla storia tedesca, mentre è stata accreditata e alquanto sopravvalutata una presunta resistenza di settori cattolici e alto borghesi (Stauffenberg, la Rosa Bianca), perché si doveva occultare che c’era stata in Germania anche una attiva resistenza comunista che non aveva mai smesso di agire. In sostanza gli anglo americani, mentre stavano finendo di combattere una guerra ne avevano già iniziata un’altra. Al comune di Buchenwald, che aveva già eletto i propri rappresentanti dopo l’insurrezione, i liberatori americani imposero come borgomastro un vecchio rottame conservatore, cancellando manu militari la decisioni popolari e così avvenne da altre parti. Anche in Italia, peraltro, le trame atlantiche cominciano nel ‘44, quando si capì che la Guerra con il nazifascismo era ormai vinta e si trattava solo di una questione di tempo.   

12 Febbraio 2011.

Va in onda in prima serata un programma dal titolo Nicht alles war schlecht. Il canale Phoenix si occupa di grandi inchieste e il titolo m’incuriosisce: si potrebbe tradurre con non tutto andava male oppure anche con non tutto era cattivo. Quando le prime immagini e le fogge dei vestiti mi riportano agli anni ’70 e le riprese inquadrano Berlino intorno ad Alexander Platz, comprendo subito, prima ancora che si cominci a parlare, che l’oggetto dell’inchiesta è l’ex DDR. I servizi sulla Repubblica Democratica tedesca si sono intensificati negli ultimi anni, ne ho visti diversi, però capisco che questo reportage avrà dei toni e degli accenti differenti dal solito e infatti sarà così. Peraltro, un titolo così esplicito e senza punto interrogativo lo faceva presupporre. Il taglio della ricostruzione era l’immersione nella vita quotidiana, per poi da lì risalire all’economia, alla politica, alla struttura dello stato e alla sua ideologia. Come sempre avviene in questi programmi, il reportage s’interrompeva per far parlare alcuni protagonisti che esprimevano opinioni contrastanti: seguivano poi i commenti da studio, affidati a due diversi storici con approcci differenti. Infine, l’inchiesta si avvaleva di veri e propri momenti di sceneggiatura teatrale, dove venivano messi in scena simulazioni di situazioni in cui la vita comune delle persone entrava in conflitto con l’ideologia ufficiale. In una, per esempio, uno studente delle superiori viene trattenuto alla fine delle lezioni dall’insegnante che lo redarguisce aspramente per la foggia dei suoi vestiti e i capelli lunghi e le scarpe troppo occidentali. Mi stupisco, perché nelle scene precedenti, le immagini di concerti rock a Berlino est inquadravano masse urlanti di giovani niente affatto diverse da quelle delle piazze occidentali degli stessi anni; anzi, veniva sottolineato come l’idea che il rock fosse bandito negli stati socialisti era più il frutto di propaganda che non di realtà. Seguendo il colloquio, capivo che il problema era in effetti un altro e cioè che lo stesso abbigliamento non poteva essere adoperato a scuola e in un concerto; un problema di decoro e di rispetto per lo studio e la funzione della scuola. In sé, la cosa poteva pure avere un senso, se non fosse che la minaccia esplicita che si intuiva durante la sceneggiatura, era quella di sanzioni talmente pesanti e non solo di natura amministrativa, da rendere il tutto quantomeno assurdo. Tornando al titolo: che cosa non era tutto da buttare? Qui l’inchiesta si affidava molto di più alle testimonianze e allora anche le più critiche insistevano su fattori che erano stati ricordati più volte e che da noi venivano presi per semplice propaganda mentre era anche di sostanza: la sanità gratuita, l’accesso allo sport e allo studio, una certa libertà nell’uso del proprio corpo che sfociava nel nudismo come pratica quasi abituale. Un pugile, in particolare, sottolineava fortemente questi aspetti, che non erano negati neppure dai più critici, senza trascurare peraltro la grande questione del doping di massa, spacciato per medicina sportiva. Niente di nuovo sotto questo aspetto, nel senso che il lavoro garantito (anche quando non serviva a nulla) e servizi sociali efficienti, erano gli aspetti del capitalismo di stato comuni a tutti i paesi del socialismo reale, con maggiore o minore efficacia sociale e certamente quelli della ex DDR efficienti lo erano, tanto che ancora oggi nelle parti più orientali di Berlino, per esempio, alcune di quelle istituzioni sono rimaste in piedi e continuano ad essere elementi di aggregazione e di resistenza al degrado. L’inchiesta, a questo quadro sociale che in alcuni momenti appariva (se riportato alle immagini di vita quotidiana), di una decorosa esistenza, un po’ grigia ma non diversa da quella delle società occidentali degli anni ’50, giustapponeva l’altro aspetto, quella della mancanza di libertà, di tutta una serie di restrizioni – alcune delle quali assurde – e per ultima, ma non all’ultimo posto, la presenza abnorme e ingombrante del muro. Fra questi due aspetti, anche in questa inchiesta, c’era un gap, un vuoto nel mezzo che non può essere colmato da un servizio giornalistico per quanto accurato e serio. Il vuoto cui alludo è quello di una riflessione più profonda e che faccia un bilancio non solo politico di quelle società ma anche antropologico e anche teorico, partendo anche da una domanda molto semplice: ma era proprio necessario tutto quell’apparato poliziesco per arrivare a quello che le socialdemocrazie nordiche avevano realizzato a partire dagli anni ’30, senza pagare gli stessi prezzi? La risposta a questa semplice domanda non è naturalmente semplice ma occorre affrontarla se si vuole rimettere al centro la proposta politica una società diversa da quella esistente, patriarcale e capitalistica, ma lontana (seppure in modi diversi), sia dal socialismo reale sia delle socialdemocrazie nordiche che hanno finito il loro ciclo propulsivo sia al loro interno, sia come eventuale modello di riferimento.

6 Ottobre.

I modi in cui la televisione e la stampa tedesca riferiscono delle vicende di Berlusconi, è emblematico per capire la mentalità diversa dei due popoli e delle due culture, ma è anche un indice del fatto che i tedeschi hanno verso di noi un atteggiamento di interesse continuo, che li affascina al di là della facile ironia cui a volte sui abbandonano. Era già accaduto con la bocciatura della proposta Augello che aveva fatto scrivere nei titoli dei telegiornale: Italienisch Senat wählt die Ausschluss von Berlusconi. Letteralmente: il senato italiano vota l’espulsione di Berlusconi. Lo stesso schema linguistico si è ripetuto alcuni giorni dopo con il voto della giunta. Berlusconi verliest Senats mandat: Berlusconi perde il mandato di Senatore. Entrambi i titoli sono basati sul concetto di conseguenza logica derivante da un atto già compiuto. Se la giunta del Senato ha tolto il mandato se ne deduce che Berlusconi è decaduto da Senatore. Il problema è che il concetto di conseguenza logica e della sua stringente consequenzialità viene esteso a una materia per sua natura controversa. In politica esiste la conseguenza logica stringente? Non sempre, neppure per loro e infatti dall’esito elettorale alla formazione del governo, i tempi si allungano anche qui. L’argomentazione che questo avviene perché la Merkel non ha la maggioranza assoluta, come viene scritto dai giornali italiani, è però una obiezione tipicamente italiana, che solitamente qui non ha alcun corso, dal momento che nessuno contesta la sua legittimità a governare. In altri momenti meno delicati di questo, il governo sarebbe probabilmente già nato. Rimane però  un fatto indubitabile. Anche per le caratteristiche della lingua tedesca, il concetto di conseguenza logica è fondamentale e discriminante rispetto alle altre culture e lingue europee.

2 Dicembre.

La morte di Christa Wolf sta passando in un silenzio piuttosto greve qui in Germania. La televisione le aveva dedicato un servizio tre settimane fa. Il mio tedesco non mi permette di capire se fosse un coccodrillo anticipato, la sensazione è che si trattasse di un reportage normale. Pochi i commenti alla notizia della morte e anche girando in rete fra quelli italiani prevale, tranne che in alcuni interventi (primo fra tutto quello di Rossana Rossanda sul Manifesto), una certa acidità. Tutti a ricordare la storia che è poi un falso: quella dei suoi rapporti con la Stasi. Christa Wolf ha ricostruito più volte come sono andate le cose. Non ha negato di essere stata contattata dal servizio, ma a fronte della sua reticenza è stata oggetto lei stessa di attenzioni e spiata. Ci sono personaggi ben più imbarazzanti nella ex DDR, che hanno saputo abilmente riciclarsi. La colpa di Christa Wolf è un’altra: non avere abiurato l’idea comunista pur prendendo tutte le distanze del caso (ma con le armi della critica e della riflessione e non con quelle della rimozione), dalla storia dei regimi orientali. Rossana Rossanda, sul Manifesto, aggiunge altre considerazioni assai acute. Su Wolf ha pesato anche il fatto di non essere amata dalle femministe, proprio perché s’era impicciata di cose come il comunismo. La sua mancata abiura, e la sua tranquilla resistenza, permettono di scoprire molti altarini. È stato divertente in questi giorni leggere che proprio coloro che parlano a proposito e a sproposito di autonomia dell’arte e dell’artista da ogni pensiero, ideologica ecc. rivendicando che solo l’opera fa testo, parlando di Wolf si siano completamente dimenticati dell’opera e abbiano criticato le sue scelte politiche. La Wolf scrittrice avrà tutto il tempo che vuole per tornare a imporsi. Ha saputo risalire alla mitologia greca in un modo originalissimo, lontana sia dai cliché della parodia sia della rivisitazione del mito in chiave postmodernista. Ha certamente attualizzato il mito, ma anche questa parola non le rende giustizia: può renderla a Dürremmatt e a Borges, ma non del tutto a lei. Credo che Wolf abbia cercato nel mito arcaico le radici di una possibile utopia e dunque lo ha proiettato nel futuro, facendone una fonte dinamica d’ispirazione non soltanto letteraria. È questo che rende diverse le sue Cassandra e Medea da altre. Lei interroga questi miti nelle loro parti opache, a volte come in Medea li riscrive completamente, presupponendo tutta un’altra storia che sottostà a quella conosciuta; ma non lo fa sempre, come se seguisse un programma di riscrittura dell’intera storia occidentale al femminile. Altre volte li interroga in modo riflessivo, senza approdare a un’ipotesi necessariamente alternativa. Bisognerà certo ritornare con altri e più affilati strumenti a ripercorrere la sua opera, ma non riesco a sottrarmi, anche in questo caso, dallo scriverne a caldo, in diretta con gli eventi, spettatore partecipe. Anche per il solo fatto di trovarmi qui a Berlino, la sua morte è un altro di quei segni che tirano la riga su un’epoca. Con lei muore una seconda volta la Germania Orientale e forse sono destinate finalmente a morire anche le polemiche, dopo questi brevi fuochi residuali. Il mondo del capitalismo reale nel quale viviamo ci trascinerà in nuove tragedie, ma il passato non ci serve a nulla in questo momento, anche perché a differenza di quello che ha fatto lei, molti altri hanno semplicemente abdicato e rimosso. La sua opera di grande scrittrice del secondo ‘900 potrà invece vivere più liberamente.   

DIARIO BERLINESE: PRIMA PARTE

Spandau promenade

Introduzione

Berlino è stata per alcuni anni una città che ho abitato e non semplicemente visitato: precisamente dal 2007 al 2019. La pandemia Covid 19 ha chiuso una fase della vita, ponendo fine fra l’altro anche alla frequentazione abituale della città. Ci ritornerò? Non lo so, la questione  è assai complessa. I luoghi, con l’età che avanza, tendono a diventare definitivi nel ricordo e si ha quasi paura di turbarli di nuovo con la nostra presenza: poi però ci sono le relazioni e a Berlino ne ho stabilite poche ma di grande valore e intensità e con alcuni è difficile vedersi altrove. In attesa di trovare una soluzione al dilemma ho riletto il diario che ho tenuto in quegli anni e ho deciso di pubblicarlo qui a puntate.    

29 Ottobre 2007.

Abitare una città e non visitarla da turista diventa percepibile quando alcuni luoghi che pure si sono frequentati volentieri durante i primi momenti, escono quasi dalla vita quotidiana, sostituiti da altri più legati al quartiere in cui si vive, al supermercato dove si va sempre perché solo lì si trova il vino che ci piace, oppure l’internet point e il bar dove capita di scambiare qualche parola con i gestori turchi del medesimo.  Questa sensazione si è consolidata proprio in questi giorni.

30 Ottobre.

I luoghi influiscono sul modo di scrivere. È banale dirlo, ma quello che è difficile è mettere a fuoco il perché. Mi capita spesso di pensarlo qui a Berlino. Forse perché il mio tedesco è ancora misero e claudicante, scrivere a Berlino significa chiudersi dentro la propria lingua, attorniato da suoni che soltanto raramente diventano senso. A volte sono semplici parole, la cui frequente ripetizione suggerisce di colpo il significato e allora si forma come un atollo di significati che mi strappa alla lingua mia e mi riporta all’altra: da questa sorta di connubio dialettico sembra nascere qualcosa. Per il resto Berlino è una città che permette di rifarsi una verginità della vista, bombardati come siamo da immagini triviali; in questo anche Roma offre altrettanta e differente ricchezza. Perciò mi piace sempre di più scrivere in queste due città: forse vi è davvero un rapporto inverso fra comunicazione e scrittura. Mi ricordo anche di una recente intervista a uno scrittore ceco – Topol – il quale dice di venire a Berlino a scrivere proprio perché non sa il tedesco e può allora chiudersi in un silenzio che non è quello dell’assenza di parole, ma proprio la possibilità di essere immerso in una realtà potendo conservare la propria distanza. Berlino è avvolgente nel silenzio e questo accende altre parole… E poi la luce del nord, il suo estremismo che ha il proprio contraltare nel buio invernale altrettanto estremo.

6 gennaio 2008.

Forse la caratteristica saliente delle città tedesche è la presenza ancora oggi di un robusto apparato industriale all’interno del perimetro urbano; caso unico in Europa. Andando verso Amburgo con il bus lo si coglie bene. A parte le strutture del porto, tutta l’estrema periferia ovest della città è piena di ciminiere in azione, fabbriche, capannoni. Anche in zone più vicine al centro la presenza di industrie, in qualche caso dismesse, è altrettanto vistosa, tanto che in alcuni punti la città sembra un museo di archeologia industriale a cielo aperto. Alcune aree vengono destinate ad altri usi, ma lasciate nella loro integrità architettonica. A Milano tutto questo non esiste più da 50 anni ormai: l’ultima rovina industriale che ricordo è la stazione fatiscente della Bovisa, prima della bonifica. Nella parte est di Berlino la presenza industriale è ancora più evidente, a volte è difficile capire subito se una fabbrica sia ancora in funzione oppure sia una rovina. Poi si arriva ad Amburgo, un caso a parte: la ricostruzione del porto è qualcosa di spettacolare, uno degli esempi di architettura contemporanea più funzionali e belli da vedere, un mix di rispetto per la storia e di ardite soluzioni.

20 gennaio.

La visita al Museo ebraico di Berlino era in programma da tempo, ma non mi decidevo ad andarci, anche perché va detto che nella capitale tedesca i monumenti, i musei, le iniziative estemporanee che ricordano la Shoah sono tante; tuttavia quando si dice Museo ebraico si pensa a questo di Linden strasse, perché è di tutti il più completo e originale, anche come concezione architettonica. Esso è costruito intorno a quattro linee di forza che s’incrociano: la storia degli Ebrei in Germania da Costantino in poi, la storia delle persecuzioni, e delle conseguenti emigrazioni, la Shoah e infine il ritorno degli Ebrei nella Germania liberata e ancor più dopo la fine dell’Unione Sovietica. Progetto ambizioso, non sempre facile da seguire ma tuttavia esauriente. Le diverse linee che s’incrociano finiscono in tre casi in altrettanti vicoli ciechi. Il senso di essere immersi in un passato che non passa è assai forte, nonostante lo sforzo di avviare un discorso che sia anche di riconciliazione; ancora una volta mi ritrovo a pensare che l’orrore non sia rappresentabile e che solo i Greci si sono avvicinati a poterlo fare con una delle funzioni della tragedia: la catarsi, il rivivere insieme e collettivamente il dramma che permette di compatire, cioè patire insieme.

16 Febbraio.

Il paradosso berlinese quanto è destinato a durare? Difficile dirlo, ma l’insofferenza degli altri tedeschi cresce. A Berlino si vive troppo bene con poco e non è soltanto il frutto di una certa attitudine spartana, ma anche dei cospicui finanziamenti pubblici, riversati sulla città da tutta Europa. Berlino doveva essere risarcita in qualche modo dal fatto di essere stata la città di frontiera per eccellenza, di avere sopportato il peso della guerra fredda come nessun’altra città europea ha dovuto sopportare. Sono passati più di vent’anni, però, la memoria è corta. E poi a est rimpiangono addirittura il muro talvolta, sono molti a parlare di annessione, non di riunificazione e questo genera sentimenti ambivalenti: per l’uomo medio tedesco poco interessato alla politica, i berlinesi dell’est sono ingrati se rimpiangono il passato, mentre il cittadino dell’est, anche quello che aveva seguito le manifestazioni che portarono alla caduta della DDR, oggi, si rende conto di essere stato trattato come un tedesco di serie B. 

20 Febbraio.

Della detenzione dei gerarchi nazisti nel carcere interno alla cittadella di Spandau, non rimane quasi nulla. I tedeschi ricordano in molti modi la terribile avventura nazista, lo fanno con scrupolo e metodo e lo fanno da tempo, dal 1968 in poi, con grande determinazione. Però, hanno voluto ridare all’affascinante complesso di palazzi e cortili della Cittadella di Spandau, il volto di un centro culturale, dove avvengono mostre concerti e altro: hanno fatto bene. Spandau è una cittadina deliziosa, come Potsdam peraltro, circondata dalle acque come sempre, ed è difficile capire se si tratta di uno dei tanti rami e canali della Spree o di che altro, bisognerà restarci un bel po’ in questa città per orientarsi davvero nel suo labirinto di acque e di boschi!

10 Marzo.

A cena con amici italiani che vivono qui a Berlino da tempo.

“Pare siano 800.000 gli invisibili in città mi dice Stefano e Corinne conferma.

“Forse sono un po’ tanti” ribatto io, “e mi è pure difficile pensare che siano proprio invisibili, forse sono tollerati, lo sanno ma finché non diventa un problema, non intervengono …”

Difficile dirlo, ma il problema rimane, il flusso migratorio di giovani verso Berlino è continuo e rilevante e ne conveniamo tutti. Potrà continuare?  Si finisce sempre con questa domanda e la risposta è la recita di un mantra cui siamo tutti abituati: se l’Europa va in pezzi la Germania sarà l’ultima ad andarci e Berlino è l’ultimo posto a cadere. Rassicurati come sempre dopo ogni replica del copione, ci dedichiamo più volentieri al minestrone alla milanese che ho preparato cui segue un agnello sardo con patate e a cui seguirà il panettone – sì proprio lui – acquistato al Mittemeer e cioè alla catena di supermercati che vendono prodotti di pregio dei paesi del Mediterraneo: hanno confuso la Pasqua con il Natale ma la cosa ci mette ancora più allegria. I vini sono del Salento e di Spagna, abbiamo avuto le stesse idee in proposito, ma bevendo l’iberico mi rendo conto che anche loro hanno imparato a fare i rossi.

16 Marzo.

Capitato quasi per sbaglio alla Ostbanhof, cerco di capire cosa ci si possa fare. Ci sono le file di autobus in attesa di partire per i quartieri ancora più esterni di questa città che non finisce mai. Ripercorro allora la galleria da cui si sale ai binari dei treni ed esco dall’altra parte. A distanza vedo delle insegne di negozi. Esco, alla fine della breve scalinata che porta in strada staziona un gruppo di punk con accanto i cani di ordinanza e le bottiglie di birra nel mezzo del cerchio. Mi era già capitato di soffermarmi sulla differenza fra punk milanesi e berlinesi e questo gruppo me le richiama alla mente. Non parlo della foggia degli abiti, largamente comune e neppure del colore dei capelli o delle creste, di ordinanza come i cani, ma dell’atteggiamento. Il punk milanese maschio o femmina che sia è tendenzialmente aggressivo, la sua diversità è esibita: vuole essere notato, salvo poi mandarti al diavolo se gli fai qualche osservazione o anche semplicemente cerchi di parlarci. Spesso l’abito casual nasconde il griffato trash e alternativo, costoso, tanto da far pensare che dietro molti di loro ci siano famiglie non proprio indigenti. Sempre in movimento e petulanti nel chiedere, i punk milanesi, specialmente in certe zone della città, sembrano caricare all’eccesso il piacere di violare le regole; ma poiché nessuna comunità può vivere del tutto senza di esse, ecco che è sul cane che si riversa tale necessità. Mediamente meglio tenuti e puliti dell’animale umano cui si accompagnano, gli esemplari canini del punk milanese ostentano un portamento severo insieme a un distacco aristocratico: si muovono poco, osservano il mondo con l’occhio che oscilla fra un atteggiamento di indifferenza oppure uno sguardo del tipo “ma guarda cosa mi è capitato”; ma è solo un attimo, poi ritornano alla loro riservatezza fin troppo umana. Si spostano poco e solo se strettamente necessario e mai per attirare l´attenzione: sono loro alla fine che s’impongono nella coppia simbiotica, come portatori di una superiore dignità e allora può essere che anche il passante meno predisposto si lasci scivolare una moneta dalle mani, pensando al loro destino.

Il punk berlinese è del tutto diverso: più vicino al cliché nostrano del barbone di città il suo sguardo è rassegnato ma lui o lei sono educatissimi del comportamento. Il punk berlinese chiede con l’aria di chi sa già che non riceverà nulla, specialmente se si trova in metropolitana, ma non manca mai di ringraziare e augurare buona giornata all’interlocutore. Sa già che la sua diversità ha travalicato i confini di una città peraltro accogliente, ma che non tollera chi si è posto troppo oltre le regole e non guarda in faccia nessuno: tutti i punk che ho incontrato sono tedeschi, non ne ho visti di stranieri. E il cane? Pulcioso e sporco come i nostri vecchi cani da pagliaio si ingegna al posto del padrone per procurarsi il cibo, del resto la sua attitudine raminga non gli deve dispiacere del tutto: nella coppia simbiotica è lui a trarre il maggior beneficio da un ritorno al suo stato almeno in parte selvatico, mai del tutto cancellato nella specie cane da appartamento che subisce tutte le nostre nevrosi e malattie. Appena mi vede infatti, è lui a corrermi appresso (sono pur sempre uno che ha invaso il suo territorio), mentre il gruppo dei punk non mi degna di uno sguardo, sia pure per chiedermi qualcosa: una volta che ha messo a fuoco il mio intento del tutto pacifico, mi lascia al mio destino ma mi tiene d’occhio e infatti, non appena ho finito di guardarmi la posta in un internet point, ecco che riappare subito, si avvicina, scodinzola allegramente e mi guarda. È a lui in definitiva che do la moneta, come accade anche a Milano per ragioni opposte. Dal gruppo umano neppure uno sguardo: tutti con gli occhi rivolti a terra, oppure a chi sta loro di fronte in quel momento, seduti in cerchio come una vecchia tribù indiana, indifferenti a tutto e a tutti.

30 Marzo.

Mi sono spinto per l’ennesima volta nell’estrema periferia di Berlino: un vero e proprio viaggio perché il tram ci mette più di mezzora per raggiungere il capolinea di Wittenberg a partire da Alexander Platz! Dopo i grandi viali a ridosso del centro si arriva in una specie di terra di nessuno: campi sterrati, edifici fatiscenti, dove di certo non è difficile nascondersi. Pochi in quest´area gli spazi abitati. Per l’ennesima volta Berlino mi si rivela non solo immensa ma anche molto vuota. Ci sono voragini di spazio nella sua area urbana, e del resto 5 milioni di abitanti in un territorio come questo sono davvero pochi: se fosse una metropoli asiatica o latino americana ci abiterebbero almeno 20 milioni di persone.

2 Aprile.

Sì le cose stanno già cambiando anche qui eccome! La notizia mi arriva proprio oggi. L’amministrazione ha sospeso le erogazioni dei sussidi ai provenienti dai paesi del sud dell’Europa. Ci saranno ricorsi e molti vinceranno anche perché  la norma pare retroattiva, ma il segnale è chiaro e molto forte: l’accoglienza indiscriminata che Berlino ha riservato a tutti e anche fornendo percorsi di integrazione guidati e sussidi economici, è finita. Durava dalla caduta del muro e si farà presto a dimenticare gli anni della generosità, ora che per l’ennesima volta i tedeschi danno la misura della loro capacità di decidere in fretta: in una notte hanno cambiato tutte le regole, cosa per noi difficilmente digeribile viste la propensione a non decidere o a decidere male e poi a fare peggio nel momento di applicare le decisioni.   

3 Aprile.

Il segnale di cambiamento è forte, ma cosa sta davvero a significare al di là delle conseguenze che avrà verso coloro che qui avevano già iniziato un percorso di inserimento? La risposta più ovvia sta nel dire che anche la Germania non poteva continuare a reggere un livello di investimento pubblico e quindi di spesa così elevato, come è avvenuto per vent’anni. Del resto i tagli alla spesa sono cominciati anche qui e ci sono state grandi manifestazioni e scioperi quando è stato investito il settore universitario. Eppure la Germania sembra ancora lontana dal subire una contrazione del livello di vita medio (le secche di povertà e precarietà esistono eccome anche qui ma sono ben mascherate proprio dagli ammortizzatori sociali ancora efficienti). I provvedimenti si prestano dunque a diverse spiegazioni e risposte. Programmazione lungimirante della crisi? Oppure vicolo cieco nel quali tutti i popoli e gli stati europei si sono cacciati e verso il quale vanno in ordine sparso a sbattere uno per uno in tempi diversi? Oppure altro ancora? Difficile dirlo, ma una sensazione mi accompagna in modo martellante: gli storici ricorderanno questi mesi o poco più come un tempo di tregua prima di una grande tempesta. 

Berlin Pankov

COSA SUCCEDE IN COLOMBIA

Ho raccolto altre informazioni da fonti diverse, che confermano l’allarme per la situazione di quel paese. La conversazione che segue può suggerire un’idea di come si vive questa fase per chi si trova nel paese:  

[18/6, 21:14] Andrea: Come in Brasile, il gioco è doppio: paralisi istituzionale e law fare.

La sola risposta possibile è la mobilitazione della popolazione.

Non esistono vaccini.

[18/6, 21:14] Andrea: Per ora mi sembra solo un rischio crescente (Il golpe ndr.)

[18/6, 21:14] Andrea: Mi scrive il mio amico Rivas.

Per inquadrare meglio tutta la situazione alcuni dati. Nel 2013 si è avviato in Colombia un tentativo di pacificazione fra governo e guerriglia, che ha portato allo scioglimento di fatto delle Farc e il loro ingresso in parlamento come forza politica legale. Il processo di pacificazione però è stato sempre sabotato dalle forze reazionarie e tenuto in stallo per impedire qualsiasi riforma sociale. Le lotte delle forze indigene e i movimenti popolari, nonché il peso della corruzione dilagante e la mancanza di controllo sui versamenti bancari, ha portato alla crisi delle presidenze reazionarie e impresso una svolta politica che ha portato nel 2022 alla vittoria delle lezioni presidenziali da parte di una coalizione di sinistra guidata da Gustavo Petro e dalla vice presidente Francia Márquez, femminista e indigena, attivista da anni per i diritti sociali e civili e oggetto di continui attacchi feroci e razzisti da parte dei  bianchi possidenti. Petro ha ripreso l’iniziativa di pacificazione con ottimi risultati, come si può capire consultando il link qui di seguito:

https://www.agensir.it/mondo/2022/11/11/colombia-pace-totale-il-parlamento-ha-votato-la-legge-che-innesca-il-processo-la-bella-ce-un-clima-nuovo/

La strategia dei ceti possidenti colpiti dalla politica di Petro punta sul logoramento e il boicottaggio e in prospettiva il rovesciamento violento del governo legittimo. Per chiarificare meglio la situazione qui di seguito indico alcuni dei provvedimenti presi dalla presidenza e dal governo. Mi limito ai più importanti con alcune riflessioni. Il tutto può essere verificato anche con altre fonti in rete.

Petro firma decreto para bajar las tarifas de la electricidad:

https://www.bluradio.com/economia/petro-firma-decreto-para-bajar-las-tarifas-de-la-electricidad-pese-a-oposicion-de-los-gremios-rg10

Reforma Pensional: aprueban informe de ponencia en Comisión Séptima del Senado:

https://www.radionacional.co/actualidad/politica/aprobado-el-informe-de-ponencia-de-la-reforma-pensional-propuesta-por-el

Llegada de cruceros internacionales a Colombia aumentó 151%:

https://www.mincit.gov.co/prensa/noticias/turismo/llegada-cruceros-internacionales-colombia-aumento

Luego de 30 años el Gobierno Petro logra licencias ambientales diferenciadas para que comunidades étnicas puedan ejercer la minería artesanal:

https://www.minambiente.gov.co/comunicado-de-prensa/luego-de-30-anos-el-gobierno-del-cambio-logra-protocolizar-la-reglamentacion-del-capitulo-v-de-la-ley-70/

“Aquí nunca habíamos tenido la oportunidad de tener un pedacito de tierra”: Carlos Mendoza, campesino de Sucre:

https://twitter.com/activosSAE/status/1666096709058060289?s=08

Queste misure possono sembrare a noi minimaliste e in particolare la riforma agraria è poco più di quello che il lodo De Gasperi riconosceva ai contadini siciliani nel dopoguerra; ma sarebbe un modo di ragionare da europei che non sanno comprendere la situazione disperante in cui si trovano in particolare le popolazioni indigene in America latina. Il contadino delle piantagioni di zucchero che dice “adesso abbiamo finalmente un piccolo pezzo di terra” è la sintesi di tutto. Tanto più che basta questo ai ceti possidenti ed eversivi di quel paese come del Brasile per rovesciare un governo eletto. 

La justicia móvil llegó a Chocó para atender personas en condición de discapacidad:

https://www.elespectador.com/justicia-inclusiva/la-justicia-movil-llego-a-choco-para-atender-personas-en-condicion-de-discapacidad/

El presidente Petro anuncia dos nuevas reformas, a los servicios públicos y a la educación:

https://www.youtube.com/watch?v=DfzCppsC2Ds 

Banco Agrario abre línea de crédito barato para sistemas de riego y prepararse para El Niño:

https://twitter.com/MinAgricultura/status/1666140469351284740

350 edificaciones de hospitales y escuelas en 200 municipios funcionarán con energía solar. Proyecto de FENOGE con apoyo de MinEnergía comenzó en Cesar:

https://www.minenergia.gov.co/es/sala-de-prensa/noticias-index/el-minenerg%C3%ADa-y-el-fenoge-apuestan-por-soluciones-energ%C3%A9ticas-en-hospitales-y-centros-educativos-en-el-cesar/

Queste ulteriori misure dimostrano che il governo Petro sta cercando di mettere in atto una strategia di cambiamenti sociali molto ampia ma in fondo non particolarmente rivoluzionaria, fondata sul buon senso e la buona amministrazione. Questo credo spaventi ancora di più le forze reazionarie di quel paese, sostenute non dimentichiamolo dalle milizie e da potenziali squadroni della morte. Non dimentichiamo che il cooperante italiano Mario Paciolla che operava su mandato dell’Onu è stato suicidato con modalità che ricordano il modo di agire delle forze di sicurezza. Su Paciolla non c’è stata la stessa mobilitazione che c’è stata per Giulio Regeni sebbene le due situazioni siano molto simili.

Come conclusione provvisoria si può dire, come afferma il messaggio iniziale, che il colpo di stato è per ora un rischio crescente e che proprio per questo occorre sollevare il problema. Quanto poi a un pensiero che può sorgere e cioè che la Colombia è lontana e che noi abbiamo molti problemi qui, vale forse la pena di ricordare che la condizione di lavoratori come i raccoglitori di pomodori nelle campagne o chi lavora nel fast food a domicilio, sono assai simili a certe condizioni delle popolazioni indigene di quel paese, con l’aggravante di un governo di destra che elogia gli evasori fiscali, di una parte del sindacato confederale come la Cisl esplicitamente padronale, la latitanza degli altri sindacati, l’assenza di una qualsiasi sinistra istituzionale. Forse specchiarsi nelle condizioni di altri aiuta meglio di tanti discorsi a guardare alle nostre.

Francia Marquez

GRAND TOUR: DA SCILLA A REGGIO CALABRIA

Reggio calabria

L’autobus arriva prima del previsto, addirittura con un’ora e mezza di anticipo e io mi sono svegliato da poco. Scilla è alle nostre spalle, abbiamo appena superato Villa San Giovanni, ma la strada che ricordo era assai più impervia di questa. Nel dormiveglia prima e ora con il brusco risveglio registro solo lentamente che non siamo più sulla vecchia provinciale, perché il tratto autostradale Salerno Reggio Calabria è stato finalmente completato e il pullman corre velocemente. Entriamo in città dal lungomare, non c’è anima viva, poi al centro di una piccola pineta: vedo le bancarelle di un mercatino domenicale e molti volti magrebini e africani. A sinistra e perpendicolari al viale alberato, le strade vanno bruscamente in salita, ma qui e là compaiono anche ampie scalinate che portano alle vie di mezza collina: poi, addirittura, un lungo tapis roulant. Un’immagine di molti anni fa mi torna alla memoria; anzi più di una e sono tutte televisive, in bianco e nero. Rivedo in rapida sequenza i blindati schierati in fondo alle strade che dalla collina scendono verso il mare; poi le barricate, gli scontri. La rivolta di Reggio Calabria del 1975 mi sembra giungere da un tempo remotissimo alla memoria, ma le strade sono ancora quelle e insieme alle lontane immagini torna il ricordo di una canzone – i treni per Reggio Calabria – di Giovanna Marini. Infine l’attentato in prossimità di Gioia Tauro, la determinazione di chi ci andò a Reggio: non io quella volta e non ricordo più neppure il perché. Alla stazione mi attende Eva in auto: ci dirigiamo verso la città alta. Sono stanco ma il viaggio verso casa è breve. Come avevo pensato l’auto sale perpendicolarmente e a ogni crocevia un viale corre parallelo al lungomare, le scalinate sono ancora più numerose di quelle che mi era sembrato di vedere … ma sono a Reggio Calabria o a Trieste? La sovrapposizione fra le due urbanistiche è impressionante e si conferma a ogni crocevia. Il senso di momentaneo straniamento viene superato di slancio quando Eva mi conferma che non sono il primo a osservarlo, anche se – aggiunge sorridendo – secondo D’Annunzio il chilometro e mezzo del lungomare reggino è il più bello d’Italia. In attesa di andarci a passeggio sorrido celando il mio scetticismo. Il pomeriggio stesso però lo dedichiamo proprio a quello e in effetti bisogna convenire con il Vate e – caso non frequente – il lungomare è stato preservato in modo assai intelligente da scempi urbanistici e altri mostri, nonostante le modifiche introdotte. L’idea d’interrare la ferrovia in un lungo tunnel che tuttavia bene si armonizza all’architettura monumentale precedente, è un esempio di equilibrio riuscito fra esigenze di modernizzazione e paesaggio urbano. Il tunnel del resto è dotato di sistemi di insonorizzazione e dall’esterno non ci si rende quasi conto del passaggio dei treni. 

La visita al castello aragonese si porta via una buona parte del mattino successivo e alla fine metto la mia firma sul registro dei visitatori, constatando che sono davvero troppo pochi per quello che offre.  Risalgo verso i viali più alti e periferici e penso che Reggio è una città architettonicamente fascista. Ne parlo con Paolo Rabissi, che mi conferma lo strano rapporto fra queste due entità urbane agli antipodi dello stivale italico. Anche Trieste lo era, “forse la più fascista d’Italia” aggiunge Paolo ricordando una frase detta da Mussolini, il cui significato era più o meno quello. La città, come tutte quelle di frontiera, era quella in cui la rivendicazione di italianità si sposava perfettamente con l’ideologia del regime. A Reggio la questione è prima di tutto un’altra, lascio per il momento sullo sfondo il tema direttamente e strettamente politico. Quello che mi colpisce girando per le strade è l’architettura delle case, delle palazzine, dei palazzi del potere amministrativo e giudiziario, a parte il mastodontico e modernissimo tribunale: è in questo tratto che trovo lo stile tipicamente fascista, così vistoso perché accompagna il visitatore a ogni strada. Il razionalismo, il gusto per un neoclassicismo fatto di linee sobriamente tracciate si riflette nella costruzione di palazzine basse che raramente arrivano ai cinque piani, monotone ma edificate secondo uno stile nel quale si riflette l’idea corporativa. Man mano che si va verso l’alto o verso i quartieri più popolari, le case e le palazzine sono più spoglie rispetto all’eleganza, comunque non vistosa, del centro o delle vie a ridosso del lungomare, ma il pattern rimane il medesimo, per trasmettere il senso di una appartenenza alla medesima comunità, divisa in classi ma segnata da un tratto comune. Peraltro la non eccessiva altezza degli edifici ha una sua logica antisismica e questo mette in luce un aspetto non troppo conosciuto. Si parla sempre del terremoto di Messina, ma si dimentica spesso di dire che esso coinvolse entrambe le città sullo stretto e che Reggio pagò un prezzo addirittura superiore, una distruzione totale degli edifici storici, ben diversi da quelli che si vedono oggi. Rimangono solo due tracce evidenti dell’architettura urbana reggina precedente l’evento catastrofico del 1908: due palazzetti purtroppo lasciati in un desolante degrado. I loro tratti sono inconfondibilmente arabeggianti, con piccole vetrate che sembrano quelle di una  moschea, colonne di capitelli che riflettono un’eleganza del tutto diversa, un po’ barocca, sfiorati dall’arte della miniatura tipicamente bizantina. La Reggio orientale e urbana scomparve con il terremoto, così come scomparvero i suoi abitanti, sostituiti da genti che provenivano dalle montagne e dalle colline intorno alla città. Si ruppe così la storia millenaria di un insediamento urbano che contende a Damasco e ad altre città del Medio Oriente, il primato dell’antichità delle origini. Facendo un rapido conto degli anni e ricordando le lentezze della burocrazia italiana e l’atteggiamento sostanzialmente coloniale dei suoi governi e la complicità delle classi dirigenti locali meridionali, si può comprendere come il grosso dello sforzo ricostruttivo della città dovette durare assai a lungo, finendo di completarsi proprio negli anni venti e trenta e dunque in pieno regime fascista. Da questo trova la sua origine la compattezza dell’architettura urbana di Reggio. Solo nel corso centrale, quello per intenderci dello struscio serale e domenicale, la mescolanza di stili porta il marchio di una modernità cresciuta dopo, nel secondo dopoguerra e ancor più si vede nella zone urbane più periferiche che hanno tratti di degrado simili a quelle di città più grandi. Infine la grande Reggio, dove la modernità senza alcuno stile è il tratto distintivo, comune ad altre città. Solo l’altezza degli edifici non cambia, tanto che in modo semplice Reggio è forse una città dai criteri antisismici meglio curati che altrove.       

DAVANTI ALLA SICILIA

Passeggio di nuovo sul lungomare assolato con la Sicilia lì a portata di mano, il pensiero corre a Goethe, ma anche a un libro recente scritto a quattro mani da un autore tedesco e da uno italiano: Mario Fortunato, un germanista che vive e lavora a Berlino e  Jan Koneffke, scrittore e traduttore dall’italiano e dal rumeno. Il loro libro mi è molto caro sia perché mi riporta alle atmosfere del Gran Tour di Goethe, sia perché mi riporta a Berlino da cui ormai manco da troppo tempo e all’amicizia con Franco Sepe. Fu proprio lui a suggerirmi la lettura di questo testo del 2016 dedicato proprio all’incontro fra Roma e Berlino. Cosa c’è di meglio che rileggerne alcune parti proprio qui sul bar di una spiaggia assolata, proprio davanti alla Sicilia e all’Etna in lontananza. Il libro è la ricostruzione di percorso personale, una sorta di iniziazione che ha come protagonisti il poeta tedesco e un giovane nordico contemporaneo che arriva nella Calabria di alcuni anni fa: fra il viaggio di Goethe e quello del ragazzo nordico ci sono di mezzo i secoli, ma certe descrizioni sembrano potersi scambiare il tempo, seppure con qualche differenza non da poco. Il poeta tedesco aveva vinto strada facendo i suoi pregiudizi da protestante tedesco nei confronti del mondo mediterraneo e aveva pure incontrato Faustina. La storia d’amore fra il norvegese contemporaneo e il ragazzo calabrese è una storia omosessuale, felice come l’altra.

Il tempo scorre, la lettura piacevole mi accompagna, ma intanto i canadair continuano a volare e a raccogliere acqua, ogni cinque minuti: il rumore è assordante e tutti gli sguardi sono rivolti alle colline circostanti e alla Sicilia. Smetto di leggere e osservo: non riesco a provare una vera apprensione, però la frequenza dei voli suscita un certo allarme. Fumo ovunque, incendi ovunque che nascono in continuazione. Non sono il solo a levare lo sguardo al cielo, del resto è un evento – questo degli incendi – che accade puntualmente ogni anno, ma la sensazione è che l’anno 2017 sia del tutto particolare. Abbandono il libro e sfoglio alcuni quotidiani sui tavoli del bar. La statistica è impietosa, il fenomeno è troppo abnorme per essere associato alle consuetudini tristi dell’estate italiana. C’è qualcosa d’altro? E che cosa? I giornali locali insistono a loro volta sull’abnormità del fenomeno, le ipotesi si susseguono e sono le solite cui si pensa: constato, che a parte alcuni casi, nessuno crede davvero ai piromani. La mia attenzione però si concentra su un articolo in particolare, che mette in relazione gli incendi con l’aumento degli sbarchi di migranti, superiore anch’esso agli anni precedenti. Un uomo seduto al tavolo di fianco al mio mi osserva, ci sorridiamo e salutiamo.

“Lei non è di qui e si sta domandando cosa stia succedendo …”

“Sì, stavo cercando di capire questo articolo, il solo che metta in relazione incendi e sbarchi …”

“Chi controlla gli sbarchi è lo stesso che causa gli incendi …”

Decido di non dire nulla.

“Fra un paio di giorni sarà tutto finito, vedrà.”

Saluta e se ne va.

La sera stessa al telegiornale arriva la notizia che il ministro degli interni Minniti è corso in Libia per raggiungere un accordo sugli sbarchi. Ora sappiamo molto bene cosa stava scritto in quel patto scellerato: i centri di detenzione, la Libia dei torturatori considerata porto sicuro e tutto il resto, ma allora non si capiva bene. Due giorni dopo però, Minniti arrivò in Calabria a magnificare l’accordo appena raggiunto: il giorno dopo cessarono gli incendi. Tornai a quel bar, ma lo sconosciuto con cui avevo parlato non  lo rividi più.     

  

Scilla.

DONNE E GUERRE. VISIBILITÀ/INVISIBILITÀ DELLE DONNE NELLE GUERRE

Di Adriana Perrotta Rabissi.

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

La letteratura dell’Occidente comincia con la glorificazione di una guerra di rapina[1]. Christa Wolf

Gli uomini hanno paura che le donne raccontino tutta un’altra guerra… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi… E le donne piangevano… Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile [2]. Svetlana Aleksievič


[1] Christa Wolf, Premesse a Cassandra. Quattro lezioni su come nasce un racconto, Roma, edizioni e/o, 1984, p. 22.

[2] Svetlana Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, Milano, Bompiani, 2015, p. 20.

Svetalana Aleksievič

Premessa

Le donne non spariscono nelle guerre, come a volte si è portate/i a pensare, ma nella narrazione che ne è fatta. Anche quando sono le donne a raccontare spesso il modello di ricostruzione è quello unico, secondo un paradigma maschile, apparentemente neutrale, fatto di ideali, eroismi, sacrifici. Quando si parla di donne nelle guerre queste ultime sono rappresentate o come vittime di stupri e aggressioni, oppure affannate a districarsi nelle mille difficoltà per portare avanti la vita propria, e quelle delle persone che dipendono da loro. Nel caso poi ci si riferisca a donne combattenti, una minoranza comunque, ad esempio nella Resistenza, si esaltano le doti di coraggio, l’eroismo, lo spirito di sacrificio comuni agli uomini.

Le ragioni dell’uniformità di modelli narrativi affondano nella patriarcale divisione sessuale del lavoro e nelle attribuzioni di attitudini e abilità che ne derivano, secondo questo ordine agli uomini è assegnata la sfera delle relazioni pubbliche (politica, guerre, lavoro) e della presa di parola pubblica, alle donne quella delle relazioni private e dei sentimenti, vale a dire il mondo degli affetti, della cura alle persone e agli animali, della manutenzione e riparazione di ambienti e oggetti.

Dimensione che offre loro il massimo di potenza immaginaria e il massimo di impotenza reale.

Nel mito

Eco e Medusa, due figure che simboleggiano l’obbligo delle donne al silenzio pubblico e rappresentano un monito severo per quelle che abbandonano la sicurezza confortevole dei luoghi stabiliti dal patriarcato per avventurarsi nei territori infidi della produzione culturale, del sociale e del politico, trascurando così la funzione prioritaria del femminile, storicamente determinata, ma naturalizzata da millenni di pratica.

La loro vicenda segnala i rischi più comuni che si corrono: la ripetizione balbettante di cose già dette da altri o il silenzio.

Eco perde il corpo per un eccesso di passione, poco importa che ne sia l’oggetto – nel mito meno conosciuto è fatta a pezzi mentre sfugge a Pan – o il soggetto – si consuma fino a confondersi con la roccia della montagna nell’amore non corrisposto per Narciso – di lei resta solo la voce. Giunone le ha inflitto un terribile destino: non può prendere l’iniziativa di parlare per prima, deve limitarsi a ripetere frammenti disarticolati, le sillabe finali delle parole altrui.

Ha voce, ma non la dignità del dire, del parlare in prima persona.

Medusa perde anch’essa il proprio corpo, è una bellissima donna punita dalla dea Atena per averne la sfidata bellezza, è presente nel nostro immaginario come testa terrificante, la bocca spalancata in un urlo muto e disperato e lo sguardo che ha il potere di pietrificare chi la guarda. La sua testa mozzata andrà ad adornare lo scudo di Atena, la vergine saggia, fedele alleata di eroi, uscita dal capo di Giove, nascita che l’ha liberata dall’umiliazione di nascere da un corpo di donna. Medusa non ha voce, la sua cifra è il silenzio, solo lo guardo comunica, è di orrore e terrorizza, che cosa ha visto?  Che cosa sa? Non ha voce per dirlo, per avvertirci.

In entrambi i miti la punizione è inflitta per mano di altre due donne, peraltro dee, Giunone e Atena, che incarnano nella nostra cultura due modelli conformi al destino sociale delle donne, la prima è la madre, potente e fiera del suo potere, anche se comunque subordinata al marito Giove, orgogliosa e gelosa delle sue prerogative, protettrice dell’istituzione familiare. L’altra è la sorella, savia e forte, amica delle guerre e delle tecnologie produttive, vera donna emancipata, che ha assunto i modelli di parola e azione maschili.

Due ruoli pacificati e pacificanti, che mantengono l’ordine sociale costituito.

Nello stesso tempo Eco e Medusa segnalano l’insopprimibile passione a infrangere gli interdetti reali o immaginari, auto o etero imposti, anche a rischio di perdere un’interezza – il corpo.

Nulla chiama in causa la questione delle relazioni tra gli uomini e le donne come le guerre, guerreggiate, minacciate, mascherate, ignorate; la Storia insegnata, ricordata, trasmessa è prevalentemente storia di guerre, resistenze, lotte di oppressione e liberazione a cominciare dal fondamento della cultura occidentale, l’Iliade.

Nulla più della guerra rimette a posto il disordine sociale rispetto ai compiti e alle funzioni di genere, nulla quindi, in ultima istanza, risulta più rassicurante dinanzi ai veloci cambiamenti di mentalità, atteggiamenti, comportamenti e costumi.

Gli uomini -guerrieri- rischiano la vita per la difesa di valori, persone, beni, ideali civili e/o religiosi, riconquistando una centralità e un’autorità che sentono messa in crisi dai tentativi delle donne di sottrarsi alla permanente subordinazione sociale e culturale.

 Le donne, in trepida attesa del ritorno dei loro eroi, da curare nel fisico e nello spirito, trovano una pausa dalle quotidiane fatiche di conquistare un’autonomia di pensiero e azione, nonché dal senso di impotenza e dalla delusione che spesso gravano sulle spalle di chi intraprende un percorso esterno agli schemi di genere socialmente accettati.

Il destino femminile di cura e accudimento, interiorizzato nell’educazione di genere, ritorna a essere risorsa sociale, collettiva e individuale, fattore di esaltazioni e riconoscimenti altrimenti negati.

Concorrono all’incantamento nei confronti della guerra anche le narrazioni costanti del nostro passato collettivo e individuale, che pongono l’accento soprattutto su eventi bellici, pur mostrandone gli orrori, ma presentandoli come ineliminabili, quasi fossero tratti di specie, oscurando il fatto che molti conflitti furono risolti attraverso mediazioni, dialoghi, scambio di pensieri e parole tra uomini, e anche donne.

L’effetto immediato, anche solo di previsione di guerra, è cancellare dai discorsi, dalle prime pagine dei giornali e dai servizi televisivi ogni notizia relativa alla vita quotidiana, che affonda in una dimensione di dettaglio e inessenzialità,  di riferire tutto a guerre possibili e incombenti, a vendette immaginate, a ritorsioni, tutte illustrate da competenti e esperti, rigorosamente uomini, perché ufficialmente è affare loro.
E se c’è qualche donna che ne parla si tratta di eccezioni che confermano la regola, sorelle degli uomini colti, cooptate da loro e fedeli alle strategie politiche degli uomini che le hanno promosse.

 Anche se le moderne tecnologie hanno sovvertito molte delle immagini interiorizzate rispetto alle guerre conosciute fino a cinquant’anni fa, con l’impiego di droni, guidati come in un videogioco, con il conseguente sterminio di civili, certe motivazioni di fondo, soprattutto riguardo alle relazioni tra donne e uomini di fronte alle guerre, non sono cambiate di tanto, i ruoli si sono solo modernizzati, non cambiati alle radici.

Gian Lorenzo Bernini, Testa di Medusa, 1640

Nella storia

Tre scrittrici contemporanee, testimoni delle guerre e degli orrori del Novecento, hanno affrontato il tema del rapporto tra donne e guerre, Svetlana Aleksievič, Christa Wolf e Marguerite Yourcenar.

Wolf e Yourcenar, in particolare indagano due figure principali del nostro immaginario, Cassandra e Clitennestra, sovvertendone le immagini trasmessaci dalla tradizione di una Cassandra profeta inascoltata da chi avrebbe dovuto crederle per evitare la rovina e di una Clitennestra, mostro sanguinario, fedifraga e assassina spietata.

Nella rappresentazione di Wolf Cassandra inizialmente vuole per sé il potere destinatole per nascita in quanto figlia amatissima di Priamo, sacerdotessa, e quindi con un ruolo di prestigio nella sua comunità, quando si accorge del disinganno, delle menzogne relative alla guerra, dell’ipocrisia che regna nel Palazzo e anche tra i suoi familiari, arriva a ipotizzare che Elena sia un pretesto, e non esista, si ammala, rinunciando a ruolo e vita a Palazzo.

Quando, portata da Agamennone schiava a Micene, incontra Clitennestra, ha un moto di pietà, intuisce che al di fuori della guerra degli uomini avrebbero potuto anche essere amiche:

Prima, quando la regina uscì dalla porta, lasciai che mi nascesse dentro un’ultima esilissima speranza, poterle strappare la vita dei bambini. Poi ho dovuto solo guardarla negli occhi: lei faceva quel che doveva. Non ha fatto lei le cose. Si adegua allo stato delle cose. O si sbarazza dell’uomo, quella testa vuota, completamente, oppure rinuncia a sé: alla vita, alla reggenza, all’amante, che del resto se interpreto bene la figura sullo sfondo, è ugualmente una testa vuota innamorata di sé, solo più giovane, più bello, di carne liscia. Con una scrollata di spalle mi fece capire che quel che accadeva non era rivolto direttamente contro di me. Niente in altri tempi avrebbe potuto impedire di chiamarci sorelle, questo lessi sul viso dell’avversaria, dove Agamennone, l’imbecille, avrebbe dovuto vedere amore devozione e gioia di rivederlo, questo vide. Perciò inciampò su per il rosso tappeto, come il bue che va al macello, lo pensammo entrambe, e agli angoli della bocca di Clitennestra apparve lo stesso sorriso che a quelli della mia. Non crudele. Doloroso. Perché il destino non ci ha posto dalla stessa parte[1].

Clitennestra, donna di maschio volere secondo l’espressione di Eschilo, nel racconto di Yourcenar acquista progressivamente negli anni consapevolezza del proprio valore e della propria forza, esercitando la funzione di capo durante l’assenza di Agamennone, così come molte donne durante le guerre suppliscono alle assenze degli uomini. Si sente più capace e meritevole del marito di esercitare quel ruolo a cui non vuole rinunciare, si ritiene più abile di altri uomini dai quali è circondata, quale ad esempio il pauroso Egisto, ma soprattutto si rende conto della falsità di una vita, programmata fin dalla nascita dai genitori, aspettata con ansia nell’adolescenza, destinata ad amare, servire, onorare un uomo senza particolari qualità, tutto preso dalle vicende della guerra e dai piaceri sessuali con le donne incontrate in guerra.

L’amore folle tradito e il disincanto la portano a organizzarne l’uccisione.

La Clitennestra di Yourcenar non può provare empatia per la schiava di suo marito, anzi la dipinge con parole di disgusto, la chiama la sua gialla schiava turca abituata a giocare con le ossa dei morti:

Ero in attesa sotto la Porta dei Leoni; un parasole rosa imbellettava il mio pallore. Le ruote della vettura scricchiolavano sull’irta salita; la gente del villaggio si attaccò alle stanghe per alleviare la fatica ai cavalli. Alla svolta della strada potei finalmente intravedere la carrozza un po’ più alta della cima delle siepaglie, e mi accorsi che il mio uomo non era solo. Gli stava accanto quella specie di maga turca che si era scelta come parte del bottino, benché fosse un pochino guasta, forse, dai giochi dei soldati. Era quasi una bambina; aveva dei begli occhi cupi in un viso giallo tatuato di ferite; lui le accarezzava il braccio per impedirle di piangere. L’aiutò e scendere dalla carrozza; mi abbracciò freddamente, mi disse che contava sulla mia generosità per far buona accoglienza a quella ragazza orfana di padre e di madre[2].

Due forme opposte, quella di Cassandra e quella di Clitennestra, e reali di relazioni tra donne vittime della stessa violenza maschile, la violenza strutturale della società patriarcale, della quale la guerra è l’esempio più significativo.

Uno degli effetti più deleteri delle guerre è la divisione tra donne che la guerra degli uomini comporta, anche quando sarebbe necessaria la solidarietà.

Osserva Wolf:

Europa [era] la figlia del re fenicio, che il dio Zeus, in sembianze di toro, rapì dalla fenicia portandola a Creta, dove lei partorì, tra gli altri figli, il futuro re Minosse. Un atto di violenza contro una donna fonda, nel mito greco, la storia dell’Europa[3].

Riporta poi l’osservazione di un giovane uomo che ascolta una sua conferenza:

…bisognava smetterla di piangere sulla sorte della donna in passato. Che lei si assoggettasse all’ uomo, che lo curasse, che lo servisse – esattamente questa era stata la condizione perché l’uomo potesse concentrarsi sulla scienza, o anche sull’arte, e dare risultati di altissimo livello in entrambi i settori. Il progresso era stato e era impossibile in altro modo[4] .

Svetlana Aleksievič fa un’operazione singolare, scrive un libro di narrazione femminile di guerra.

La ricerca è durata sette anni, il libro è stato pubblicato quasi vent’anni dopo la sua stesura al tempo della perestrojka di Gorbaciov, perché prima era censurato con il pretesto che la guerra che lei raccontava era troppo spaventosa, troppi orrori e troppi dettagli naturalistici, in una parola non era la guerra giusta, da tramandare, bisognava invece parlare dei gesti eroici, non infangare tutto rimestando nel sudiciume e nella biancheria intima, in questo modo si sminuivano le donne, riducendole  a donne comuni, a femmine.

Avverte Aleksievič:

Scrivo un libro sulla guerra… Io che non ho mai amato leggere i libri di guerre benché per tutta la mia infanzia e adolescenza fossero le letture preferite di tutti… E non c’era niente di strano: non eravamo forse i figli della Vittoria? I figli dei vincitori? … c’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini… Tutto quello che sapevamo sulla guerra c’era trasmesso da voci “maschili”. Siamo tutti prigionieri di una rappresentazione “maschile” della guerra. … nelle narrazioni delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire… i racconti femminili parlano d’altro. La guerra “femminile” ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue.… E a soffrir non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi[5] .

Le intervistate sono donne che hanno prestato la loro opera nell’esercito sovietico in tutti i settori, sia sul fronte che nelle retrovie, ci sono voluti molta pazienza e molti incontri ripetuti perché le donne si liberassero del controllo maschile nelle loro interviste, controllo sia interiorizzato che esplicito da parte di mariti e compagni, che raccomandavano Racconta come ti ho insegnato. Senza lacrime e stupidaggini.

Così si va dalla autista di mezzi militari che ebbe tre corvè di punizione perché al ritorno da un’esercitazione aveva abbellito il suo fucile con un mazzo di violette, alla donna che ricorda di avere impiegato tre anni per riadattarsi alle scarpe e alle gonne, dopo aver passato tanto tempo con stivali e abbigliamento militare. 

Riporto come esempio qualche brano di interviste:    

 È notte… Sono lì per svegliarmi e mi sembra di sentire qualcuno che piange accanto a me nell’oscurità…Sono io alla guerra… Stavamo ripiegando su tutto il fronte…. Superata Smolensk una donna mi regala un suo vestito, riesco a cambiarmi. Cammino sola… tra gli uomini. All’improvviso, le mie “cose”… Sono arrivate in anticipo, senz’altro a causa dell’agitazione, del tormento dell’umiliazione. Dove trovare ciò che mi serviva? Una vergogna! Come mi vergognavo! … Mi hanno preso prigioniera. Ma prima, proprio l’ultimo giorno, ho avuto per giunta le gambe fratturate, non potevo alzarmi dal mio giaciglio e mi sporcavo sotto[6] .

Ancora

…All’improvviso si è incendiata la parte di prora… Il fuoco è corso veloce per la tolda. È esploso il deposito delle munizioni… così i soldati si sono gettati in acqua per raggiungerla a nuoto [la riva] … e dalla riva hanno cominciato a crepitare le mitragliatrici nemiche. Io sapevo nuotare bene e volevo salvare almeno un ferito… Sento che qualcuno accanto a me si dibatte, ora emerge dall’acqua, ora affonda di nuovo. Sono riuscita ad afferrarlo… Era freddo, scivoloso… Ho pensato fosse un ferito investito dallo spostamento d’aria dell’esplosione… Io stessa ero quasi svestita… avevo indosso la sola biancheria… Un buio impenetrabile…. E attorno solo gemiti e imprecazioni. In qualche modo ho raggiunto con lui la riva. … E proprio in quel momento un razzo illuminante è esploso in cielo e ho potuto rendermi conto che avevo abbracciato e portato a riva un grosso pesce ferito. Un grosso pesce della statura di un uomo. Uno storione beluga… Stava morendo. Mi sono accasciata accanto a lui maledicendo piangendo… Per gli inutili sforzi… Ma anche per quella sofferenza che accomuna tutti viventi[7]

Un’altra testimonianza

Sono arrivata fino a Berlino con le truppe…Sono rientrata al mio villaggio con due ordini della Gloria e altre medaglie. Ci ho trascorso tre giorni e il quarto, di buon’ora, mamma mi ha fatto alzare intanto che tutti dormivano. “Figliola, ti ho preparato un fagottino. Va… va. Hai due sorelle minori che stanno crescendo. Chi le vorrà sposare? Tutti sanno che sei stata al fronte per quattro anni, in mezzo agli uomini” …Ma mi risparmi tutto questo, non mi tocchi l’anima. Scriva piuttosto, come tutti gli altri delle mie onorificenze[8].

Infine

Ero un’addetta alle mitragliatrici. Ne ho ammazzati talmente tanti… Dopo la guerra per molto tempo l’idea di avere dei bambini mi spaventava. Ne ho potuto avere solo quando mi sono un po’ calmata: dopo sette anni… Ma neanche adesso ho perdonato. E non ho intenzione di perdonare niente… Mi rallegravo per come erano conciati, da far pena solo a vederli: i piedi avvolti in stracci, e la testa pure… Li facevano sfilare attraverso il villaggio e imploravano: “Madre, dammi da manciare”… e mi stupivo al vedere le contadine che uscivano delle loro casupole per tender loro chi un pezzo di pane, chi una patata… I ragazzetti correvano lungo la colonna e gettavano sassi…E le donne piangevano…

Mi sembra di aver vissuto due vite: una maschile, l’altra femminile[9].

Per concludere

Sono un’insegnante di storia. Per quanto mi ricordo, il sussidiario di storia è stato riscritto tre volte. Io ho insegnato la storia ai bambini attenendomi al primo, al secondo e al terzo …Chieda a noi, finché siamo vivi. Non trascriva poi senza di noi. Continui a far domande. Sapesse com’è difficile uccidere una persona…Io lavoravo nella resistenza clandestina. Dopo sei mesi mi hanno affidato una missione: farmi assumere dai tedeschi come cameriera alla mensa ufficiali… Ero giovane, bella… Mi hanno presa. Avrei dovuto mettere del veleno nella pentola della zuppa e il giorno stesso raggiungere i partigiani. Ma mi ero ormai abituata a loro, e anche se erano nostri nemici quando li vedi ogni giorno e ti dicono Danke Shon… Danke Shon… diventa tutto più complicato… Uccidere può fare più paura che morire. Ho insegnato storia per tutta la vita …E non ho mai saputo come raccontare tutto questo. Con quali parole [10].

Léon Bakst, Eco, 1911

[1] Christa Wolf, Cassandra, Roma, e/o edizioni, 1984, p. 57.

[2] Marguerite Yourcenar, Clitennestra o del crimine, http://www.i-libri.com/opere/clitennestra-o-   del-crimine-di-m-yourcenar/

[3] Christa Wolf, Premesse, p.98.

[4] ibidem, pp.147-148.

[5] Svetlana Aleksievich, La Guerra, pp. 7-10.

[6] ibidem, pp.  28-29.

[7] ibidem, pp. 29-30.

[8] ibidem, p. 38

[9] ibidem, p. 39

[10] ibidem, p. 4

MASCHIO GUERRIERO

L’ennesimo femminicidio compiuto da Alessandro Impagnatiello nei confronti della compagna Giulia Tramontano ripropone a un uomo il solito dilemma: in che modo prendere posizione? A parte il rilancio dei messaggi che mi sono sembrati più significativi e il ribadire l’importanza dei centri anti violenza autogestiti dalle donne e della necessità di forme di prevenzione e rieducazione della popolazione maschile al rispetto a cominciare dai bambini, mi sembra che sia opportuno ribadire alcune convinzioni ma anche di arrivare infine a una proposta. Come uomo ho espresso più volte anche in ambiti pubblici il mio scetticismo rispetto alle manifestazioni di uomini sulla violenza maschile contro le donne. In qualche occasione le ho seguite, non mi hanno convinto e la ragione di fondo è che c’è nel gruppo solo maschile una contraddizione di fondo perché è proprio dalla dimensione del gruppo che gli uomini dovrebbero imparare a uscire per diventare individui autonomi fra l’altro, capaci di governare la propria vita e rifiutare le complicità maschili sottili che sfociano negli stereotipi  sessisti più consolidati.

In questo blog ho pubblicato diversi interventi che affrontano il tema della violenza maschile contro le donne in due diverse rubriche, ma ho pensato in questi giorni che la tematica debba avere un contenitore autonomo che permetta di distinguerla da altri aspetti del pensiero unico dominante. Ne ho discusso con Paolo Rabissi e alla fine la scelta del titolo della nuova rubrica è Maschio guerriero, che riprende una parte del titolo di un intervento di Paolo, ma vuole stabilire anche un nesso con un’altra opera che ho spesse volte citato e cioè il romanzo di Edoardo Albinati La scuola cattolica. In quest’opera il nesso fra guerra, dominio e appropriazione del corpo femminile trova pagine di grande forza, tanto più perché pronunciate da un uomo. L’intento di questa nuova rubrica però è anche un altro. Ci sono stati nella mia vita alcuni passaggi generazionali che sul tema della violenza maschile hanno segnato dei passaggi molto importanti, ma che poi sono spariti o quasi dalla visibilità. Mi riferisco a programmi come Processo per stupro, al monologo teatrale di Franca Rame seguito alla violenza dai lei subita. Se nelle elaborazione recenti di gruppi femministi ritrovo molti contenuti degli anni ’70, mi sembra invece che essi siano scomparsi dalla riflessione di molti uomini.   

GRAND TOUR: VENEZIA E LIDO DEGLI ALBERONI

Lido degli Alberoni a Venezia

La strana decadenza veneziana è proporzionale alla forza che la Serenissima ebbe nel suo passato. Paolo Rabissi mi corregge quando gliene parlo:

“Guarda che lì come qui a Forte dei Marmi, siamo aldilà della decadenza.”

Ci penso un po’ e ne concludo che Paolo ha ragione: neppure oltre, ma proprio aldilà. Essere oltre vuole dire poter tornare, mentre dall’aldilà non si torna, si può solo permanere in esso immobili, senza mutamento, un po’ come l’acqua della laguna che, anche quando s’increspa, permane nella sua piatta uniformità. I colori però riportano a una bellezza che non muore, fuori dal tempo e anche dalla storia, nonostante i motoscafi. Vista dagli Alberoni, la laguna è anche una striscia di terra sottile, lunga una decina di chilometri e larga non più di uno, che si estende dal Lido vero e proprio, con i suoi sfarzi, fino alla punta estrema da cui ci s’imbarca per Pellestrina, un’altra striscia più o meno analoga, alla fine della quale ci si trova dirimpetto a Chioggia. Davanti a essa e nel mare lagunare, una serie di isolotti disabitati, forse vecchi avamposti militari o piccole fortezze d’avvistamento. Il silenzio la fa da padrone, ma su quello naturale e ambientale pesa anche quello della storia. Venezia sembra non potere avere altro se non un destino turistico, anche se i veneziani i turisti sembrano subirli più che amarli perché è pur sempre una città vivente anche nella contemporaneità, ma in un presente deprivato e stanco. Non so se l’acredine che spesso traspare sia dovuta alla nostalgia per il passato glorioso o semplicemente perché ce l’hanno con il mondo in modo un po’ ottuso, visti i risultati. Forse è soltanto la difficoltà di arrendersi a una legge della storia e dell’antropologia, che pur non avendo la stessa cogenza delle leggi fisiche, pur tuttavia esiste. Chi ha avuto troppo prima non può avere sempre e mi domando, allora, se Venezia non sia una metafora dell’Italia intera.

In Italia e in Grecia è nato gran parte di ciò che definiamo Occidente ed eccoci di nuovo tornati alle origini. Tutte le forme politiche e religiose occidentali sono nate qui: dalla repubblica alla democrazia, dagli imperi all’autocrazia, dai politeismi ai monoteismi. Poco più in là e in tempi molto remoti solo l’Impero Egizio può vantare altrettanto prestigio, ma essendo troppo perfetto nella sua commistione riuscita fra potere religioso e temporale, rimane un modello probabilmente inimitabile. Sul suolo italiano sono nate le due costruzioni geopolitiche più durature della storia occidentale, seconde solo all’Impero Egizio: quello Romano e la Repubblica di Venezia. Sul primo si è detto tutto, su Venezia meno, ma se si pensa alla sua durata nel tempo si rimane stupefatti. I veneziani hanno saputo proteggere molto bene la loro storia: ne sono entrati da protagonisti in punta di piedi, addirittura dal sesto secolo e sulle macerie di una legione romana, per poi uscirne altrettanto in punta di piedi con la conquista napoleonica: oltre mille anni! Quanto alla democrazia, la vulgata che ne pone la nascita nella polis greca, va oggi integrata dalla consapevolezza che, in quella forma, non era esportabile in un grande stato, anche perché il suo difetto d’origine era pur sempre quello di essere fondata su un modello patriarcale e di essere una democrazia per pochi uomini liberi. Le culture nordeuropee e poi quella anglo sassone e francese hanno inventato la sola forma geopolitica moderna, di cui non vi è traccia nell’antichità e che ci accompagnerà ancora per poco: lo stato nazionale. Esso nacque legato a stretto filo al nascente capitalismo, anzi, ne fu l’involucro geopolitico naturale per arrivare a un’estensione su larga scala della fase mercantilista. La Lega Anseatica, pur non essendo uno stato, svolse la stessa funzione, mentre le Repubbliche Marinare in Italia nacquero troppo presto per diventare il collante di una possibile unificazione nazionale. Solo la Repubblica di Venezia assunse un ruolo di grande potenza anomala e questo sorprendente risultato vale la pena di guardarlo più da vicino perché, se da un lato conferma alcune regole immutabili della geopolitica da cinquemila anni a questa parte, dall’altro vi apporta alcune integrazioni assai interessanti. Quella che segue è la cartina della Repubblica di Venezia nel momento della sua massima espansione.

Lo Stato includeva, nel XVIII secolo e sino alla sua caduta, gran parte dell’Italia nord-orientale, nonché dell’Istria e della Dalmazia e oltre a numerose isole del Mare Adriatico (il Golfo di Venezia) e dello Ionio orientale.

Se si osserva attentamente questa strana mappa ci si rende conto che il capolavoro dei veneziani fu la rinuncia a conquistare ampi spazi terrestri, a parte un pezzo relativamente grande di Grecia continentale: per il resto solo isole e strisce di terra. In sostanza la loro genialità fu quella di far credere che fossero un’isola essi stessi, nonostante non lo fossero del tutto; in questo troviamo la conferma di un paradigma geopolitico ma anche una sua mutazione assai intelligente. Lo si capisce anche dalle guerre strategiche che i veneziani intrapresero: non di conquista nel senso usuale del termine, ma volte a eliminare l’eventuale concorrenza e le sole entità politiche che potevano in teoria coltivare un progetto analogo al loro erano proprio le altre repubbliche marinare. Le guerre con queste ultime furono condotte con una determinazione che non lasciò scampo ad Amalfi, Pisa e Genova anche se va detto che quest’ultima aveva già trovato una sua strada diversa per galleggiare piuttosto bene nel nuovo mondo che stava nascendo: diventare il banchiere d’Europa, più tardi insieme ai fiorentini. Quanto a Pisa era troppo nordica per poter svolgere un ruolo autonomo in quello scenario. La vera possibile concorrente era Amalfi, affacciata sulle coste africane, potenzialmente in grado di fare ciò che Venezia fece con le fasce di terra adriatica. Una volta eliminata la concorrenza, infondo conveniva a tutti rispettare e tutelare – pur fra scontri e tensioni – l’autonomia della Repubblica. La rinuncia ad ampie conquiste territoriali lasciava tranquilli i grandi stati nazionali nascenti, che potevano trovare in essa un momentaneo alleato. La sua presenza sulle coste era un presidio contro la pirateria e talvolta i veneziani ne fecero una risorsa: lasciando per esempio via libera ai pirati uscocchi nell’Adriatico, in funzione anti francese e anti spagnola. Insomma, tenendosi fuori dai grandi conflitti dinastici (erano una repubblica), alla larga da tentazioni militariste di ampia conquista territoriale, i veneziani quatti quatti si ritirarono nella loro nicchia. Venezia fu la capitale dell’intero occidente nel 1500, un po’ come New York oggigiorno e questo capolavoro riuscì loro anche per la struttura del governo interno. Se si pensa ai tempi, quello di Venezia era uno stupefacente governo democratico e repubblicano.

L’Italia vista da qui è il più grande museo archeologico a cielo aperto dell’intero Occidente e questa dovrebbe essere la maggiore preoccupazione di governi e popolazione: custodire questo sito, farlo vivere, dedicare ogni energia alla sua manutenzione. Tutto il resto, dalla narrazione sulla settima e poi addirittura quinta potenza industriale è solo il frutto di un’illusione ottica creata dalla Guerra Fredda e che ha cominciato a finire il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. Vi sono solo due elementi di quella parentesi storica, che si possono far risalire alla cultura italiana più profonda e ne costituiscono la vera continuità e un fattore importante d’identità virtuosa: la costruzione di strade e l’apporto scientifico e tecnologico, più che non genericamente culturale. La plastica deriva del moplen e fu sperimentata in Italia prima che altrove grazie a Giulio Natta; c’è almeno un fisico italiano per ogni generazione del ‘900 (Majorana, Fermi, Pontecorvo, Amaldi, Rubbia, Parisi). Oggi questa tradizione continua e sono molto spesso le donne a esserne protagoniste: Gianotti, Branchesi, Fafone e Stratta. Tale apporto riguarda quasi tutti i campi del sapere, con quello scientifico al primo posto: la tradizione umanistica, invece, di cui siamo tanto fieri, si sta perdendo nel degrado di una scuola che non è più in grado di trasmetterla e che forse dovrà essere custodito altrove per alcuni secoli come lo fu la grande cultura classica nei conventi benedettini.

Venezia città

Era da tempo che non approdavo in città e arrivarci dal Lido è un’esperienza del tutto diversa. Il lido è luogo di silenzi. Arrivando da qui non si entra immediatamente nel flusso turistico, come accade giungendo alla stazione o in piazza Roma. Solo le scie degli aerei disturbano la quiete, ma basta non alzare troppo gli occhi al cielo e ci si dimentica che l’aeroporto di Venezia è uno dei più trafficati al mondo. Arrivare nel cuore di Venezia dal Lido è un po’ come venirci da un altro tempo. La città si avvicina lentamente, poi si cominciano a vedere in lontananza i campanili, a individuarli, poi le cupole delle chiese; ma tutto molto lentamente. La velocità delle navi, a confronto con quella di altri mezzi, è rimasta molto indietro, l’acqua offre una resistenza e un attrito che l’aria non conosce, ma neppure la terra. Se non fosse per Porto Marghera con le sue guglie sinistre e minacciose, potremmo essere dei viaggiatori di molti secoli fa provenienti dall’Oriente. Anche il brusio della città si avvicina lentamente e anche quando si è nel vivo del flusso di folla, i rumori rimangono lontani nel tempo, appartenenti anch’essi a un aldilà. Quanto alla folla, sciama verso le solite mete, con mancanza di fantasia, a parte coloro che vengono per vedere mostre o altro. È una folla consumista e disattenta, che può passare indifferentemente dalle magliette delle squadre di calcio ai negozi dei vetri pregiati di Murano. Cose già viste, eppure man mano che ci aggiriamo per la città mi rendo conto che qualcosa è cambiato anche sotto questo aspetto. L’aumento vertiginoso dei chioschi ha assunto una dimensione post consumista, siamo in un altro aldilà, ancora più inquietante. Leggo su un giornale che ora i veneziani stanno protestando per la presenza delle grandi navi davanti a piazza san Marco, ma mi domando se quello che vedo per le strade non sia anche peggio. Capisco gli abitanti che non escono di casa per non finire nel mezzo di questa assurda baraonda, ma perché accettarla allora e in nome di che cosa? Forse dell’affitto di suolo pubblico a prezzi esorbitanti che servirà a risanare il patrimonio della città? Se fosse questo mi sembra una strategia perdente, ma forse non c’è una vera ragione, ma solo una deriva accolta con rassegnazione, come avviene per molte altre cose. L’ambivalenza rabbiosa dei veneziani rispetto al flusso turistico la si coglie meglio entrando nei bar: è quello che facciamo anche noi. L’ordinazione (un gelato per Mattia, un ghiacciolo per Anna, un caffè per me), lascia del tutto insoddisfatto il gestore che infatti dopo l’ordinazione mi chiede perentoriamente se voglio soltanto un caffè. La tentazione di uscire subito è forte, ma poi faccio finta di niente badando solo ad accorciare il più possibile la permanenza. Usciamo e sciamiamo anche noi diretti a Piazza san Marco, con l’idea di farla apprezzare ai nipoti; impresa quanto mai difficile in questo bailamme. Intanto si sta avvicinando mezzogiorno e anche un po’ di fame. Un altro bar si profila all’orizzonte e almeno a una prima vista ha un aspetto accattivante. Piccolo, come tutti gli spazi veneziani, è arredato all’antica. I tavolini eleganti, le sedie curate, le piccole teche con le bottiglie di vino bene allineate invogliano a entrare. Sembra pieno a una prima occhiata panoramica, ma siamo fortunati perché si liberano due tavoli e così possiamo ordinare. Mentre attendiamo mi guardo intorno: sì, siamo proprio capitati in un angolo di vecchia Venezia, allegra, in mezzo a turisti che vengono da tutte le parti, rilassati, anche perché, a differenza dell’altro bar, in questo siamo simpaticamente accolti. Il servizio è ottimo e i gestori sono gentilissimi, svolgono il lavoro nei tempi giusti, rispettando rigorosamente l’ordine delle diverse richieste e hanno un sorriso per tutti: sono tre cinesi e un’indiana.

Il ritorno pomeridiano è un altro viaggio nel tempo. Non è soltanto la lentezza, ma la riconquista del silenzio dopo il caos della città urbana. Solo approdando nella parte più mondana del Lido si apre per un attimo una parentesi, poi è di nuovo oblio. L’autobus corre per i viali ancora vuoti, il caldo è soffocante e rallenta a sua volta i movimenti. Fra il Lido e gli Alberoni c’è una piccola frazione, Malamocco, fatta di vie strette e due larghi Campi. Il nome evoca qualcosa di sinistro, ma il luogo è terso. Il ponte, in fondo alla grande piazza, supera il canale e fa di questa piccola frazione un’isola fra la laguna e le spiagge che da esso s’intravvedono in lontananza. Risalgo sull’autobus verso il piccolo porto dove c’è un bar con terrazza sul mare: un luogo ideale dove leggere e attendere l’ora della riapertura dei negozi, che finalmente arriva; ma alla Coop una sorpresa mi attende. Il supermercato è chiuso anche se gli addetti sono tutti lì al lavoro. Chiedo spiegazioni e mi guardano sorpresi. Due vaporetti non sono arrivati e senza merci sugli scaffali è meglio fare lavori di manutenzione; riapriranno fra un’ora, sperando in un terzo vaporetto. Non ho nessuna voglia di aspettare e, in fondo, a casa ce n’è abbastanza di cibo per arrivare al giorno dopo. Mentre ripercorro a ritroso la strada, con il sole che comincia a calare e i colori della laguna si fanno ancora più sfumati, mi coglie il pensiero che potrebbero farcela per una seconda volta a scomparire e a rinascere i veneziani; o comunque a rimanere nel loro aldilà senza che nessuno li disturbi. Se è sufficiente il mancato arrivo di due vaporetti per fermare il consumismo almeno per qualche ora vuol dire che l’aldilà è proprio una frontiera insuperabile. Con le sue insopportabili zanzare, che nessuna tecnologia potrà mai eliminare del tutto da una laguna, questo mondo potrebbe di nuovo diventare una nicchia, un limbo arcaico nel futuro incerto che ci attende.  

Malamocco

GRAND TOUR: LUNGO IL TIRRENO

Bufali nel parco dell’Uccellina

Per il momentaneo ritorno a Milano scelgo il bus: è meglio del treno perché, pur facendo ricorso ad autostrade e superstrade, entra anche nei piccoli centri in cui sono scandite le tappe. Il viaggio è lungo, anzi lunghissimo e anche questo è un vantaggio: il tempo favorisce lo scorrere dei pensieri, la velocità non domina, i percorsi sono a volte bizzarri e questo mi è particolarmente caro perché attraversa luoghi che conosco a memoria ma che da lungo tempo sono usciti dalla mia vita. Dalla stazione romana della Tiburtina si giunge rapidamente all’Aurelia in direzione di Civitavecchia, sfiorando di nuovo la bassa Tuscia laziale. Attraversata la città, la strada svolta a destra e costeggia il mare, che ci accompagnerà a lungo, fino a quando il bus svolterà una seconda volta a destra per attraversare l’Appennino ligure-emiliano. La giornata è luminosa, i vetri schermati del bus attutiscono i colori quel tanto che basta per trasformare un paesaggio consueto in un teatro onirico.  

Il casello della dogana dello stato della Chiesa a Capalbio appare improvviso in fondo al rettilineo dell’Aurelia semi deserta. Era una vista consueta durante le escursioni verso Saturnia o Ansedonia e anche pretesto per rapide lezioni di storia ai figli:

“Vedete? qui c’era il confine con lo Stato della Chiesa, questo era il casello della frontiera e della dogana…”

“Come con la Svizzera?”

“Sì, come con la Svizzera, ma di qua non era Italia ma Granducato di Toscana…”  

Oggi la sua vista mi sorprende. Non è soltanto la distanza di tempo che mi divide dall’ultima volta che passai di qui, ma il cogliere in un lampo quello che anni fa non era mai balenato: l’incuria cui è lasciato, lo stato di abbandono. In fondo è un edificio storico, poteva diventare un museo, un pretesto nel senso più nobile del termine, adatto a custodire memorie storiche e culturali, ospitare convegni in uno scenario magnifico. Invece se ne sta lì come allora, su una via ormai dimenticata dal grande traffico, che ha a disposizione autostrade e superstrade l’una parallela all’altra come ferite inferte alla terra, ai campi. Il bus lo supera in fretta, il tempo corre con l’aiuto di un tranquillo dormiveglia, che finisce quando all’orizzonte vedo i Monti del parco naturale dell’Uccellina. Per anni sono stati un altro dei luoghi che più ho frequentato: d’estate si andava a Massa Marittima, d’inverno ci si tornava durante le vacanze di fine anno. I miei figli sono cresciuti in mezzo a quelle colline e a quei boschi. Per due anni di seguito ci spostammo di un poco e finimmo proprio ad Alberese, la porta d’ingresso del parco, ma quei monti bassi, che precipitavano su un mare che sembrava quasi un oceano davanti alla costa, li frequentavamo comunque, c’era sempre una gita in programma ad attenderci e una meta obbligata: le foci dell’Ombrone.

Il bus intanto è arrivato proprio in un punto che ricordavo benissimo: il lungo ponte che attraversa una larga porzione di campagna sottostante e il fiume, un rigagnolo che quasi non si vede; alla fine di esso si è quasi alle porte di Grosseto. Le foci dell’Ombrone avevano qualcosa di arcaico e di incontaminato, con il bosco retrostante e una lunga via che lo tagliava in due e finiva proprio in riva al mare dove un piccolo bar all’aperto con una semplice tettoia su una vista spettacolare, era la meta tardo pomeridiana di aficionados dell’aperitivo con tramonto. Era un rito che si è ripetuto molte volte nella mia vita di quegli anni. Il mare era proprio a ridosso, si mangiava la riva ogni giorno di più, ma il piccolo locale resisteva e ritrovarlo a sei mesi di distanza, seppure spostato di qualche metro, era un piccolo miracolo. Il bosco dietro di esso e da entrambi i lati della strada era fitto e con una varietà di vegetazione incredibile, i cinghiali, i bovini che pascolavano bradi e nei quali ogni tanto ci si imbatteva, i funghi autunnali. Poi la foce vera e propria, con il suo habitat fatto di uccelli migratori, acque che si mescolavano e quel sole rosso all’orizzonte.

Ho letto da qualche parte e poi confermato da amici che tutto questo non esiste più da tempo, il mare si è mangiato qualcosa come due o tre chilometri di costa. Del vecchio bar con tettoia non c’è più traccia da tempo, il bosco sommerso dalle acque si è ritirato e la foce stessa non può essere visitata come prima e ha perso molto del suo fascino. Mentre l’autobus entra in Grosseto – la Kansas City italiana secondo Luciano Bianciardi – il pensiero ritorna a Civita di Bagnoregio e alla simulazione vista al museo delle frane, a quell’Italia che non esisterà più fra 100 milioni di anni. In realtà, i mutamenti vistosi sono visibili e presenti anche oggi, ma a volte non li vediamo, a volte non vogliamo vederli, a volte escono dalle nostre vite quei luoghi che avevamo così tanto amato e poco importa che non esistano più nelle forme in cui li abbiamo conosciuti; anzi, è meglio così, perché possiamo ricordarli e farli rivivere come vogliamo. In fondo, le micro dimensioni sono governate dalle stesse leggi fisiche delle macro dimensioni, almeno questo sembrano dirci i fisici e la natura è sempre la Sfinge leopardiana che sappiamo. A ripensarci quella mappa adesso mi fa meno paura, possiamo vedere le trasformazioni anche giorno per giorno, ci accompagnano per quel tratto che ci compete e non saprei dire se una simulazione come quella vista che ci proietta in un futuro inimmaginabile serva davvero a qualcosa, a capire le micro modifiche, quelle su cui forse possiamo davvero ancora influire. Non lo so… ma intanto il bus ha raggiunto la stazione: è tempo di un caffè.

Foce dell’Ombrone

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

GRAND TOUR: TRA FALISCHI E CIVITONICI

Civita Castellana. Forte Sangallo

All’ingresso di Civita Castellana si rimane colpiti dalla sua toponomastica: un richiamo continuo alla lotta antifascista e alla Repubblica romana del 1849. Targhe, vie e piazze; ma colpisce anche la storica insegna di una delle prime sezioni del Partito Socialista Italiano. Sono simboli presenti anche in altre città e paesi, ma qui l’occhio li registra in continuazione, segno di una densità che da altre parti non appare così evidente e se alcune intitolazioni sono canoniche (via Antonio Gramsci, per esempio), altre lo sono assai meno: Via Don Minzoni, via Martiri delle Fosse Ardeatine, Via Ugo Bassi, Via Anita Garibaldi. Non si tratta però solo di un culto rétro della memoria storica perché due vie sono intitolate a Salvador Allende e a Peppino Impastato. Nonostante il buon numero di chiese e le usuali vie dedicate a santi famosi o locali, si percepisce un sottofondo anticlericale che si avverte anche nei Castelli Romani, a Rocca di Papa, per esempio. La Repubblica del ‘49 non riguardò solo Roma città ma coinvolse una parte del territorio laziale; a differenza di Viterbo, molto più papalina per evidenti ragioni storiche. Una seconda vistosa caratteristica è che la città è orientata secondo l’asse est ovest e questo significa che il sole e la luce la dominano in tutte le ore del giorno. Infine, non manca di monumentalità, grazie al Forte Sangallo, che contiene fra l’altro un bellissimo museo etrusco che – insieme  a quello di Nepi forma un complesso di grande pregio; infine il Palazzo Falisco, con i suoi arredi preziosi e cinquecenteschi, oggi sede alberghiera di pregio. Civita è piena di altre sorprese, legate all’artigianato e alla nascita delle prime fabbriche negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, tanto da costituire un piccolo ed eccellente polo industriale e artigianale che si è spento lentamente solo pochi decenni fa. A ricordare tutto questo c’è un museo fra i più sorprendenti e degni di grande attenzione. A un’attenta osservazione, sembra di poter dire che si sono confrontate qui, come in altre parti d’Italia, due utopie. La prima è quella rivoluzionaria operaia, nelle sue diverse declinazioni – e relative concordanze e discordanze – che ha percorso l’Europa intera dalla metà del 1800 in poi. In Italia – e non saprei dire se ciò è accaduto anche altrove – ne è esistita un’altra, un’utopia del capitale incarnata a volte da figure che sembrano scambiarsi i ruoli: per esempio Casimiro Marcantoni, socialista della prima ora, poi imprenditore, attento al sociale, fondatore di cooperative e ispiratore di un modello gestionale dell’impresa basato sulla partecipazione dei lavoratori, sia in qualità di soci dell’azienda sia in altre forme cooperativistiche. Il nome di Marcantoni non è noto come altri, ma egli fu fra i primi di una stirpe che ha incarnato l’utopia del capitale di dar vita a una società organica legata al valore della produzione, naturalmente rigidamente divisa in classi, che dovevano tuttavia trovarsi a contatto e a una distanza stabilita e non arbitrariamente proiettata verso una sguaiata enormità senza limiti, legata alla pulsione più distruttiva e all’avidità, come è oggi sotto gli occhi di tutti nell’epoca del turbo capitalismo post borghese e post proletario. Fu l’utopia di Crespi (coevo più o meno di Marcantoni) che è ben visibile ancora oggi nell’idea costruttiva del villaggio omonimo alle porte di Milano. Poi fu l’utopia di Luisa Sargentini Spagnoli, anche lei quasi coeva; poi di Adriano Olivetti, Giovanni Pirelli e Giuseppe Luraghi, l’ultimo degno rappresentante di questa stirpe di imprenditori e imprenditrici. Fu un’utopia guardata con sospetto e in questo ostracismo si ritrovano uniti sia i perenni rivoluzionari senza rivoluzione, perché naturalmente si tratta di un’utopia del capitale, sia gli attuali piloti automatici del capitale che nulla ne sanno né vogliono sapere. Ovvio, quasi banale che fosse un’utopia padronale; eppure fu un intellettuale critico e anomalo come Franco Fortini a ricordare a noi ragazzi delle scuole superiori l’importanza di Adriano Olivetti, senza che questo gli impedisse, un paio di anni dopo, di essere uno fra i pochi intellettuali militanti degni di questo nome che seppe capire l’importanza dei movimenti nati intorno al ’68 e a parteciparvi direttamente e non dalla sua scrivania; persino con una radicalità che molti ventenni non avevano.1

Mi avvio verso il centro e l’occhio corre di nuovo ai nomi delle strade. La storia qui non è semplicemente passata; no, questa città ne è stata protagonista per un arco di tempo assai lungo, alla fine del quale la memoria non è un culto astratto, ma un indice della cura con cui una comunità custodisce se stessa. Le stesse lapidi, i nomi delle vie, superata la sorpresa del primo giorno, si offrono al mio sguardo in modo diverso, a cominciare da quella celebrativa di un famoso discorso che Ugo Bassi tenne nel 1848 dal balcone dell’attuale piazza Matteotti. Bassi fu un protagonista della Repubblica Romana insieme a Garibaldi e fu fucilato dagli austriaci nel 1849; fino alla targa dedicata a Giuseppe Di Vittorio e voluta dai lavoratori e dalle lavoratrici della ceramica iscritti alla CGIL. La storia non è acqua per chi la sa conservare e la fama di questa piccola città italiana ne fece una meta obbligata del Grand Tour. Goethe la visitò nel 1786, Corot vi dipinse paesaggi maestosi, Mozart fu ospite nel 1770 e suonò per i civitesi.

Nepi

Alla città si arriva con un bus di linea che da Civita ci mette poco meno di mezzora e ciò che mi colpisce di più arrivando è il contrasto fra le piccole dimensioni dell’abitato e la sua monumentalità, peraltro conservata in modo egregio, tanto che il pensiero corre per un istante a Viterbo e al suo centro storico. Proseguendo nella visita però mi rendo conto che lo scenario è differente perché alla potenza severa di alcune costruzioni se ne aggiungono altre in cui prevale l’esibizione di una forza e anche di un certo sfarzo che rimandano piuttosto ai Castelli Romani. Nepi mi sembra stare nel mezzo, sospesa fra due tempi storici diversi, ma la direzione verso cui guarda è quella delle lotte rinascimentali fra diverse casate, dalle quali emergeranno un buon numero di Papi: Vico e Colonna, Orsini e infine Borgia, cui si deve la possente Rocca fondata nel 1499, opera disegnata da  Sangallo II il vecchio. Anche il Forte Sangallo di Civita fu fondato dal Borgia e allora si comprende che Viterbo è lontana, nonostante i pochi chilometri che la separano da qui. L’esorbitante numero di chiese in un territorio piccolo la distanzia da Civita, pur così vicina: è il paradosso della terra italiana, dove tutto si mescola caoticamente, dove le linee divisorie passano da sentieri impervi che rompono e ricreano il tessuto sociale per faglie, come se la geografica sismica di tutte queste terre appenniniche avesse un’influenza diretta sulla storia e le vicende umane.

Ritorno a Roma

Campagna romana by Thomas Cole

Il bus finalmente arriva, siamo in pochi a salirvi e questa è una buona notizia. Un’altra sorpresa è il percorso diverso da quello che mi aspettavo: attraversiamo nuovi piccoli paesi, fino a Campagnano, che già conoscevo perché Michele e Francesca hanno proprio lì una casa. La campagna romana finisce bruscamente più volte e più volte si ha la sensazione di essere finalmente arrivati a Roma, ma poi, svoltato un angolo, ecco che di nuovo ci si perde in mezzo a casolari e sterpaglie. Al nuovo addensarsi di case compare finalmente anche il cartello: Roma. C’ero già stato da queste parti durante una delle tante incursioni periferiche. Ora percorro la Cassia al contrario e la città fa tutto un altro effetto. Roma è una metropoli continuamente interrotta da larghi spazi verdi, a volte brulli a volte boscosi: terre di nessuno che hanno una somiglianza con gli spazi vuoti di Berlino … Berlino e Roma: le due città sono gemellate. È normale che due capitali così importanti lo siano, ma la combinazione non è affatto scontata anche perché nell’esperienza europea dei gemellaggi, l’enfasi è solitamente posta sulle problematiche comuni, siano esse di carattere amministrativo e territoriale. La domanda, allora, si pone naturale: cosa possono avere in comune la metropoli più moderna d’Europa, dove l’edificio più antico risale alla metà del 1700, con la città eterna, la cui storia millenaria e stratificata si respira in ogni strada? Nulla sembrerebbe, a parte il fatto puramente formale di essere entrambe città che occupano un territorio vastissimo rispetto al numero di abitanti. A Roma la modernità – pure assai significativa – è tutta concentrata nelle geometrie dei palazzi dell’Eur, nell’ufficio della posta alla Piramide, nella ex Centrale Elettrica Montemartini, oggi trasformata in uno straordinario Museo e nel Gasometro. Se si vuole viaggiare molto indietro nel tempo, a Berlino, bisogna per forza varcare le porte di un Museo. Soltanto vivendole entrambe queste due metropoli, si arriva a comprendere, invece, che le ragioni del gemellaggio ci sono eccome, anche a prescindere dal loro essere due capitali! Provo a dirne alcune, naturalmente del tutto basate su un’esperienza puramente soggettiva, seppure fondata su una lunga frequentazione che anche il percorso del mio bus ripropone puntualmente. La prima. Nonostante la ricchezza di musei, teatri, auditorium, chiese, monumenti, offerta culturale di alto livello, Roma e Berlino vanno vissute open air. Passeggiare per le loro strade, scoprirne angoli, piazze, scorci di fiume e canali (Berlino ha più ponti di Venezia), è un’esperienza eccitante, anche quando può risultare estraniante: come, per esempio, quando capita di trovarsi, improvvisamente, in una periferia pasoliniana, oppure – a Berlino – nel mitico agglomerato urbano di Marzan, all’estrema periferia orientale dalla città. Diverse anche nel loro modo di essere estranianti, Roma e Berlino, tuttavia, si comprendono a distanza anche in questo.

Berlin. Treptower Park

La luce e il bosco. Ecco due altre affinità profonde e forse imprevedibili. In entrambe, i lampioni hanno qualcosa di antico e la luce che emanano è intima. A Berlino vi è una sola vistosa eccezione: la zona di K’Damm, dove prevale il gusto tutto statunitense del neon, uno sfavillio da luna park che contrasta con la luce soffusa di altre aree della città. K’Damm era la vetrina ricca e presuntuosa dell’Occidente durante la Guerra Fredda. Oggi è rimasto il neon, per il resto la via è costellata di negozi delle maggiori e più rinomate case di moda, design e altro: ma sono vuoti a tutte le ore! Quanto alla luce naturale, pur agli antipodi, ancora una volta Roma e Berlino si comprendono, perché entrambe le città sono luoghi di luce estrema, abbacinante. La controra romana, i riflessi di certi soli sui monumenti, il riverbero di luce su paesaggi che oscillano fra rovine e natura, come al Parco degli Acquedotti, con i suoi monoliti di pietra cariati dal tempo, sono esperienze uniche: ma lo sono pure la luce del nord che penetra dentro la notte in estate e sembra non finire mai, oppure il buio che scende presto di pomeriggio durante il lungo inverno: e, ancora, il chiarore di certe albe estive alle quattro del mattino, immerse nel silenzio del sonno in piena luce sono  un’esperienza altrettanto grandiosa, come pure passeggiare in riva della Spree alle 21 di una sera di luglio, con il sole ancora alto e caldissimo, come mi capitò spesso, durante l’indimenticabile estate del 2010. Il bosco, poi, non il giardino! Non mancano quelli classici all’italiana o alla francese, ma gli spazi verdi che affascinano maggiormente hanno, in entrambe le città, un elemento irriducibile di selvatico, di presenza di una natura non domata. A Roma, questa caratteristica si coniuga spesso con la rovina archeologica, oppure il bosco è popolato da grotte che sono la continuazione di costruzioni che continuano a decadere da secoli, ma che, tuttavia, rimangono sempre in piedi. Parchi come quello della Caffarella, oppure il già citato degli Acquedotti o Appio Claudio, che ne sono quasi la continuazione, occupano una parte consistente del territorio urbano, tanto che della città si perdono un po’ le tracce quando ci si trova proprio nel mezzo; lo stesso per quello dell’Appia Antica che occupa un territorio ben più grande di quello più conosciuto ai lati della strada consolare, ma si insinua nel cuore della città come un bosco fatto di sentieri bellissimi e rovine. Non è diversa l’esperienza quando ci si aggira nel Tiergarten o a Treptower Park. Ci sono le strade sterrate e i sentieri, ampi, dove si cammina benissimo; ma tutto intorno, la natura è lasciata a se stessa, al suo naturale ricambio e gli interventi umani sono pochi e manutentivi. L’acqua dei canali scorre lenta sotto alberi secolari e salici e gli animali, scoiattoli, in primo luogo, si sentono a casa loro. A Berlino manca la rovina come siamo abituati a vederla anche nei dipinti ottocenteschi, ma in alcuni casi, come nel parco di Treptow, essa assume sembianze moderne, imprevedibili e a volte estranianti. Dal carro armato sovietico a un vecchio parco giochi con strutture che sembrano resti di astronavi, fino alla grande spianata dedicata ai soldati russi che contribuirono alla liberazione della città dal nazismo.

Intanto ho raggiunto la grande stazione di Saxa Rubra e salgo rapidamente su un autobus diretto nel centro. La giornata è bellissima e il bus che mi sta riportando nel centro storico di Roma sfiora Villa Doria Pamphili, uno dei luoghi romani che preferisco. Scendo e mi avvio verso l’ingresso e in un certo senso mi ritrovo a Civita Castellana: anticlericalismo e repubblica romana scandiscono la visita. La prima via, infatti, è intitolata a Bartolomeo Rozat, svizzero combattente per la Repubblica romana.      


1 Un’ampia e dettagliata riflessione sul nesso fra cultura industria e movimento operaio nell’Italia del secondo dopoguerra, si trova nel blog alla Rubrica cento fiori. Il saggio è diviso in tre parti intitolate: Arti e lettere nel ‘900 italiano: fra rivoluzione e industria.     

GRAND TOUR: CIVITA DI BAGNOREGIO

Civita di Bagnoregio

Il viaggio verso Civita di Bagnoregio è una piccola odissea ed è proprio nel raggiungerla che è nata l’idea che io medesimo stessi facendo un viaggio nell’Italia del Grand Tour. Spostarsi nella campagna laziale se non si possiede un’automobile (la carrozza con cui Goethe si muoveva lungo la penisola), è impresa assai ardua e se si vuole farlo di domenica quasi impossibile: persino un viaggio Roma Viterbo in un giorno di festa è soggetto a molte limitazioni, mentre se si vuole raggiungere un piccolo paese da un altro bisogna andare a piedi o affidarsi all’autostop, un modo di muovermi che per età è finito fuori tempo massimo. Già, andare a piedi… quando ne parlai a Berlino con Franco Sepe, di questa mia avventura, fu lui ad esortarmi a lasciar perdere il grande Goethe e rivolgermi piuttosto a un altro viaggiatore meno noto del poeta, che – appunto – affermava già allora che per capire l’Italia era meglio affidarsi alle gambe che ad altri mezzi di trasposto: il suo nome è  J.G. Seume, il titolo in tedesco del suo libro Spaziergang nach Syrakus, un titolo intrigante e che sembrerebbe corrispondere a un certo modo di viaggiare. Passeggiata verso Siracusa suona infatti nella nostra lingua, con un intento probabilmente anche ironico. Non so se l’idea di viaggiare a piedi o con mezzi rudimentali gli venne solo per felice intuizione e vezzo, oppure perché si era convinto che quello fosse il solo modo di entrare in contatto con il paese reale. Fatto sta che mentre mi avvio con largo anticipo (forse un felice presentimento) alla fermata dell’autobus che mi è stata indicata niente meno che dall’ufficio del turismo, scopro che da lì non raggiungerò mai Civita di Bagnoregio. Mi aggiro con una certa ansia, chiedo ma ricevo risposte stranite, come se stessi domandando come si raggiunge New York e invece Civita è a meno di trenta chilometri. Alla fine mi ricordo che la signora che gestisce il bed and breakfast dove alloggerò mi aveva detto di lavorare a Viterbo e allora la chiamo e mi faccio guidare da lei alla fermata giusta. Tiro un respiro di sollievo e mentre attendo come tutti che il mezzo si materializzi finalmente dalla curva, arriva una signora e chiede un’informazione ai presenti. Le risponde sollecitamente un extracomunitario: preciso e calmo le dà tutte le indicazioni con chiarezza e dovizia di particolari. Che sciocco sono stato! penso fra me. Era a loro che avrei dovuto chiedere e non a occasionali passanti italiani. Abituati ad arrangiarsi, a correre da un luogo all’altro a tutte le ore, giostrandosi fra un lavoro e un altro, non possono di certo permettersi sbavature e ritardi perché potrebbero costare loro molto cari. E poi come tutti i popoli giovani e fuggiti da terre invase dalle nostre truppe o da noi predate, hanno voglia di vivere e capacità d’iniziativa; altro che lo sguardo spento del giovane cui avevo chiesto informazione, tanto spento da farmi pensare che stessi parlando a uno straniero che avesse difficoltà con la lingua. Invece no, ma era come se lo fosse, straniero a casa sua, non perché qualcuno gli stava rubando qualcosa, ma perché si era perso da solo, nella sua rassegnazione e ignavia. Arrivo finalmente a Civita e l’accoglienza della signora fa dimenticare tutto, come doveva avvenire anche nei secoli passati: affabilità e gentilezza, calore umano semplice e diretto. È lei a dirmi che di domenica sarà impossibile spostarmi da lì. Mi rassegno anch’io, lo avevano fatto anche Goethe e Seume.

Una delle scoperte più belle fatte nella città storica di Civita è il Museo delle frane, che a prima vista non sembra contenere qualcosa di così prezioso: ricostruisce le vicissitudini della città nei secoli, la lotta incessante per preservarne l’esistenza in mezzo a terremoti, catastrofi atmosferiche e altre catastrofi. L’alternanza di fotografie in alta definizione e sobrie spiegazioni tecniche accessibili a tutti catturano sempre più l’attenzione, diventano una lezione sulla nostra terra, ma anche una testimonianza dell’amore con cui questa comunità sa essere attenta alla propria storia geologica, che viene pur sempre prima di ogni altra e determina ancora oggi i comportamenti umani come migliaia di anni fa; tanto più in una terra in cui gli insediamenti risalgono a epoche remotissime. Alla fine, un’ampia cartina mappamondo illustra le evoluzioni del globo. Si parte dalle prime fratture nella Pangea (100 milioni di anni fa), si risale pian piano fino a noi, dalla carta emergono lentamente le linee che conosciamo, scandite sempre dal tempo: 50 milioni, 10, ecc. È come assistere a una lunga nascita e arriviamo finalmente a noi, poi l’occhio mi corre più a destra, la simulazione non è finita, la didascalia recita: la terra fra 100 milioni di anni. L’inaspettata prosecuzione del percorso mi lascia senza fiato: guardo quella mappa, si fa fatica a riconoscere cosa sia accaduto. L’Italia non esiste più, rimangono solo due moncherini (forse la catena delle Alpi), che sembrano essersi mangiati non solo l’intera penisola ma anche una parte della Francia, che al tempo stesso è finita sulla Spagna dando vita a una informe e violenta sovrapposizione forzata.  Il ventre dell’Africa non è più gravido di terra ma di acqua, l’Oceano ha ridotto tutto il centro del continente a un striscia sottile, non ricordo nulla delle Americhe, perché l’immagine di quell’Europa strana e sinistra ha assorbito tutta la mia attenzione. Non ci saremo più e il pensiero corre a quell’invettiva di Pasolini, dove il poeta augura all’Italia di sprofondare nel Mediterraneo e di farla finita con la sua storia e la sua antropologia devastata. Andrà proprio così secondo la simulazione: esco con un senso di smarrimento che la ragione non riesce ad attenuare. 

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.           

GRAND TOUR: LA TUSCIA

Viterbo sotterranea.

Diversi anni fa, durante un lungo soggiorno nella zona dei Castelli Romani, ebbi la fortuna di conoscere un gruppo di archeologi e antropologi che lavoravano in quella zona. Non erano professionisti, facevano altri lavori e si dedicavano allo studio del loro territorio per passione e a quello scopo avevano fondato un’associazione culturale. Erano tutti uomini tranne Antonia Arnoldous, olandese d’origine ma residente da tempo a Rocca di Papa. Antonia era la sola vera professionista: oltre alla pubblicazione di diversi studi su Roma e le zone limitrofe, fu lei a riscoprire le rovine di un tempio di Diana, di cui si sapeva l’esistenza ma che se ne stava sommerso da tempo dalla vegetazione selvaggia intorno al lago di Nemi. Fu un’estate ricchissima e anche un ritorno indietro alla storia più arcaica che riemergeva pian piano dai ricordi della scuola elementare e media: Albalonga, le sue strane origini legate al nome, la cultura preromana, le leggende del lago di Nemi, le sole intorno alle quali potevo dirmi un poco più esperto, visto che avevo già letto Il ramo d’oro di Frazer. Durante una delle tante discussioni serali, qualcuno disse rivolto a me una frase che ricordo a memoria: guarda che non si può capire Roma se non si vedono i Castelli. A parte le implicazioni storiche dell’osservazione, me n’ero già accorto, in particolare proprio a Rocca di Papa, dove mi capitava spesso – e con iniziale stupore – d’incontrare volti (specialmente maschili) che sembravano statue viventi di antichi romani, specialmente nel modo di portare i capelli, lisci e in avanti.

La frase pronunciata quella lontana sera mi è tornata di colpo alla memoria all’inizio di questo mio tour nella Tuscia: impossibile capire Roma senza il retroterra dell’alto Lazio, Viterbo in particolare. La fisiognomica in questo caso non c’entra perché quello che colpisce molto di più nella città odierna è la presenza multietnica diffusa: piuttosto che volti etruschi si vedono ovunque volti africani, mediorientali, più raramente asiatici e latino americani.  

Roma fu un grande attrattore, prima di tutto per ragioni geopolitiche. Domina chi sta in pianura (i colli di Roma sono bassi rispetto ai Castelli e all’alto Lazio), o su un altopiano che è pur sempre una pianura; se ha un fiume lungo il quale crescere e il mare vicino il quadro è completo. Oppure domina chi è un’isola (Inghilterra e Giappone docet), o chi possiede un territorio talmente vasto da essere in sé un intero continente, seppure soggetto a fenomeni di disgregazione interna (Cina e Usa). La dinamica fra le linee di forza che ciascuna di queste aggregazioni esprime in contrapposizione agli altri concorrenti, detta le regole della geopolitica da migliaia di anni ed è sufficiente andare a vedere dove sono i nodi strategici militari: a capo Miseno, sede della flotta romana, oggi c’è la flotta statunitense. Chi sta in alto o nelle selve può solo opporre una tignosa resistenza (ci vollero secoli per domare i popoli autoctoni del Lazio e gli Etruschi), ma alla fine non può che rimanere lì dove si trova. Chi sta in basso attrae, assimila, metabolizza ed espelle come scarto la parte negativa che non gli serve o ritiene pericolosa. Alla fine, chi sta in alto viene depauperato, o assorbito come fortezza chiamata a presidiare un territorio, mentre se oppone resistenza e non può venire vinto con gli assedi, viene lasciato prima o poi al suo destino perché chi si trova in basso ha a disposizione molte strade per i suoi traffici. Per questa ragione ci troviamo oggi nella preziosa condizione di potere ammirare mirabili sopravvivenze quali Pitigliano, Civita di Bagnoregio, Velleja romana, Pentadattilo e gli altri paesini arroccati sulle aspre montagne calabresi e tante altre piccole comunità più o meno abbandonate. Opposero strenua ed eroica resistenza alla geopolitica del loro tempo, oppure erano le sentinelle di un potere di pianura che fu rovesciato da altri. Sono ancora lì a ricordarci che dominio, sopraffazione e bellezza vanno sempre insieme e continueranno ad andare insieme finché le logiche geopolitiche si muoveranno secondo le medesime linee di forza patriarcali di migliaia di anni fa.

Viterbo e i Castelli sono due scenari che fanno da sfondo, da serbatoio e da linfa vitale al fiorire della civiltà romana, prima e dopo la classicità. Esercitarono tale ruolo in modo diverso perché la terra degli Etruschi ha al proprio interno una cesura che nei Castelli romani non c’è: se si va a Volterra, si percepisce di essere in un altro mondo, rispetto a quello della Tuscia laziale. Nei Castelli, invece, la loro natura di sfondo emerge in modo lampante, come se Roma avesse bisogno di appoggiare le proprie spalle a qualcosa che stava dietro e in alto. Forse dipende anche dal fatto che la storia preromana dei Castelli è più nota, mentre gli etruschi rimangono su uno sfondo più opaco, nonostante si riconosca la loro grande influenza e si sappia molto di più su di loro di quanto se ne sapesse quando frequentavo le scuole. In effetti, anche Viterbo, nel gioco e nella dinamica di questi due mondi satellitari intorno a Roma, ebbe un’importanza ben maggiore successivamente. Albalonga, invece, fu molto probabilmente un modello di polis che influenzò la primissima crescita di Roma, l’assorbimento dell’elemento etrusco richiese più tempo e probabilmente fu più complesso che non quello sabino. Le rovine arcaiche intorno a Nemi, ma anche le strade preromane come quella che dal Monte Cavo arriva fino ad Albano laziale, conservate dal fitto bosco dei Castelli, sono resti archeologici che denotano una cultura già complessa e un pantheon di divinità assai antico. Tuttavia, la tarda età imperiale impresse ai Castelli una svolta che accentuò di molto la distanza dall’altra area satellitare dell’alto Lazio; ma con questo siamo nel cuore dell’epoca cristiana. Viterbo colpisce subito per due caratteri che s’impongono all’occhio, anche a una visita superficiale: lo straordinario stato di conservazione del suo centro storico e l’unità di stile del medesimo. Il secondo aspetto, conseguenza del primo, è tuttavia il più importante. La pietra e il tufo, le linee forti e semplici dell’architettura degli edifici, conferiscono all’area un’immagine di compatta coerenza, solidità e severità: l’arredo urbano moderno, fatto perlopiù di addobbi floreali, rampicanti, altre piante ornamentali, si sposa benissimo con quello antico, costituito principalmente dalle bellissime fontane. Il Palazzo dei Papi, collocato in fondo alla via che inizia da Piazza della Morte, conserva le medesime caratteristiche di severità, mentre dal loggiato si gode una vista imponente sulla valle sottostante e sulla collina dove inizia la Viterbo moderna. Anche quest’ultima, almeno per quella parte che si vede dal palazzo e dal loggiato, appare pensata con la stessa coerenza, che si perde quanto più si va in direzione della zona industriale. I colori sono diversi perché non si può imitare su altri materiali quello del tufo e della pietra, ne risulterebbe un anonimo grigio; ma la prevalenza di tinte chiare, solari e tenue che sfumano in un ventaglio che va dal rosa deciso all’ocra, al melone, riflettono, anche in una parte della Viterbo moderna, la stessa coerenza di stile. Al contrario di quanto avviene nei Castelli, la città arcaica è sotterranea, ma la continuità dei materiali da costruzione ne accentua ulteriormente la severità. Viterbo è austera, sobriamente elegante nel suo centro storico e l’immagine sintetica che se ne ricava è quella di una città tardo medioevale governata da una Chiesa che dominava senza esibizione di forza perché godeva di un consenso molto alto e cercava di trasmettere un’immagine di sé coerente con i valori cristiani. Niente a che vedere con i Castelli. Quando, arrivando da Roma, si giunge nella grande piazza parcheggio a ridosso del centro storico di Frascati, la vista corre alla collina sovrastante all’imponente palazzo Aldobrandini: è il trionfo della monumentalità Rinascimentale, con il suo sfoggio di potere e ricchezza, il gusto dell’arte, lo sfarzo delle residenze dell’aristocrazia nera vaticana: è il destino dei Castelli, iniziato già nell’epoca imperiale romana ai primordi (sembra che persino Giulio Cesare avesse una villa sulle rive del lago di Nemi). Viterbo è molto più distante del centinaio di chilometri che la separano da questo territorio, con Roma nel mezzo e in basso. 

Il lago di Nemi

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GRAND TOUR

Casa di Meleagro

Il titolo è nato un po’ per caso e un po’ per scherzo, ma durante il percorso ne sono diventato sempre più convinto. L’Italia che ho visto mi ha riportato alle descrizioni di Goethe, di Stendhal, di altri viaggiatori e viaggiatrici meno illustri ma altrettanto acuti. Fu Richard Lassels a usare per primo l’espressione Grand Tour nel 1670; la fortuna di tale binomio, tuttavia, trovò una conferma concreta nei secoli successivi, quando la pratica del Grand Tour divenne una parte consistente della formazione personale di figli e figlie dell’aristocrazia nord europea, poi di artisti grandi e piccoli, infine di semplici curiosi e avventurieri di vario genere. Quei viaggiatori furono l’anticipazione del flaneur urbano immortalato da Baudelaire, ma anche la declinazione nomade su larga scala di un’attitudine verso l’esplorazione di mondi e culture diverse, che si andava consolidando in Europa, insieme alla riscoperta delle lontane fonti classiche della nostra cultura. Cominciavano le spedizioni archeologiche alla ricerca delle rovine di Troia e Montaigne, già nel corso del 1600, era stato il primo filosofo e antropologo europeo che nella sua biografia di intellettuale aveva saputo unire la passione della scoperta con quella del viaggio. In pieno ‘800 sarebbe venuta l’ultima ondata di esploratori, più segnatamente colonialista e predatoria: infatti le spedizioni si rivolsero verso l’Africa e l’Asia alla ricerca di spazi lasciati liberi dalle imprese coloniali dei secoli precedenti. Nella prima parte del ‘900, infine, furono gli appartenenti alle avanguardie politiche e artistiche a percorrere il continente europeo in ogni direzione, finendo tutti, prima o poi, dentro la carneficina delle due Guerre Mondiali.

Il mio piccolo grand tour è cominciato da un’area circoscritta del centro Italia ed è continuato per spostamenti a salti sul territorio, da un punto all’altro e senza un programma preciso, esplorando a volte un’area piccola fin nei dettagli, oppure scegliendo di colmare lacune di visite precedenti che avevano lasciato al margine alcune località. Durante il percorso alcune scelte geografiche sono maturate e sono diventate sempre più consapevoli, dopo un primo momento di casualità. Prima di tutto l’assenza delle maggiori città come fulcro della narrazione. In secondo luogo, il racconto si snoda lungo la cronologia delle visite, senza alcun riguardo per i salti – anche bruschi – da nord a sud, da est a ovest. Solo un’eccezione ho previsto a questa regola e riguarda l’ultimo luogo geografico di questo viaggio; se chi legge avrà la bontà di arrivarci ne capirà il motivo.

La relativa assenza delle grandi città italiane (con tutti i limiti che tale espressione ha, se le paragoniamo a megalopoli come Londra, Berlino e Parigi e con l’eccezione di Roma per ragioni in gran parte extra nazionali), ha diverse motivazioni che si sono a loro volta affacciate durante il percorso. Città come Torino, Milano, Genova, Firenze Napoli e Palermo hanno rappresentato un punto di riequilibrio rispetto all’Italia dei comuni, dei campanili e del localismo più o meno virtuoso. L’Italia come nazione ha avuto nelle aggregazioni urbane che ho citato i centri di sintesi politica economica e culturale (di cui Roma era il terminale simbolico), che hanno giocato un ruolo fondamentale nei passaggi nevralgici e spesso tragici della storia italica: per questa ragione esse furono capaci di offrire un orizzonte più ampio e condiviso, nonché un volto nazionale all’Italia. Questo non è più vero dagli anni ’90 del secolo scorso  e tale convinzione si è confermata lungo la strada e mi ha portato a vedere le città più grandi dalla loro provincia e ancor più ad arrivarci dalla provincia.

Quanto alla scelta di un percorso casuale e a salti, per spiegarlo mi servo di una metafora cinematografica: ho considerato il mio grand tour come un unico piano sequenza che non aveva bisogno di alcun lavoro di montaggio, ma solo di flash back.  L’attraversamento di luoghi in parte già noti, in altri casi per nulla, ha infatti riportato alla memoria viaggi precedenti e mi ha permesso di ritornarci, rivedendo quei momenti alla luce di quanto osservavo ora. In alcuni casi, ho scelto di non ritornare a visitare quei luoghi ma di affidarmi solo ai ricordi più o meno lontani, nutrendoli con nuove letture piuttosto che con nuove visite. 

Infine, il mio è stato un viaggio anche nei libri: sia quelli degli autori maggiori e minori che dell’Italia hanno scritto, sia spigolando fra gli scritti di altri viaggiatori e viaggiatrici più comuni. Ne potrei citare molti ma preferisco che chi legge li incontri strada facendo. Di uno soltanto voglio scrivere in questa introduzione perché mi ha accompagnato in ogni fase del viaggio e con il quale mi sono trovato ad avere una sorta di confronto continuo: Non ti riconosco, di Marco Revelli Einaudi 2016. A questa parte introduttiva seguiranno nei prossimi giorni i capitoli di questo viaggio. 

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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO QUARTO ED EPILOGO

Sigmund Freud Park in Wien

Ora sono di nuovo fermi sulla banchina insieme ad altri che attendono. Il vecchio e il cane avvicinano a un’altra figura maschile, che se ne sta sola e lontana dagli altri. Il vecchio è incuriosito dai suoi gesti: la figura, infatti, si muove come se stesse tirando verso l’alto la carrucola di un pozzo. Avvicinandosi vede che si tratta di un filo che si accumula ai suoi piedi. Quando si arrestano vicino a lui, la figura diventa reale poi una voce prorompe in un riso contenuto e malinconico.  

M: Ahh, ahh. ohhh

Il personaggio maschile smette di colpo di muoversi; anche il vecchio e il cane si guardano intorno stupiti perché non vedono nessuno.

F: Perché ridi?

M: Per il tuo volto e anche un po’ quello che stai facendo.

Silenzio lungo. Il tono di voce, la cadenza, il timbro rendono incerto il genere di appartenenza. Potrebbe essere sia maschile sia femminile. L’altro si guarda intorno irritato, poi ricomincia a tirare il filo che sembra quello di una carrucola.

F: Chi sei?

M: Una parte di te, la memoria senza volto dei tuoi momenti felici.

F: Una parte di me!

M: Sì, la più oscura e molto altro.

F: Non ho fatto altro che cercare la parte oscura. Non ti sembra di essere presuntuosa, o presuntuoso? Dimmi chi sei.

M: La lontana che affiora involontariamente nei tuoi sogni.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce.

F: Perché ti fa così ridere il mio volto?

M: Perché sei così attaccato alla lettera delle mie parole?

F: Che altro sai di me? Chi sei?

M: Il tuo tarlo dormiente, la buia smania che affiora quando meno te l’aspetti, la candela che si accende nei tuoi momenti più bui.

F: Parli per enigmi e paradossi.

M: Il paradosso è il mio travestimento d’occasione: vai oltre la maschera, cerca il volto scavato e lucente di chi ha aperto le porte al dolore, oppure alla gioia che fa vacillare.

F: Ne sei così sicura?

M: Il tuo volto mi dice che lo sai, ma che desideri allontanare da te quel peso: non difenderti dall’onda alta, lasciati portare, scoprirai che il piombo del mondo può diventare oro. Ti ricordi quella notte in treno?

La figura maschile si fa pensierosa e smette di nuovo di tirare la carrucola.

F: In treno?

M: Sì, in treno.

F: Ricordo molti viaggi in treno…

M: Ma io parlo di quel treno, di quella notte, di quella porta che si apre improvvisa, dello specchio che sbatte e rimbalza contro di te come un singhiozzo; parlo della tua sorpresa, del tuo sgomento, della tua tosse, della tua cravatta appena spostata dal suo asse. Per una volta avevi perso la testa e ti guardavi allo specchio con la stessa espressione con cui un boia guarda l’impiccato ed eri entrambi.

F: Chi sei?

M: Un grido di libertà.

F: Non ti capisco.

M: Non mi stupisce, ricordati delle sedie.

F: Perché le sedie?

M: Non ricordi?

La figura maschile è pensierosa e incerta.

F: No, non ricordo. Perché ti nascondi?

M: Non cambiare discorso.

F: Non mi hai risposto, ti ho chiesto perché ti nascondi.

M: Non mi nascondo, è la mia natura; sei tu che non mi vedi e poi ti avevo chiesto delle sedie.

F: Nessuno ha una sola natura, cosa sognavi?

M: Sognavo quello che sognano tutti ed ero anche sognata; ma solo chi mi vede può sognarmi davvero.

F: Non capisco. Chi sei?

M: Ho tanti nomi, nomi antichi. Vengo dal più profondo del mare, quel mare di Cipro dove sono nata la prima volta, uso la sciabola anche con chi amo, ogni tanto ritorno, mi mostro nella mia nudità, nello scandalo di essere vera e intero, enigmatico e invitante. Sono l’aperta nella quale nessuno riesce a penetrare.

F: Non ti capisco, oppure sei semplicemente volgare.

M: La volgarità è lo splendore debordante del mio doppio aspetto, il copione infranto di ogni recita. Essa mi dà la pienezza negata e la darebbe anche a loro e a te, se soltanto capiste! É il gesto delle mie tante sorelle e di un mio fratello divino, lacerato e diviso come lo sono stata io. Sarò sempre la voce che eccede o si ritira, che più si mostra e meno si fa vedere.

La figura maschile smette di tirare il filo e assume un atteggiamento pensieroso.

L’altro/a tace e allora la figura maschile riprende a tirare la carrucola.

La figura, fino a quel momento totalmente invisibile, si materializza. Si intuisce che è completamente nuda. La figura maschile la scruta aggrottando al fronte.

F: Ti vedo e non ti vedo, sembri un sogno.

M: Conosco la tua sottigliezza, guardami, lascia per un momento le sfumature dell’intelligenza nei loro angoli bui; serviti della penombra per capire, del miele del geroglifico, dell’abito ribaldo della vita così come esso si dà nei sogni a lungo incubati, nell’inciampo di ogni giorno, in quello che accade mentre stai facendo altri progetti.

F: È la tua lingua a disturbarmi, non ti capisco!

M: Ma non eri impareggiabile proprio in questo? Nel tradurre e decodificare? Non giocavi proprio tu con il linguaggio e i segni?

F: Non era un gioco, tu ora stai giocando con me, ma non ti temo.

M: Nel dirlo mi temi di più; potresti invece abbandonarti a me nell’assenza consapevole della tua ragione astratta e vanamente tagliente.

F: Perché vanamente tagliente?

M: Perché la tua lama tagliava l’idea, ma non il pane che nutre, spezzava l’immagine solenne prima ancora di avere forgiato l’anfora che la contiene.

F: Hai detto che ritorni ogni tanto; perché lo fai?

M: Perché fui costretta a migrare e lo sono ancora: per Afrodite non c’era posto neppure nell’Olimpo, tanto meno nel mondo di oggi.

La figura maschile, la guarda, sospira, poi lascia cadere a terra il filo che tiene ancora fra le mani; si capisce che non tirerà più la carrucola. Poi si sposta leggermente per guardare meglio la figura femminile.

F: Perché mi tormenti anche qui dove non serve più a nulla il tormento?

M: Perché potevi liberarmi.

F: Liberarti?

M: Sì, liberarmi dalla necessità di ripetermi. Fissavi la soglia, ma poi la tua testa si voltava e si piegava, la marea che avevi dentro si acquietava. Ti rimettevi le tue cravatte, il cappello elegante, la camicia senza macchie, poi tornavi ad avvicinarti. Forse, mi dissi, ecco che la sapienza antica ritorna grazie a quest’uomo buffo, che eri tu, con la tua tenera ossessione, con i tuoi tremiti, come quando quella sera hai sentito un brivido sfiorandola mentre scivolavi da una sedia all’altra del tuo salotto.

Dopo questa battuta, la figura maschile, come colpita da una rivelazione, comincia a parlare concitatamente.

F: Proprio a quello ti riferirvi allora, le sedie, sì le sedie.

M: Sì.

F: Noi esseri umani siamo degli iceberg. Tu dici che avrei dovuto attraversare la soglia per vederti, ma ero io l’invaso: non ero più nulla se non ciò che si appiccicava su di me dell’esperienza altrui. Non credo che avrei mai potuto liberarti se anche ti avessi incontrata.

Pronunciate queste parole la figura maschile si contorce e muta; i suoi tratti cambiano come se si stesse trasformando in un’altra figura. L’altra lo guarda e comincia a muoversi in una specie di danza, come se fosse lei a modellarne l’immagine mutante.

M: M’incontravi ogni giorno, eri così abitudinario! Mi presagivi quando cercavi di dare un nome ad ogni sfumatura dell’anima. Moltiplicavi i personaggi e a ognuno di loro davi un abito e un linguaggio, ma non a me.

F: Perché, perché non hai fatto tu il primo passo? Forse ci saremmo salvati entrambi.

M: No, non ci saremmo salvati! Sarei stata soltanto un passo in più fra i piedi dei tuoi visitatori. Io non ero la uno in più, ma la prima di un’altra scala numerica.

La figura maschile sembra non ascoltare più ma seguire il filo dei propri pensieri.

F: Ero abitudinario per tenere a bada l’oceano. Cercavo la regola ma ognuno di quelli e di quelle che si rivolgevano a me era diverso dagli altri. Le loro voci si sovrapponevano. La notte, un personaggio cominciava a parlarmi e io dovevo alzarmi e scrivere, seguirlo. Il suo volto diventava sempre più preciso; sognavo in modo duplicato, il sogno era diventato la mia vita a enne dimensioni, che produceva forme e linguaggi a mia insaputa. Se mai una vita l’avevo avuta essa si era volatilizzata in un fumo sottile. Fu quello a divorare dall’interno la bocca con cui pronunciavo le mie sentenze.

M: Ogni sapienza della parola ha per concime la carne e il sangue. Chi viene oggi dice che la mia ultima apparizione nel mondo durò trentatré anni, che della mia morte non vi è traccia, che il mio corpo scomparve nel nulla. Non mi vedono quando ci sono e quando non ci sono più la struggente nostalgia che hanno di me inventa la bugia della mia immortalità. Se imparassero a conoscermi potrei finalmente morire anch’io come tutti e diventerei più vera anche a me stessa.

F: Cosa significa tutto questo?

M: Che dovrò tornare, rinascere ma sempre esule da tutti i templi e da tutti gli olimpi. Tuttavia ti sono grata: hai aperto una porta attraverso la quale chi vuole può vedermi nell’interezza. Sei stato generoso ma ti sei perso nei meandri di un labirinto che tu stesso ti eri costruito intorno. Avresti dovuto raccontare soltanto la favola, non scrivere il teorema che da essa si poteva ricavare. Altri l’avrebbero fatto ma tu potevi seguire il senso del tuo primo gesto: avere tolto il velo alla gioia negata. Se tu avessi avuto il coraggio di tenere gli occhi aperti, in quel momento, mi avresti vista.

F: Torno a non capirti, anche se le tue parole si riversano in me come una cascata di verità; ma essa continua a sfuggirmi. Sei la metà che stava nel lato in ombra dei personaggi che si moltiplicavano all’infinito e di quell’altra metà, il femminile, mi resi conto alla fine di non avere compreso nulla.

M: Sono tornata poco tempo dopo la tua morte; mi hanno fatta nascere in Europa; ma ho trovato un mondo corrotto e disperato. Fui costretta a scindermi: vedevo la parte migliore di me prostituirsi all’altra ed entrambe, come le due mani congiunte in preghiera, venivamo offerte nude e indifese al teatro del mondo. Essi non vedevano in quella congiunzione se non il segno volgare, non l’omaggio alla vita. Per questo mi rosi, mi consumai e mi inflissi una morte fulminea che nessuno comprese e su quella incomprensione hanno replicato il teatro della presunta morte; ma anche quando scrivono sui muri “È viva” non sanno cosa dicono. Credono che mi sia nascosta per godere della ricchezza effimera di cui mi coprirono, credono che io sia fuggita sulla carrozza dorata dei loro sogni impotenti, trasformati in denaro. Il mio oro era altro da quello che spacciavano per vero. Dissipai la ricchezza apparente che avevo accumulato, senza rendermene conto, per semplice noncuranza. 

Odilon Redon, La nascita di Venere, 1912

EPILOGO.

Il vecchio e il cane si siedono e mentre loro si materializzano come personaggi in carne ed ossa, le altre figure diventano ombre e scompaiono. Il vecchio si alza e si rivolge al pubblico. Questo monologo finale va recitato in ogni lingua o dialetto del luogo in cui va in scena, con qualche eccezione nel saper distinguere lingue da dialetti.

Ûh vìst, ûh vìst, parlèmen no, uh sentì, parlèmen no! Anche voi avete visto e udito, siete i miei testimoni. Ho gettato i dadi, ma non potevo sapere che il tempo era finito, el luego cerrado. Io sentivo rumori veri, ma antichi, ora ho capito, sì! Antichi como la luz de las estrehlas che ci insegue dopo che la loro sostanza materiale si è estinta da migliaia di anni. E noi che dobbiamo fare se non seguirla comunque? Ci avete guadagnato qualcosa voi, che sapete che è così? Che quella luce è un inganno? Tell me, tell me! Have you got more than me?

Si contorce, si porta le mani ai capelli e si trascina per la scena, poi ricomincia a parlare.

Mi scuso con tutti di essere stato crudele a causa di un disegno che non avevo voluto e solo accettato perché it was my job: nonostante fossi soltanto il custode della soglia, il bivio, ahora lo entiendo, llegava siempre a la muerte. Entrambe le schiere lo testimoniavano. Ora capisco che erano spinte da una forza che le dominava in absentia. Si sa, the power doesn’t show itself, si nasconde dietro una tenda, fa sentire la sua presenza attraverso la voce dei servi; oppure mulinando l’ascia bipenne della giustizia, che taglia da ogni lato come se tutti avessero due teste. Avrei dovuto capire che la puerta de la ley estaba cerrada, che non c’era nessun giudice at the end of the tunnell, ma solo i rotoli infiniti di una norma senza re.

Ha un sussulto improvviso, si abbatte sulla panca della banchina, poi si alza di nuovo in piedi portandosi le mani alla testa.

E se questo mio ultimo gesto fosse soltanto temerario e blasfemo? Oppure avrei dovuto ribellarmi prima?

Tace per un tempo lungo e poi riprende…

Who knows, who knows? Ho violato le consegne. Non ero venuto davanti a voi con la certezza di quel che avrei trovato, scendendo, but now I know! L’ho fatto per un tardivo amore per voi e per cercare la mia via, per riscattarmi. In fondo dovevo capirlo; le urla che sentivo venivano sempre dal vostro lato, not beyond and elsewhere! Anche il riso, la stoltezza e la sontuosità, el miedo y la tristeza, gli atti eroici, così come la stupidità irritante. Tutto questo non chiedeva alcun giudizio, ma solo l’accoglienza amorosa e casta del sorriso benedicente, l’accettazione di una strampalata armonia molteplice fatta di contrasti e oscillazioni. Non ne possono più delle loro vite, ma poi quando arrivano qui viven nel recuerdo inùtil! But it wasn’t up to me to solve the problem; anzi ne ero vittima! A me avevano detto che importava ciò che avveniva dopo! In realtà non siete fatti né per l’inferno vuoto inventato dai furbi, né per un’eternità beata e impotente. Siete fatti per bruciare una sola volta o tante, ma sempre per bruciare di vita e solo in mezzo alla vita andava cercato il senso. Sono sceso come tutti, come i vivi, alive! la cui ambizione era solo quella di raccontare cosa si erano immaginati di vedere scendendo fin qui. In realtà nessuno di loro aveva visto, han dumà guardà per gratà tücc quel che truvaven, per scrivere i loro poemi brillanti e disperati, si sono verniciati le unghie con questa eternità da palcoscenico per aumentare la loro potenza mondana, ma sempre di là volevano vivere! E io ho tenuto bordone a tutto questo, sono stato la pedina di un gioco di cui non conoscevo tutte le regole. Per millenni ho svolto diligentemente il mio lavoro; pensavo di traghettare le anime da un mondo imperfetto alla perfezione: it was a maze. Qui dove voi siete scesi insieme a me vedete soltanto degli sconfitti o dei manichini che gan semper i öcc vultà de là, che ripetono stancamente e recriminano, piangono o ridono ma sempre dentro i binari delle loro vite invece de menà i toll e fala finida una volta per tücc.

Non appena pronunciate queste parole si sente il rumore di una carrozza in arrivo. Sembra completamente vuota, poi quando le porte si aprono, due enormi figure in ombra appaiono sul predellino. Il vecchio si volta e la guarda, poi si rivolge di nuovo al pubblico.

Di tutti questi morti che non vogliono morire, sarò l’unico a morire davvero. Perdonatemi anche questo e accettate il mio gesto per quello che è: la resa di un vecchio alla legge che gli ha dato da vivere; una legge inventata, forse da nessuno, ma alla quale mi sono consegnato. Si hay una verdad, essa si trova in mezzo a voi: cercatela come l’ho cercata io, cercatela anche per me!

Il vecchio e il cane s’avvicinano alla carrozza e vi salgono. Si siedono in mezzo alle due figure. Si sente il rumore della carrozza che si allontana mentre in sala si fa buio. 

Gustave Doré, Caronte, 1861

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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO TERZO

Picasso: autoritratto

L’uomo con le gambe distese si porta le mani intrecciate dietro la nuca e comincia a parlare.

BACH:

Vivevo in quel labirinto fin da bambino. Persi i genitori e il vuoto lasciato da loro fu riempito dalla musica e da un’angoscia che mai mi abbandonò, la paura di dovermi sostenere con le mie forze generò in me un’attitudine guardinga. Dicono che fui poco generoso; ma può esserlo chi non è mai stato accudito? La generosità è un bene che si può spendere soltanto se si è ricchi di famiglia. Quali e quante varianti si possono creare da un motivo, questomi assillava! Si dice che l’abbia risolto come non avrebbe saputo fare meglio il più geniale dei matematici e dei geometri. Io non so cosa dire; mi accorsi di trovarmi al centro di un vortice, dal quale era impossibile uscire. Ero nella mia creazione come un signore nel suo castello, ma ero solo; intorno avevo un labirinto di note.

Il secondo uomo, prima di cominciare a parlare torce il capo in direzione dell’altro e comincia a sfregarsi ossessivamente le mani. La voce di questa seconda figura è roca, cupa e profonda.

PICASSO:

E dal labirinto non si esce. Io ho scomposto tutte le forme per trovare la forma e ho trovato, invece, l’infinità delle forme. Fuori c’era soltanto il brutto, che mi assillava da ogni lato e poi l’informe, il vuoto, lo stampo, il calco su cui ci facevano passare ore e ore in accademia: la sezione aurea, le proporzioni, la materia.

Smette di parlare e si morde nervosamente le unghie. Da questo momento i suoi gesti si ripetono con monotonia: quando tace si morde le unghie, mentre quando parla si torce le mani.

B: La materia potevo soltanto immaginarla: era geometria, proiezione che da una nota sola si apriva a rose di suoni, mi sembrava di diventare l’eco di me stesso.

P: Volli riempire quel vuoto, riempire l’infinito di forme: prima le esplorai, poi le scomposi, le rimontai secondo la mia voglia, come un dio demente che si diverte a ricostruire il mondo a proprio piacimento e lo fa ogni volta diverso. Ricavai dall’informe quanti più oggetti possibili, non mi stancavo mai: mi svuotavo in essi per continuare a esistere come artista, così come mi svuotavo dentro i corpi femminili per ritornare a esistere come uomo.

B: Per me era come perdermi in un deserto. Non vi erano limiti e io respingevo le regole. Fuggii a Lubecca per quattro mesi e dovevo restarci soltanto qualche settimana. Me ne andai in quel modo solo per dire a chi mi voleva incatenato a una sedia ad imparare da maestri che ne sapevano meno di me, che io me ne sarei infischiato delle loro norme.

P: Ah ah ah! Come per me l’accademia; non ero il solo allora ad annoiarmi!

B: Alla musica che suonavano nelle chiese bastava l’ammirazione dei fedeli, la consuetudine, io non feci altro che introdurre qualche piccola modifica. La lasciai scritta e me ne andai; ma quell’esecutore da strapazzo non sapeva suonarla e rimproverarono me per i torti di quei maldestri cantori. Alla musica non s’addicono limiti, mi dicevo, è il deserto, la vastità assoluta, l’infinito: questa era la sola legge che riconoscevo. Eppure qualche segno che m’invitava a fermarmi e a riflettere io l’ebbi, ma saper seguire i segni di prudenza è pane per chi ha masticato almeno una volta la morte.  

P: Io la incontrai subito la morte, prima ancora di nascere e Conchita, mia sorella, replicò in peggio la mia stessa nascita. Pregai per lei quello che un artista non dovrebbe mai pregare: fammi, o dio, rinunciare alla mia arte pur di salvarla, ma non bastò. Morì di quella maledetta febbre che chiamano spagnola e allora la odiai perché mi sentii tradito, odiai chi l’aveva generata, odiai quei ventri da cui esce soltanto una sanguinante illusione di vita; odiai dio e scelsi il demone che era in me. Da quel momento non ebbi che uno scopo: riempire la morte di oggetti per impedirle di muoversi. Io quel pane l’ho masticato fin troppo a lungo, ma non mi servì a nulla. M’infilai nel labirinto e andai fino al suo fondo, trovai uno specchio e in esso vidi riflesso il Minotauro, la bestia assoluta, la bestia, la bestia senz’altri aggettivi! Ma dimmi di te; ora almeno posso ascoltare, non devo più temerla, quando ero di là non ci riuscivo.

B: Trovavo rifugio in una caravella di note che oscillavano immobili dentro una culla di bellezza; poi riprendevano a concatenarsi, dovevo seguirle. Tutti hanno detto di me che fui impareggiabile proprio in questo, nel seguirle; ma io ero nella pienezza della gioia quando trovavo le anse, gli anfratti. La maestosità si trova fra la corte e il cielo, non nell’empireo e neppure nell’infinito.

P: Io invece mi muovevo dentro una prigione che aveva due porte: da una entrava la morte, dall’altra il vuoto. Mi sovrastavano entrambe e piegavano le mie mani inchiodandole al foglio e allora inventai le forme che sfuggono dai quadri, ma loro erano sempre lì a torcere la mia mano, i miei polsi, da cui uscivano forme in continuazione, come il fuoco dalla bocca di un drago.

B: La casa che abitiamo meglio noi umani è quella che ci propone le stesse sensazioni che ritornano a ogni stagione: come un giardino che fiorisce e sempre ci sorprende perché non ti aspetteresti che sotto la durezza di una terra ritratta in sé come un lottatore in difesa, si dischiuda la grazia di uno sboccio precoce. Non è un miracolo già questo? E non appartiene forse all’eternità? Noi non abbiamo nulla a che fare con l’infinito; esso non è che l’illusione ottica di quella parentesi che è il vivere fisicamente! Avessi potuto avere una prigione entro la quale tenermi saldamente. Tutto passava attraverso i pori, la nostra materia è come l’acqua di una piena inarrestabile, puoi forse dividere l’acqua, o la sabbia di una duna? Ogni acqua contiene molte acque, ogni deserto li contiene tutti, ogni forma si piega e diventa altro da sé.

P: Come me con le mie forme.

B: Quando ero dentro la musica sentivo di essere la sfera che vive nella sfera. Ecco, nel percepire l’identico noi viviamo quella sensazione misteriosa e così banale che è il tornare a casa, accendere un camino, consumare il cibo con i nostri figli, distenderci nel letto con la donna che amiamo. Il resto è pane per filosofi e scienziati, non per noi. Sorrido quando mi parlano di quel pianista così bravo e geniale; diventato, dicono, il mio esecutore più perfetto! Io credo, invece, che lui sia caduto nel mio stesso fraintendimento. Mi domandavo sempre dove stesse la finitura, il taglio, quel segno che traccia i confini e li fa rispettare. Inseguii invece l’impossibilità della conclusione e m’infilai diritto nel labirinto di tutti i labirinti.

P: Ho profanato, non riuscivo a fermarmi, inghiottivo le forme una dopo l’altra, ma non mi accontentavo di loro soltanto; dalle forme mi precipitavo sui colori.

B: Ogni duna di note ne nascondeva un’altra e quello che sembrava un punto d’arrivo era un miraggio e l’altro in me, quello che non voleva quel mondo fatto di rette e cerchi soltanto, veniva brutalmente tacitato. Il pentagramma è l’Olimpo dei suoni, non l’unico dio e forse questo pianista mi esegue come se io fossi soltanto la perfetta geometria delle mie fughe. Era il mondo che voleva vedermi così, il mondo che mi ha saccheggiato fin da quando ero in vita.

P: Anch’io ho saccheggiato. Se la mia anima voleva nuove immagini da scomporre, la mia carne voleva corpi da modellare come fossero di creta. Per questo scolpivo e consumavo i corpi femminili, ma cercavo l’anima soltanto nelle forme. Non amai nessuna, nessuna! Provai soltanto una pace momentanea nel divorare Fernande, giorno dopo giorno, tenendola prigioniera nel mio studio; e vidi soltanto un breve balenio d’assoluto quando incontrai Francoise.

B: Mi commissionavano opere non necessarie, ma io mi buttavo lo stesso a capofitto nella loro trama perché vedevo in esse una nuova possibilità per andare ancor più dentro quell’infinito. E poi, e poi il denaro! Sì, fui schiavo anche di quello, la paura m’impediva di rifiutare una committenza; non lo facevo per avidità, niente più di questo giudizio mi amareggiava perché sapevo quanto fosse ingiusto. E tuttavia non ero capace di sottrarmi alla paura: la mancanza di sicurezza che mi aveva tormentato fin da bambino. Chi conosceva la mia debolezza poteva costruire con essa quel fuoco lento e inesorabile che ti brucia pian piano ogni giorno e ti lascia scarnificato nelle mani del mondo. Io non sapevo dire di no al denaro e saper dire di no è il solo tirocinio utile di un artista.

P: La femmina senza volto era la mia ossessione di carne, la forma assoluta la mia ossessione d’anima. Si fossero parlate almeno una volta quelle due demonie! E invece litigavano come una coppia di amanti folli e gelosi.

B: A me non rimproverarono nulla di tutto questo che tu dici perché la musica scompare da ogni senso, è come il cibo consumato che si ripropone ogni giorno ma è sempre diverso, la musica non può essere decifrata; né è così utile decifrare la vita di un compositore così come lo è per le vostre. Anch’io conobbi corpi femminili, onorai la vita e anche il detto evangelico. Ebbi un numero svariato di figli, non ricordo neppure quanti: perché le opere si possono compiere in molti modi e io cercai di non trascurarne alcuno. Come tutti gli uomini celebri ebbi anche chi si dedicò alla mia biografia, ma non sono interessanti; le biografie dei musicisti, non possono esserlo. Esse scompaiono nella musica, diventano irrilevanti anche per chi si gingilla con le interpretazioni più fantasiose: non siamo esposti come siete voi.

P: Hai detto bene, noi siamo esposti, nudi, sempre nudi. Chi dipinge è sempre lì, non può ritirarsi, paga il suo narcisismo nel modo più totale, non abbiamo più un eremo in cui rifugiarci. Anch’io ho portato la mia fame di forme all’altare di questo demone divoratore. Lasciavo aperta la porta del mio studio, non avevo alcun ritegno nel mostrami nudo al mondo. Non volevo stupire, ma fare dell’immagine tutto. Anche il mio corpo doveva entrare, come fosse un quadro, nella percezione di tutti. E invece ora capisco che l’immagine non può che diventare pornografia, se continuamente riproposta. La cornice ha vinto sul quadro, il contenitore di cornici ha vinto sulla cornice, l’arbitrio della moda ha sconfitto i collezionisti. Volevamo uscire dai musei perché erano vetusti e ammuffiti e siamo finiti nella cloaca del mondo, come zimbelli che tutti si disputano; in realtà ci odiano.

B: Io cercavo la perfezione nel comporre, nel dare ordine, nel porre confini allo smisurato; ma trovavo la gioia quando mi visitava una melodia che era come un ponte gettato fra due eterni. Sì, la vita è ciò che sta in mezzo, la musica migliore che composi, ora lo so, è proprio quella che nasce nel mezzo come il cuore di una rosa. Noi non abbiamo il diritto dell’inizio e neppure quello della fine; possiamo soltanto espandere la parentesi, tentare di farla coincidere con l’ampiezza del respiro. Se la vita è pneuma noi ne siamo la melodia, tutto il resto è presunzione. Quando compresi che ero io stesso il limite insuperabile della mia musica era ormai troppo tardi; avevo disseminato il mondo di tanti piccoli infiniti che ognuno poteva replicare a proprio piacimento.

P: Non ho fatto altro che smontare ogni oggetto, come fa un bambino con i suoi giocattolo. Il nostro mondo era diventato troppo complesso, ci spaventava trovarci in quel caos, volevamo cose semplici come quelle maschere africane che mi hanno tormentato per tutta la vita, così essenziali, scarne, dalle forme elementari. La sovrabbondanza è diventata eccesso, tutto diventa eccesso, in me c’era la gioia di smontare e lo feci con tutto ciò che incontravo: con gli oggetti, con le donne che tormentai e spinsi al suicidio. Smontavo per togliere, ma toglievo così tanto che quel togliere diventava un moltiplicare. Dividendo aggiungevo, da ogni forma ne ricavavo altre, facendo leva su una piccola causa ne moltiplicavo gli effetti. Facevo tutto a pezzi e alla fine cosa rimase di me? Un teschio di scimmia, una bestiale icona di morte.

Alla fine della battuta viene proiettato su un telo bianco in forma di cartellone pubblicitario la gigantografia dell’ultimo autoritratto dipinto da Picasso, tre giorni prima della morte. Tutte le figure guardano il manifesto, poi le porte si aprono e scendono tutti.

I TESTI PUBBLICATI IN QUESTO BLOG SONO DI MIA PROPRIETA’: CONSENTO LA LORO STAMPA IN FORMA CARTACEA PER SOLA LETTURA E LA CITAZIONE DEL MIO NOME IN CASO DI UTILIZZO IN VOSTRI SCRITTI.

IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO SECONDO

Via Panisperna

Il vecchio e il cane sono seduti nello stesso posto e vicino a loro si portano due figure entrambe maschili: una si siede a apre un giornale, l’altra è in piedi, di fronte a quella seduta. Si parlano senza guardarsi; ogni volta che pronunciano una battuta chi parla si gira per vedere in faccia l’altro e l’altro si gira a sua volta, così che non si vedono mai.

C.: Eh su dai, dimmelo! Non perdóno il tuo gesto, perché non riesco a spiegarmelo, ma lo potrei capire se tu avessi l’umiltà di parlarmene con sincerità una volta per tutte!

E. M.: Ma che vuoi sapere e poi parli in un modo; perdóno, ma che parola è, cosa vuole dire perdóno?

C: Lo sai cosa voglio sapere, te l’ho detto: perché l’hai fatto? La conoscenza, il sapere sono sempre positivi. Con il tuo gesto hai bestemmiato contro ciò che è più nobile in un essere umano: il desiderio di conoscenza.

E.M: Ma chi ti capisce a te. Lo sai che cos’è un carrubo?

C: Un che?

E.M: Un carrubo: è un albero che cresce nella mia terra, in Sicilia, un carrubo ne sa più di me e di te messi insieme.

C: Vuoi dirmi che la natura è saggia, che le sue leggi sono chiare e comprensibili e meravigliose: sono d’accordo, è quello che penso anch’io e quanto più le conosciamo e quanti di più sono coloro che le conoscono, queste leggi, tanto meglio vivremo tutti.

E. M. La natura non ha leggi, e noi niente sappiamo. Siamo soltanto asini che scalano la montagna; se alziamo la testa cadiamo in un fosso, se la teniamo bassa vediamo i nostri piedi.

C: Tu neghi l’evidenza, non è vero che non sappiamo nulla, pensa a quella meraviglia che è il moto dei gravi.

E. M: Stanno in cielo i gravi e noi siamo qui, li guardiamo i gravi, niente facciamo ai gravi e quando facciamo noi qualcosa è nel piccolo. E sai che cosa? Distruggiamo. Sì, noi distruggiamo, distruggiamo e basta!

C: A cosa stai pensando?

L’altro si volta e lo guarda un attimo, sorpreso, come se si accorgesse di lui per la prima volta … Sorride mestamente e distoglie di nuovo lo sguardo dall’interlocutore

E. M.: Tu sei buono, lo so, tu vuoi il bene.

C: Sì, ora ti capisco. Il bene! Sì, io voglio il bene e il bene è la ragione, la capacità di dare un ordine razionale alle cose.

E. M: l’ordine è come la palla di mercurio che schizza via con traiettorie perfette, disegna mappe d’incredibile bellezza, si divide e si riunisce, affascina, diventi pazzo a seguirla; ma se cerchi di capire il senso di tutto quel suo muoversi non ne ricavi nulla, ogni riga è diritta e precisa ma tutte le righe insieme fanno un gomitolo di niente.

C: Ma di quel gomitolo ne capiremo sempre di più e se insegniamo a molti ciò che abbiamo capito aumenteremo le conoscenze globali che un popolo possiede e se da questo popolo il sapere si diffonde agli altri ecco che l’umanità intera ne avrà gran beneficio. L’ignoranza è relativa, ma la conoscenza è assoluta!

E. M: D’assoluto c’è soltanto la morte.

C: E dai, è facile rispondermi così, non sono sciocco e incolto come credi, anch’io li conosco i filosofi. Hai usato un sofisma. Perché vuoi dare di te questa immagine? Anche ora, anche qui?

E. M: Ma che sofisma, non siamo forse morti qui? E tu continui come se ancora fossi di là, la ragione, la ragione, ma quale ragione! Ma che t’importa di quello che ho fatto. Niente ho fatto, niente facciamo che lasci tracce durature e se qualche segno lasciamo, sarebbe stato meglio non farlo: guarda i fisici che hanno voluto andare avanti con quelle ricerche. Che cosa hanno trovato? Li vedi gli effetti della loro scienza, della loro ragione? Cumuli di morti: non si muore più uno per uno e nemmeno a migliaia, si muore per grandi numeri, tutto qui.

C: Perché si è smarrita la ragione, non perché la si applica. I tuoi argomenti vengono in mio soccorso, tu sei dominato dall’orgoglio, dal piacere di seguire la tua intelligenza corrosiva, dissolvi tutto come un agente chimico, ma lo dissolvi nel pensiero e tutto si ferma lì: sei un sofista, che si diverte a giocare con le parole e i concetti. L’intelligenza verbale è un belletto, un travestimento che s’indossa a carnevale; e allora diverte, è piacevole a vedersi, può addirittura insegnare qualcosa. Se lo s’indossa tutti i giorni, allora mio caro diventa una maschera mortale. Ritirarti non ha impedito alla scienza di andare avanti, il tuo gesto non ha frenato il progresso perché nulla può farlo. Ti darei ragione se tu fossi riuscito a impedire il male, ma esso è andato avanti per la sua strada senza di te e tu sei rimasto indietro.

E. M: Indietro, avanti, concetti relativi. Noi guardiamo avanti ma gli effetti di ciò che fa la nostra mano stanno dietro di noi perché l’intelligenza arriva prima di tutti gli effetti, che sono lenti, più lenti del pensiero. E così ciò che il nostro occhio d’aquila vede davanti a sé, la mano lo taglia dietro di noi subito dopo che i nostri progetti si realizzano e noi precipitiamo come quel contadino delle mie parti che segava i rami degli alberi standoci a cavallo e finiva per terra senza capire il perché. Ecco chi siamo, con tutta la tua ragione questo siamo e continuiamo ad essere, nei secoli dei secoli.

C.: E amen, adesso non ti accontenti più della tua fede e ti metti anche a fare il prete. Guarda che quando si va un po’ troppo lontano da una parte si finisce per trovarsi dall’altra. Il pensiero è rotondo come la terra che abitiamo e se non stai attento ti trovi alle spalle quello che avevi pensato di allontanare da te per sempre. Tu non credi negli assoluti e va bene, neppure io. La Rivoluzione combatté contro gli assolutismi di ogni genere, ma tu alla fine di assoluto riconosci soltanto il tuo. Tutto è relativo, tranne le tue convinzioni. Ti sei messo al posto di dio.

E.M: Ahhh, addirittura, al posto di dio! Io mi sentivo un sasso chiamato verso il fondo di una materia oscura che diventava sempre più chiara, troppo chiara. In fondo a quella catena di atomi che si scioglievano davanti al mio sguardo, davanti alle mie formule, che come un libro aperto mi mostravano quella potenza abissale e smisurata, in fondo a tutto quello io vedevo il demonio, non dio! Per questo mi fermai, distrussi tutto, ma non bastava. Volevo sottrarmi alla tentazione, non ero così ingenuo come tu credi. Sapevo benissimo che avrebbero continuato, vuoi che non ne trovassero almeno uno? Ce n’erano migliaia pronti a farlo, che bussavano alle porte, pur di inebriarsi a quella fonte così potente! Loro volevano essere dei, non io! Mi arresi quando capii che per fare il male ne basta uno solo; per il bene bisogna che lo vogliano molti, se non proprio tutti.

C: E per arrivare a tutti occorre la pazienza del pedagogo, il tempo lungo della storia, la forza calma del piccolo passo, del piccolo gesto, tutte virtù che tu non avevi.

E.M: Chi va troppo in là in una direzione non può andare nell’altra. Quelli come te camminano in pianura, portano il peso sulle spalle come i viandanti, distribuiscono i doni del sapere, come tu li chiami, a tutti. Chi come me va troppo a fondo non crede  più di poterlo fare. Siamo su due assi cartesiani asimmetrici.

C.: Ma c’è sempre un punto in cui i valori dei due assi s’incontrano! Non sarai proprio tu a negarlo.

E.M.: No, non lo nego di certo, ho usato un paradosso; ma questo punto che tu dici è sempre più vicino al grado zero. Non te ne accorgi? Non li senti quelli che arrivano ora? Sanno tutto, conoscono la media aritmetica di ogni verità, sono dei collezionisti. Tutti sanno qualcosa in più, ma quello che sanno non serve più a nulla. La verità quando si consolida è più ingannevole del peggiore degli errori, che almeno in teoria può essere corretto; ma chi può correggere una verità divenuta inservibile per l’abuso che se n’è fatto? Il sapere esteso a tutti non è altro che il museo delle verità passate di moda.

C.: Ma ci sarà sempre qualcuno che ne porterà di nuove, che sarà andato in fondo come dici tu, nel cuore della miniera; questo non è contrario alla ragione. Abbiamo compiti diversi: quelli come te devono potere scendere in pace perché siete gli esploratori. Noi abbiamo un compito più modesto: divulgare, estendere, dare a tutti i mezzi per potere imparare. Per questo la Rivoluzione mi affidò l’incarico più delicato: insegnare a tutti la ragione. Fui io a inventare la pubblica istruzione e grazie a me milioni e milioni di esseri umani sono stati strappati all’oscurità dell’ignoranza. Ora che tutto è precipitato nella mancanza di senso, o sembra che così sia, io mantengo alto il mio pensiero.

L’uomo smette di colpo di parlare, sospira e allarga le braccia, poi riprende.

É il sapere che si è corrotto, non l’idea rivoluzionaria di dare a tutti il sapere; ma non so perché ciò stia accadendo.

E.M.: Perché chi scende nella miniera, se ritorna, lo fa troppo tardi e chi è rimasto non può capire la primizia che l’altro gli porta, tanto meno utilizzarla perché si trova invischiato in verità più modeste che lo avviluppano e lo rendono cieco. È questa la disparità che vidi. Quando compresi, grazie ad Albert, che il tempo era il più grande inganno, allora ebbi la certezza dell’ineluttabilità del male. A questo volli sottrarmi, perché non potevo più combattere. Accettai il mio limite, ma non riuscivo a restare fra i molti che attendono passivamente il disperdersi della verità in una nuvola di polvere! Scelsi di essere l’uno irriducibile. Non dio, ma l’uno. Fui il primo a capire che la nuova fisica avrebbe portato alla costruzione di armi orribili. Non mi ritirai clandestinamente in convento, come fu detto; quella è letteratura. Ridicolo! Attendere una vita intera con la paura di essere scoperto! Gli uomini non sono mai così forti come s’immaginano di essere, ma solo in certi momenti ed è in quelli e solo in quelli che diventano veramente uomini; perché sanno andare fino in fondo. Io, forte, lo fui soltanto la notte in cui decisi di scomparire per sempre; quello fu il mio gesto, se ti accontenti della mia spiegazione. Se non puoi accoglierlo cerca da solo un’altra soluzione; io qui ti lascio.

Si aprono le porte e una delle due figure esce, insieme a molti altri. Il convoglio è quasi vuoto, poi cominciano a salire altre figure. Due di esse si siedono accanto al vecchio e al cane. Una delle due si accomoda sul sedile e distende comodamente le gambe. L’altro, invece, se ne sta rannicchiato in una posizione goffa, con il capo piegato di lato in una posa contorta. Subito dopo entrambi si materializzano come reali.

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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA: ATTO PRIMO

Leone Trotzkj

Il vecchio cammina lentamente su una strada buia; tiene il cane al guinzaglio. La scena si schiarisce leggermente ma tutto il paesaggio è avvolto in una nebbiolina sottile. Lentamente appare l’immagine di un convoglio, potrebbe essere la carrozza di un treno di cui non si vede la fine, o della metropolitana. Accanto a loro vi sono altre figure che attendono e che appaiono come ombre. Le porte della carrozza si aprono e salgono tutti. Buio in sala e nuovo cambio di scena. Siamo sulla carrozza ora, piena di figure sedute o in piedi, sempre come se fossero ombre. Il vecchio le guarda finché non si arresta vicino a due di esse che improvvisamente diventano reali: una dalle sembianze maschili e con uno strano berretto a visiera, l’altra femminile, seduti l’una di fronte all’altra. In realtà, insieme, costituiscono un solo personaggio dall’identità cangiante. 

TROTZKJ: Perché continui a guardarmi?

MALINCHE: Ti dà così fastidio?

T: (si tocca il berretto): Non è facile sostenere uno sguardo come il tuo e poi non so chi sei.

M (ride): Temi qualche spia anche qui? Proprio non mi riconosci?

L’ombra maschile si porta la mano al cappello, come se stesse facendo un saluto militare.

T: No.

M: Non potresti peraltro, di me esistono pochi ritratti, tutti diversi e lontani dalla realtà e poi ho tanti nomi, tranne il mio.

T: Tanti nomi? Cosa vuoi dire.

M: Che ne ho uno per ogni vicissitudine, ogni terra che ho abitato mi ha dato il suo, appiccicandomelo addosso come un marchio. I vincitori mi diedero un nome di fantasia: donna Marina. Io non appartenevo a me stessa, per questo ho tanti nomi. 

L’uomo alza la testa di scatto la guarda socchiudendo gli occhi…affiora un ricordo…

T: Sì, certo, parlavano di te con vergogna a Città del Messico!

M: E tu naturalmente ci hai creduto!

T. annuisce con un cenno del capo.

M: Dovresti essere più cauto, con tutto quello che è successo a te!

T: Ma nel mio caso si trattava di menzogne, mentre nel tuo …

M: Con tutto quello che sai sulle infamie del potere hai ancora queste certezze?

T: Fu imponente la campagna di calunnie orchestrata contro di me da quel satrapo maledetto! E poi perché avrebbero dovuto mentire nel tuo caso! Nel mio si comprende bene, ma nel tuo?

M: Sei ingenuo e arrogante, ascoltarti però mi fa sorridere, parli in un modo così buffo. A cosa serve la tua sicurezza? Qui in mezzo a noi, dove neppure credevi di esserci, tu l’ateo che scherzava sulla propria data di nascita e prendeva in giro i pitagorici. Arrenditi all’idea che la verità è sempre altrove, non è mai nella lettera del mondo, nella sua cronaca, nel potere che l’avvolge nel suo abbraccio fino a soffocarla! 

T: Ti sbagli! Siamo stati travolti dalla cronaca, non dalla storia. Sì, dalla cronaca, anche questo si può dire, se ho ben capito il tuo pensiero confuso e oscuro. Noi cercavamo qualcosa di grande, d’immenso, qualcosa che non era mai apparso all’orizzonte della storia. (guarda verso l’alto, perdendosi nel suo pensiero, poi torna ad osservarla). Vedo che sai molte cose su di me e non solo.

M: Quanto basta per prenderti un po’ in giro.

T: C’era ben poco da ridere, sai, ai tempi in cui vissi!

M: E ai miei? Pensi che siano mai esistiti i tempi in cui si poteva ridere? Se avessimo dovuto aspettarli, il riso non sarebbe neppure nato sulle bocche degli umani. Il mondo è sempre uguale, identico a se stesso.

T: Hai una concezione della storia che non posso condividere, la definirei statica e reazionaria.
M: Smettila di fare comizi!

T: Cosa vuoi da me dopo tutto?

M: Parlare; ti propongo un gioco. Il mondo che è nato da quello che tu hai chiamato il mio tradimento, si sta disintegrando; quanto al tuo sogno, è anch’esso finito miseramente. Siamo entrambi esuli, ma abbiamo la parola che solo gli esuli hanno.

T: La mia parola sta scritta in libri che si possono trovare facilmente.
M: Ma li hai scritti quando ancora la tua utopia sembrava avere le ali, altri furono scritti dai tuoi adulatori, altri ancora da piccoli epigoni senza gloria, che sanno soltanto tesaurizzare le idee altrui, così come gli spagnoli tesaurizzavano l’oro, l’oro che per noi era solo luce, luz, Entiendes hombre?

T: Non capisco cosa sia quest’altra parola a cui alludi e quanto alle idee è bene che le nostre rimangano separate. Alle tue, non alle mie è toccata la fine!

Le voci si sovrappongono e si alzano

M: Ti sto esortando a cercare un’altra parola, quella non scritta, quella che si poteva leggere fra una riga e l’altra de tuoi proclami.

T: La storia è fatta di leggi esatte per chi le vuole interpretare e comprendere, leggi che riguardano prima di tutto l’economia …

D: Chi lo ha detto?

U. Lui, lui, chi vuoi che sia!

D: Ahh, il tedesco col barbone. Vi ha forse aiutato la sua previsione? A che cosa serve la verità se non può guarire l’imperfezione? Che senso ha una previsione che non ammette alternative? Tu sei ancora innamorato del calcolo esatto, ti piacevano le statistiche, gl’indici di produzione, ma non hai saputo decifrare il tradimento, quello ti è sfuggito. Usavi il compasso dell’intelligenza per squadrare il mondo e invece il mondo ha squadrato te!

U: Le mie idee non moriranno mai!

D: Sai quanti che sono qui hanno pronunciato questa frase? Almeno una decina. Anzi, scommetto che qualcuno di quelli che secondo te ti hanno tradito pronuncerà la stessa frase! Che vuole dire? E se l’altro che pronuncia la stessa frase ha idee opposte alle tue? Come faranno a vivere entrambe in eterno se cozzano non appena s’incontrano. (piega il capo e parla fra sé) …Ustedes non tenìan ideas, matàvan, matàvan y matàvan…

Le voci si placano e tornano più normali e assorte.

T: Va bene, accetto il tuo gioco, anche se non posso dire di avere capito bene in che cosa consista.

M: Un gioco non ha un vero scopo. Siamo esuli entrambi, tu dalla tua utopia io dalla mia; raccontiamo, senza più speranze d’inutili rivincite, la nostra verità.

T: Qual era la tua utopia?

M: Che nonostante tutto valesse la pena di accoglierle quelle bestie con la croce, pensare che fra noi e loro potesse nascere qualcosa …

T: oh. Oh figurati!

M: Almeno hai riso in un modo diverso dal solito, anche se non capisco cosa ci sia da ridere.

T: E tu la chiami utopia questa?

M: Sì. Che altro potevano fare del resto? Pensi che avrebbero potuto resistere? Tentarono di farlo se è per questo, ma la forza de los conquistadores era immensa, soverchiante.

T: Non la loro forza, non le loro armi! Quelle furono soltanto strumenti! Fu la loro concezione del mondo che li fece vincere! Rappresentavate una fase finita nella storia dell’umanità e come un limone spremuto siete stati messi da parte.

M: Era sangue quello che ci spremevano, sangue! Oppure il seme della vostra razza bastarda che finiva come una fucilata nel ventre di noi donne. Altro che limoni, che ne sapevamo noi dei limoni, da noi non ci sono limoni!

T: Ho usato una metafora.

M: Lasciale stare le metafore, ti metti a fare il poeta adesso, che ne sai tu delle metafore! Tu parli lo stesso loro linguaggio e volevi cambiare il mondo tu? Vergognati! Parli la loro stessa lingua, trasudi della stessa sicumera. Sei una canaglia come loro!   

T: Fermati tu adesso, donna! Non insultare noi! Parla così di quelli che hanno buttato le nostre idee ai porci, che hanno usato il potere per distruggere quanto di più bello il pensiero umano avesse mai concepito in tutta la sua storia: una società di eguali, in cui tutti hanno gli stessi diritti, uomini e donne e sanno governarsi da soli, senza che nessun potere esterno li sovrasti. In questo abbiamo creduto, in questo io ho creduto.

M: E in questo sei stato sconfitto.

Si guardano in silenzio.

T: Sì, è vero e ne porto il peso, così come lo porta l’umanità che volevo salvare e che senza di noi è precipitata più indietro da dove, nonostante tutto, l’avevamo portata; almeno con il sogno e in parte anche con la realtà. Sei ingiusta, ma siamo stati sconfitti, almeno nella contingenza storica; su questo non posso che darti ragione.

M: Anch’io sono stata sconfitta, volevo che lo dicessi anche tu, con l’umiltà che ti è mancata in vita.

T: Non puoi essere umile quando pensi di rivoltare il mondo, non te lo puoi permettere! E a te l’umiltà non è servita se dici tu stessa di trovarti nella mia stessa condizione. L’umiltà è il cibo dei perdenti, ma non tutti coloro che hanno perso erano dei perdenti. Va bene, te lo concedo, anche tu sei stata soverchiata dalla storia e forse è vero che non hai tradito. Su di te, in effetti se ne dicono tante, ma la verità? La tua almeno! Ecco, dimmi la tua!

M: Sono nata nella gloriosa terra degli Aztechi, esiliata, prigioniera dei miei nuovi custodi, fuggiasca, poi ingannata da quel prete maledetto, Aguilar. M’insegnò a parlare la lingua dei conquistatori e quando parli una lingua che non è la tua, anche le parole diventano estranee, mai amiche. Dicevano tutti che ero brava nel tradurre. Cosa capivano veramente gli altri? Cosa volevano capire di quello che io traducevo? Certe sequenze di parole che per me avevano un senso, una volta nelle loro mani producevano effetti strani, sempre più sinistri. Lo vedevo dagli sguardi cattivi e dalle azioni che subito dopo si manifestavano.

T: Nelle mani di chi? Degli spagnoli?

M: No, non solo delle loro; fosse stato così! Le parole, anche quelle che stavano nelle mani dei fratelli, si ritorcevano sempre contro di me e contro il mio popolo e quindi anche contro di loro. C’era una terza lingua fra la nostra e quella dei conquistatori, implacabile, che correva come un serpente e avvolgeva le nostre teste e oscurava i nostri cervelli e anche quelli degli spagnoli. Fu quella a vincere; a me e a coloro che hanno sopportato il peso maggiore di quella tragedia è rimasto un dialetto bastardo, un idioma storpio come era storpia quella bestia che m’imprigionò nel suo letto. Ancora oggi, quando arrivano qui io li riconosco subito: storpi e soltanto storpi. Oppure facce slavate che portano i nomi dei nostri guerrieri, donne nere dagli occhi profondi e persi nella loro tristezza senza fine; volti distorti come le cattedrali che tu hai visto nella mia città. Anche il loro dio ha dovuto contorcersi nell’orrore e infatti non ne vedi una sola diritta delle loro chiese. Sono tutte deformi, con quell’oro che deborda e le incrosta come una bava di merda. Quanto a me chi sono veramente si saprà soltanto quando le donne impareranno a parlare la loro lingua.

T: Ti capisco, ma è solo un giro della ruota, e la ruota non si ferma. Ciò che oggi si trova nel punto più basso e preme il selciato con tutto il suo carico di oppressione sarà di nuovo in alto, leggero, pronto per un nuovo assalto al cielo. Le grandi personalità nascono in ogni epoca ma solo in alcune la loro forza può mostrarsi in tutta la sua estensione perché necessita di un tempo in cui potersi dispiegare. Sarà la storia, dunque, a redimere entrambi, noi siamo stati un anello della catena; chi verrà dopo farà tesoro anche della nostra esperienza, anzi è già nel mondo, sento di nuovo risuonare lo strepito delle folle! Le nostre idee non moriranno mai!

Le due figure oscillano l’una nell’altra come due fiamme che si confondono, poi si alzano ed escono; salgono altre figure.

La Malinche

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IL GUARDIANO DELLA SOGLIA

Dramma in quattro atti, un prologo e un epilogo scritto da Franco Romanò.

Questo testo teatrale è stato scritto molti anni fa e proposto per la rappresentazione a diverse compagnie e registi. Da molti giudicato valido da un punto di vista letterario ma pressoché non rappresentabile per la staticità delle scene e l’eccessiva densità di personaggi, se ne è rimasto acquattato fra i miei file per lungo tempo. Decisi a proporlo anche in forma di lettura scenica a Giacomo Guidetti e Barbara Gabotto. Con l’aiuto prezioso di Francesco Orlando, con cui ho discusso una parte  del testo e la disponibilità altrettanto preziosa del compianto Roberto Carusi, la lettura scenica si fece 7 maggio 2008 allo Spazio Scopricoop via Arona 15. In scena: Roberto Carusi (Caronte), Ulisse Romanò (Leone Trotzskj), Irene Burratti (Malinche). Regia di Giacomo Guidetti Contributi scenici di Barbara Gabotto.

Nel 2016, uno stralcio del testo e precisamente il monologo di Picasso, ribattezzato  Il Minotauro e la scimmia fu pubblicato sul magazine del Wall Street Journal Italia, diretto da Nathalie Dodd. Il testo fu rappresentato a Milano per la regia di Stefano Tenconi. Una seconda e libera versione tratta dal medesimo testo e intitolata Pablo, è stata messa in scena da Fabrizia Fazi a Massa Carrara e a La Spezia. 

Ora ho deciso di proporre l’intero testo qui. Continuo  a pensare che un testo teatrale debba trovare in scena la sua morte; tuttavia credo che nel blog possa fare la sua figura anche come testo letterario. Poiché le diverse parti – sono tutti dialoghi a due – godono di una loro autonomia, la pubblicazione avverrà atto per atto a cominciare dal prologo per finire con l’epilogo. Qui di seguito però riporto tutti i personaggi in ordine di apparizione per dare a chi legge un’idea del testo nella sua interezza.

PERSONAGGI IN ORDINE DI APPARIZIONE.

Caronte e Cerbero.

Leone Trotzsky e Malinche (il suo nome è incerto perché appare con diversi nomi negli annali: si sa comunque che fu l’interprete e traduttrice fra Fernando Cortez e Montezuma).

Jean-Antoine Condorcet ed Ettore Majorana. Condorcet si può considerare il primo ministro dell’istruzione pubblica.

Bach e Picasso.

Moana Pozzi e Sigmund Freud.

PROLOGO

La scena è in penombra, leggermente nebbiosa: è una banchina, s’intravede la sagoma di una grande imbarcazione. Giungono dei rumori attutiti, in un alternarsi caotico. Suoni, voci che a volte sembrano di gioia, poi diventano strazianti, poi battute scherzose o spot pubblicitari. In scena c’è soltanto un vecchio con una folta barba, seduto su una roccia. Si alza inquieto, tende l’orecchio e scuote la testa, portandosi le mani alle orecchie. I rumori cessano di colpo, il vecchio distende le braccia, guarda verso il pubblico rimanendo ancora in silenzio per qualche secondo, poi si alza in piedi e inizia a urlare stringendosi la testa fra le mani. Il personaggio di Caronte usa diverse lingue e dialetti; la soluzione migliore per quest’ultimo sia di inserire espressioni dialettali dei luoghi in cui il testo venga rappresentato, a sostituire le espressioni che nello scritto sono in dialetto milanese.

Caronte: Enough, enough! I’m tired! Anche prima li sentivo ridere, piangere, vusà me’ i matt, solitari o in tanti. A volte era la pugna, oppure lo strazio di una madre, sempre lì a strepenare. Idioti! A cercare di capire, a capire cosa, what!

Scuote la testa e si siede di nuovo, la scena si illumina leggermente di più e per pochi secondi si sentono ancora i rumori. Il vecchio sembra non accorgersene più; è di nuovo silenzio, ricomincia a parlare in modo concitato ma senza urlare come prima.

Tutti passavano di qui. Pero no voy a fahlar de los muertos, ma dei vivi … alive. Si tuffavano e andavano giù, io li avvertivo, be careful! Guardate che ben pochi ci sono riusciti. A loro non facevo pagare le due monete, ai vivi dico. Tornavano diversi, tenìan una luz en lo ojos, ademàs la tristeza che volevano cancellare scendendo, risalendo la portavano doppia. Come il musico, Orfeo, poor boy, lui ci credeva e non è vero che si è voltato io ho visto tutto. Lui pensava di andare giù e invece andava su se l’è trovata davanti, de bótt, una maschera di ghiaccio. Non l’ha nemmeno visto lei e quando quello con le ali glielo ha detto che lui si era voltato lei gli ha risposto Who? Chi? Non si ricordava più di lui!

Lunghi sospiri, irrompono di nuovo i suoni, poi di nuovo silenzio. Il vecchiosi mette a impastare del pane con l’acqua e continua a parlare.

Li ricordavo tutti quando tornavano la seconda volta, quelli che erano scesi anche da vivi. Tremavo solo per loro quando li accompagnavo. Gli altri, cosa volete, ognuno ha il suo karma e di certe vite cosa vuoi farne, di certe anime perse. Con loro era diverso, el coeur el me batéva fòrt mentre arrancavo al bivio e stavano per dirmi dove li dovevo traghettare. Trattenevo il fiato. Tutto finito adesso, vivo di ricordi come tutti i vecchi e sono stanco; la memoire est le répas de celui qui va a mourir: a cosa serve una porta se non l’attraversa nessuno?

Intanto ha finito d’impastare del pane con acqua, si asciuga le mani, torna a sedersi sulla panca e mette la ciotola per terra, poco distante da lui; poi alza lo sguardo in direzione di quella che sembra una montagnola di stracci. È Cerbero.

Amico mio, il solo rimasto! Magna che l’è prùnt! Eh ridete, ridete, ma qui la borsa è vuota, i patti non erano questi! Da qui dovevano passare tutti, anche dopo il cambio di gestione, era un gentlemen’ agreement, cosa sono in fondo due monete! Sarà questa poi la ragione? Gli ultimi due vivi che volevano andar giù hanno persino cercato di fingersi morti per derubarmi gli oboli della giornata! Fuck them! Che vadano all’inferno, non era mai accaduto che qualcuno avesse una tale mancanza di rispetto. Cosa credete che si tratta solo di portarli di là? Vi sbagliate! Quando arrivano da noi, hanno, gli occhi aperti, sono pieni del mondo, sentono il richiamo, tienen la vida en los ojos. Ci voleva tempo per preparare la barca, loro si spengono lentamente, talvolta li scuoto, y despuès se llega, empieza el tiempo de l’olvido, ritornano nella valle dove si erano spogliati delle vite precedenti e poi …e poi non li vedo più, it’s not my business, sono il guardiano della soglia io, posso soltanto immaginare cosa ci sia dalla vostra e da quell’altra che sta di là. Ma a cosa serve una soglia se non c’è più nulla da attraversare. È per questo che mi sono deciso, mettetevi nei miei panni! Come posso continuare a fare finta di niente? Riuscite a immaginarle le mie giornate? Qui in questo luogo tetro, puzzolente. Una volta non ci facevo caso, mai un momento di sosta, di respiro e non mi sono mai lamentato. Ora di notte mi sveglio di colpo, sento le urla di quelli che trasportavo e mi sembra che siano tornati, ma quando mi alzo il y a un silence … Ho deciso di scendere. Sì, io! Avete capito bene? Ho deciso di scendere e lui verrà con me, non lo lascio qui. Domani ce ne andiamo.

Si guarda intorno, quasi volesse imprimersi negli occhi la scena, nel presentimento di abbandonarla per sempre, poi si distende sul giaciglio. Buio e cambio di scena.

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LE ETA’ DELL’ESSERE UMANO: RIFLESSIONE SUL LIBRO DI FRANCO SEPE

Il titolo di questa nuova opera costringe il lettore a rimanere a lungo su di esso, ma non è una novità per chi conosce l’autore: Naufragi in acque di porto è un’espressione ossimoro che evoca una catastrofe prossima, nel luogo che sembra rassicurante per definizione. Ancor più disorientante è il sotto titolo: triptycon insanae mentis. Passando al testo, la seconda caratteristica che colpisce, anche senza leggere subito, è la distribuzione grafica del verso sulla pagina, che può essere intesa come una vera e propria icona, che si conferma per l’intera prima sezione del libro:

Un bimbo

un mondo

un mondo per sé

un mondo chiuso

a tutto il resto

Tale disseminazione sembra alludere al dissolversi di una trama testuale, ribadita dalle spazialità in cui sono il silenzio e il bianco a circondare una parola flebile. Nel testo che segue tale caratteristica si ripropone con qualcosa in più:

Era sicuro

il mio sonno

finché

dormivo nell’acqua

acqua informe

liscia

senza le pareti

che ora la murano

Il testo in corsivo, se messo in relazione con il precedente, introduce un elemento soggettivo (… il mio sonno/finché/ dormivo nell’acqua …), assente nel primo, in cui prevale un’oggettività descrittiva. Sia che lo s’intenda come un’identificazione dell’io scrivente con la condizione di mondo chiuso evocata, sia che s’intenda questa irruzione come la flebile voce di un soggetto che cerca di esprimersi, tale novità è rilevante e come vedremo nel prosieguo della sezione, l’alternanza di voci e di sguardi si proporrà come una cifra stilistica che ha una precisa ragione. Il prosieguo, per un lungo tratto dell’opera, propone questo verso, ma scorrendo rapidamente le pagine ci si rende conto che poi le cose cambiano; forse per capire meglio, allora, dovremo abbandonare momentaneamente la sequenza dei testi e tentare un primo sguardo d’insieme sull’opera. 

Il libro è diviso in tre parti. I titoli delle sezioni sono: Pueritia, Frammenti del vivere sottile (Adolescentia) e Nella casa smarrita nella mente (senectus). Sono titoli importanti e spiazzanti: il lessico prima di tutto e anche questa non è una novità per Franco Sepe. Le parole desuete e – nel caso specifico – addirittura in latino, come era già nel sottotitolo, sono frequenti anche in altre opere e sono sempre indicatori importanti. La sequenza allude alle diverse età della vita, anche se l’ultima – specialmente se messa in relazione al sottotitolo dell’opera intera – può riferirsi sia alla senescenza, sia alla mente che può smarrirsi nella follia a qualunque età. L’esergo che inaugura la sezione Adolescentia,1 invece, rimanda a una delle patologie più devastanti della nostra contemporaneità: l’anoressia, che è il motivo dominante dell’intera sezione. La terza parte del libro si sposta su un ultimo aspetto, che ci aiuta a entrare meglio dentro la trama nascosta di questa tessitura. La vecchiaia e i suoi affanni, visti sotto un duplice aspetto: quello più tenue – la dimenticanza dei nomi, per esempio, o altri inceppi strani della memoria – e quello che sconfina nella patologia vera e propria, dove è il reticolato della mente a vacillare e a dissolversi. Il viaggio che Sepe ci invita a compiere sembrerebbe dunque addentrarsi nei meandri della mente umana alle prese con il corso naturale della vita: nascere, crescere e decadere, una sequenza cui manca quasi del tutto e paradossalmente l’età adulta nelle sue espressioni ‘normali’. Questo particolare induce il lettore a non tirare conclusioni azzardate; infatti tutta la partitura si rivelerà alla fine più complessa. 

Il silenzio coatto.

Pueritia è un termine che non allude solo al puer e dunque all’infanzia come condizione esistenziale, ma anche alla povertà, da intendersi certamente in molti modi, ma che nel testo assume connotazioni sempre più precise, quanto più si legge:

La mia bocca/non ha pronuncia/ogni suono/si smorza dentro/se sale è un raschio/contro il duro/di una parete/le mie albe/sono per me/notti fonde/un pugno chiuso/dentro le viscere/della montagna/3

Il suo corpo/duro e impalato/sta sul ring/senza un nemico/solo sorrisi/e incitamenti/a fare qualcosa/che non è/in suo potere/

Mi chiedono/di esistere/esistere/come essere/umano/esiste/ma come/mettere fine/all’agonia/se per me questo/ormai/l’unico modo/di vivere?

Non sorride/con la bocca/sorride/con la mente/distante/dall’intrico/delle sue membra/incordate.4

La condizione che si esprime in questi versi non è quella di un bambino alle prese con il trauma del nascere e del crescere, che riguarda tutti, ma allude a una situazione particolare che sta in un range che può andare dall’autismo a patologie meno gravi ma che tuttavia travalicano i confini della ‘normale’ sofferenza esistenziale. La scena è sottoposta a diversi tipi di sguardo, che si evincono dalla scelta di scrivere in corsivo le incursioni soggettive che possiamo attribuire allo scrivente che tenta la difficile identificazione con il bambino autistico, oppure a lui stesso nel tentativo di esprimersi nonostante tutto: il secondo è uno sguardo adulto che osserva dal di fuori cercando di capire:

Non lisciarmi/la mano/non tenermi/stretto a te/per le carezze/non sono nato/né per gli abbracci/al tuo amore/muta risponde/la mia carne/marmo e anguilla/con l’immobile/fuga

Mai vista/una lacrima/da quegli occhi/blindati/strano orgoglio/di madre/augurarsi/dal figlio/il pianto

tiratemi fuori/da questa mezzanotte/infinita/voi che sapete/ridare la luce/tiratemi fuori/da questa terra/senza respiro/né pace/ridatemi intero/alla madre:/che io non sia più/la sua pena

Questi due diversi punti di vista s’incrociano e s’inseguono, nel tentativo di trovare un senso a un’esistenza precaria che si trova al limite della comunicabilità. L’oscillazione fra interno ed esterno cerca di costruire un reticolato di immagini che sono dolorose e al tempo stesso salvifiche perché rimangono come traccia, seppure su un territorio devastato. 

Non sorride/con la bocca//sorride/con la mente//distante//dall’intrico/delle sue membra/incordate. /

Lo sguardo esterno coglie qui un segnale flebile, una piccola luce, forse soltanto una speranza, cui però l’altra voce, quella soggettiva, sembra tuttavia rispondere in qualche modo, come fra due stelle lontane:

Tiratemi fuori/da questa mezzanotte/infinita/voi che sapete/ridare la luce//tiratemi fuori/da questa terra/senza respiro/né pace//ridatemi intero/alla madre:/che io non sia più/la sua pena/

Da questo punto della sezione in poi, tuttavia, la voce soggettiva si affievolisce sempre di più, la speranza sembra svanire: ritornerà in altre forme.  

Il corpo fragile

L’adolescente si trova nel paradosso di una vita che cresce impetuosamente, ma che è sottoposta a tutta una serie di fragilità, di cui la cronaca ci rende edotti quasi ogni giorno: dal bullismo, alle ludopatie, alla difficile scelta della propria identità sessuale.  Nel testo che segue Sepe trova un’immagine metafora quanto mai efficace:

Sempre aperto diario cui manchi/di annotare la vita. Ingiusto esistere/per una domanda di grazia senza un’anima/a cui rivolgerla. /Tutto qui lo sforzo: saper stare al convenuto/come radice fra sassi murati sotto un vertice/di cielo che fa gola. /Vincere, non arrestarsi nella morte. / Crescere, /nel vigore di un olocausto.

L’adolescente non sempre riesce a difendersi, anche da se stesso, l’immagine del diario aperto, a disposizione di tutti, un segreto nel quale si ritrae ma che è al tempo stesso trasparente; spesso è lui o lei a volere che altri leggano. Il vivere sottile evocato nel sottotitolo, invece, ci riporta all’anoressia, cui è dedicata l’intera sezione, ma nel verso finale – nel vigore di un olocausto – risuonano anche altri echi. Nella prima parte del testo che segue, l’adolescente – probabilmente una ragazza – si trova smarrita di fronte al corpo che sta cambiando e proprio in quelle trasformazioni è in agguato la tragedia: ma la metafora che Sepe costruisce riguarda anche la poesia e su questo ci soffermeremo meglio nelle conclusioni: 

Una sola legge: resistere all’entrata/nel nuovo corpo, arrestare la forma/tenera in gioiosa progressione/restringendola come linea sul foglio/(Ché non bruchi il bianco)/e di là nuovamente al corpo/tracciare corridoi di continenza/nel freddo stellare./…

In quest’altro testo la contraddizione drammatica che attanaglia il corpo dell’anoressico:

Un fato impera sul corpo:/esser materia in divenire/per età brevi e feroci. //meglio sarebbe/nella vita che chiama a vivere, /una calma auto estinzione. /

L’uso della parola fato non è casuale, perché nella determinazione dell’anoressica, sembra davvero agire qualcosa di arcaico e incomprensibile, ma nel testo che segue e in quello successivo avviene uno slittamento: una possibile via d’uscita?

Staccando l’aquilone/da ogni ormeggio terrestre, /con i fianchi dritti ed il petto/che implode, /saggiare infine l’estasi dei santi. /

Evadere dalla propria pelle/sfidando a lasciarcela. //Carne che non vuole più servire/né accrescersi. /

                          Apostasia//

Dramma di un corpo/eccelso/sotto la tutela della malattia. /

Il dilemma e anche la domanda implicita fra le righe del testo è se vi sia nell’anoressica una via che porti alla santità e dunque a un possibile riscatto, se nella forma estrema di ribellione che sembra dire No! a tutto, oltre che il rifiuto della madre vi sia qualcosa d’altro in gioco. Tuttavia non vi è alcuna facile adesione a questa scorciatoia, la santità è sotto tutela della malattia e sempre la psicoanalisi ci avverte pure che nell’anoressia è in atto anche una patologia narcisista. Se c’è dunque una via d’uscita da queste vite devastate andrà cercata altrove.

Senex

Il testo che segue, non il primo della sezione, e la sequenza successiva, sono quelli che, insieme all’ultimo testo – dedicato a Daniele Del Giudice – introducono un elemento biografico nel libro. Le due persone evocate sono il padre e un amico di avventure letterarie al quale Sepe è fortemente legato. Sul primo, andando oltre il dato biografico, c’è da osservare che nelle prime due sezioni è una figura quasi del tutto assente, prevalendo in entrambe la madre, sullo sfondo della tragedia; oppure un osservatore esterno. In quest’ultima parte, il padre è visto come senex, cioè nella sua estrema decadenza e il dolore dello sguardo di figlio che Sepe porta su di esso conferisce a questi versi una solennità particolare.

a mio padre,

in memoria

Nella calma di un seminterrato/d’un tratto le visioni si afferrano/come mani, /nel dolore del subbuglio/si torcono tra fessure d’occhi. / (Fatti e nomi sbiancati dentro/fossili arnie di memoria, /urla soffocate come suoni finiti/sotto terra fra tumuli/e radici) /Mi parli. Una sola parola/ma senza luce di amore/né pietà./Un fremito delle/spalle finisce nell’indice./E’ un pianto ora la preghiera di unirsi/ai tuoi occhi/per vedere in fondo alla paura.//Come in un soffio/quando tutto è incominciato/la soglia/che divide te dagli altri/si è confusa./Sei tu la strada battuta/tutta una vita/ma che ora più non trovi./Il cammino che non sai imboccare/e pure porta alla tua casa.

                                                                                                                            Lasciato ogni appiglio

                                                                                                           in un movimento che abbandona.

                                                                                                                          Scivolato sotto il carico

                                                                                                                          Come il proprio mulo 

Eccolo col suo discorrere affogato/in una palude di suoni:/lunghe e interminabili note/che sovrastano/la pagina sgombra della vita. //I suoi ricordi in una teca/ colma di occhi che stupiscono, /spogliati di ogni forma. // (Memoria terminale/o la sua anestesia?) / In vano richiamati/gli accenti scorrono via/dalle parole/come gomme sull’asfalto di un alfabeto/infinito, /in una nausea fatta di panico.  

La sequenza ci consegna dunque un padre già decaduto, fuori dalla sua funzione adulta, perso nel dedalo di una vita che gli sfugge. Ancora una volta questi versi ci lasciano inquieti perché lo sguardo di figlio che l’osserva dal di fuori, ma nell’impossibilità ormai, di una comunicazione, rimane sospeso fra dolore e sgomento.

Questioni di stile e di poetica

Il verso di Sepe, in quest’opera, è soggetto a torsioni e cambiamenti continui fra sezione e sezione e all’interno della medesima sezione, tranne la prima, la più necessariamente compatta, con il suo verso sgocciolato e franto. Sarebbe vano, tuttavia, cercare di ricondurre questo modo di versificare a stilemi presenti nella poesia italiana del ‘900, perché le eventuali affinità sono solo superficiali. L’esigenza che guida il poeta dall’inizio alla fine del libro è quello della difficile, quasi impossibile ricerca di modi espressivi che siano coerenti con il contenuto e con le diverse figure rappresentate nell’opera. Il cimento di Sepe è particolarmente arduo perché ci troviamo qui al limite della comunicabilità, in una zona in cui il soggetto che abita il linguaggio (per usare l’espressione di Heidegger), si trova limitato nel poterlo fare, in qualche caso addirittura impedito quasi del tutto; ciononostante, però, questi soggetti continuano ad abitare il mondo e a cercare la loro strada. Come esprimere tutto questo? Sepe si avvale di tutte le possibilità e le metafore grammaticali e sintattiche per esprimere un male di vivere che si discosta da tutti quelli che conosciamo perché, nel caso dell’autismo, per esempio, esso è dato a priori come una condizione nella quale chi è esterno non può capire; come, – al contrario – chi lo vive, non può comunicarlo se non in modo parziale. Lo stesso si può dire di patologie come l’Alzheimer o la demenza senile. Siamo al limite dell’afasia e del silenzio, in un punto dove anche la parola poetica sembra vacillare perché ogni altra forma di comunicazione è già stata travolta.

Uno dei modi stilistici ricorrenti nell’opera è la condensazione, che diventa immagine iconica, raggiunta tramite un accostamento paratattico di sequenze, come avviene, per esempio, nel finale di questo testo:

Il corpo deserto, rocca e stele/riparo e anacorési /è a un passo dal sublime/

Ciascuna di queste immagini può esistere di per sé, perché l’accostamento non obbliga a una sintesi, ma ne autorizza diverse e ciascuna immagine, nella sua autonomia, parla da sola. Il verso finale rimanda a una sintesi unificante possibile, ma si ferma a un passo dal sublime, non lo raggiunge. Dove sta la speranza in questo libro che allarga l’esplorazione poetica a continenti poco frequentati e così estremi? Per l’ultima volta faccio ricorso al percorso di Sepe e in particolare a un libro come Elegia terrestre dove, seppure con il tono dell’elegia, la fragilità della natura e le sue bellezze venivano messe in relazione ai disastri ambientali. In quest’ultimo è la fragilità dell’umano a essere messa in scena e la speranza sta proprio nella capacità che la poesia ha di riscattare questi fragili e sottili fili di esistenza e farli vivere e rivivere, aprendosi così a una forma di pietas. In alcuni versi già citati, Sepe ci offre, infine, una riflessione di poetica in versi, nel tempo dell’estrema povertà che ci circonda e che diventa nel testo anche un segno di fiducia nella parola nonostante tutto, purché tale parola poetica sappia spogliarsi dei suoi orpelli e ridursi all’osso per resistere:  

Una sola legge: resistere all’entrata/nel nuovo corpo, arrestare la forma/tenera in gioiosa progressione/restringendola come linea sul foglio / (Ché non bruchi il bianco) /e di là nuovamente al corpo/tracciare corridoi di continenza/nel freddo stellare. / …

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1 “Io non voglio più/mangiare/io non voglio/fiorire in questo/corpo che non sa/più fiorire io/non voglio mangiare/io non voglio più/mangiare ma/essere mangiata.  Vito M.

3 La spaziatura dei testi è analoga ai primi già citati e dunque irregolare; ma per rendere più facile la lettura ho pensato sia meglio citarli in questa forma.

4 Op.cit.

REGISTI DA RISCOPRIRE: MARCO FERRERI

Introduzione

L’oblio è calato da tempo sul cineasta milanese. Ferreri fu un regista cult degli anni ’70-80 e un film come La grande abbuffata (1973) fu un cult movie perché suscitò scandalo e polemiche; ora che l’oblio è sceso anche su quella pellicola, vale la pena di ritornarci. La trama del film è semplice nella sua apparente follia: un gruppo di uomini si ritira in una villa isolata decidendo di consumare una strana forma di suicidio. Mangeranno fino a scoppiare e nel frattempo s’intratterranno con alcune donne ridotte a schiave sessuali. I protagonisti provengono tutti da ceti borghesi: un proprietario di ristorante che è anche chef, un produttore televisivo, un pilota dell’Alitalia e un magistrato. Costituiscono nel loro insieme un corpo intermedio variegato. Se il magistrato appartiene infatti a una professione borghese tradizionale, gli altri sono i figli del dopoguerra e del boom economico – l’Alitalia era allora un gioiello di famiglia del sistema industriale e dei trasporti italiani; quanto allo chef, il personaggio anticipa la tendenza oggi dilagante di programmi televisivi sul cibo. Bulimia televisiva e consumistica s’affacciano nel film in modo ancora artigianale e appena accennato. Nel finale, la metafora si complica. Quei corpi non riescono più a consumare. Tale contraddizione si riverbera anche nel comportamento sessuale. Dopo alcuni giorni non riescono più a fare sesso con le donne; si eccitano soltanto toccando le statue di marmo del giardino della villa. Alla fine il suicidio si compie.

Se allora gli elementi paradossali  e abnormi – peraltro sempre presenti nella cinematografia di Ferreri – furono dominanti nel determinare sia il successo della pellicola, sia per indicare i suoi limiti, possiamo tornarci oggi ripensando alla storia successiva. I quattro protagonisti maschili celebrano la morte del boom economico dei primi anni’60, ma lo fanno con tutta la scarsa consapevolezza di esserne in fondo dei protagonisti intermedi e grotteschi, affini alla loro condizione sociale: sospesi fra una drammaticità che non riesce a raggiungere la tragedia, come farà Pasolini con Salò due anni dopo, ma troppo abnormi per essere soltanto comici. Sono i vecchi Vitelloni o gli Amici miei della fortunata serie, oppure ricordano il protagonista del Sorpasso: personaggi della commedia all’italiana ormai decotti e senza però alcuna consapevolezza di quanto stesse accadendo intorno a loro. Consumano l’atto finale suicida e con esso la fine del neocapitalismo industriale, di cui erano stati dei beneficiari di riflesso. La metafora pensata da Ferreri appare per questo oggi più complessa di allora anche da un punto di vista sociologico. Il capitalismo fordista, che aveva bisogno di corpi viventi da bruciare nella produzione – il lavoro vivo di Marx – trovava il suo limite, anche perché le lotte operaie degli anni ’60-70 lo avevano messo in grave crisi. Cominciava a farsi strada l’idea di deindustrializzare l’occidente intero. Che fanno infatti i quattro maschi protagonisti del film? Se continuano a nutrirsi di corpi moriranno, ma se non lo fanno moriranno lo stesso perché ne hanno bisogno. Esaurita questa parte del film c’è tuttavia un altro elemento vistoso che, scevro degli aspetti più paradossali e scandalistici, s’impone a distanza di anni in modo ancor più potente. I quattro maschi, con i loro nomi veri (Ugo per Tognazzi, Marcello per Mastroianni, Philippe per Noiret e Michel per Piccoli), rappresentano in modo paradossale la crisi di tutto un mondo maschile che non è solo quello della commedia all’italiana, ma qualcosa di più. Infatti, da quel film in poi il cinema di Ferreri andrà in una direzione diversa.

La crisi del maschile

L’ultima donna del 1975 e Ciao maschio del 1978, magistralmente interpretati fra gli altri da Gérard Depardieu e Ornella Muti, sono i due più importanti. Sono passati solo due anni dalla Grande abbuffata ma è già cambiato quasi tutto. Il protagonista maschile del primo film è un ingegnere cassintegrato: un uomo in crisi prima di tutto da un punto di vista sociale. Lasciato dalla moglie vive con il figlio ancora piccolo. Conosce Valeria con la quale ha una storia che finisce nel nulla come tutte le altre. Alla fine, incapace di reggere le relazioni, non solo quelle sentimentali, si taglia il pene con un coltello elettrico.

Il secondo, del 1978, è dal punto di vista sociale ancora più disgregato. Il protagonista maschile non ha un vero lavoro, ne fa molti fra cui anche il cuoco tuttofare per una compagnia teatrale femminista e ogni tanto fa il volontario presso un gruppo di anziani. Tutti i protagonisti del film tranne il collettivo di teatranti femministe, sono figure evanescenti, soggetti di una disgregazione di cui oggi conosciamo tutte le tappe. La sceneggiatura riflette a sua volta tale venir meno dei vincoli sociali, perché si tratta di un film a scene ed episodi, ciascuno con una sua autonomia e senza alcun nesso con gli altri. La parte che si impresse nella memoria di tutti e che fece come sempre scandalo fu la scelta del protagonista di adottare come figlio una scimmia, pur di riaffermare il proprio predominio maschile.    

Gli ultimi film

Ne cito tre. I primi due, fin dai titoli, mettono ancor più l’accento sulla crisi del maschile, ma spostano l’attenzione del regista sul femminile: infatti Il futuro è donna del 1984, fu scritto in collaborazione con Dacia Maraini e Piera degli Esposti e affronta il tema della violenza sessuale maschile. Il secondo, I Love you, è un film sull’incertezza maschile, la difficoltà di decidere; in definitiva la sua fragilità. Tuttavia è nel terzo dove secondo me Ferreri riesce a completare il suo percorso d’autore e anche a uscire dalle sue personali ossessioni: Nitrato d’argento del 1996, girato un anno prima della morte. Il titolo richiama la composizione chimica delle vecchie pellicole, dunque alla loro alchimia e a quella del cinema. Il film documentario, infatti, ripercorre la storia della cinematografia a partire dal muto,  ma è anche una dichiarazione d’amore per il pubblico del cinema, per la sala piena ed eterogenea, dove i gusti e le classi sociali si mescolano: il cinema fu ed è ancora il trionfo della cultura di massa. Infine, il film è anche il suo congedo da un’arte la cui tecnologia stava rapidamente cambiando. Nitrato d’argento, se lo si confronta a tutti suoi film precedenti, possiede la serenità di fondo di una riconciliazione con il mondo. Ne ricordo in particolare una scena assai originale. Nel passaggio dal sonoro al muto in una sala da vecchio cinema, una donna vistosamente incinta segue la pellicola evidentemente comica ridendo come tutti, ma la sua risata è contagiosa ha qualcosa di più. Fino a che con una mossa che contraddice le regole della recitazione lei guarda nella macchina da presa e si rivolge a noi che vediamo il film e dice cosa c’è di meglio di venire al mondo ridendo. Le parole pronunciate riecheggiano un famoso slogan anarchico, ma mettendole in bocca a una donna che sta per partorire ma che è al tempo stesso lontana dal cliché del materno per come si presenta nella scena, Ferreri cambia di nuovo la prospettiva.

Per concludere

Marco Ferreri non fu un uomo e un regista delle sintesi: troppo anarchico e troppo milanese per esserlo. Tuttavia, nei suoi paradossi più estremi sapeva afferrare un lembo di realtà decisivo per capire un mondo, mettere a fuoco un problema: fin dai suoi inizi – penso per esempio a un film come L’ape regina. Si divertiva anche a prendere in giro un certa presunzione illuministica francese: il personaggio maschile di Ciao maschio si chiama LaFayette. Il suo linguaggio cinematografico fu sempre modernissimo, negli ultimi film la rinuncia programmatica a una narrazione lineare era in sintonia come pochi altri con le trasformazioni del linguaggio cinematografico e teatrale. Spesso straniante, era capace di intuizioni che andavano in profondo a una certa tematica e solo in quella. Credo che nella parte finale della sua vita pensasse che il cinema come lui lo aveva conosciuto e praticato stava per entrare in una grave crisi. Non aveva tutti i torti a pensarlo allora, ma a distanza di decenni e ricordando alcuni autori perlopiù europei e di altri continenti, credo si sbagliasse e che il cinema e anche il teatro godano di buona salute; anzi, pensando all’Italia, il confronto con il mondo letterario, per esempio, è quasi sempre a favore del primo.  Registi come Bellocchio, Moretti, Salvatores, Virzì, Cristina Comencini, Rohrwacher hanno degnamente rinnovato la tradizione del grande cinema italiano. Se dal linguaggio filmico torniamo allo sguardo che le arti hanno sulla realtà, Ferreri fu  fra i primi a capire che era successo qualcosa nel mondo delle relazioni fra i generi e infatti c’era stato il femminismo. Il regista ne fu interrogato, molto più di altri. Il primo romanzo scritto da un uomo che è riuscito felicemente a cimentarsi con le trasformazioni e le problematiche poste dal femminismo è il recente La scuola cattolica di Edoardo Albinati.

 

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FRANZ FANON

Introduzione.

Anni fa, la Società di Psicoanalisi Critica decise di tenere un seminario su Franz Fanon, sia rivolto alla sua opera di psichiatra, sia al suo ruolo di intellettuale attivo nella lotta anticoloniale. A me fu chiesto un contributo su questo secondo aspetto. Ripropongo la riflessione con qualche modifica visto che nel caso specifico si trattava di un intervento orale, sia perché ritengo che l’opera di Fanon sia oggi ancora più attuale. 

Una generazione nuova

L’intellettuale antillano fa parte di un nutrito gruppo di militanti e leader politici provenienti in molti casi, da quello che negli anni ’60 si definiva da noi Terzo Mondo: Gunter Frank, Samir Amin, Franz Fanon, il Che, Ho Chi Minh, Angela Davis, Malcolm X, Leopold Sedar Senghor, Steve Biko, Stokely Carmichael, Bobby Seale e Nelson Mandela. Essi furono prima di tutto i protagonisti delle lotte di liberazione e decolonizzazione in tutti i continenti, nonché delle battaglie civili dei neri statunitensi. Quello che forse non si aspettavano neppure loro fu la consonanza che la loro opera trovò nelle lotte, negli ideali e nelle aspettative della gioventù che, più o meno negli stessi anni, metteva in discussione l’assetto capitalistico e autoritario delle società occidentali.

Fu la prima generazione di intellettuali globali, di tutti i colori e appartenenze geografiche perlopiù non europee (anche se alcuni di loro avevano studiato in Europa), che ha avuto un ruolo e un’influenza a livello mondiale. In precedenza, non erano mancati leader di prestigio di altri continenti (Gandhi e Mao, per esempio o Du Bois nei primi decenni del ventesimo secolo) che esercitavano un fascino anche a Occidente, oppure come nel caso di Du Bois una grande influenza negli Usa nei confronti della popolazione nera; ma non era mai accaduta una globalizzazione così vasta e positiva, che trovasse un ascolto e interlocutori che ne colsero subito l’importanza e non solo una fascinazione superficiale.

L’opera più conosciuta di Fanon, I dannati della terra, fu concepita come un manifesto per la lotta anti coloniale e venne pubblicata nel 1961 da François Maspero, con la prefazione di Jean Paul Sartre. Nel libro Fanon analizza il ruolo di classe, razza e violenza nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale dei popoli africani e non solo, auspica l’avvento di un nuovo modello mondiale, totalmente svincolato dai modelli politico-sociali precedenti, realizzabile tramite una rivoluzione globale (c’è un richiamo evidente con il trotzkismo) che innanzitutto formi una classe sociale svincolata dall’influenza e dai “benefici” degli imperialisti. Quali sono i cardini portanti del suo pensiero? Oltre che al suo libro più noto farò riferimento anche a una raccolta di saggi ripubblicata alcuni anni fa da Ombre corte e che raccoglie i suoi scritti sulla psichiatria coloniale.

Prima questione. Ne I dannati della terra Fanon ha un approccio alle lotte di liberazione che tiene insieme questioni di classe e razza. Si affaccia per la prima volta nel pensiero di un rivoluzionario radicale, l’idea di una visione non soltanto classista del problema dell’oppressione e dello sfruttamento imperialista. Inoltre, Fanon riteneva che il movimento operaio dei paesi occidentali avesse perso la sua forza radicale di trasformazione e fosse sostanzialmente integrato nel sistema coloniale. Questa fu una delle ragioni per cui il suo pensiero fu osteggiato, oppure accolto in modo paternalistico, da tutta la sinistra istituzionale e segnò un primo momento di rottura che avrebbe avuto delle conseguenze molto profonde, anche perché trovò ascolto in significative minoranze che avrebbero esercitato una grande influenza sulla nascita dei movimenti di contestazione nel cuore delle metropoli occidentali. Il testo, infatti, ebbe adesioni entusiaste da parte di Sartre e Simone de Beauvoir, in Italia da Giovanni Pirelli e sempre a Parigi da parte del gruppo di intellettuali che diedero vita alla rivista Partisans.  

Seconda questione: la lingua. Per Fanon essa non è un riflesso sovra strutturale e genericamente culturale, ma una struttura che fonda l’identità e dunque assume un ruolo importante nella formazione della coscienza e della consapevolezza individuali: esprimersi in una lingua (il francese nel suo caso) non significa  semplicemente usare un mezzo, ma introiettare una cultura, che nel caso in questione in particolare in quegli anni, comprendeva l’identificazione del nero come simbolo del male. Questi valori della cultura dominante, quando vengono assimilati e interiorizzati, creano una frattura fra la coscienza, la consapevolezza dell’uomo di colore e il suo corpo e ciò produce alienazione. Le stesse categorie di bianco e nero sono inscritte in un contesto che non è affatto neutro, ma basato sulla negazione del nero, quindi su una forma di razzismo che può essere più o meno esplicito, ma che esiste sotto traccia anche quando non è dichiarato. Fanon fu fortemente criticato nei gender studies e nella ricerca femminista di studi postcoloniali per la sua convinzione che le donne nere fossero un supporto alla colonizzazione, alla cui oppressione Fanon non dedicò altrettanta lungimiranza quanto nei aveva dedicata invece alla oppressione dell’uomo nero, tuttavia non si può negare che gli stessi studi post coloniali in senso lato, siano assai debitori alla sua analisi e al suo pensiero. Dobbiamo poi considerare che Fanon è morto giovanissimo (34 anni), nel pieno di una evoluzione ancora in atto del suo pensiero. La studiosa femminista Judith Butler nel testo Questioni di genere, riconosce l’importanza del suo pensiero anche per il femminismo. Citando l’opera di Fanon  Pelle nera e maschere bianche, afferma Butler:

L’ideale normativo del corpo come situazione e al tempo stesso come strumento, viene accolto sia da de Beauvoir per quanto riguarda il genere, sia da Franz Fanon per quanto riguarda la razza …

 concludendo che il corpo in quanto tale diventa strumento di libertà. 

Terza questione. Cito una frase lapidaria di Fanon stesso:

Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui.

Sta parlando della psichiatria francese di quegli anni, ma un’affermazione come questa anticipa un altro dei temi forti del ’68 europeo e cioè la non neutralità delle scienze e delle loro procedure, in particolare quelle delle scienze umane. In questo senso, la sua opera di medico e psichiatra non può essere separata dalla sua attività politica ma costituisce l’altra faccia del suo impegno. Pensando all’Italia di quegli vengono in mente tre figure che fecero qualcosa di analogo: Giulio Maccaccaro, Laura Conti ed Ercole Ferrario, uomini e donne che hanno aperto la stagione di riviste e ricerche su scienza e politica. 

L’attualità di Fanon

Il titolo del suo libro più famoso, dopo oltre 60 anni dalla sua pubblicazione appare addirittura profetico. I dannati e le dannate della terra sono aumentati, anche se i processi non sono univoci. Il fenomeno che neppure Fanon avrebbe forse  previsto è  un altro e ci porta alla seconda ragione della sua attualità. I dannati e le dannate della terra tornano a esistere anche nel mondo che egli avrebbe definito bianco: la generazione dei devastati dalle droghe, dei precari a vita senza futuro, è oggi presente nelle metropoli occidentali ed è sempre meno composta solo da extracomunitari che vengono qui perché noi li abbiamo invasi, o perché fuggono dalle guerre provocate dall’occidente, ma anche di popolazione locale autoctona.

Terzo aspetto. Dall’America latina e da tutto l’arcipelago del femminismo intersezionale ci viene il monito che un approccio solo classista ai problemi odierni è più che limitativo, anzi va radicalmente superato: sia perché non tiene conto delle questioni di genere, sia perché non considera la questione dei popoli originari della terra e delle loro culture come altrettanto fondante. La considerazione di Fanon trova nello sviluppo dei movimenti in America Latina una puntuale conferma; non tanto (o non solo) perché abbiano trovato una ispirazione diretta nel suo pensiero, ma perché è vistosa ed evidente la presenza dell’elemento indigeno nei movimenti che si sviluppano in tutto il continente.

Il quarto e ultimo aspetto riguarda la non neutralità delle scienze, un tema che oggi torna di drammatica attualità con i cambiamenti climatici e la siccità provocati dall’economia fossile e non solo. Questo problema ha un duplice aspetto. Da un lato la battaglia per considerare la scienza non neutrale è stata una delle più efficaci degli anni ’60-80, tanto che sono proprio gli scienziati in prima linea nel denunciare i pericoli cui andiamo incontro come umanità e sono stati proprio loro a far crescere la consapevolezza oggi presente nelle nuove generazioni di tutto il mondo.  Questo però avviene nel deserto della politica, nella sua totale abdicazione rispetto a questo come ad altri problemi, primo fra tutti il ritorno della guerra come strumento per risolvere i conflitti.

Per concludere

Nel mondo in rivolta di oggi, che in troppi a sinistra fanno finta di non vedere per paura e per vergogna, le questioni che si pongono sono ancora più radicali che non negli anni ’60, prima di tutto perché appare sempre più evidente la connessione fra i diversi tipi di oppressione che si manifestano a tutte le latitudini. Se infatti un nero africano degli anni ’60 poteva pensare che la sua oppressione dipendesse solo dal vecchio colonialismo e un operaio bianco europeo poteva affidare le proprie speranze a un welfare che ancora reggeva grazie alle lotte e a un sindacato almeno apprezzabile, oggi nessuno può farsi più delle illusioni. I margini di manovra sono stati erosi, anche se il panorama non è univoco e le rivolte nascono e rinascono in continuazione e dappertutto. In America Latina è in atto una seconda ondata che si estrinseca in una originale relazione fra movimenti, governi e organismi di cooperazione economica: la stessa esistenza del Brics e nonostante il freno costituito dalla presidenza Bolsonaro fortunatamente rovesciata, il ruolo sempre più marcato che esso ha sullo scenario mondiale, è il segno che non ci sono soltanto processi di neocolonialismo in atto, ma che il panorama è molto più sfaccettato e che, strategicamente, l’occidente capitalistico ha meno potere di quanto ne avesse negli ’60 e per questo reagisce convulsamente con l’unica arma che possiede: quella della supremazia militare, della guerra ortodossa e non, della creazione di fasce del caos ovunque. In Francia, la seconda ondata di lotte dopo quelle dei gilets jaune non avanza più solo rivendicazioni economiche ma chiede un cambio di regime politico e dimostra che anche in Europa è possibile la ripresa delle lotte.   

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DIARIO DEL NORD

Questo racconto di viaggio fu pubblicato sulla rivista Manocomete, l’anno è il 1993, successivo al colpo di stato che causò la fine di Gorbaciov e dell’Unione Sovietica: il nord cui si riferisce il titolo sono in realtà i confini fra Germania e Polonia.  

Angermunde è una cittadina anonima, a metà strada fra Berlino e il confine  polacco.   La  pensione Eschert  è  gestita  dalla  signora Eschert,  vedova.  

“Morgen  ich  gehe  zu  Sceczin”,  pronuncio alla  ‘polacca’. 

La  signora  mi  sta  facendo il  letto,  alza  il  capo bruscamente interrompendosi:  “Stettin,  Stettin, mi corregge alzando la  voce: 

“Stettin ist Deutschland, meine Mutter uber Oder” vive  di là, è nata di là anche lei e  “di  là…”

È  sabato pomeriggio, i giovani sono in giro: difficile capire  come sono fatti, ma non mi sembrano revanscisti  come la signora Eschert.

Schwedt  è  una  tipica   cittadina  dell’ex  DDR:  piste  ciclabili bellissime, ampi spazi verdi. Eppure l’immagine globale è dimessa e malinconica. Poi improvvisamente,  da  dietro  un angolo, sbuca la guglia di una cattedrale in stile lubecchese, in mattoni rosso scuro. L’unico segno di accoglienza, a parte gli uffici turistici chiusi è questo richiamo religioso.  Mi aggiro per  le stradine intorno alla chiesa finché  sbuco in una strada più larga; guardando  verso  sinistra mi sembra di scorgere  un  ponte … Mi  era rassegnato a non vederlo, poi  me  ne  ero  quasi dimenticato; l’Oder invece  passa  proprio ai limiti estremi di Schwedt.  Il fiume, come la Neisse che scorre più a sud o l’Elba, ha diviso  popoli  e  famiglie, lavato nell’acqua  strisce  dolorose  di sangue; scorre davanti  a  me  silenzioso,  avvolto  in  una  sottile nebbiolina.   Sul ponte passano molte automobili, povere e  scassate: sono i polacchi che vengono a lavorare in Germania. C’è qualcosa   di  cupo,  un’atmosfera  inquietante  che   mi   è emotivamente nota; è un’aria che  respiravo  da ragazzo, un misto di provincia nord milanese, primi anni 60 e dignitosa povertà.

Domani andrò a Stettino, nonostante le voci di veri e propri assalti ai treni per derubare chi viaggia. Il  treno  parte alle 8.20, arrivo in stazione alle 8, così  almeno credo; ma è  tornata  l’ora  solare,  sono  le  sette. Entro nello scomodissimo supermercato/bar.  Dentro, oltre alla commessa, ci  sono due uomini ed una donna  dallo  sguardo  vuoto  ed i vestiti dimessi; siedono  vicino alla finestra e si dividono una bottiglia  di  birra. Il cielo è grigissimo; la notte  ha  piovuto e a letto, al caldo, ho provato una sensazione piacevolissima da tempo dimenticata:  sentirsi protetti e al sicuro. Perché proprio qui? È un pensiero che si muove  come  un tarlo nella mente, accentuato dalla sosta forzata  e nonostante il disturbo dei  tre  che  si  fa  più pesante; sono già ubriachi. Sentirsi al sicuro in una casa tedesca dal tetto spiovente e dai balconi che sembrano uscire dall’illustrazione di una favola dei  Fratelli Grimm. Sarà la nostalgia di questa tana  calda a far sì che i tedeschi siano spesso così allarmati ed insicuri verso chi è fuori ed estraneo? Ma perché io straniero ho avvertito la stessa sensazione di calore  e  protezione?  Esiste  allora uno spirito del luogo che, come un fato antico, modella l’inconscio collettivo?

Mi aggiro per i vagoni e mi imbatto in un ragazzo alto e magro, dagli occhi gentili, biondo ma  non  tedesco.  È  polacco,  dico fra me e decido  subito di stare lì. 

“Es ist frei” mi dice indicando  cinque sedili vuoti. 

Se avesse gli  occhi  un  po’ più azzurri e spiritati assomiglierebbe  all’attore preferito da Waida.  Invece i  suoi  sono marrone chiaro, espressivi ma non  esagerati. 

“Ich arbeit in Berlin.”

 “Zurück?”

“Ya zurück meine familie ist in Polen”

“Stettin?”

“Nicht in  Sceczin” mi corregge con  un  sorriso  dolce  e senza acrimonia.

“Mein stadt”  e  poi  aggiunge  qualcosa che non  capisco.  

“Ich  gehe  zu Sceczin”  gli rispondo.

“Ich arbeit in Berlin.

“Keine arbeit in Polen?”

“Keine, keine” e scuote la testa  sconsolato  “Arbeit  problema  in  Polen “

“Arbeit problema in Italien “

“Bist du Italienisch?”

“Ya ich bin ein Italienisch”

Sono in  sei in famiglia e tre hanno  perso  il  lavoro. 

“In Berlin geld zwei monate”  mi fa il segno dei soldi con le dita “In Polen sechs monate”

“Was ist deine arbeit?” fa il verniciatore di auto in un garage ed è contento.  Abita a 500 chilometri da Stettino e torna per due  giorni in permesso.  La frontiera è  vicina, il ragazzo ha il passaporto in mano:  “Ich  bin 21” jungen mensch.

“Warum keine arbeit in Polen?”

“Lech  Walesa” mi dice decisissimo; è la  prima  volta  che  lo vedo animarsi nello sguardo e nella voce.  Io faccio segni di assenso con il capo “Walesa fahrt” continua lui “America, England, Geld Geld fur Polen, aber kein Geld fur Polen”

Penso fra me che non abbiamo ancora parlato del papa e lui 

“Papst  Polen  Papst” 

“Bist  du  Catolisch?” 

“Ya  ich bin Catolisch” 

“Walesa  ist Catolisch” butto lì  con  malignità e  lui scrolla le  spalle,  poi  mi  indica  la  penna  nel  taschino con il ritratto  di  Wojtila “Grosse, grosse” e si mette a ridere,  come  a dire “era solo un distintivo e basta”  Il viaggio è quasi finito, il treno è fermo, sta arrivando il controllo passaporti “Habst du  ein Polsch passeporte gesehen?”

“No.” 

Me lo mostra orgoglioso. Stettino Glowny, ciao amico.

La stazione è grigia e sporca; l’Odra le scorre davanti ed il mare è a poche miglia, ma il porto mi sembra inattivo. La ragazza dell’informazione turistica parla solo polacco, mi prende una piccola crisi di sconforto. Mi avvio all’edicola e compero una cartina  della città; lì ritrovo il mio amico. È disperato. Il treno era in ritardo e non ce  ne  eravamo  accorti; lui ha perso il suo.   

“Quando è il prossimo accidenti? 

Scuote il capo sconsolato e non mi risponde; forse non riuscirà nemmeno ad arrivare. 

“Wait, ich gehen zu wechsel und kommen zurüück.”

Torno, ma lui non c’è più e che altro avrei potuto dirgli e fare poi?

Una  tazza di te costa 7.500 sloti, il listino ufficiale però  porta scritto 5.000, mentre il nuovo prezzo è segnato a mano su un foglio. Mi  ricordo improvvisamente dell’ultima vacanza in Jugoslavia, quando i prezzi cambiavano  tutti  i  giorni  ma  le  correzioni sul listino ufficiale erano settimanali:due anni dopo la guerra.

Quella  del   cambiavalute   sembra   essere   l’attività  economica principale  della città, oltre al commercio minuto.  Ne  ho  contati sei nelle adiacenze dell’albergo.  Fuori hanno insegne luminosissime, molto  simili  ai  richiami  dei locali  porno.   Anche i  nomi  sono esotici: Kantor,  Lombard  e  solo  alcuni  portano  la  scritta più tradizionale   –  Wechsel  o  Change  –  in  piccolo.    Lombard   mi incuriosisce;  è  un  omaggio  agli   italiani,  primi  banchieri  e cambiavalute?  Anche nella City di Londra c’è una Lombard Street. ll gran numero di cambi indica che il commercio clandestino di valuta è stato  legalizzato. Quest’ovvia  considerazione, tuttavia, non esaurisce il problema.  Il primo dato che mi balza all’occhio è che sono sempre pieni di polacchi e non di turisti. Ne ho visti più di uno entrare, cambiare e poi recarsi subito nel negozio a fianco a fare la spesa. Era lo stipendio mensile dunque quello che finiva al cambiavalute e poi subito nelle tasche del dettagliante. Molti di questi  saranno  lavoratori  in  Germania  ma  il  numero  mi  sembra eccessivo;  avranno anche delle riserve di valuta pregiata ma non  mi è allora chiaro come se la siano procurata. Il giro d’affari è consistente e coloro che rastrellano la valuta non saranno,  nel giro di qualche anno, dei ricchi qualunque;  tutti insieme costituiranno una lobby potente, in grado di gestire capitali consistenti.  Per  farne che? E chi sono poi  questi  percettori  di valuta pregiata?  Nuovi ceti  rampanti polacchi in cerca di posizioni preminenti?  E quali conseguenze politiche avrà questo traffico?

Per cenare scelgo il King, un ristorante del centro. Il locale è discretamente affollato.   I  due  seduti  alla  mia  destra  parlano inglese  e vestono in modo simmetrico: uno indossa una camicia  color latte ed un paio di  pantaloni rosso/ciclamino,  mentre  il  secondo veste  gli  stessi  capi a colori  invertiti. Entrambi  portano  un foulard di seta nel collo della camicia. Le coppie irregolari  si  muovono  fuori  stagione,  seguono percorsi imprevedibili, s’aggirano raminghe per rotte periferiche, cercano nei luoghi  meno  romantici  la  libertà  del  loro anonimato  e di una silenziosa  ed  intima trasgressione.

La  birra che ieri costava 20.000 sloti questa sera ne costa  17.000; naturalmente il bar è lo stesso, però è cambiato il cameriere.

Non è tardi ma c’è poca gente in giro; intorno ai cambiavalute c’è un andirivieni continuo È un’atmosfera strana che non  mi  piace. Poi dal fondo  della  strada  vedo  sbucare  un  bassotto  seguito da quattro persone: padre, madre e due ragazzi dell’età dei miei figli. I cani ed i  loro  padroni  ispirano  ovunque  un  senso di fiducia e sicurezza.  Alzo la testa e ne vedo altri in giro, alcuni liberi altri al guinzaglio. È anche qui  l’ora dell’ultimo passeggio come qualcuno  starà  facendo  a Milano con  Laika. Padroni e cani si assomigliano ovunque e i primi  potrebbero capirsi a volo in qualunque lingua per il solo fatto di condividere questa esperienza. Chissà che alla fine  siano  i  padroni  di  cani  gli  unici  a capirsi e a dialogare, chissà che seguendo l’animale (perché è il padrone  che segue il suo cane) non diventi  trasparente la buffa comunanza che ci fa tutti uguali davanti al nostro cane.

Di  fianco all’albergo c’è un saldo. Mentre passo mi sento chiamare da una voce  femminile; penso alla solita commessa che invita i clienti a entrare, sorrido e scuoto la testa.  Lei però  continua, mi rivolge qualche  parola  in  polacco  e  il  tono della voce mi fa sobbalzare perché sembra un richiamo disperato.  Mi volto sorpreso. Non è una commessa. È una  ragazza  bionda,  appoggiata alla porta  del  negozio; a terra c’è il sacchetto della spesa. Ci guardiamo, lei continua a parlare, tento di rispondere in inglese, ma lei scuote il  capo “ne’, ne”.  Provo in tedesco; niente. In quel momento vedo le stampelle addossate al muro e comincio a capire. Mi avvicino e lei  sorride,  tira un sospiro di sollievo  “please,  please”  “Help” “Help, help” è quasi un  grido.   Vedo le sue gambe torte, il busto diritto, le ginocchia retroflesse il viso biondo e gentile, la parte bassa del suo corpo deturpata. Credo sia distrofica o peggio; vuole attraversare la strada. Le do il  braccio e ci avviamo fermando il traffico. Arriviamo di là ma non posso lasciarla perché cadrebbe. Dobbiamo raggiungere il muro e sono  altri  venti metri di strada, durante  i  quali  per la testa mi passa di tutto: perché  non  è assistita? Perché è uscita proprio lei a fare la spesa? Quanti anni ha, dove abita?  Cosa farà domani?  “Taxi” forse l’ho gridato per un desiderio di restare ancora un  poco con lei, sorride ma nega con il capo. 

“Ma non puoi andare così dove abiti, help polski help polski, mi guardo  attorno  ma  nessuno  mi  sembra  rassicurante…

“ne help polski, ne help polski, polski…” e qui si interrompe ma il gesto è inequivocabile; sputa per terra. I polacchi non ti aiutano e scuote la testa  sconsolatamente, continuando a ripetere  “ne help polski, ne help polski”. Arriviamo  al  muro, ci guardiamo, ha gli occhi  lucidi  ma sorride; è più tranquilla e mi indica  che posso andare.  Poi con la mano sulle labbra mi manda un piccolo bacio e cerca   di  stringermi  la  mano;  barcolla  di  nuovo e  mi  tocca sorreggerla. Poi l’accarezzo sul viso e mi volto di scatto. Vado via, mi è passata la voglia di fare qualsiasi cosa; entro in albergo ritiro il bagaglio e vado alla stazione.

Bad Saarow Pieskov, e’ una localita’ termale su un lago, un  gioiello dell’ex DDR, famoso dagli anni 20 e visitato da artisti e poeti; c’è la casa di Gorki che trascorse qui un lungo periodo di cura. Di  fianco all’ostello c’è una ex caserma sovietica in  disarmo. I bambini ci entrano per giocare, passando da un buco della rete metallica  e  mentre se ne stanno lì ecco che arriva  un  camion  di soldati, entra e  non  li  guarda  neppure.

La  stazione di Bad Saarov è surreale: un capanno di legno in aperta campagna, ermeticamente chiuso. Quando arrivo c’è un uomo con due borse. Fa freddo, cominciamo a guardarci, mi avvicino. Non mi  ero sbagliato: le borse sono piene di  funghi.  L’uomo comincia a parlare rapidamente, con brevi pause ogni tanto.  I temi sono i soliti:  non c’è  lavoro,  prima  non   potevamo   muoverci,  adesso  abbiamo  il

passaporto  ma ci mancano i soldi per andare dove vogliamo.  Esaurite le lamentele  comincia  la  seconda  parte  del  discorso: i polacchi stanno  peggio di noi, anche la lira non va bene, il marco invece  è  pesante.  Tira  fuori   di   tasca   alcune   monete   e  le  guarda orgogliosamente. Arriva davvero il  treno:  incredibile!  È  un convoglio pendolare, pieno di operai  e studenti.  Sulla mia carrozza c’è  una  colonia di bambini delle scuole elementari che  tornano  a Berlino dopo aver trascorso due  settimane  di  ‘scuola natura’ a Bad Saarov.   Cantano  a  squarciagola “Il gallo e’ morto”  in  tutte  le lingue, come si conviene.  Sono  incantato dalle pronunce esatte, da tono,  dall’entusiasmo  che  ci  mettono; i  passeggeri  sorridono  e sopportano benissimo il chiasso, le maestre non fanno una piega.

Eltsin bombarda il Parlamento, i  giornali  titolano  a nove colonne alla porta di Brandeburgo la gente discute animatamente.  Mi avvicino ed il ritornello dei discorsi è  martellante:  “I russi torneranno!”

Alla Marienkirche c’e’ una manifestazione di piazza; sono abitanti del Kreuzberg che protestano  contro  i  progetti speculativi a danno del  quartiere  un  tempo  gioiello di  Berlino  ovest,  regno  della trasgressione e delle libertà  occidentali:  case occupate, cultura, circoli,  una  vivacità  intellettuale  degna  della  Repubblica  di Weimar.  Signori si chiude! Il gioco è finito; caduto il muro la costosa vetrina è stata dismessa, i locali chiusi, le occupazioni smantellate, l’area ripulita dagli extracomunitari. Si è liberi in relazione ad una possibile alternativa, ma non nell’unicum esistente. Ritorno  all’ostello  di  Kluckstrasse, il  treno  parte  alle nove.

Rifaccio sull’autobus 129 il percorso che porta alla stazione dello zoo. Ku’Damm è piena di luce: domani è sabato.

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FESTIVAL DELLA LETTERATURA WORkING CLASS

Insorgiamo con i lavoratori GKN

  · 

✊ Rompiamo l’assedio, una spallata dopo l’altra e raccontiamola noi questa storia!

Ultimi preparativi per ospitare al presidio ex-GKN il 𝗽𝗿𝗶𝗺𝗼 𝗳𝗲𝘀𝘁𝗶𝘃𝗮𝗹 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲 𝗱𝗶 𝗹𝗲𝘁𝘁𝗲𝗿𝗮𝘁𝘂𝗿𝗮 𝘄𝗼𝗿𝗸𝗶𝗻𝗴 𝗰𝗹𝗮𝘀𝘀 𝗶𝗻 𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮: incontri con autori e autrici da tutta Europa e tanti tanti eventi culturali, tra cui una 𝗺𝗼𝘀𝘁𝗿𝗮 𝗱’𝗮𝗿𝘁𝗲 𝗲 𝗱𝗶 𝗳𝗼𝘁𝗼𝗴𝗿𝗮𝗳𝗶𝗮 che rimarrà per tutta la durata del festival.

La giornata di 𝘀𝗮𝗯𝗮𝘁𝗼 𝟭 𝗮𝗽𝗿𝗶𝗹𝗲 si chiuderà con un concerto di Iena, Tamburini di Batucada Agogo e dj Muffa.

Tutto il programma nell’evento👇

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LA PASSEGGIATA

Aldo Palazzeschi ha attraversato molte correnti e poetiche, ma senza davvero appartenere a nessuna. Si potrebbe obiettare che ciò è sempre vero per i grandi autori, ma nel suo caso occorre forse aggiungere qualcosa di più e cioè la sua particolare forma di generosità. A differenza di altri artisti che hanno semplicemente occupato un territorio letterario, Palazzeschi è stato uno Zelig che ha impreziosito tutti gli abiti e le maschere che ha indossato in un certo momento e lo stesso futurismo italiano, senza di lui, sarebbe misera cosa, almeno per ciò che riguarda la poesia. Questo breve intervento, tuttavia, è limitato a un solo testo del poeta, emblematico quanto mai e in contro tendenza rispetto alla vulgata che vuole ridurre Palazzeschi al lasciatemi divertire o agli aspetti più scherzosi della sua poesia. Il testo in questione è La Passeggiata, scritta nel 1913, che riporto qui di seguito:

Andiamo?

Andiamo pure.

All’arte del ricamo,

fabbrica passamanerie,
ordinazioni, forniture.
Sorelle Purtarè.
Alla città di Parigi.
Modes, nouveautè
Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell’anno 1843.
avviso importante alle signore !
La beltà del viso,
seno d’avorio,
pelle di velluto.
Grandi tumulti a Montecitorio.
Il presidente pronunciò fiere parole.
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano di Turchia ti aspetta.
La pasticca di Re Sole.
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Orologeria di precisione.
93
Lotteria del milione.
Antica trattoria “La pace”,
con giardino,
fiaschetteria,
mescita di vino.
Loffredo e Rondinella
primaria casa di stoffe,
panni, lane e flanella.
Oggetti d’arte,
quadri, antichità,

26
26 A.
Corso Napoleone Bonaparte.
Cartoleria del progresso.
Si cercano abili lavoranti sarte.
Anemia!
Fallimento!
Grande liquidazione!
Ribassi del 90%
Libero ingresso.
Hotel Risorgimento
e d’Ungheria.
Lastrucci e Garfagnoni,
impianti moderni di riscaldamento:
caloriferi, termosifoni.
Via Fratelli Bandiera
già via del Crocefisso.
Saldo
fine stagione,
prezzo fisso.
Occasione, occasione!
Diodato Postiglione
scatole per tutti gli usi di cartone.
Inaudita crudeltà!
Cioccolato Talmone.
Il più ricercato biscotto.
Duretto e Tenerini
via della Carità.
2. 17. 40. 25. 88.
Cinematografo Splendor,
il ventre di Berlino,
viaggio nel Giappone,
l’onomastico di Stefanino.
Attrazione! Attrazione!
Cerotto Manganello,
infallibile contro i reumatismi,
l’ultima scoperta della scienza !
L’Addolorata al Fiumicello,
associazione di beneficenza.
Luigi Cacace
deposito di lampadine.
Legna, carbone, brace,
segatura,
grandi e piccole fascine,
fascinotte,
forme, pine.
Professor Nicola Frescura:
state all’erta giovinotti!
Camicie su misura.
Fratelli Buffi,
lubrificanti per macchine e stantuffi.
Il mondo in miniatura.
Lavanderia,
Fumista,
Tipografia,
Parrucchiere,
Fioraio,
Libreria,
Modista.
Elettricità e cancelleria.
L’amor patrio
antico caffè.
Affittasi quartiere,
rivolgersi al portiere
dalle 2 alle 3.
Adamo Sensi
studio d’avvocato,
dottoressa in medicina
primo piano,
Antico forno,
Rosticcere e friggitore.
Utensili per cucina,
Ferrarecce.
Mesticatore.
Teatro Comunale
Manon di Massenet,
gran serata in onore
di Michelina Proches.
Politeama Manzoni,
il teatro dei cani,
ultima matinée.
Si fanno riparazioni in caloches.
Cordonnier.
Deposito di legnami.
Teatro Goldoni
i figli di nessuno,
serata popolare.
Tutti dai fratelli Bocconi !
Non ve la lasciate scappare !
29
31
Bar la stella polare.
Assunta Chiodaroli
levatrice,
Parisina Sudori
rammendatrice.
L’arte di non far figlioli.
Gabriele Pagnotta
strumenti musicali.
Narciso Gonfalone
tessuti di seta e di cotone.
Ulderigo Bizzarro
fabbricante di confetti per nozze.
Giacinto Pupi,
tinozze e semicupi.
Pasquale Bottega fu Pietro,
calzature…
Torniamo indietro?
Torniamo pure.

Il testo ha come altri un andamento scherzoso, ma con alcuni scostamenti decisivi che ne fanno un’opera nuova nel panorama italiano di quegli anni. Il primo sta nell’uso delle insegne pubblicitarie e del lessico conseguente come lingua di poesia. Allargare il campo della poeticità a un linguaggio come quello è ancor più significativo se si tiene conto del fatto che l’Italia di allora non presentava certamente città dal volto sfolgorante di vetrine come Parigi.

Il secondo elemento però è ancora più importante. Chi sono i protagonisti di questa passeggiata? Di loro il poeta non ci dice nulla, la loro esistenza non compare nel testo se non per quello che i loro occhi vedono, ma senza che questo susciti alcuna reazione. Fra l’andiamo pure iniziale e il torniamo pure finale non c’è nulla che li identifichi, se non la disperante condizione di ignavi moderni, che inseguono le insegne della pubblicità e oggi, mutatis mutandis, salterebbero da un’offerta pubblicitaria a un’altra, da un telefonino all’altro.

Paolo Febbraro, nel libro La tradizione di Palazzeschi, Alberto Gaffi editore, Roma 2007, dedica proprio alla poesia La Passeggiata un’ampia analisi del testo, sottolineandone proprio gli aspetti più profondamente legati alla tradizione, fino a Dante, piuttosto che quelli più legati agli ‘umori del suo tempo’.

Proprio il richiamo che Febbraro fa ne suo scritto alla tradizione mi porta a una riflessione ulteriore sul Futurismo italiano.

Ezra Pound, che di Avanguardia un po’ s’intendeva, lo giudicava:

… impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione …

e considerava ingenuo il ripudio della tradizione.1  Del resto, superata la fase di Dada, necessariamente breve come è ovvio per qualsiasi momento iconoclasta, il problema è sempre quello di quale tradizione scegliere. Il futurismo italiano scelse la guerra, la velocità e la potenza tecnologica come simboli di un’epica modernista e mise l’arte al servizio del capitale con le sue campagne pubblicitarie. In tale contesto La Passeggiata di Palazzeschi risalta a decenni di distanza come lo scherzo molto serio di un conservatore che seppe irridere anche loro. Letta oggi, quando viviamo nel doppio vincolo di consumismo del superfluo e miseria del necessario, potrebbe ricordarci che per Dante gli ignavi erano indegni persino dell’Inferno e che forse qualcosa bisogna pur fare per scuotersi di dosso l’ignavia dei tempi.  

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1 Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la Review of the great English verse conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.

WALTER BENJAMIN: STRADA A SENSO UNICO

Introduzione

Questo testo così particolare fu pubblicato nel 1928 ma scritto nel 1926, anche se alcune parti riprendono gli appunti di un viaggio attraverso la Germania compiuto da Benjamin nel 1923. L’opera è una sorta di bric-à-brac, un mix di osservazioni su cose e oggetti quotidiani, improvvise e rapide illuminazioni sugli argomenti più disparati, serie analisi cui fanno da contrappunto ironiche e bizzarre riflessioni: si avverte già in questo testo la fascinazione che i surrealisti esercitavano su Benjamin, anche se i saggi sul movimento verranno dopo. Se si pensa ad alcune opere precedenti e successive a questa, Strada a senso unico è un piccolo ma ricchissimo laboratorio di cui il filosofo si serve per riprendere, modificare, ampliare discorsi precedenti e aprirne di nuovi. L’influenza di Asja Lācis sulla genesi dell’opera, inutilmente negata decenni dopo da Adorno e Scholem, è invece del tutto evidente e tale magma è anche una traduzione in immagini di quello che Benjamin pensava di avere appreso da lei e una continuazione solitaria dell’esplorazione di Napoli che avevano fatto insieme nel 1925. Ne pubblico alcuni frammenti, con rari commenti, nella Rubrica Critica del pensiero unico perché a quasi un secolo di distanza mi sembra un testo molto attuale. L’edizione che ho scelto è quella a cura di Giulio Schiavoni, Piccola Biblioteca Einaudi, 2006 perché in essa sono presenti anche le Appendici, scritte successivamente in forma di appunti e anche per il bel saggio introduttivo di Schiavoni stesso.

Poiché l’esergo, a mio giudizio,  fa pienamente parte del testo e ne anticipa una delle caratteristiche salienti e spiazzanti, mi sembra opportuno cominciare proprio da questo:

Questa strada si chiama via Asja Lācis dal nome di colei che da ingegnere l’ha aperta dentro l’autore.

L’omaggio dietro il quale si può leggere certamente anche una dichiarazione d’amore, ha due elementi che balzano subito all’occhio: la perentorietà del dettato e quella parola – ingegnere – il cui uso può lasciare perplessi, ma che comincia a chiarirsi da subito, dal titolo sorprendente del primo fra i diversi capitoli o capitoletti di cui consiste il libro e del suo incipit, altrettanto perentorio:

STAZIONE DI SERVIZIO

La costruzione della vita dipende in questo momento assai più dai fatti che dalle convinzioni, E anzi, da un genere di fatti che quasi mai, finora, da nessuna parte, sono diventati fondamento di convinzioni … In simili circostanze una vera attività letteraria non può pretendere di svolgersi in un ambito riservato alla letteratura. Una reale efficacia della letteratura può realizzarsi solo attraverso un netto alternarsi di azione e scrittura: in volantini, opuscoli, articoli di rivista e manifesti deve plasmare quelle forme dimesse che corrispondono alla sua influenza … Solo questo linguaggio immediato si dimostra all’altezza del momento in modo attivo. Le opinioni sono per il gigantesco meccanismo della vita sociale quel che è l’olio per le macchine. Non ci si mette davanti a una turbina inondandola di lubrificante: se ne spruzza un po’ sui perni e snodi nascosti che bisogna conoscere. …

Una stazione di servizio ci introduce idealmente nel territorio di una città, ma il capitolo successivo s’intitola Stanza della prima colazione. Dalla città alla casa sembra che Benjamin stia costruendo una sorta di città o casa ideale e allora quel termine – ingegnere – ci porta in un mondo che è al tempo stesso artificiale e prefigurante  di qualcosa, come lo era per esempio per il costruttivismo sovietico in quegli anni.  

CANTIERE.

Lambiccarsi pedantescamente il cervello per creare prodotti – materiali visivi, giocattoli o libri – adatti ai bambini è sciocco. Sin dall’illuminismo è questa una delle fissazioni più stantie dei pedagoghi. La loro infatuazione per la psicologia impedisce di accorgersi che il mondo è pieno dei più incomparabili oggetti dell’attenzione e del cimento infantili. … È che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose. Si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici, o di giardinaggio, in quelli di sartoria e falegnameria. Nei prodotti di scarto, riconoscono la faccia che il mondo rivolge proprio a loro, … I bambini in tal modo si costruiscono il proprio mondo oggettuale, un piccolo mondo dentro, un piccolo mondo dentro il grande, da sé …

MINISTERO DEGLI INTERNI.

Quanto più un uomo è avverso alla tradizione, tanto più inesorabilmente assoggetterà la sua vita privata alle norme che vuole innalzare a legislatrici di un  futuro assetto sociale. È come se quelle gli imponessero di configurarle, loro che ancora non sono realtà da nessuna parte, almeno nell’ambito della sua personale esistenza. L’uomo, invece, che si sente in armonia con le più antiche tradizioni del suo ceto o del suo popolo, pone talvolta la sua vita privata in aperto contrasto con le massime di cui si fa intransigente sostenitore in pubblico e senza il minimo turbamento di coscienza. Scorge in cuor suo nel proprio contegno la riprova più convincente dell’irrefutabile autorità dei principi da lui professato. Si distinguono così i tipi politico dell’anarco-socialista e del conservatore.

XIV.

Dalle più antiche usanze dei popoli sembra giungerci come un monito a guardarci dal gesto dell’avidità nell’accogliere ciò che riceviamo con tanta ricchezza dalla natura. Perché alla madre terra,noi non siamo in condizioni di regalare niente del nostro. Per questo ci si addice mostrare rispetto nel prendere … Questo rispetto traspare nell’antica consuetudine della labatio. Anzi, è forse questa remotissima esperienza morale che si è conservata sotto altra forma nello stesso divieto di raccogliere le spighe dimenticate o di raccogliere i grappoli d’uva caduti, che devono ritornare alla terra e agli antenati dispensatori di benefici … ma se un giorno la società sotto la spinta del bisogno o della cupidigia avrà a tal punto tralignato da poter ricevere i doni della natura solo predando, da spiccare i frutti ancora acerbi per piazzarli sul mercato … allora la terra s’impoverirà e la campagna darà cattivi raccolti …

REVISORE GIURATO DEI LIBRI.

Il nostro tempo, quale antitesi per eccellenza al Rinascimento, si contrappone in particolare alla situazione in cui fu inventata la stampa … La comparsa di quest’ultima in Germania, cade nell’epoca in cui il libro per antonomasia, il libro dei libri, grazie alla traduzione della Bibbia fatta da Lutero, divenne patrimonio popolare. Ora tutto fa prevedere che il libro in questo sua forma tradizionale stia andando incontro alla sua fine. Mallarmé … che vedeva bene cosa stava maturando, nel Coup de dés ha per la prima volta acquisito alla pagina a stampa le tensioni grafiche della rèclame … La scrittura, che nel libro stampato aveva trovato un asilo, ove condurre un’esistenza autonoma, dai cartelloni pubblicitari vien trascinato nelle strade, e assoggettato alle brutali eteronomie del caos economico … Se alcuni secoli fa aveva cominciato pian piano a coricarsi e da iscrizione retta era diventato manoscritto  semi adagiato su leggii per poi stendersi alla fine nel letto del libro stampato, ora comincia … a rialzarsi da terra. …. E prima che il contemporaneo arrivi ad aprire un libro è piovuto sui suoi occhi un turbine talmente variabile di lettere colorate e rissose, che le probabilità di penetrare nell’arcaico silenzio del libro si sono per lui assai ridotte … Ma è fuori di dubbio che l’evoluzione della scrittura non resterà all’infinito legata alle pretese di dominio di una caotica condizione della scienza e dell’economia, e che anzi arriverà il momento in cui la quantità si tradurrà in qualità e la scrittura, e le scritture sempre più s’addentra, nel campo grafico della sua nuova eccentrica ricchezza di immagini, conquisterà di colpo contenuti adeguati. A questa scrittura per immagini i poeti, potranno collaborare solo se dischiuderanno a se stessi i campi i cui si compie la costruzione di essi: quelli del diagramma statistico e tecnico. Con la creazione di una scrittura variabile internazionale essi rinnoveranno la propria autorità nella vita dei popoli e scopriranno una funzione in confronto alla quale tutte le aspirazioni al rinnovamento della retorica si riveleranno antiquate fantasie.   

Benjamin riprenderà questa tematica in tutti i suoi saggi successivi. Questo brano e in particolare i passaggi che si riferiscono alla pubblicità mi hanno riportato però a un testo poetico che probabilmente Benjamin non conosceva ma che è decisivo perché il suo autore fu fra i primi nel contesto europeo e comprendere il ruolo che stava acquisendo la pubblicità: mi riferisco a La passeggiata, scritta da Palazzeschi nel 1913.

  1. Libri e prostitute si possono portare a letto.
  2. Libri e prostitute intrecciano il tempo. Dominano la notte come il giorno e il giorno come la notte.
  3. Libri e prostitute non fanno vedere a nessuno che per loro i minuti sono preziosi. Se però si entra in confidenza con essi, si finisce per accorgesi di quanta fretta hanno. Mentre noi ci sprofondiamo in loro, non la smettono di contare.
  4. Libri e prostitute hanno sempre un amore infelice gli uni per gli altri.
  5. Libri e prostitute:entrambi hanno un loro genere di uomini che vivono di loro e li maltrattano. I libri i critici.
  6. Libri e prostitute in case pubbliche. Per gli studenti.
  7. Libri e prostitute: di rado vede la loro fine uno che li ha posseduti. Sono soliti scomparire prima del disfacimento.
  8. Libri e prostitute raccontano così volentieri e così bugiardamente come lo sono diventati. In realtà, spesso neanche loro se ne accorgono. Per anni si corre dietro a tutto “per amore” e un giorno ecco che quale corpus ancora in carne si trova sul marciapiede, quel che per motivi di studio” si era sempre librato sopra esso.

IX. Libri e prostitute amano girare il dorso quando si mettono mostra.

X. Libri e prostitute figliano molto.

XI. Libri e prostitute: “Vecchia beghina. Giovane puttana”. Quanti dei libri su cui oggi la gioventù è tenuta a studiare, erano un tempo malfamati.

XII. Libri e prostitute mettono in piazza,le loro beghe.

XIII. Libri e prostitute: le note a piè pagina sono per gli uni quello che sono per le altre i soldi nella calza.

IV

Non per niente si usa parlare di “nuda” miseria. Il lato più deleterio della sua esibizione – che comincia a divenire abitudine sotto la legge del bisogno e tuttavia rende visibile un millesimo soltanto della miseria nascosta – non è la compassione o la non meno spaventosa coscienza di personale immunità che si fa strada nello spettatore, ma la vergogna di costui. Impossibile vivere in una città tedesca dove la fame costringe i più miserabili a campare delle banconote con cui i passanti cercano di coprire una nudità che li ferisce.    

PRONTO SOCCORSO

Un quartiere quanto mai caotico, un intrico di strade da me evitato per anni, mi apparve di colpo dotato di un suo ordine quando un giorno vi si trasferì una persona amata. Fu come se alla sua finestra avessero installato un riflettore e questo fendesse la zona con fasci di luce.

SEGNALATORE D’INCENDIO

L’idea che ci si fa della lotta di classe può trarre in inganno. Non si tratta, in essa, di una prova di forza in cui si decida la questione di chi vince e chi perde, né di uno scontro al cui termine al vincitore andrà bene e allo sconfitto male. Pensare così significa dare ai fatto un travestimento romantico. Perché la borghesia, sia che vinca o che soccomba nella lotta, è comunque condannata a perire dalle sue interne contraddizioni che le riusciranno fatali nel corso del suo sviluppo. La questione soltanto se essa perirà per mano propria o per mano del proletariato. Continuazione o fine di un’evoluzione della civiltà tre volte millenaria saranno decise dalla risposta a questo punto. La storia nulla sa dell’infinito di bassa lega simboleggiato dai due gladiatori perennemente in lotta. Solo ero scadenze fa i suoi calcoli il vero politico. E se la liquidazione della borghesia non si sarà compiuta a un punto quasi esattamente calcolabile dello sviluppo economico e tecnico (lo segnalano inflazione guerra chimica), tutto sarà perduto. Prima che la scintilla raggiunga la dinamite la miccia va tagliata. Intervento, rischio e rapidità del politico sono una questione di tecnica, non di cavalleria.

CONSULENZA FISCALE   

Nessun dubbio: esiste una segreta connessione fra la misura dei beni e la misura della vita, voglio dire fra tempo e denaro. Quanto più futilmente è occupato il tempo di una vita, quanto più sfaldati, multiformi ed eterogenei, mentre il grande periodo caratterizza l’esistenza dell’uomo superiore. Molto giustamente Lichtemberg propone che si parli di “rimpicciolire” anziché di abbreviarlo; lo stesso osserva: “Qualche dozzina di milioni di minuti fanno una vita di quarantacinque anni e qualcosa”. Dove è in uso una moneta di cui una dozzina di milioni di unità non significano niente, bisognerà che la vita venga calcolata in secondi anziché in anni, in modo da apparire ragguardevole come somma. E in conformità a ciò verrà frazionata come un rotolo di banconote:l’Austria non riesce a perdere l’abitudine di calcolare in corone.

L’ARTE DI RACCONTARE

Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il globo. Eppure noi siamo poveri di storie singolari. Da cosa dipende? Dal fatto che non ci raggiunge più nessun avvenimento che non sia già imbevuto da spiegazioni … una metà della parte del narrare consiste infatti nel mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta. In questo gli antichi erano maestri, prima di tutto Erodoto. Nel quattordicesimo capitolo delle sue Storie si trova il racconto di Psammenito. Quando il re egizio Pasammenito fu sconfitto e catturato dal persiano Cambise, Cambise fece in modo da umiliare il prigioniero. Comandò di mettere Psammenito sulla strada lungo la quale avrebbe dovuto muovere la processione trionfale dei Persiani. E fece altresì in modo che il prigioniero vedesse passare sua figlia che andava con l’anfora alla fonte come serva. Mentre tutti gli egiziani si lamentavano elevando alte grida a questo spettacolo, solo Psammenito rimase muto e immobile con gli occhi fissi a terra; e quando poco dopo vide passare suo figlio passare portato in processione al patibolo, anche allora restò immoto. Ma quando poi scorse nelle file dei prigionieri uno dei suoi servitori, un vecchio caduto in povertà, allora si percosse il capo con i pugni e diede tutti i segni di un profondo cordoglio – Da questa storia si vede di che natura sia il vero racconto. L’informazione si consuma nell’istante della sua novità … Non così il racconto … Esso conserva la propria forza raccolta all’interno e sa dispiegarsi anche dopo lungo tempo. Così Montaigne è tornato al racconto del re egizio e si domandato: perché si lamenta solo alla vista del servitore e non prima? La risposta di Mantaigne è: “Dacché era già traboccante di cordoglio, bastò soltanto una minima aggiunta perché questa abbattesse gli argini.” La storia può essere interpretata in questo modo. Ma essa lascia spazio anche ad altre spiegazioni. Può farne la conoscenza chiunque abbia formulato la domanda di Montaigne nella cerchia dei propri amici … Quel che è certo è che tutti i reporter la spiegherebbero in men che non si dica. Erodoto non la spiega neppure con una parola. La sua narrazione è di estrema aridità. Ecco perché  a distanza di millenni questa storia dell’antico Egitto è ancora in grado scatenare meraviglia e riflessioni. Assomiglia a quei semi rinchiusi per migliaia dì anni senz’aria nelle camere delle piramidi, che hanno mantenuto il loro potere di germinazione fino al giorno d’oggi.   

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MITI

“Siamo qui.”

Si voltò e vide una bambina; si avvicinò e lei lo prese per mano.

“Ti stavamo aspettando Amleto.”

“Scusate il ritardo, ma, non sapevo, non so cosa fare.”

Un altro che portava sul capo un elmo a due punte, si portò al loro fianco; insieme a lui vi era un cane bellissimo, dal pelo folto e dallo sguardo quasi umano.

“Vieni fratello.”

Andarono sopra un’altura dalla quale si poteva dominare una vasta distesa pianeggiante. Dapprima gli sembrò uniforme ma poi, guardando bene, scorse due luoghi distinti, separati da una sottile striscia di nebbia e in ognuno di essi gli sembrò che qualcuno si stesse muovendo. A lato di entrambi quegli spazi, scorse qualcosa, ma la poca luce impediva di vedere bene. Si voltò perplesso e un altro, che nel frattempo si era avvicinato, si rivolse a lui:

“Sono esseri umani, se guardi attentamente, là in fondo, vedrai un re che dovresti conoscere molto bene e il vecchio cieco, appoggiato a quel masso, fu un famoso re di Tebe.”

“E quella sono io”, ma osservando nella direzione indicata dalla bambina, vide una vecchia.

“Non mi riconosci?”

Risero tutti e fu allora che Amleto si accorse di loro.

“Sono confuso; perché noi ci troviamo in mezzo a loro? E io … qual è il mio posto?”

“Non in mezzo a loro, ma più in alto e più lontano, ma non tanto da non riuscire a vederli e non così in alto da sembrare dei, come volli diventare io.”, aggiunse parlando fra sé quello che gli aveva indicato il re di Tebe.

Amleto li osservò uno ad uno, poi, parlando fra sé:

“Ma voi non avete vissuto, mentre io …” ma non continuò la frase e allora un altro si rivolse a lui:

“Attribuisci troppo valore a quello che gli uomini chiamano storia. Prendi il mio caso; la figura che vedi là nell’angolo, vicina al re di Tebe, porta il mio stesso nome, Enea. Compì grandi imprese, fondò una città famosa (almeno così si dice); eppure nessuno può affermare con certezza chi di noi due sia il più vivo e il più vero nel ricordo degli umani.”
“Pensa a quel re di Tebe che sta laggiù” gli fece eco un altro dagli occhi incavati, accalorandosi come non mai! E continuò dicendo:

“O se preferisci pensa al principe Hamlet! Che hanno fatto d’importante tutti questi uomini? Del primo si sa che regnò, quanto al secondo non vi è certezza neppure di questo.”

Poi si voltò, indicando un’ombra dietro di lui e proseguì:

“Guarda costui che sempre mi segue e che forse tu riconoscerai; credi che preferisca essere ricordato come il conte di Southampton, oppure come il Bardo?”

Amleto lo guardò turbato, poi chinò il capo e aggiunse sotto voce:

“Dici bene, come se fosse facile.”

L’ombra, che fino a quel momento non aveva mostrato alcun segno d’interesse per loro, alzò il capo e guardò Amleto negli occhi, poi in tono mesto disse:

“Accade talvolta a chi scrive, che una voce rifiutata nel testo ci prenda per mano nelle nostre vite e ci guidi come un demone cieco, trascinandoci nelle tragedie di un testo immaginario. Il pianto, allora, invece di liberarsi in parole, imprigiona i nostri gesti quotidiani, diventa rabbia, si dirige su chi ci è più vicino, colpisce e divide come una spada, spesso ci annienta. Altre volte sono i gesti, le risa, il pianto a muoversi da soli, senza che noi stessi sappiamo dove andranno infine a depositarsi.”

Così detto chinò il capo. Amleto, che lo aveva ascoltato piangendo, si rivolse a lui:

“Sei stato tu a crearmi, oppure è a quel re che sta laggiù, fra gli umani, a cui mi devo rivolgere? Di chi sono figlio? Chi di voi due può sciogliere il mio enigma?”

L’ombra non rispose e gli altri si avvicinarono e lo portarono via di lì; poi uno di loro gli cinse le spalle con il braccio:

“Furono pur sempre esseri umani a crearci, siamo schiavi di condizioni umane, viviamo in eterno, sia pure, ma solo passando fugacemente, generazione dopo generazione, nelle menti dei pochi che ci accolgono, sempre in balìa del caso, fino a che la stoltezza dei molti non porrà fine a tutto quanto.”

“Questo varrà per voi, ma non per me! Io, Cassandra, non fu mai accolta, mai! In nessuna epoca e da nessuno!”

“Ma perché tutti insieme?” chiese Amleto dopo averle rivolto uno sguardo distratto; poi continuò:

“Cosa ci si aspetta da noi? Ditemi almeno questo se volete che io scelga.”

Nessuno gli rispose, sebbene la frase li avesse colpiti. Anche Amleto tacque; si guardò intorno e si avvide che si trovavano più in basso di prima e che l’altura su cui erano saliti si trovava alla loro sinistra.  Vide muoversi qualcuno a pochi passi da loro e pensò si trattasse delle schiere degli umani, poi presto si avvide che non era così; notò infatti che i loro corpi erano diversi da quelli degli altri,  perché una parte di essi era oscurata. Fu Cassandra ad avvicinarsi a lui:

“Sono gli utopisti, i riformatori sociali e i rivoluzionari; di loro possiamo vedere solo la parte che assomiglia a noi, mentre gli umani – che da qui non riesci a scorgere – possono vedere la parte che a loro assomiglia. Potranno scegliere con chi stare ma dovranno rinunciare a una parte di sé; solo allora potranno mostrarsi con l’intero corpo a coloro che avranno scelto.”

Amleto l’ascoltò in silenzio, poi volse di nuovo lo sguardo verso quegli strani individui. Uno di essi, in particolare, l’attirò; di lui si vedevano soltanto gli occhi socchiusi e sottilissimi. Il suo sguardo era di straordinaria acutezza e da quelle piccole aperture sembravano uscir fuori tanti piccoli raggi di luce che finivano per catturare l’attenzione di ognuno. Tutta l’energia di quel corpo si era trasferita in essi e Amleto vi sentì vibrare una gamma così vasta di sentimenti che ne fu colpito. Poi vide un altro avvicinarsi a lui. Aveva soltanto il volto; un volto da ragazzo, quasi un bambino sorridente e aperto. I suoi occhi, però, erano fissi, come se qualcosa avesse spezzato il suo sguardo in tenera età.  Quando però incontrò gli occhi dell’altro  si animò, mentre il primo dei due – dal canto suo – trovò in essi sollievo alla propria inquietudine.

“Sono arrivati da poco” disse Cassandra e aggiunse: “si cercano sempre; se vuoi, avvicinandoti, udrai la loro storia; forse ti potrà servire.”

Amleto si avvicinò ai due, voltandosi ogni tanto per vedere se Cassandra lo stesse seguendo; ma lei preferiva tenersi a distanza. Si sedette quando gli parve di essere abbastanza vicino, senza che i due si accorgessero della sua presenza. Dopo essersi abbracciati, almeno così gli sembrò dal movimento di entrambi, cominciarono a parlare.

“Ti ho atteso fratello mio e ora che sei qui potrò finalmente udire dalla tua voce cosa è successo dopo che i miei occhi furono spenti proprio quando vedevo davanti a me la luce di una speranza futura.”

“Lo so, lo so Saša carissimo, fui io a dire a nostra madre che ti avevano impiccato, anch’io vidi la tua stessa luce, ho proseguito il cammino  e credevo così di avere emendato il tuo errore e il mio errore anche.”

“Avrai tempo per raccontarmi di nuovo anche questo, la tua fama mi ha già raggiunto, so cosa hai fatto, è altro che vorrei spere; ero ansioso di rivederti, certo, eppure non ti aspettavo così presto.”

“E non sai invece quanto volte mi sono augurato di raggiungerti prima! Volevo andarmene, ma il peso che avevo reso sulle spalle fu condiviso da milioni di umani che videro come noi quella luce e così invece di schiacciarmi, esso mi buttava continuamente in alto nonostante il mio corpo si trascinasse come uno straccio zuppo di sofferenza. Non mi lasciavano andare via; poi, quando finalmente il mio corpo si è fermato mi hanno rinchiuso per settant’anni in uno stupido mausoleo sulla Piazza Rossa e come se non bastasse uno scienziato indegno di questo nome si è tenuto il mio cervello; voleva scoprire, pensa un po’, come è fatta la mente di un genio! Come se in quell’ammasso di fili consumati, ci potesse essere qualcosa di più dei segni della mia malattia.”

“Perché dici questo? Volevi venire prima? Non riesco a capire, avevi appena raggiunto la soglia del mondo che sognavamo. Ho cercato spesso di vedere con i tuoi occhi; non appena arrivato qui, capii il mio errore ma ero certo che tu saresti andato più in là.”

“E così avvenne, ma anch’io fui spezzato come te, ma la mano che lo fece era più sottile di quella del boia, assomigliava alle nostre Saša, era fatta come le nostre. Spostava la luce che vedevamo allontanandola sempre di più e chiedendoci di seguirla  e mentre noi eseguivamo i suoi ordini la mano colpiva spietatamente alle nostre spalle.”

“Un tradimento allora!”

“E così non c’era luce dietro di noi, ma soltanto un’ombra che cresceva sempre di più; quando me ne avvidi era troppo tardi. Mi ritrovai solo ai margini di un labirinto.”

“Fosti tradito allora!”

“No, non fu così.”

“Un altro errore allora …”

“Mi sono ingannato. Ho creduto che le mie opere nascessero dalla volontà e dalla comprensione di quello che tu chiami ancora il tuo errore. Pensai così che fosse la passione da lasciare da parte e la mia mente agì con la freddezza necessaria per lasciarla fuori di me. In  realtà a spingermi su quella strada fu un sentimento per me impronunciabile quando ero in vita. Cercavo di restituirti qualcosa che ti era stato tolto; ed eri stato proprio tu a farmi vedere per primo quella luce. Pensai che fosse stata la tua generosità ad averti tradito. E invece agivo io stesso in nome di un impulso generoso  che non volevo riconoscere come mio.”

“E quando te ne accorgesti?”

“Poco dopo aver varcato la soglia. Avevo sognato quel momento; il mio libro più bello, sai, lo scrissi allora, a cose fatte ne 1919. Fu una liberazione e quando di notte, alla luce del lume, le parole sembravano uscire dalla mia mano come schiere trionfanti, mi accorsi che accanto ad esse c’era anche la tua Sasha, la tua mano anarchica e di ragazzo, la tua mano con tutta la tua passione e la tua giovinezza impiccata. E le parole volavano, volavano fuori, sembrava non avessero confini, salivano sulla fortezza di Pietro Paolo che intravedevo dalla finestra e sembravano sgretolarla un poco ogni notte. E scrivendolo sentivo che in quelle parole tornava a risplendere la luce, come l’avevamo vista la prima volta!”

“E poi che accadde?”

“Durante il giorno quelle parole le dimenticavo; non me ne accorsi subito. Esse si allontanavano dalle mie opere diurne e queste crescevano senz’anima. Di notte erano le mie parole a crescere e sgretolavano fortezze, ma erano fortezze immaginarie; dalla finestra la intravedevo nell’ombra, la fortezza di Pietro Paolo era sempre là ed ora vi erano rinchiusi i tuoi aguzzini, ma era nera e minacciosa come quando vi fosti impiccato tu.”

“Replicasti il mio errore dunque, sognasti troppo e troppo in fretta.”

“No Saša, perché capivo ogni giorno di più che senza le parole del libro che stavamo scrivendo insieme, era la luce ad andarsene. Ma il giorno successivo la mano continuava a distruggere quanto era stato scritto la notte, ma essa era del tutto simile alla mia, era la mia Saša! E così ricominciavo daccapo la notte successiva e le altre ancora ed ogni giorno ed ogni notte misuravo ciò che era rimasto come saldo. Finché non crollai io stesso e tutto cominciò a dissolversi; ti allontanasti di nuovo nelle tenebre e la mia mente si consumò, le lacrime che mai volli  mostrare divennero un acido che cominciò a scavare e a corrodere dentro di me e allora decisi di andarmene.”
“Eppure incontrarti mi ha fatto tornare la speranza e quando ti guardo quella luce io continuo a vederla.”

“Anch’io la vedo e mi tormenta, sapessi almeno perché mai continuiamo a vederla!”
“Forse perché c’è un’altra soglia che dovremo attraversare, ma dovremo farlo insieme.”

I due tacquero di colpo e gli occhi del primo cominciarono a rivolgersi di nuovo in tutte le direzioni, mentre il volto dell’altro tornava alla sua fissità.

Amleto allora ritornò verso Cassandra, che l’attendeva.

“Perché hanno taciuto così bruscamente?”

“Perché non capiscono che manca loro qualcosa. Anche insieme non troveranno la soglia che cercano e così ogni volta sono costretti a ripetere daccapo la loro storia e dovranno farlo molte altre volte e non solo qui fra noi; ma capiranno prima o poi, non essere così triste.”

Anche gli altri si erano avvicinati e tutti insieme si diressero di nuovo verso l’altura, in cima alla quale li attendeva il cane, insieme ad una figura che prima non aveva visto. La luce era cambiata e le schiere degli umani erano ora ben visibili. La striscia di nebbia che li separava, si assottigliava talmente in alcuni punti, che le due colonne si sfioravano senza tuttavia vedersi e neppure immaginare la presenza dell’altra. E mentre una schiera si trascinava un fardello di atroci sofferenze, l’altra – con gli occhi rivolti verso l’alto – si trascinava il fardello altrettanto pesante di una felicità ebete e incantata. Amleto scosse il capo e osservando lo spazio ai lati delle due schiere, vide agitarsi altre figure.

“Chi sono quelli?”

“Sono i personaggi minori, oppure molto recenti o appartenenti a opere di scarso valore; attendono che noi li chiamiamo, ma non possiamo. Continueranno a oscillare sulle loro piccole barche in attesa che qualcuno più grande di loro li traghetti da qualche parte.”

“E non potrebbero proprio loro mostrarci che viviamo un’attesa? Un tempo risparmiato e tenuto in serbo per qualcosa che non sappiamo?”

“Non è un tempo, fratelli e sorelle, ma una scelta, sta a noi prendere nelle nostre mani il nostro destino; a noi che vediamo quello di cui gli umani vedono soltanto un lato perché da tempo hanno distolto lo sguardo dalla sola parte di loro che vive.”

Si voltarono tutti.

“Non è forse questa la promessa che fece sperare le genti nel corso dei millenni? Se liberi finalmente, dai nostri creatori, fossimo proprio noi, i personaggi che essi hanno creato a far vivere le nostre storie e dunque anche la parte migliore di loro? Smettetela di guardarli e di cercare nelle loro imprese tutte le risposte e tu Amleto, rimani con noi, non tornare nel mezzo di altri principi e re.”

Si avvicinarono e si sedettero in cerchio accanto a lei.

“E da che cosa cominceresti regina e da quando?”

Allora Sherazade si sedette, incrociò le gambe e parlò.

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RENDEZ-VOUS.

UN ALTRO RACCONTO DAL LIBRO FIGURE.

Una donna e un uomo se ne stanno seduti sulla spiaggia di Ostia; in lontananza, Roma sta bruciando. Sordi scoppi e boati giungono, a intervalli regolari, dal centro della città; il fumo si eleva alto sopra le fiamme che di tanto in tanto, quasi fossero braccia protese al cielo, forano la densa nube.  

Lui, sdraiato sul fianco con il gomito appoggiato a terra il palmo della mano a sorreggere il viso, guarda distrattamente la scena. Il sole, nonostante il fumo incombente, è ancora alto in cielo, tanto da costringerlo a indossare un cappello da giocatore di baseball per proteggersi.

Lei, appoggiata a una piccola pietra e con le spalle rivolte alla città che brucia, è immersa nella lettura di un romanzo di Christa Wolf.

D’improvviso l’uomo si scuote, si alza, si stiracchia; poi si volta verso di lei:

“Vedi Cassandra, se tu allora fossi partita insieme a me, forse avremmo fondato una città diversa.”

Lei sembra non ascoltarlo, poi lentamente alza il capo e lo guarda con un sorriso di compatimento; infine, scuotendo la testa:

“Non dire sciocchezze Aeneas; come puoi pensarlo! Questi tuoi discendenti hanno causato danni mille volte più grandi di quelli per cui patimmo noi e tu mi vieni a dire che forse … No mio caro, avrei moltiplicato inutilmente le mie urla, inascoltata come sempre: ecco come sarebbe andata.”

“Ti sbagli, i miei discendenti – come li chiami tu – non sono i soli responsabili; furono quei due a raccontare la storia, marchiando le mie imprese future con il sigillo della vendetta; ma io, e tu lo sai, non ero partito con quell’intenzione. Cosa posso farci se un poetucolo di corte, per compiacere l’imperatore Augusto ha raccontato le cose come voleva lui, inventandosele di sana pianta! E gli hanno creduto anche! Avrei avuto bisogno di un altro narratore, anzi di una narratrice. Tu avresti dovuto raccontare quel che era accaduto e non lasciarlo fare soltanto a quelli! E poi, se sei così scettica, perché diavolo sei tornata proprio oggi?”

“Curiosità, dopo tanti anni qualche frivolezza me la posso anche concedere, no?”

Aeneas la guarda perplesso, poi comincia a radunare le sue cose, sparse per la spiaggia intorno a loro; le ripone tutte in uno zaino.

“Che farai ora?”

“Parto, me ne vado a Poona, in Nuova Zelanda e poi su qualche isola della Polinesia, gli atolli; mi hanno detto che sono luoghi tranquilli. Perché non vieni anche tu?”
“Come! Parti un’altra volta? Oh Aeneas, non cambi mai! No mio caro, io resto.”

“Un’altra volta?”

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IL SEGRETO DI LENIN

UN ALTRO RACCONTO DAL LIBRO FIGURE

Pochi conoscono un episodio minore di quella grande epopea che fu la Rivoluzione d’Ottobre, un evento ormai lontano nel tempo e che verrà presto del tutto dimenticato.   Vale la pena di riferirlo perché riguarda nientemeno che Vladimir Ilich Ulianov … Lenin insomma! La ricostruzione di questa vicenda si basa su diverse testimonianze,  di cui una è la più importante, in quanto si tratta di una fonte diretta. Fu raccolta  molti anni fa a Mosca da alcuni studenti universitari; si era al tempo del disgelo krusceviano, si tentavano nuovi metodi nel fare storia, fra cui quello di raccogliere le testimonianze orali di chi aveva partecipato ai fatti, oppure ne era stato coinvolto in qualche modo. Per dare al lettore maggiori possibilità di comprendere ci soffermeremo un poco sul contesto degli eventi.

La Russia era sconvolta dalla guerra civile. Le battaglie erano ovunque perché non esisteva un vero fronte di guerra. I luoghi nevralgici, tuttavia, erano concentrati nel bacino del Don, lungo la ferrovia Transiberiana e ad ovest di Pietrogrado. Fu proprio su  questo fronte che accaddero gli eventi che ci interessano. Agli inizi del 1919, la cittadina di Krasnoye Gorka fu assediata dalle truppe del Generale bianco Judenič.  Il pericolo era evidente perché da quella posizione era  possibile  sferrare  un attacco alla capitale baltica  e  addirittura  ricongiungersi con  le  truppe  dei generali Miller ed  Ironside,  di  stanza  ad Arcangelo.  La cittadina resistette per qualche mese ma fu poi costretta ad arrendersi. Vi  furono molti morti e molti prigionieri, quasi  tutti  condannati  alla pena capitale.  Fra  questi ultimi vi era una donna e quando  Lenin ne fu informato fece di tutto per salvarla, cercando persino un contatto con lo stato maggiore bianco, che  rifiutò. Poi le cose andarono diversamente da quanto sembrava ineluttabile. I  Bianchi, convinti come erano di  conquistare  Pietrogrado, rinviarono le esecuzioni. L’attacco alla città, però, fallì, la loro rotta  fu  completa;  tanto  che   il  Generale Judenič fu costretto a riparare all’estero.  Molti alti ufficiali bianchi furono invece catturati e rinchiusi nella Fortezza di Pietro Paolo,  prima  di essere fucilati.  Uno di loro  di  cui  la testimone non ricordava il nome, forse lo stesso aiutante di campo  del Generale, la sera precedente l’esecuzione chiese di parlare con Lenin.  Questi dapprima rifiutò, sospettando l’intenzione di una domanda di grazia; il generale, d’altro canto rinnovò la  richiesta  respingendo  sdegnosamente  il sospetto. Lenin, seppure riluttante, dovette allora accettare, ma chiese di essere  accompagnato da un testimone e  scelse  una giovane compagna.  Fu lei a  raccontare  agli studenti della Facoltà di  Storia  Moderna dell’Università di Mosca ciò che avvenne quella sera e nei mesi successivi.

Le guardie e il piantone ci guardarono esterrefatti. Non erano molte le donne che entravano nella fortezza e il fatto che accompagnassi lui poi, dovette sorprenderli ancora di più. Lenin riunì il corpo di guardia e spiegò brevemente la ragione della visita. Fummo portati in un lungo corridoio e camminammo per un po’, finché il piantono non si fermò davanti alla porta di una cella. L’alto ufficiale che vi era rinchiuso sapeva del nostro arrivo e anche della mia presenza e ci aspettava in piedi. Ci guardò portandosi una mano alla fronte e schermandosi il viso, tanto che il gesto ci sembrò una specie di saluto militare al quale Lenin rispose con fastidio. Il generale, allora, spostò, il lume e così capimmo che stava semplicemente cercando di vederci meglio: voleva sincerarsi che quell’uomo basso di statura e dimesso che gli stava danti fosse davvero il capo della rivoluzione. Lenin gli domandò in modo perentorio cosa diavolo volesse, se si trattava di qualcosa riguardante la famiglia

…”No, Vladimir Ilich Ulianov! È di voi che si tratta!”

Ricordo molto bene le parole del generale perché Lenin, udita la frase, si arrestò immobile come se fosse stato colpito da una frustata. Il generale lo fissò per un istante, poi visto che taceva, proseguì, fatemi ricordare bene le parole che disse:

“Perché insisteste così tanto e in modo così sconveniente per voi (disse proprio così sapete), nel chiedermi la grazia per quella donna?”

Io non sapevo a che cosa alludesse e mi voltai verso Lenin. Non so cosa gli passasse per la testa, ma la sua espressione cambiò almeno tre volte in un minuto. Entrambi continuavano a tacere e Lenin mi parve improvvisamente confuso. Si passò la mano sulla fronte, in quel suo modo così caratteristico, tenendo due dita alle tempie e massaggiandole, così che le altre dita della mano andavano avanti e indietro sulla testa. Si voltò verso di me e mi chiese di uscire, scusandosi che fosse proprio lui a domandarmelo, dopo che mi aveva voluto con sé come testimone.

Trovai del tutto naturale la richiesta, in fondo si trattava di un fatto personale, non politico. Una volta uscita, però, mi sentii inquieta e a disagio; mi sembrava di essere piombata di colpo in una zona d’ombra, pensavo alle spiegazioni che si sarebbero dovute dare una volta usciti. Pensai che in fondo non era affar mio, eppure mi sentivo toccata profondamente, tanto che non seppi resistere alla tentazione di origliare. Appoggiai la testa alla porta e attesi. Lenin aveva cominciato a parlare, ma non riuscivo ad afferrare le parole; mi colpì la sua voce, così diversa dal solito, meno decisa. Parlava con fatica, trascinando l’una dietro l’altra le parole.

Non ricordo quanto durò la conversazione; se conversazione fu! Perché non mi parve di udire la voce del generale.

Quando sentii bussare dall’interno chiamai il piantone e rientrai nella cella insieme a lui. Lenin ci volgeva le spalle, si voltò lentamente e uscì passandomi di fianco. Mi colpì l’espressione esterrefatta del generale, come se si fossero aperte per lui le porte su una realtà del tutto impensata. Fui così colpita da quello sguardo che il piantone dovette chiamarmi per farmi uscire. Percorremmo di nuovo senza parlare i corridoi della fortezza; Lenin camminava a testa bassa, non vedeva nulla, preso come era nei suoi pensieri, serrato in sé e impenetrabile.

Oltre un anno dopo, durante  i  primi mesi del 1921, quando ormai la Guerra Civile era stata vinta, la testimone s’imbatté in un corteo funebre e riconobbe subito molti compagni famosi, fra i quali alcuni e alcune che incontrava spesso alla scuola di formazione. Domandò chi fosse morto e seppe che si trattava di una compagna straniera che aveva condiviso con Lenin gli anni dell’esilio in Svizzera …

Dentro di me ebbi subito la certezza che quella donna fosse colei di cui aveva parlato il generale. Risalii il corteo e lo vidi in prima fila. Ricordo ancora oggi il suo volto, non lo dimenticherò mai. Vladimir Ilich camminava a stento, sorretto dalla Krupskaja e da un altro che non riconobbi; il berretto era calato sul volto, quasi a schiacciarlo, ma ciò che mi spaventò fu il suo pallore. Fu l’ultima volta che lo vidi; tre giorni dopo il funerale fu colpito dal suo male e la circostanza mi impressionò moltissimo. Domandai ad altri e così seppi che quella donna aveva avuto un ruolo importante nel viaggio di ritorno in Russia; nulla di preciso perché non aveva incarichi politici ufficiali, ma Lenin la stimava più di ogni altro compagno.

Non sapevo cosa pensare, mi sembrava tutto così strano. Era forse stata la sua amante? Continuai le mie indagini (orami avevo conoscenze fra molti compagni e compagne che occupavano ruoli importanti) e venni a conoscenza di particolari che ignoravo. Il viaggio di ritorno sul treno piombato era stato molto burrascoso; il segreto stava proprio in una conversazione che si svolse fra Lenin e la donna mentre il treno stava per arrivare alla stazione di Pietrogrado. Fu una compagna presente a riferirmelo, parola per parola, ma mi pregò sempre di non fare il suo nome.  Pare che il colloquio fosse stato concitato e che Lenin le chiedesse ripetutamente di rimanere con loro; le aveva proposto diversi incarichi ma lei rifiutava ostinatamente.

“Perché vuoi che rimanga? Sono malata e poi non sono adatta ai compiti che vi aspettano. Voglio sentirmi libera, guardarvi da lontano; non smetterò di aiutarvi e non farò nulla contro di voi, questo lo sai.”

Tutte le volte che Lenin parlava delle sue capacità lei si arrabbiava molto e Lenin ne rimaneva molto sorpreso ogni volta. Insistette anche quella volta e lei allora lo ascoltò di nuovo, quasi rassegnata.

“Tu ne possiedi molte di capacità, ma una in particolare che manca a tutti noi e quello che è accaduto questi giorni in treno mi ha aperto gli occhi. Sappiamo affrontare ogni situazione, anche le più dure, ma quando parli tu, tutti, me compreso, abbiamo la sensazione … Ti ricordi quando ti davo i miei appunti? Tu li annotavi, li cambiavi, acquistavano una forma diversa, sembravano gli stessi concetti e invece risultavano a tutti più chiari e convincenti e condivisi. Anche allora, ricordi, ti chiesi le stesse cose di oggi.”

“Avrai le stesse risposte; non posso.”

“Perché? Perché? Tu sei l’unica capace di risolvere i problemi facendoci rimanere tutti uniti.”

La compagna che aveva udito queste parole le ricordava con precisione, tale fu l’impressione che le fecero; non se le sarebbe mai aspettate da uno come lui! Pare che all’arrivo del treno Lenin non si curasse della concitazione che c’era, poi ne fu travolto e la perse di vista. Una volta sceso, vi ricorderete tutti quella fotografia di lui che si rivolgeva alle masse. I suoi occhi non smisero per qualche attimo ancora di cercarla tra la folla, ma lei se n’era già andata. Era scesa dal treno dalla parte opposta, quella dai scendono i macchinisti e aveva fatto perdere le sue tracce.

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LA BEFFA

Il terzo racconto tratto dal libro Figure.

Faust si avvicinò al bancone: aveva appena concluso il patto e si sentiva su di giri:

“Mi dia un Glenn Grant” gridò al cameriere.

Sorseggiando il suo whiskey pensava a Margherita. Al suo fianco, un uomo rideva e parlava fra sé dicendo frasi sconnesse. A prima vista Faust lo scambiò per un ubriaco, ma guardandolo bene in volto vide nei suoi occhi la luce di una felicità che sentiva essere molto simile alla sua. Gli sorrise e l’altro ricambiò:

“Non mi prenda per matto, sono soltanto felice; sto aspettando una dea.”

“Oh, ma se si tratta di questo la capisco benissimo; anch’io ho un appuntamento.”

“Davvero? Ma allora è una sera fortunata, perché non festeggiamo insieme?”

E in men che non si dica ordinarono altri due whiskey. Nella concitazione del momento dalla tasca dello sconosciuto cadde un foglio di carta, piegato a metà. Accortosene, Faust si chinò per raccoglierlo e vide che nel mezzo c’era una minuscola fotografia …

”Ma questa è Margherita!” esclamò con voce strozzata e tolta dalla sua tasca la stessa fotografia la mostrò all’altro.

“Ma io gli ho venduto l’anima a quel diavolo di un Mefistofele!”

“Se è per questo anch’io!” mormorò Faust con un filo di voce.

“Macché anima, avete perso solo un po’ di soldi.”

I due si voltarono esterrefatti verso l’uomo che aveva parlato, che continuò:

“Scusate la mia intromissione, ma urlavate tanto!..”

“Scusateci voi, ma come fate …” 

“Non vi ha forse detto che l’avrebbe portata qui in taxi? E non vi ha forse chiesto di

pagare in anticipo le spese di trasporto?”

“Sì” risposero i due, imbarazzati e confusi.

“Ma quello era Mefistofele, come potevamo sapere?”

“E quali credenziali vi ha dato? L’avete mai visto un diavolo? Che aspetto ha un demonio? Un  tempo riconoscerlo era facile, ma oggi, cari miei, più guardinghi bisogna essere! Occorre discernimento, sapere porre le domande appropriate e se non se ne è capaci …” e così dicendo scosse il capo ed allargò le braccia.

I due, imbarazzati e contrariati, non sapevano che dire; guardavano lo sconosciuto e ogni tanto si gettavano occhiate perplesse.

“Invece di inseguire dee e margherite, demoni e fantasmi, dovreste liberarvi dell’unico dio che avete: la solitudine! Guardatevi intorno, ci sono giovani donne, volti felici! E voi passate la sera a specchiarvi nei vostri bicchieri. Avanti, siate più attenti a ciò che esiste!”

I due si strinsero nelle spalle, rassegnati alla piega che aveva preso la loro avventura; poi si avvicinarono a un tavolo dove sedevano due giovani donne. Sorrisero un po’ impacciati, ma le due ricambiarono allegre; allora si fecero coraggio e le invitarono a ballare. Prima che musica iniziasse Faust cercò con lo sguardo lo sconosciuto con cui avevano parlato, ma non lo vide più. 

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LE ESTRANEITÀ ELETTIVE

Quelli che seguono sono altri due racconti della raccolta Figure.

LE ESTRANEITÀ ELETTIVE. PRIMA PARTE.

Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, spedì ben 90.000 lettere alle amiche bambine ed intrattenne con la stessa Alice Liddell Heargraves una discreta corrispondenza, per altro ben nota. Recentemente, tuttavia, è stata ritrovata fra le carte del reverendo, una missiva indirizzata proprio ad Alice; tale lettera, che porta la data del 1 gennaio 1898, non fu mai spedita.

Alice carissima, ho davanti a me le fotografie che ti feci e ho qui alla mia destra il libro che porta il tuo nome: in quale di questi vi è più verità? Dimenticai per lungo tempo le fotografie in un cassetto e ritrovandole compresi che nascondevano un segreto. Io ti amavo, Alice, senza esserne consapevole. Ora lo sono, ma la mia vita ha raggiunto da tempo quel punto più alto da cui s’intravede soltanto la discesa e le mie stesse parole ed emozioni hanno assunto quelle forme consolidate e sicure che mi impediscono di parlarti come si conviene a una donna di cui si è innamorati. Fu soltanto un equivoco, dunque, a spingermi a scrivere i racconti che tu certo ricorderai, ma sapiente fu la mano che guidò la mia perché – se mi perdoni l’immodestia – il libro è degno dell’attenzione di cui comincia, finalmente, ad essere circondato.

Come sono ingenue, invece, queste fotografie! E quanto mi sbagliai pensando che in esse vi fosse dell’arte! Sono state scattate da un dilettante che ti costrinse ad assumere pose ridicole e un poco imbarazzanti, il cui significato recondito – peraltro – era allora ignoto a entrambi. Esse si sono vendicate di me a mia insaputa e ora mi stanno davanti come la prova ridicola di una colpa che non ebbi il tempo né la cognizione di commettere.

La vita mi ha lasciato, in cambio dell’auto inganno, agi e promesse di fama imperitura, seppure offuscata da sospetti infamanti; spero non abbia riservato a te l’altra metà dell’inganno ma che tu possa, invece, aver trovato quello che a me fu dato di scoprire troppo tardi.

Tuo affezionatissimo Charles Lutwidge Dodgson.

LE ESTRANEITÀ ELETTIVE: SECONDA PARTE.

Alice Liddell tenne un diario di cui solo recentemente si è venuti in possesso. Per gentile concessione dell’editore che ne sta curando la pubblicazione, anticipiamo una pagina di questo sorprendente documento.

10 Aprile 1902. Caro Lewis Carroll, dal giorno in cui lasciaste la nostra casa, ho pensato assiduamente a voi. Mia madre, allontanandovi da me, pensò di mettermi  al riparo da chissà quali abissi di perdizione. In realtà fece di voi un  gigante che crebbe tanto da occupare uno spazio considerevole nella mia vita interiore. Molto tempo è passato, ma soltanto ora (e me ne vergogno un po’), ho trovato la determinazione necessaria per rivolgermi a voi e svelarvi qualche segreto della mia vita.

Viaggio molto e sono diventata quella che agli occhi dei benpensanti pare una creatura inquietante e vagamente mostruosa: una donna emancipata. Mio marito non  ha retto e così sono stata costretta a lasciare la famiglia: non è stato facile per una donna di 50 anni ricominciare tutto daccapo! Dopo essermi dedicata allo studio della matematica la mia vita ha subito una svolta decisiva nel 1899. Da allora, infatti, seguo le teorie del Dott. Freud e dopo essere stata sua allieva, mi sono trasferita a Vienna dove ho iniziato a praticare io stessa la psicanalisi; disciplina che sono decisa ad introdurre anche nella nostra disgraziata Inghilterra. Dicono che abbia un talento particolare per questa professione; un poco – credo – lo devo anche a voi. Foste per me un secondo padre e forse fu proprio per avere sopportato un peso doppio rispetto alla generalità degli esseri umani, che si sviluppò in me una capacità quasi istintiva di penetrare i segreti pensieri e le angosce altrui. Tuttavia, ora che la mia vita volge verso la seconda metà e avverto l’urgenza di fare qualche bilancio, esso mi soddisfa ben poco. La mia ricchezza ed i miei agi crescono insieme alla folla di coloro che mi sono grati, ma sul risvolto di questa pagina dorata vedo precipitare la mia vita nella solitudine e la capacità di comprendere me stessa decrescere proporzionalmente ai miei successi. E così il saldo finisce per essere un numero  negativo che si scompone in cifre sempre più piccole  come  se, un pezzo dopo l’altro, parti di me si staccassero dal mio stesso corpo disperdendosi sull’uno o l’altro dei miei pazienti. Sento dire in giro che la capacità di comprendere tutto degli altri e nulla di se stessi e di coloro che sono più vicini, sia la malattia professionale degli psicanalisti. Ho letto Alice nel paese delle meraviglie, ma non mi ha fatto una grande impressione; questo, però, è un segreto fra me ed il diario che non turberà la fama crescente di cui il libro è circondato. Sono troppo vivide in me le immagini di voi che inventavate e raccontavate quelle storie! Al confronto, il romanzo mi sembra una pallida e sfocata trasposizione; tuttavia, a mia figlia piacque molto.

Apprendo dai giornali che mi scattaste altre fotografie oltre a quelle che già possiedo. Francamente non le ricordo e mi sembra alquanto strano; perché mai me le avreste fatte, poi? Non sarà l’ennesima invenzione giornalistica?

Vostra aff.ma Alice

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IL SOGNO DELLA PIZIA

Premessa

Alcuni dei racconti che seguono furono pubblicati nel 1995 per le edizioni ticinesi Il gatto dell’Ulivo con il titolo di Figure. Ne ripropongo alcuni nella rubrica Ricordare e raccontare, a cominciare da oggi.

I militi ammiccarono sorridendo. Era uscita dal vestibolo a passi lenti e mentre passava al loro fianco senza neppure guardarli aveva mormorato la solita frase:

“Se viene qualcuno sono alla locanda.”

Erano trascorsi due anni da quando l’ultimo postulante aveva varcato le porte dell’oracolo e da allora la Pizia aveva preso l’abitudine di uscire sempre più spesso.

Seduta al tavolo meditava sul fatto che ogni cosa in quel luogo andava lentamente verso una fine oscura …

Forse mi trattano sempre peggio per convincermi ad andarmene, anche loro non sapranno che fare, con la poca gente che passa i guadagni saranno diminuiti; se è in difficoltà l’oracolo figurarsi la locanda …

I sacerdoti mormoravano che lei, la Pizia, non voleva chiudere solo per comodo suo. Era stata più volte sul punto di farlo, ma nel momento di compiere il passo decisivo si era sempre tirata indietro, sfidando le chiacchiere che correvano su di lei; alle quali, per altro, opponeva un fiero silenzio e il rifiuto sdegnoso di dare spiegazioni. Non era lei la Pizia? Non era forse lei la custode di tutti i segreti? Non spettava dunque a lei dire l’ultima parola? Ma tale parola non risuonava mai chiara alle sue orecchie. Alle volte era un balbettio, altre volte un labirinto di parole in cui perdersi e lei, puntualmente, vi si perdeva. C’era in quel rifiuto a prendere atto della realtà qualcosa d’irragionevole; in fondo non era la prima volta che un oracolo chiudeva e ciò non aveva alcun significato particolare; forse i traffici avevano preso altre vie e Delfi non era più al centro del mondo come un tempo. Ammone, l’oracolo del grande Alessandro, non aveva forse chiuso? Ora toccava al suo, ma altri avrebbero preso il posto di Delfi; così va il mondo … o meglio: così va nei discorsi piani, quando i nodi sembrano sciogliersi da soli. Quel nodo, però, non si scioglieva proprio; anzi, si complicava sempre più e lei – testarda com’era – non voleva cedere agli umori, neppure ai suoi; figurarsi a quelli degli altri! Voleva trovare una soluzione che fosse semplice e chiara, cercava una spiegazione definitiva e sapeva che nessuno avrebbe potuto aiutarla. L’ultima volta era stata un sogno a fermarla dopo che aveva già radunato i sacerdoti, ma quando aveva cercato di raccontarlo non vi era riuscita e nessuno e aveva creduto.

“La Pizia gioca con noi”, mormoravano tutti; alla vicina locanda si rideva.

Era immersa in questi pensieri quando un rumore la distolse; una delle guardie era entrata correndo e si stava avvicinando al tavolo e quando le fu vicino:

“Presto, presto, venite Pizia, venite!”

I sacerdoti l’attendevano nella grande sala; li interrogò con lo sguardo e loro, senza dire una parola, le indicarono lo spioncino. Nella sala delle tavolette un giovane uomo era intento a scrivere qualcosa su una di esse.

“Chi è?” chiese la Pizia sottovoce.

“Un romano.” Risposero i sacerdoti.

“Un romano?” esclamò incredula e li guardò per sincerarsi che dicessero il vero.

Un romano, un romano … non viene nessuno per due anni e poi arriva addirittura un romano, con tutto quello che c’è a Roma! Mah …

Scuotendo la testa si avvicinò di nuovo allo spioncino. L’uomo, nonostante fosse molto giovane, incuteva rispetto e soggezione; il profilo era gentile, i lineamenti forti e delicati. La colpì il naso pronunciato, che dava al volto il profilo intenso di una vela trascinata verso una meta. La testa era alta sulle spalle, ritta, regale, ma non incuteva timore; il suo aspetto, piuttosto, rivelava l’ansia di guardare lontano, di esplorare il futuro. La barba era ancora corta, era quella di un ragazzo più che di un uomo e questo contrastava con la figura e dava al giovane un tocco di tenerezza che fece spuntare un sorriso sul volto della Pizia.

L’uomo, che sapeva di essere osservato ma non poteva vedere chi lo stesse guardando, cominciò a maneggiare la tavoletta e quando si voltò per posarla sul ripiano di pietra, la Pizia lo guardò, incantata dalla sua bellezza.

Si ricompose immediatamente e rivolse ai sacerdoti uno sguardo di sarcastica commiserazione:

 “Un romano, un romano e voi lo chiamate un romano quello … ” 

I sacerdoti si guardavano imbarazzati e lei continuava a ripetere quelle parole come parlando fra sé e sé, ma facendo in modo che anche loro sentissero e ad ogni pausa successiva alla parola li fulminava con i suoi occhietti pieni di ironia.

Chiese i paramenti e mise sul fuoco l’acqua per l’infuso di erbe, poi ordinò la vestizione e, man mano che la cerimonia procedeva, riacquistava tutta la sua autorità. Quando tutto fu pronto si avvicinò alla porta del trono, il sacerdote raccolse la tavoletta su cui il giovane aveva scritto e la porse alla Pizia, che si ritirò. Le sembrò che scottasse e avvertì un brivido di emozione posandola, ma decise di fare le cose con calma e di trattenere la curiosità. Bevve l’infuso e si sistemò bene sullo scranno, poi prese la tavoletta e la guardò. Non credé ai propri occhi; la voltò e la rivoltò da tutte le parti, ma vi era soltanto una frase scritta su di essa:

 “Vaticinate per voi.”

Niente altro, non un interrogativo, una richiesta, nulla! Due anni di attesa e poi anche un matto mi doveva capitare … speriamo almeno che l’obolo sia congruo … Ma ripensandoci non riusciva a credere che quel giovane volesse prendersi gioco di lei. Vaticinate per voi, vaticinate per voi … Un brivido la scosse; l’infuso cominciava a fare il suo effetto, presto il delirio avrebbe raggiunto l’apice ed in quel momento avrebbe dovuto emettere il vaticinio. Sudava e aveva la sensazione che una forza la tendesse, quasi fosse un arco rivolto verso l’interno del suo corpo, pronto a scoccare la freccia verso un centro misterioso fatto di cerchi d’acqua che inghiottivano le sue viscere. Il volo, il volo, ecco che cosa aveva sognato! Era il sogno di un volo che l’aveva distolta dal chiudere l’oracolo; poi delle parole, un ordine che doveva eseguire o qualcosa che doveva dire; ma erano parole rovesciate, che non riusciva a leggere.

Il corpo sembrò ripiegarsi nello sforzo estremo della massima tensione, ma subito dopo avvertì un vuoto desolante, incolore, assoluto. In esso nuotava senza trovare appigli, abbandonata a se stessa. Solo allora si accorse che il giovane era entrato: seduto davanti a lei, la stava osservando. Cominciò a tremare e a oscillare avanti e indietro, finché le labbra non cominciarono a muoversi da sole, ma senza parlare. Il grido saliva dentro di lei, saliva sempre più, ma interno al suo cadere; così che sembrava allontanarsi dalle labbra, come se anch’esso fosse risucchiato dentro il vuoto. Poi, invece, la sua voce risuonò nella stanza, cristallina e limpidissima; mentre pronunciava le parole del vaticinio smise di cadere. Il sogno ritornò a lei nella stessa forma e la frase le apparve chiara e semplice.

Il giovane, nel frattempo, si era alzato e le stava sorridendo; lentamente si avviò verso la porta, ma prima di uscire le rivolse la parola:

“Vi sono grato, ho avuto da voi ciò che speravo e che a un grande uomo prima di me fu negato. Ora so che mi avete ceduto il futuro.”

Quella notte la Pizia dormì più profondamente del solito e si alzò il mattino dopo con la sensazione di avere fatto sogni piacevoli. Radunò i sacerdoti e li informò senza preamboli che l’oracolo avrebbe chiuso di lì a tre giorni. Si guardarono stupefatti: che il momento tanto atteso giungesse proprio il giorno successivo a una visita, parve loro una di quelle stranezze cui le Pizie erano solite abbandonarsi. Tuttavia, passato lo sconcerto, subentrò la rilassatezza e pesino la gioia; erano liberi, potevano pensare a se stessi.

Quanto a lei si guardò bene dal dire cosa fosse accaduto il giorno prima e quando qualche avventore curioso l’avvicinava nella locanda per domandarle del giovane e della difficoltà del vaticinio, rispondeva con calma e fermezza che si era trattato di un responso come tanti altri. 

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8 MARZO SCIOPERO GLOBALE

“Noi donne iraniane”  

Eppure, le loro voci e immagini sono arrivate chiare e nitide anche in un Occidente che troppo di sovente ancora finge di non sentire o si gira dall’altra parte.

Scritto dalle giornaliste Sabina Fedeli e Anna Migotto, “Noi donne iraniane” è stato proiettato in anteprima a Milano lunedì 6 marzo alle ore 18.30 presso l’Anteo Spazio Cinema (Piazza XXV Aprile, 8). Alla serata erano presenti Sara Hejazi (Università di Trento, scrittrice e giornalista) e Alessandra Campedelli (CT Nazionale pallavolo femminile dell’Iran dal 2021 al 2023).

Dopo il passaggio in sala, mercoledì 8 marzo andrà in onda su La7 all’interno del programma Atlantide, condotto da Andrea Purgatori.

LETTERA 8M 2023 A SINDACATI, DELEGATƏ, LAVORATRICI E LAVORATORƏ

26 GENNAIO 2023 | NONUNADIMENO

L’8 marzo 2023, per il settimo anno consecutivo, sarà ancora una volta sciopero femminista e transfemminista transnazionale, in uno scenario profondamente mutato rispetto al primo sciopero chiamato da Non Una Di Meno l’8 marzo 2017. Oggi ancora una volta ci rivolgiamo allə tantissimə delegatə e lavoratrici che in questi anni hanno fatto proprio lo sciopero transfemminista, e a quellə che per la prima volta vorranno organizzarlo, certə che per noi tuttə il prossimo 8 marzo sia l’occasione per affermare con forza la nostra comune pretesa di libertà e autodeterminazione, contro la violenza patriarcale e la povertà, le discriminazioni, lo sfruttamento.

La congiunzione delle crisi sanitaria, economica e climatica, della pandemia e della ricostruzione postpandemica e dei focolai di guerra accesi in tutto il pianeta ha effetti devastanti sul nostro lavoro e le nostre vite, oggi resi ancora più pesanti dalla guerra in Ucraina che sta aumentando l’intensità e la pervasività della violenza patriarcale e rendendo più urgente la lotta per contrastarla. Sono dinamiche complesse che in Italia dobbiamo affrontare misurandoci con un governo di estrema destra, che porta avanti politiche che ci impoveriscono, taglia i servizi, il welfare, abolisce il reddito di cittadinanza, mentre si richiama alla famiglia patriarcale, difende i confini, attacca frontalmente tutte le libertà per le quali lottiamo.

Scioperiamo sia dal lavoro produttivo che dal lavoro di cura e riproduttivo per un reddito di autodeterminazione che ci garantisca indipendenza, per un salario minimo e per l’abbattimento di ogni forma di sfruttamento e precarizzazione, per contratti stabili e tutelanti. Scioperiamo contro ogni forma di violenza e discriminazione sul luogo di lavoro e per la tutela del lavoro dellə sex workers.

Scioperiamo per un welfare pubblico, gratuito e libero da ogni forma di violenza patriarcale e di discrimazione di genere, omolesbobitransfobica, abilista e razzista. Rifiutiamo politiche familiste di welfare che costringono donne e soggettività lgbtqia+ a offrire assistenza gratuitamente a familiari e non e sostengono tagli e privatizzazioni ai servizi pubblici. Scioperiamo contro ogni attacco alla nostra autodeterminazione, per la libertà di abortire, di intraprendere percorsi
di transizione e per la tutela del nostro benessere psico-fisico.

Scioperiamo dall’attuale sistema scolastico che si configura come un laboratorio per preparare futurə lavaratorə allo sfruttamento e alla morte sul luogo di lavoro e che riproduce saperi patriarcali e di forme educative
oppressive. Scioperiamo per una scuola inclusiva, che adotti carriere alias per le persone trans, che offra educazione sessuale e affettiva, capace di veicolare saperi transfemministi, di educare al pensiero critico e libera da tutte le forme di precarità e sfruttamento delle insegnanti.

Scioperiamo perché la crisi climatica già in atto, generata da un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento capitalistico della terra e del lavoro, sta accelerando e minaccia la vita stessa del pianeta. Scioperiamo perché gli effetti dell’inquinamento, dei disastri ambientali e del profondo abuso della natura, che stiamo vivendo anche in Italia, non colpiscono tuttə allo stesso modo. Scioperiamo perché pretendiamo molto di più della tutela ambientale, del green washing dei governi e delle aziende, e perché pensiamo che soltanto una visione ecotransfemminista possa farci uscire da questa pesantissima crisi promuovendo azioni di reale giustizia climatica.

A un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, scioperiamo contro la guerra che inasprisce la violenza patriarcale e contro le sue conseguenze. Siamo vicine alle profughe ucraine e alle profughe di tutte le guerre che attraversano paesi che con l’espediente della guerra rafforzano il proprio attacco patriarcale. Scioperiamo contro il riarmo e le politiche di guerra.

L’8 marzo, insieme, dobbiamo opporci senza condizioni anche al razzismo esasperato dalla guerra, che è una leva per intensificare lo sfruttamento del lavoro, tramite la proposta di definire ‘quote’ di ingresso e il ricatto del permesso di soggiorno, obbligando le/i migranti ad accettare salari bassissimi per lavorare nelle nostre case, o a svolgere lavori tanto essenziali quanto invisibili nelle fabbriche, nei campi e in ogni altro settore.

In questi anni con lo sciopero femminista e tranfemminista abbiamo inteso fare della lotta contro la violenza patriarcale una leva potente di rivolta e cambiamento radicale,  interrompendo la produzione e la riproduzione sociale, gli algoritmi del sistema di sviluppo e consumo, le tirannie dei generi e dei confini. Abbiamo voluto tracciare linee di contrasto nette e inequivocabili contro tutti gli assi di oppressione che gravano su di noi, innescando una conflittualità sistemica finalizzata ad aggredire tutti i gangli del sistema di subordinazione patriarcale che attraversa l’intera società, dalle case, ai luoghi di lavoro, alle istituzioni, ai tribunali, ai media. Politicizzare la violenza patriarcale facendone una questione pubblica e non più solo privata restituisce allo sciopero la potenza di un processo espansivo e inclusivo di lotta, fatto proprio ad esempio dalle donne in Polonia, diffuso oggi in Iran anche attraverso lo sciopero generale di dicembre, contro l’oppressione patriarcale istituzionalizzata, per far sentire la forza collettiva di chi non accetta più quella tirannia, la povertà e lo sfruttamento che sorregge.

Sappiamo che riappropriarci della pratica dello sciopero, per lə tantə che fanno lavori precari, sottopagati, in nero, non riconosciuti, senza orari, che non riescono a pagare le bollette, che sono schiacciate ogni giorno tra il carico di lavoro in casa e fuori casa, è una sfida, un processo di lungo periodo, ancora difficile ma a cui non siamo disposte a rinunciare. Siamo convintə che questa sfida la possiamo raccogliere insieme, con la partecipazione di tutte le lavoratrici, lavoratorə, delegatə che stanno lottando in questo momento per il salario, contro le molestie e il razzismo sul posto di lavoro, e per non dover sostenere da sole il lavoro domestico e di cura. Siamo convinte che anche i sindacati, sia quelli che negli anni passati hanno aderito allo sciopero sia quelli che non lo hanno fatto, non possano e non debbano sottrarsi a questo impegno.

Tutte lavoratrici e le delegate sui posti di lavoro hanno il diritto di pretendere dalle proprie organizzazioni sindacali, incluse le RSU, di proclamare lo sciopero del prossimo 8 marzo 2023, garantendo la copertura sindacale alle lavoratrici e lavoratorə che vorranno astenersi dall’attività lavorativa e mettendo in campo tutto ciò che è necessario, in ogni settore e area del paese, per sostenerlo e organizzarlo, inviando la comunicazione dell’indizione in tutti i luoghi di lavoro, organizzando assemblee sindacali sui temi dello sciopero dell’8 marzo, favorendo l’incontro tra lavoratrici e lavoratorə e i nodi territoriali di Non Una Di Meno, nel rispetto della reciproca autonomia.

È comunque un diritto di tuttɘ, anche lɘ iscrittɘ a differenti organizzazioni sindacali, aderire ad uno sciopero indetto da altre sigle.

L’8M 2023 lo sciopero femminista e transfemminista sarà per tuttə e per ognunə di noi, NON UNA DI MENO.

NASCITA E DECADENZA DELLA FAMIGLIA BORGHESE NELLA NARRATIVA EUROPEA.

Introduzione

Una prima versione del saggio qui di seguito fu pubblicato sul numero 21 della rivista Costruzioni psicoanalitiche del 2011 e lo si trova anche nel sito Academia.edu. Lo ripropongo con una precisazione ulteriore e cioè che la riflessione va storicizzata. Il titolo stesso vi allude: si parla di una concezione della famiglia borghese che ha attraversato i secoli, con modificazioni nel tempo, cui corrispondono i diversi capitoli. Vi è però un momento nella storia del ‘900, a partire dal quale non si può più affermare che è nato un nuovo capitolo all’interno di un medesimo percorso, ma piuttosto che è cominciata un’altra storia, che necessita di ulteriori ricerche e anche di nuovi linguaggi. Non solo il concetto stesso di famiglia borghese sembra essersi dissolto, ma il titolo del saggio – che tuttavia ho deciso di mantenere – andrebbe ulteriormente chiarificato dicendo che quel tipo di famiglia era patriarcale e soltanto eterosessuale. Il saggio accenna nel finale, che ho aggiunto recentemente, a queste profonde trasformazioni, ma finisce con quello che almeno per me è il tramonto di una concezione di famiglia, anche se i tentativi reazionari di riportarla in auge nella sua esclusività, sono purtroppo all’ordine del giorno.

Premessa

La narrativa europea è piena di famiglia, di rapporti fra padri e figli, titolo peraltro di un grande romanzo di Turgenev. La difficoltà nell’affrontare un tema come questo, dunque sta nel ridurre il campo d’indagine.

La famiglia che prenderò in considerazione, seppure con qualche ulteriore precisazione strada facendo, è quella borghese, cercando di coglierla in tutti gli aspetti che l’angolo di visuale della narrativa propone. D’altro canto, sarebbe difficile trovare la famiglia come protagonista in epoche precedenti.

La grande poesia europea e la letteratura novellistica che precede la nascita (o rinascita secondo qualcuno), del romanzo, parla molto d’amore, di relazioni fra i sessi, nel Decameron ci sono storie di amanti, di fratelli e sorelle, ma la famiglia in quanto tale non è un oggetto di osservazione, prima di tutto perché è persino discutibile la sua esistenza e quindi, di conseguenza, l’uso stesso di questa parola.

Uno storico di prima grandezza come Lawrence Stone, nel descrivere la decadenza dell’aristocrazia inglese, afferma che essa fu dovuta anche ai rapporti famigliari inesistenti, almeno per come li intendiamo noi. Stone arriva addirittura a mettere in discussione la possibilità del complesso edipico, nell’ambito delle ‘famiglie’ aristocratiche, in quanto i figli raramente avevano un rapporto con i genitori, ma erano del tutto delegati ad altri, dalle balie alla servitù, tanto che egli attribuisce la decadenza – anche da un punto di vista mentale – della nobiltà inglese, al fatto che una delle patologie più diffuse fosse il marasma infantile, un termine che indica la mancanza di punti di riferimento e di figure con cui i bambini potessero confrontarsi e crescere.

Self made men e signorine di buona famiglia

Non esiste una vera definizione a priori della famiglia borghese, ma è possibile ricavarne qualcuna seguendo i grandi romanzi borghesi e quindi prendendo in considerazione un arco di tempo che va grosso modo dalla metà del settecento, per arrivare ai nostri giorni.

Tom Jones di Henry Fielding, pubblicato nel 1749, inizia quando un vecchio signore, recandosi a dormire alla solita ora, si ritrova qualcosa nel letto, precisamente un fagottino con dentro un trovatello. Chiama precipitosamente la governante e decide di prendersene cura. Il trovatello è Tom Jones. Lo ritroviamo giovane uomo che s’innamora di Sofia, figlia di un gentiluomo di campagna, che non acconsente al matrimonio per ragioni classiste. Tom peraltro ha una personalità esuberante che lo mette spesso nei guai; fugge a Londra dove ha una svariata serie di avventure.

Il contraltare di Tom è il signorino Blifil, un aristocratico educato secondo i dettami della sua classe. Dopo una serie di vicissitudini, sarà Tom a sposare Sofia. Al lieto fine, tuttavia, si giunge grazie anche alla scoperta di un misterioso documento, che rivela come Tom non sia affatto un trovatello. L’inganno ordito ai suoi danni aveva lo scopo di escluderlo dall’asse ereditario. Blifil, il cattivo, viene così sconfitto.

Tom Jones è un romanzo che fa da cerniera fra due diverse concezioni della vita e del mondo e dunque anche della famiglia. Blifil reclama per sé un diritto di nascita, in quanto membro dell’aristocrazia, ma la sua classe non può più accedere allo stesso nobile percorso dei suoi predecessori nei secoli precedenti. I nobili, un tempo cavalieri, sacerdoti, o sacerdoti guerrieri, si sono trasformati in parassiti nullafacenti che si aggirano nelle loro proprietà, senza peraltro alcuna capacità di governarle.

Tom, al contrario di Blifil, è una specie di Robinson Crusoe che agisce nella jungla sociale del settecento inglese. Il documento da cui si evince che anche Tom non è un trovatello viene scoperto dopo, quando il matrimonio è già deciso e questo riflette bene la condizione di transizione della società inglese del tempo. Si sta passando da una concezione del matrimonio per cui conta il lignaggio e naturalmente i patrimoni che ad esso si accompagnano a un’altra in cui conta il saper fare, cioè la capacità imprenditoriale che farà, di lì a poco, decollare in Inghilterra la rivoluzione industriale. 

Più o meno contemporaneo al romanzo di Fielding, è invece Il Vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith, siamo infatti nel 1776. Questo romanzo è una specie di bibbia della visione della famiglia come luogo in cui prende forma lo stile borghese, ma anche la funzione pedagogica della famiglia stessa. Siamo sempre fra gentiluomini di campagna, la città arriverà dopo e in modi molti più aspri.

Ci si rende più utili a sposarsi e a metter su una bella famiglia che a restar giovanotti e chiacchierare di figliolanza: così almeno ho sempre pensato io. Perciò, scorso neanche un anno da che ero consacrato sacerdote, presi a petto questa faccenda del matrimonio; e scelsi la sposa come ella scelse poi la veste nuziale, cioè non badando all’eleganza ma alla qualità del tessuto.

Questo breve brano e in particolare la sua parte conclusiva illustrano molto bene la morale borghese. Il matrimonio è necessario per regolare la pulsione erotica, deve essere basato sulla solidità morale dei coniugi piuttosto che sulla frivola eleganza. Tutto il romanzo si svolge nel salotto del Vicario, dove sono soliti incontrarsi la sera o il giorno di festa, i notabili della città. Anche i bambini e i giovani sono ammessi all’ascolto, dal momento che i discorsi che vi si tengono sono edificanti. La famiglia, nel romanzo di Goldsmith, diviene la sede dove si forma l’educazione a uno stile.

Della stessa natura, cioè di strumento di educazione e costruzione del galateo borghese e di un’etica borghese, sono i romanzi di Jane Austen: Emma (1815), Orgoglio e pregiudizio (1813) sono piccoli capolavori di un galateo al femminile, ma anche di una prima elaborazione di un pensiero femminile pubblico e autonomo; nonché della difficoltà a farlo vivere. Le protagoniste dei romanzi di Austen sono giovani donne della campagna inglese, che cercano da se stesse una sorta di educazione sentimentale che permetta loro di orientarsi nella scelta di un marito, sempre prese in mezzo fra matrimoni combinati da madri intriganti (come in Orgoglio e pregiudizio) e dai loro continui errori di scelta, come avviene in particolare a Emma. Austen non è sola, è la prima di una serie di scrittrici e pensatrici europee: insieme a lei Madame da Stael, forse la più grande di tutte e poi George Eliot, nome de plume maschile di Mary Ann Evans, le sorelle Bronte, Mary Shelley, Elizabeth Barret.  

Quanto si è visto fino ad ora gira intorno a un concetto di matrimonio ancora molto legato alla contrattualistica; secondo dato ancora più importante, tutti i romanzi fin qui considerati sono ambientati nelle campagne inglesi, dove, grazie alla rivoluzione del ‘600, culminata nel breve periodo della repubblica di Cromwell, era cresciuta una classe media agricola (la gentry), che elaborava un proprio stile di vita borghese e che investiva tutti gli aspetti della vita sociale. In questo mondo matura anche una voce femminile consistente. Possiamo tentare di delineare alcuni pilastri di questo stile: l’importanza del saper fare rispetto al diritto di nascita, la buona educazione dei figli secondo i principi morali di parsimonia, moderazione, decoro. Tutto questo non è poco se noi lo confrontiamo con il passato anche recente rispetto a quell’epoca.

L’idea del matrimonio come ambito in cui avviene l’educazione dei figli e la loro cura e dove i figli sono oggetti d’amore, è un concetto che non esiste nell’aristocrazia; tanto meno nel mondo contadino, dove i figli sono braccia e basta. La gentry inglese di campagna dunque elabora per la prima volta un galateo universale tramite la narrativa e le riviste come lo Spectator. Nasce un pubblico che si forma intorno a questo stile: la pedagogia in ambito famigliare diventa pedagogia sociale. Però, nel tempo stesso in cui questo avviene, le conseguenze della trasformazione dell’agricoltura e della campagna inglese da feudale a capitalistica provocano una massiccia espulsione dalle compagne stesse di manodopera bracciantile e anche di piccola proprietà, che si riversano nelle città dove formeranno l’esercito di fabbrica (nonché quello di riserva) della rivoluzione industriale. A questa enorme massa viene di fatto impedita la possibilità stessa di una vita famigliare, contraddicendo dunque quel galateo universale che abbiamo visto delinearsi e dal quale costoro sono esclusi.

Amore romantico e questione sociale

Nei grandi romanzi urbani del ‘700-‘800 la famiglia semplicemente non esiste: ci sono ladri, avventurieri, avventuriere, puttane, orfani, ragazzini che lavorano venti ore al giorno. Il romanzo sociale sarà uno strumento di denuncia di tale situazione, ma per tornare al tema, di famiglia se ne trova pochissima in opere come Moll Flanders di Defoe, oppure i Miserabili di Victor Hugo, oppure in Vanity Fair, piuttosto che in Oliver Twist. La descrizione degli slums di Londra in Dickens non è diversa da quella che fa Engels, anzi proprio per l’asciuttezza del linguaggio, Engels sembra addirittura essere più efficace:

In Inghilterra durante la rivoluzione industriale , gli industriali introdussero il sistema del lavoro notturno. Gli operai venivano quindi divisi in due gruppi: un gruppo lavorava nelle dodici ore diurne , l’altro nelle dodici ore notturne. Questo lavoro notturno portava l’abolizione del riposo notturno, e non è sostituibile dal sonno diurno. I risultati, inevitabili, erano un grande eccitamento del sistema nervoso, unito dall’indebolimento ed esaurimento generale di tutto il corpo. Inoltre venivano stimolati l’ubriachezza e gli eccessi sessuali. Altri industriali facevano lavorare parecchi operai per trenta – quaranta ore di seguito, e cioè parecchie volte alla settimana. Le conseguenze di questi fatti si manifestarono ben presto: nelle fabbriche aumentava la presenza di storpi, i quali dovevano la loro minorazione unicamente all’eccessivo prolungamento del tempo di lavoro. Questa minorazione, consiste di solito in una deformazione della colonna vertebrale e delle gambe. L’aspetto di questi storpi è caratterizzato dalle ginocchia “voltate” indentro e all’indietro, i piedi indentro , le articolazioni deformate e ingrossate, la spina dorsale incurvata in avanti o lateralmente.           

La contraddizione sociale, però, è solo uno degli aspetti della questione che riguarda l’etica famigliare. La scissione fra la borghesia di campagna che elabora il suo stile e le masse urbane che ne sono escluse, è soltanto il primo atto della tragedia. La scissione, infatti, si ripercuote all’interno della famiglia stessa, in altre forme. Sulla società europea a cavallo fra il sette e l’ottocento e sulla pretesa universalistica di quel modello matrimoniale, si abbatterà il ciclone romantico che noi interpretiamo ormai secondo i nostri cliché e anche secondo la tesi del più importante studioso dell’amore in occidente e cioè De Rougement: l’equivalenza fra follia amorosa e amore. Alcuni romanzi, a cominciare da quelli delle sorelle Brönte, autorizzano ampiamente tale visione. Le tre autrici sembrano incarnare perfettamente il cliché romantico della passione amorosa come tragedia e destino. Muoiono tutte e tre giovanissime, Anne ed Emily di tubercolosi, il mal sottile, un altro dei cliché romantici. L’ultima, Charlotte, muore a 39 anni. Cime tempestose e Jane Eyre sono i due romanzi più importanti. Il primo, in particolare, è la storia di un amore distruttivo.

Questa visione prevalente nel considerare il romanticismo lascia nell’ombra e in secondo piano che il romanzo romantico è anche quello dove si trovano le maggiori esaltazioni del matrimonio, ma a una ferrea condizione: che si tratti di un matrimonio d’amore. La grande novità che il romanticismo porta è proprio questa, non la critica dell’istituzione matrimoniale in quanto tale, ma la critica al matrimonio in quanto contratto sociale.

Dal punto di vista romantico la famiglia non è più interessante in quanto organismo sociale, ma come ambito in cui si realizza l’unione fra l’uomo e la donna, dove il sentimento amoroso arriva alla sua realizzazione. La famiglia romanticamente intesa diventa un microcosmo che viene visto nelle sue dinamiche interne e nelle relazioni fra i coniugi; non scompare la sua proiezione all’esterno, ma s’affaccia all’orizzonte l’introspezione insieme alla profondità psicologica dei personaggi. Possiamo considerare questi romanzi come un’ulteriore elaborazione di quel galateo borghese di cui abbiamo visto alcuni esempi e che arricchisce, per citare il titolo del romanzo di Flaubert: L’educazione sentimentale.

Tuttavia il matrimonio d’amore, pur essendo uno straordinario momento di civilizzazione, non è così facile da realizzare, non solo naturalmente per le condizioni esterne e cioè la lotta contro la visione contrattualistica del matrimonio, ma anche al proprio interno. Un romanzo emblematico come Le affinità elettive ci dice proprio questo ed essendo del 1809, ci dice anche che Goethe ha saputo in quest’opera intravedere il conflitto irriducibile fra l’eros, la passione amorosa e la struttura stessa della famiglia e dell’istituzione matrimoniale. Romanzo modernissimo quello di Goethe.

Esso inizia con due vedovi che si sposano. Edoardo e Carlotta si amavano da giovanissimi, ma le loro famiglie li costrinsero a sposarsi con altri per questioni patrimoniali. L’inizio del romanzo, dunque ci presenta una situazione che conosciamo bene: il contrasto fra amore e contratto matrimoniale. Goethe, con un primo colpo di genio, fa morire precocemente i loro rispettivi coniugi, così che i due possono ritrovarsi e si sposano. La storia potrebbe finire qui: il matrimonio d’amore alla fine vince. Invece la storia vera comincia qui. I due sposi novelli vivono in una grande villa con un parco, Edoardo ha un vecchio amico, un capitano, che decidono di ospitare come una sorta di giardiniere e factotum. Carlotta è incerta, non vuole turbare il loro equilibrio. Lei però ha una figlia di primo letto che si trova in collegio insieme a una nipote, Ottilia e alla fine accetta la presenza del capitano ma chiede a Edoardo che anche la nipote venga a stare con loro. Sottilmente e in modo più o meno inconscio, Carlotta forse accetta il capitano con il pensiero recondito che egli possa essere un buon partito per la figlia, assai sofferente e introversa. Solo che accade qualcosa di diverso. È Edoardo, il marito, a sentirsi sempre più attratto da Ottilia, la nipote di Carlotta, che a sua volta si sente sempre più attratta dal capitano. Tutti e quattro sono consapevoli di quello che sta accadendo, la passione amorosa si contrappone in modo radicale all’istituzione matrimoniale anche nella sua versione romanticamente positiva. Cercano di affrontare la situazione, assumono un atteggiamento responsabile, non ipocrita. Decidono però di scegliere in qualche modo l’istituzione. Il capitano accetta un’offerta di lavoro, mentre Ottilia viene mandata da un’amica della madre Carlotta. Edoardo però non si piega alla rinuncia del desiderio e rifiuta di tornare al loro rapporto come se niente fosse accaduto: così s’allontana anche lui, sognando sempre di ricongiungersi a Ottilia prima o poi. Visto che Edoardo non vive più nella casa, Carlotta e Ottilia continuano a vivere nel castello, finché un giorno Edoardo si decide a chiedere il divorzio alla moglie e questa gli rivela di essere però incinta di lui. Il figlio che nasce, tuttavia, assomiglia al capitano e a Ottilia più che a lui e a Carlotta, e qui Goethe ha un secondo colpo di genio. La questione è psicologica e molto sottile: non si tratta di un banale inganno, il figlio assomiglia a Ottilia e al capitano perché mentre facevano l’amore ognuno dei due e cioè Edoardo e Carlotta sognavano di farlo con i loro rispettivi amanti. Goethe anticipa la psicanalisi e ha sicuramente ispirato un romanzo dei primi del ‘900, scritto da un autore che piaceva moltissimo a Freud: Athur Schnizler. Mi riferisco a Doppio sogno, cui è ispirato anche il film di Stanley Kubrik, Eyes wide shut.

Torniamo al romanzo. Edoardo vuole sistemare le cose, accetta di tenere il figlio ma insieme a Ottilia, non alla moglie. Un giorno lui ritorna al castello e incontra Ottilia che è andata con il bambino a fare una passeggiata. Si baciano di nuovo con passione. Ottilia ne è sconvolta. Mentre attraversa il lago per ritornare a casa assorta nei suoi pensieri, compie un brusco movimento che fa oscillare la barca. Il neonato cade in acqua e annega. La tragedia travolge tutti personaggi.

Questa del figlio morto annegato – una figlia in  quel caso – tornerà in un romanzo del secondo ottocento italiano: Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro.

La famiglia come istituzione sociale e la famiglia come luogo di realizzazione dell’amore romantico, sono dunque in crisi fin dal loro nascere; lo sono nei grandi romanzi borghesi ma anche nella realtà. Questo non vuol dire che non continuano a esistere famiglie dove il galateo borghese venga praticato, o l’amore perseguito, ma tutto ciò avviene non nel clima idilliaco che abbiamo visto rappresentato nei romanzi della Austen o di Goldsmith, ma nel mezzo di contraddizioni sempre più insanabili e di sofferenze sempre più acute. 

La decadenza

La famiglia amorosa e la famiglia come strumento di educazione sociale, entrambe borghesi vivono scisse l’una dall’altra in molti romanzi ma si ricongiungono di nuovo in una grande opera del 1901: I Buddenbruck di Thomas Mann. Il romanzo è, al tempo stesso, la storia di una famiglia dei capitani d’industria che va verso la decadenza e la rappresentazione della crisi di quel processo di educazione sentimentale e rigore che abbiamo visto nelle opere precedenti. Lo potremmo definire uno dei romanzi capaci di rappresentare come pochi altri l’esplodere di tutte le contraddizioni dell’istituzione famigliare, sia dal suo versante di organismo sociale, sia per ciò che attiene alle relazioni amorose.

Il romanzo inizia con un conversazione affabile che si svolge in un tipico salotto borghese. Si parla d’arte, di poesia, è il trionfo di quel galateo che abbiamo visto costruirsi nel tempo e infatti sembra di essere tornati a casa del Vicario di Wakefield. Siamo nel 1835 e tutta la famiglia è nel salotto perché il vecchio Johann Buddenbruck proprietario della ditta fondata nel 1768, si trova nel momento delicato del passaggio di consegne. Siamo alla seconda generazione ed è qui che cominciano i guai perché i figli non sempre sono meglio dei padri, in ambito borghese almeno, più ancora che non per l’aristocrazia.

Passano gli anni e gli affari non vanno benissimo, i moti rivoluzionari del ’48 fanno la loro parte. All’interno della famiglia è Antoine, detta Tony il personaggio più memorabile. É una ragazza ribelle e inquieta, ma che si sposa male, tanto che i debiti del marito rischiano di riversarsi anche sulla ditta di famiglia. Paradossalmente lei divorzia proprio per preservare la società.

Quando la ditta passa  Thomas, le cose migliorano un po’, ma egli non è solo. Lui è il responsabile capace, ma il fratello Christian è un dissoluto cui piace la vita comoda. Quando torna in famiglia fra i due fratelli è guerra. Tony assiste alle lotte di potere (nelle quali s’inseriscono altri elementi esterni alla famiglia), sempre più delusa e amareggiata, finché la misura diviene per lei colma:

Abituarsi all’ambiente? No, fra gente senza dignità, senza morale, senza ambizione, senza signorilità e senza rigore, fra gente sciatta, scortese e trasandata, fra gente che è allo stesso tempo pigra e leggera, pesante e superficiale… fra gente così non mi posso ambientare…

Tony è proprio il risultato di quella educazione sentimentale che la borghesia ha voluto per lei, ma che ora le si rivolta contro. Tony rimprovera, nel brano appena citato, la mancanza di coerenza, vede lucidamente il fallimento di quel valori intorno ai quali anche lei era stata educata.

Dopo un’alternanza di rovesci e di riprese, nonché il matrimonio della figlia di Tony, si arriva al centenario di fondazione della ditta e cioè nel 1868. L’evento simbolico non cambia il corso degli eventi. I Buddenbruck non falliscono, ma decadono sempre, il marito della figlia di Tony subisce un processo e finisce in galera, tutto si disgrega senza crollare, la borsa e la finanza stanno diventando i nuovi fari dell’economia capitalistica, la funzione imprenditoriale cambia e loro non sono sempre capaci di tenere il passo, ma subiscono anche la concorrenza spietata di altri protagonisti del romanzo, gli Hagelstrom, rivali dei Buddenbruck. Le leggi di una concorrenza spietata hanno una parte nel romanzo ma il messaggio finale, una volta liquidata la ditta, è un altro. Con i Buddenbruck. si dissolve proprio quella capacità imprenditoriale, quel saper fare che avevamo visto incarnato nei suoi aspetti vitalistici da Tom Jones.

Alla fine è Tony che rimane sola a incarnare la famiglia, proprio lei; è benestante come tutti gli altri protagonisti, quindi non è la ricchezza materiale che le manca ma tutto il resto. Ciò che è miseramente fallito è proprio quel galateo borghese che si voleva universale e che invece non regge neppure all’interno della quattro mura domestiche.

Il ‘900

Nel grande romanzo del ‘900, la famiglia di fatto scompare o è di nuovo protagonista laddove lo sviluppo di un’economia capitalistica e di una cultura borghese è stata più tarda, come in Italia, per esempio. In Pirandello e anche precedentemente in Verga, essa è presente, anzi è la cellula primaria che grazie alla cooperazione fra i suoi membri dovrebbe garantire la possibilità di riscatto. Invece, implode internamente e anche come organismo sociale (il ciclo dei vinti). La grande narrativa siciliana, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa rappresenta plasticamente la decadenza delle famiglie aristocratiche nel momento in cui Il regno delle due Sicilie sta per cadere. Nel ‘900 esplode la crisi dell’individualità borghese. Da Svevo a Musil, ma anche in Henry James negli Stati Uniti, la dissoluzione del personaggio eroico o almeno forte, è la costante: è il tempo degli uomini senza qualità. In Italia, Il fu Mattia Pascal fugge da se stesso e da ogni legame.

Nel secondo dopoguerra romanzi come Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e ancora di più Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, continuano nobilmente quella tradizione borghese che abbiamo visto alle sue origini rappresentata dai romanzi del primo settecento inglese. I valori, i personaggi, il loro modo di agire ricalcano quei modelli, seppure attualizzandoli e collocandoli nella realtà italiana. Una novità di rilievo è la presenza in alcune narrazioni novecentesche, della famiglia operaia: Figli e amanti di D.H. Lawrence in Inghilterra e alcune opere del neorealismo italiano, come Metello di  Pratolini.

Cosa avviene invece, se si va dall’altra parte dell’Atlantico? L’urlo e il furore di Faulkner e Furore di Steinbeck sono forse i romanzi più rappresentativi, rispetto a questa tematica. Entrambi hanno al loro centro la disgregazione di due famiglie. In Furore è la crisi del ’29 a rovinare Tom Joad e i suoi famigliari, mentre nel romanzo di Faulkner la disgregazione della famiglia borghese bianca assume i toni allucinatori e psicotici di uno dei protagonisti (Bengj); oppure quelli cinici di Jason. Il romanzo, un cult della narrativa d’avanguardia, non apporta nulla di nuovo al copione, ma la rappresentazione plasticamente tragica ed espressionista insieme, fanno di questo romanzo un capolavoro.

Nella narrativa più recente quello che appare evidente, anche nei romanzi di intrattenimento, è la presenza di un mondo orizzontale di fratelli e sorelle che sono rimasti senza padri o senza madri: per esempio Caos calmo di Veronesi. Del resto un bel libro dello psicanalista junghiano Luigi Zoja, delinea molto bene la deriva della figura paterna, ricostruendone la storia da Ettore ai nostri giorni: Il gesto di Ettore.

Oppure si affaccia anche nella narrativa la famiglia pedofila o l’abuso: La bestia nel cuore di Cristina Comencini, oppure L’amore molesto di Elena Ferrante. In generale è proprio la società senza padre la protagonista di molta narrativa contemporanea, anche laddove esso sembra esistere ma si presenta nella versione post sessantottina del genitore amicone.

Per concludere

Con quest’ultimo passo si compie un percorso secolare ma al tempo stesso, proprio a seguito dei cambiamenti profondi avvenuti dalla metà degli anni ’60 in poi, sono maturate altre consapevolezze e soggettività che hanno cambiato radicalmente il modo di concepire la famiglia e messo in discussione il concetto stesso di famiglia. Mi riferisco al  femminismo, alla crescita dei movimenti LGBTQ, alla riflessione su genere, classe e sesso. Si può davvero dire che da tutto questo fermento ha preso avvio non un nuovo capitolo, ma un’altra storia e altre scritture. In questa fase, la mia impressione è che la saggistica sia qualitativamente predominante rispetto alla narrativa ed è dunque a tale vasto campo che è meglio rivolgersi.  

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MORTI A TEATRO

La trama e i personaggi

La trama de Il tempo dei morti di Alessandro Carrera, appena uscito per Moretti&Vitali, è costituita da una vicenda famigliare che ricorda anche l’ambientazione di Piccola città di Wilder, come viene detto nella prefazione di Franco Nasi, che si riferisce a una nota dell’autore, contenuta nell’intervista finale. Quanto ai personaggi – Il Padre, la Madre, il Figlio, Il Bambino Morto, l’Angelo, il Droghiere, il Coro dei morti, il Padre ragazzo – essi sembrano richiamarsi lontanamente alla trinità cristiana, circondata da altre figure più o meno canoniche a essa collegate; tuttavia, alcune vistose anomalie rendono tale riferimento subito precario. Prima fra tutte la presenza del Droghiere, forse il personaggio più importante, insieme al Coro, indicato peraltro con un parola ormai desueta, nel senso che lo smercio tipico di quella attività è stato assorbito da mercati più ampi: il Droghiere ci riporta indietro nel tempo. Che mondo è dunque quello che viene rappresentato? Se stiamo alle indicazioni di scena iniziali vi sono pochi dubbi: tutta la vicenda è ambientata in un cimitero.  La poesia, a cominciare da quella che abbiamo imparato a scuola, è piena di discese nell’Ade, di morti che parlano, di viaggi iniziatici, di miti: sono personaggi di autori memorabili che ognuno ricorda. Anche il cinema, l’arte più moderna, ha frequentato il mondo di là, in vari modi: da La voce della luna di Fellini al Nosferatu di Herzog; infine il teatro. L’episodio biografico cui Carrera si riferisce e cioè proprio una rappresentazione teatrale cui assistette suo padre nell’immediato dopoguerra, è un segnale importante. Lasciate stare i nostri morti fu urlato dal pubblico che vi assisteva: i lutti ancora recenti avevano alimentato quel grido, ma la memoria di quell’episodio ha lavorato a lungo nella mente e nel cuore dell’autore se dopo decenni, quei morti tornano a parlare. Non ci dicono nulla sull’aldilà: siamo in piena modernità, questi morti hanno lo sguardo sempre puntato sul mondo che li ha ospitati da vivi, guardano all’al di qua e in questo ricordano anche i defunti dell’Antologia di Spoon river, ma solo come eco, perché in quei testi prevale una forza sintetica che spinge quei morti a esprimersi in un linguaggio definitivo, senza appello. Ne Il tempo dei morti, invece, è la tensione dialettica fra frammenti illuminanti e flusso a dominare. Tale tensione si stempera in un finale addirittura allegro, persino scherzoso e riconciliato, dal colore improvvisamente solare, a differenza della colorazione cupa che accompagna il testo fino a quel momento. Carrera qualche indizio sulle ragioni del percorso lo dà nell’introduzione e nell’intervista finale quando afferma che quest’opera, che lo ha accompagnato per molti anni, è stata:

una lotta con un fantasma, che nel testo è rappresentato dal Bambino morto …  (Pag. 81).

A questa affermazione segue una rapida descrizione del contesto famigliare che provo a riassumere, con una precisazione e cioè che la ricostruzione della trama è qualcosa che il lettore può compiere a cose fatte, ma che non riguarda il tempo del testo – il tempo dei morti – che non può essere lineare come lo è invece qualsiasi ricostruzione ex post.

Nelle prime sette scene, concluse dal Coro dei Morti, si presentano le otto voci e il loro conflitto. Nella seconda metà del dramma (scene 8-14) il conflitto prende corpo. Il Figlio deve scendere nel Regno dei Padri per comprendere che cosa è accaduto tra il Padre morto e il Bambino morto, affrontando la paura della Madre. Il Figlio comprende ciò che è accaduto al Padre e allo zio (il Bambino morto), ma solo in  sogno. Il Coro dei Morti esprime una certa ostilità verso l’Angelo, facendogli capire che la sua immortalità ai morti non interessa; quello che loro vogliono è vivere nel ricordo dei vivi. Il Droghiere sorveglia fino all’ultimo che le cose vadano a buon fine: il riscatto del Padre e del Bambino avviene, ma all’insaputa della Madre e del Figlio che, in quanto ancora vivi, non vi possono assistere. La comparsa del Padre Ragazzo, che ritrova il Bambino morto in un luogo e in un tempo in cui non c’è nulla di vicino o di lontano, conclude l’opera.

La dialettica fra squarci illuminanti e flusso porta il lettore dentro un vortice, di cui però alcuni indizi e segnali permettono di delineare dei confini sia spaziali sia storici. Qualche altro segnale lo lascia Carrera. Il suo accenno biografico alla fuga – l’espressione è soltanto mia ma mi sembra calzante – da Milano verso gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80, anni assai decisivi sia per la grande storia, sia per quelle personali, offrono una cornice temporale sufficientemente riconoscibile a questa narrazione in versi. Nel primo racconto del Padre morto e poi in quello del Droghiere, la collocazione storica, emerge con sufficiente chiarezza, pur nel mezzo di riflessioni che seguono una loro logica interna ai personaggi, da monologo interiore. Siamo fra Milano e Lodi, cioè fra la grande e la piccola città di provincia: ci sono il teatro Carcano e la Scala, l’Eni di Enrico Mattei e i crucci di chi deve ricostruirsi una vita alla fine del conflitto. Il Droghiere tornerà a parlare intorno agli stessi temi.

Il Droghiere

Anche a successive riletture continua ad apparirmi come il personaggio più importante, insieme al Coro. Nel suo primo intervento rimprovera il Padre, lo esorta a dimenticare il discorso che intende fare e che sarebbe poi l’orazione funebre dell’amico in occasione del suo funerale. Capiamo subito che la relazione fra il Droghiere e il Padre morto è stata una grande amicizia:

Metti via che non serve. I discorsi

Già stancano i vivi, ma qui non ci sono

Che morti, stanchissimi e morti. Non so

chi ha voluto che fosse così, alle

Pagine del libro che lo spiega non

C’è volta che ci arrivo …

Il tono ironico dei primi versi si rovescia nella seconda parte: la domanda implicita rimane sospesa e l’accenno alle pagine di un libro che dovrebbe poter spiegare ogni cosa si apre a significati molto estesi. Nella seconda parte del suo discorso torna l’ironia e il tono s’abbassa considerevolmente:

… Gli esami, lo sai, non li davo.

 Non per colpa di donne

o di treni, ma a lezione facevo tardi

Anch’io, e perdevo l’inizio; di tutto,

di come son fatte le cose, di quando

comincia la donna nell’uomo, la radice

quadrata di Dio. Tu sei ancora troppo

vivo, hai le guance bagnate di sonno

e di sogni, non ti basti come noi

ti vorremmo, ti tieni così stretto

a chi sei stato, mi sembri l’internato

di Mauthasusen che a casa da sei

settimane ancora serrava la gavetta

fra le mani vuote …

Il Droghiere rifiuta il discorso/narrazione della storia fatto dal Padre Morto, ma non propone un punto di vista più elevato: neppure lui ha una risposta definitiva, le sue debolezze sono umane come quelle di tutti gli altri, non è la trasfigurazione di una capacità superiore di vedere le cose. Insieme al Padre rappresenta una coppia di amici che hanno vissuto gli stessi anni e le stesse inquietudini: sullo sfondo il difficile secondo dopoguerra. Il Droghiere, in definitiva, sembra essere poco più di un fratello maggiore. Sono vite bloccate, diversamente prigioniere di un destino ormai postumo – sia esso del tutto personale o meno –  che può essere ricostruito solo per frammenti, i quali tuttavia non dialogano fra di loro se non raramente e il motivo sarà proprio l’Angelo a dirlo, come vedremo. Quest’ultimo, più che caduto, scende per scelta nel mondo. Se è un Angelo ribelle, la sua è una ribellione tenue, assomiglia di più a una diserzione: un poco ricorda l’angelo di Un cielo sopra Berlino, ma quello che dice nella prima sestina, è una sentenza che assume la funzione di chiave – intendo il termine nel suo senso musicale – della sua presenza nell’opera:

Prima sestina dell’angelo:

Mi sono ribellato, perché esser felici è intollerabile.

Ho scosso il capo alla salvezza, sotto stelle senza pena,

e sono sceso. Ti annuncio il dolore, l’unica novella

che non mi fa arrossire. Forse non abbraccio il tuo potere,

tanto è più  grande del mio, che invece di riavvolgere

il tappeto manifesto lo consola di una nuova tramatura.

e sono sceso. Ti annuncio il dolore l’unica novella, è questa la sola novella che non fa arrossire chi la pronuncia. Lo spostamento rispetto alla buona novella cristiana è decisivo. Successivamente, le parole dell’Angelo, quando si rivolge alla Madre, esprimono a mio giudizio uno dei temi  più importanti dell’opera:

L’Angelo

Un oblio insondabile e perfetto

Trascorre da una schiatta all’altra

Con la stessa ardente cura

Con cui gli uomini si traggono il sapere.

Pienezza dei padri è soltanto l’infanzia dei figli,

saggezza  intrasmissibile dei vecchi

È che i giovani, lungo la memoria,

diventeranno più e più immemori …

L’oblio, l’impossibilità di una trasmissione fra le generazioni, ma anche fra i membri di una famiglia, la perdita di memoria. l’Angelo lo ribadisce e dunque dalle sue parole emerge quel tanto di consapevolezza in più che tuttavia non può essere condiviso. Siamo così lontani da quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni? La perdita di memoria storica, oppure la sua reiterazione inutile perché banalmente ritualizzata, non sono forse una delle caratteristiche salienti del nostro tempo? Quanto alla memoria personale, sappiamo quanto sia labile e sottoposta alle rimozioni: come sia facile scambiare date e situazioni. In fondo, anche per i vivi, il tempo lineare è una difficile conquista. Solo il lettore, a questo punto, può decidere di assemblare i frammenti diversi di queste consapevolezze. In questo senso, il testo di Carrera chiede la sua cooperazione ma non la sua complicità perché i silenzi, i vuoti, persino le amnesie – nonostante il flusso – o non permettono una sintesi, oppure ne permettono molte; o a ciascuno la propria.

I dialoghi fra la Madre e il Figlio sono stati per me la parte più difficile da decifrare. Non mancano anche nei loro interventi frammenti illuminanti, ma sembrano correre su due binari paralleli: la discesa alle Madri è particolarmente difficile e lo è forse di più per un uomo, se ha nicchiato pure Goethe come afferma Carrera nell’intervista. La ragione per cui il Figlio è nato e insieme non nato, anzi disnato, è la presenza del Bambino Morto, il fratello del Padre, morto da bambino in circostanze cupe e che porta lo stesso nome del Figlio. Tuttavia, si comprende che del Regno dei Padri la Madre non sa e non vuole sapere nulla e teme che il Figlio non faccia più ritorno, mentre lui deve staccare da sé il fantasma del Bambino morto per poter dire di essere nato. Anche il Figlio e il Ragazzo morto sembrano condannati a un linguaggio ancora più magmatico perché la loro esistenza, più ancora di quella degli altri, è senza interlocutori. È questa la ragione per cui i versi con cui si esprimono sono così franti rispetto alla solennità di altri? Probabilmente sì, ma talvolta ho avuto la tentazione di leggerli senza la cesura del verso decisa da Carrera. Nel primo intervento del Figlio pare di sentire tutto l’affanno del dire, anche se nel finale s’intravede una possibile luce:

Pure un indizio

Di memoria

Ancora mi raggiunge,

mi questiona.

Anche nelle prime battute della Madre s’avverte il medesimo affanno, è un parlare a se stessa più che al figlio, c’è una distanza palpabile che rende la comunicazione quasi impossibile. In un passaggio la Madre ricorda Maria, quando implora il Figlio di non interrogarla e prosegue così:

… comprendimi in silenzio,

io ti ho concepito nel silenzio,

tu destino, tu contemplazione,

come io fui contemplata e soppesata.

Il silenzio, in questo caso, sembra essere quello di chi nel progetto generale non ha avuto voce, perché è stata contemplata e soppesata da altri, cioè il mondo dei padri. Nelle parole della madre, infatti, la storia non compare mai e una volta sola sembra affacciarsi nelle parole del Figlio quando afferma:

Ragazzi come io non sarò mai,

seduti sui muretti

spruzzati con la canna,

intenti farsi grandi

sognarsi come padri, più furbi e fortunati,

 fumano fuori dalla fabbrica

abbassando scappamenti.

Per una conclusione

Classificare un libro come Il tempo dei morti non è facile e forse solo dopo esserci tornato più volte si potrà dire qualcosa al proposito. Il mio percorso, peraltro, è stato testuale e probabilmente parziale, ma nel concluderlo è aumentata in me la convinzione che un testo del genere, può trovare nel teatro il suo felice punto di caduta. Se il Droghiere è il personaggio chiave della prima parte del testo, il Coro dei morti ha svolto un ruolo determinante nel giungere a tale conclusione perché non si tratta solo di un omaggio alla radice greca della nostra cultura, come avevo pensato a una prima lettura. Prima di tutto la sua collocazione centrale nel testo: è la settima sezione su quattordici e segna il passaggio da un prima a un dopo. La metrica è solenne, oscilla fra il blank verse della poesia inglese e l’endecasillabo, ma la particolare disposizione del testo conferisce al medesimo una sonorità molto forte, a volte aspra, che invoglia anche il lettore solitario a una recitazione a voce alta. La particolare compattezza del testo, si rovescia però nel suo opposto perché, facendoli parlare a turno e affidando a ciascuno una quartina diversa, il coro si disgrega in una molteplicità di voci che parlano individualmente, rompendo così la tradizione che affida al Coro una verità sovra determinata. Nel loro parlare insieme e disgiunti chiedono ancora una volta al lettore o allo spettatore di cooperare. Le sintesi non possono che essere tante e diverse, prestandosi anche a messe in scena per nulla tradizionali, dove la musica e persino la danza moderna possono svolgere un ruolo decisivo insieme a una parola che propone, nel corso dell’intera opera, un’alternanza di stili – da quello più alto, al basso colloquiale, al medio – che si prestano a loro volta a una polifonia di soluzioni.

NOBEL MANCATI: FABRIZIO DE ANDRÈ

Questo saggio fu pubblicato nel blog Diepicanuova – http://diepicanuova.blogspot.com, – fondato da Paolo Rabissi e da me. L’occasione, allora, fu il dibattito che nacque dopo l’attribuzione del Nobel della letteratura a Bob Dylan, dibattito che si trova e può essere letto nel sito Diepicanuova. Lo ripropongo qui in memoria di Fabrizio de Andrè, nei giorni ci ricordano la sua precoce morte.

Premessa.

L’attribuzione del Nobel a Bob Dylan è ormai metabolizzata alle nostre spalle da tempo e siamo ritornati negli alvei consueti, tutto passa in fretta. Contagiato dalla lentezza, però, ho continuato a ragionare sul senso che possa avere l’assegnare alla canzone d’autore un valore che sia anche letterario. La questione ha una sua importanza, checché ne pensino i poeti laureati, anche perché esistono culture diverse dalle nostre, seppure parenti strette (penso all’America Latina), dove hanno opinioni molto diverse in merito. Così, di riflessione in riflessione, mi sono ritrovato a domandarmi che cosa abbia Fabrizio De Andrè meno di Bob Dylan per essere considerato nel Pantheon degli esponenti maggiori del genere e perché no – visto il precedente illustre – anche meritevole di un riconoscimento letterario. Ho cominciato allora ad ascoltare di nuovo De Andrè, album dopo album, convinto come sono che le antologie (anche quelle di poesia) sono importanti per dare il senso di un periodo letterario, ma sono bugiarde quando sono la rassegna dedicata a un solo autore. Gli album sono come i libri per un autore di canzoni: entrambi sono organismi autonomi e non semplicemente una sequenza di testi e canzoni. Le antologie, invece, tendono per forza di cose a scegliere fior da fiore, ma in questo modo si perde il lavorio che sta alle spalle di un libro come di un album, ma anche a considerare minori delle canzoni o poesie che non lo sono affatto.

La prima fase

Il primo album registrato da De Andrè, nonostante alcuni 45 giri precedenti e un long playing, è Volume 1 del 1967, un titolo anodino ma anche leggibile oggi in altro modo. A un semplice ascolto dopo tanto tempo, l’impressione è grande. Durante gli anni ’60 ci sono state molteplici rotture culturali e politiche. Nel campo della canzone ebbero di certo la loro importanza Modugno e i cantautori genovesi; inoltre, c’era stata la polemica di Calvino, Pasolini e Fortini contro il Festival di Sanremo, che aveva portato fra l’altro al rilancio della canzone popolare e operaia con Cantacronache e poi il Nuovo Canzoniere di Michele Straniero. Si trattò di operazioni meritevoli, ma con lo sguardo rivolto a un passato che andava di certo conservato, ma che non poteva avere alcun impatto sulla cultura di massa che si stava formando: lo avrebbe avuto dopo il ’68 per ragioni politiche. Il festival di Sanremo non andava aggredito per contrapposizione e Pasolini fu il primo ad accorgersene quando ammise (cito a memoria) che niente altro poteva rappresentare l’estate del 1964 meglio di Sapore di sale di Gino Paoli. Occorreva un’operazione diversa e cioè portare la canzone popolare e di massa a un livello più elevato anche dal punto di vista dei testi, togliendo così centralità al Festival. Ascoltando il primo album di De Andrè, si coglie il senso di una frattura profonda con quanto si cantava in precedenza; a cominciare da Preghiera di gennaio, la canzone d’apertura che egli scrisse dopo il funerale di Luigi Tenco. Versi in difesa dei suicidi come:

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero […] perché non c’è l’Inferno nel mondo del buon Dio […] l’Inferno esiste solo per chi ne ha paura

aprono un orizzonte nuovo e se pensiamo proprio al confronto con Tenco medesimo e aldilà della loro amicizia, la separazione dal gruppo genovese è netta. Iniziò allora una stagione veramente importante, anche grazie all’intuizione di Amilcare Rambaldi, che seppe metabolizzare la morte di Tenco fondando il club omonimo che divenne il polo intorno al quale cominciò a coagularsi il meglio della musica italiana d’autore. L’operazione ebbe anche un successo commerciale, visto che si vendeva e si ascoltava di più quello che non andava a Sanremo piuttosto che quello che ci andava.  

L’album contiene alcuni dei suoi brani memorabili come Bocca di Rosa e la Ballata di Re Carlo, tuttavia è sulla sua prima parte che vorrei soffermarmi, perché in essa è presente la visione di un cristianesimo anti istituzionale che ricorda l’analoga operazione compiuta da Dario Fo più o meno negli stessi anni: distaccare la figura di Gesù da ogni orpello chiesastico. Mi riferisco a brani come la già citata Preghiera di gennaio, Spiritual e Si chiamava Gesù. Questo tema di un cristianesimo vagamente anarchico e antistituzionale, fondato anche sui Vangeli Apocrifi, che tanto entusiasmava un uomo e un sacerdote come Don Andrea Gallo, verrà ripreso da De Andrè anche in alcuni degli album successivi e prima di tutto in La buona novella.

Nella seconda parte di Volume 1, con Via del Campo, entrano in gioco i temi che saranno – in ogni album – i suoi più forti: gli emarginati, gli anarchici, i ribelli, le puttane e i loro clienti, la critica dell’ipocrisia e del perbenismo borghesi, il rifiuto di ogni potere e della sua giustizia (“non ci sono poteri buoni”).

Dall’esistenzialismo alla ribellione

Il contesto sociale che fa da sfondo alla poetica di De Andrè durante il corso degli anni ’60 è la Genova città di porto più che terzo polo industriale del triangolo: con le sue taverne più che non le sue industrie, la famosa via Prè che corre in parallelo alle grandi strade, che si apre ad altri vicoli e ai suoi umori e personaggi. Questa realtà però si tinge di colori espressionisti e visionari, sia risalendo a fonti letterarie come Villon e Angiolieri, sia andando indietro nel tempo, riscoprendo sonorità a ritmi che si richiamano a un medioevo genericamente inteso o comunque rivolti a un passato che a Genova è stato peraltro assai fiorente. Nella Genova contemporanea, come altrove, prevalevano – negli artisti più inquieti – gli umori esistenzialisti, i riferimenti erano Parigi, Prevert, Sarte ma, specialmente per il gruppo genovese, Juliette Greco, Brel e Brassens. Nel tempo, però, tali umori diventarono una gabbia per la maggioranza di loro, dalla quale non usciranno mai. Per tutti l’estenuato Tenco, il cui tragico destino non può far dimenticare, a decenni di distanza, la sua troppo esibita malinconia esistenziale, condita da quantità industriali di narcisismo. In Italia stavano cambiando molte cose e il solo a uscire dalla gabbia fu proprio De Andrè, perché già in origine la sua poetica si nutriva di riferimenti che spaziavano in molteplici direzioni, fra cui la poesia. De Andrè non fu vicino al ’68 perché troppo lontano da ogni tentazione militante, tanto da essere ritenuto addirittura una spia dalle componenti più settarie e idiote delle nascenti forze partitiche extra parlamentari; il paradosso sta nel fatto che anni più tardi fu proprio lui a diventare oggetto delle attenzioni dei servizi segreti! Egli seppe però cogliere il cambiamento, scegliendo anche nei suoi riferimenti d’oltralpe, chi anche in quel contesto sapeva interpretare meglio lo spirito dei tempi: Vian piuttosto che l’eterno adolescente Prevert.        

Gli album successivi al primo riflettono questi mutamenti, sia per la concentrazione in pochi anni, sia per i toni espressivi interni a ciascuno di essi, tanto da segnare il passaggio dagli esordi a una prima fase di maturità: Tutti morimmo a stento (1968), Volume III, sempre del ’68; poi Nuvole barocche (1969), che comprende anche tutte le canzoni precedenti l’anno d’esordio. Questo ciclo si conclude nel 1973 con Vita di un impiegato, ma a metà di esso e cioè nel 1971, si colloca Non al denaro, non l’album minore di questo periodo, nonostante La canzone dell’amore perduto peraltro presente anche in altri long playing. Volume III contiene alcuni dei suoi capolavori fra cui un’impareggiabile versione de Il Gorilla di Brassens, La guerra di Piero, Amore che viene amore che va.

Tuttavia, è sull’ultimo album di questo periodo, Storia di un impiegato, che mi sembra utile soffermarsi, perché si distanzia dai precedenti proprio perché affronta criticamente e anni dopo, il movimento del ’68 e tutto quanto se sortì. La critica di sinistra lo accolse male ma anche al di fuori di quell’ambito, fu considerato un flop. De André stesso in un’intervista, ne parlò in questo modo:

 La “Storia di un impiegato” l’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile, so di non essere riuscito a spiegarmi.

Nella dichiarazione di cui sopra c’è quasi tutto, nel senso che emerge da essa la difficoltà di De Andrè nel rapportarsi ai movimenti di quegli anni, ad affrontare direttamente una tematica politica ma anche l’onestà intellettuale di avere cercato di farlo. La scelta stessa di scrivere la storia di un impiegato rivela prima di tutto la sua difficoltà a rapportarsi con la classe operaia; a differenza di Jannacci a Milano, per esempio. Anche nelle canzoni di quest’ultimo non mancano barboni, prostitute e clienti, solo che tali figure assumono maggiormente aspetti caricaturali e comici, mentre i veri personaggi drammatici delle canzoni più alte di Jannacci sono le vincenzine, cioè le operaie, le commesse, le lavoratrici che diventano metafora della fatica proletaria. Nonostante vivesse nella città dei portuali che nel 1960 erano stati protagonisti di una memorabile stagione di lotta che apriva il decennio che avrebbe portato al ’68, De Andrè non li vede, forse non è in grado di vederli perché il suo occhio vede altro. Tuttavia, era proprio così sbagliata l’idea di mettere un impiegato al centro della scena? Uno degli aspetti nuovi delle lotte di quegli anni non era forse costituito proprio dalla presenza di un forte movimento studentesco e di una saldatura fra operai, impiegati e tecnici dentro le fabbriche? A Milano, in anni precedenti, gli impiegati, le commesse, i goliardi delle serali, non erano forse stati i protagonisti del poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarani e de La capitale del Nord di Giancarlo Majorino? Non sarà proprio un perito tecnico impiegato alla Sit Siemens a diventare il leader delle Brigate Rosse? Allora, al netto di certe prese di posizione troppo emotivamente datate, si può affermare ad anni di distanza che si tratta di un album minore rispetto a quelli citati in precedenza, ma che in esso è presente un testo come Il bombarolo, che, proprio nella sua ambivalenza, indica una possibile parabola che accompagnò il decennio ‘70 come una nuvola scura. La radicalizzazione un po’ astratta e troppo recente da parte di ceti in ombra fino a un decennio prima, poteva portare anche a derive di varia natura. Parlo di ambivalenza perché Il bombarolo incarna una figura estrema e opaca al tempo stesso, che poteva prestarsi o essere usato sia a sinistra sia a destra. Se vi è una eco, nella canzone, delle tendenze anarchiche De Andrè, il personaggio appare segnato da un’ambiguità che lo corrode dall’interno.

Chi va dicendo in giro/che odio il mio lavoro/non sa con quanto amore/mi dedico al tritolo,/è quasi indipendente/ancora poche ore/poi gli darò la voce/il detonatore.//Il mio Pinocchio fragile/parente artigianale/di ordigni costruiti/su scala industriale/di me non farà mai/un cavaliere del lavoro,/io sono d’un’altra razza,/son bombarolo.//Nello scendere le scale/ci metto più attenzione,/sarebbe imperdonabile/giustiziarmi sul portone/proprio nel giorno in cui/la decisione è mia/sulla condanna a morte o l’amnistia.//Per strada tante facce/non hanno un bel colore,/qui chi non terrorizza/si ammala di terrore,/c’è chi aspetta la pioggia/per non piangere da solo,/io sono d’un altro avviso,/son bombarolo.//Intellettuali d’oggi/idioti di domani/ridatemi il cervello/che basta alle mie mani,/profeti molto acrobati/della rivoluzione/oggi farò da me/senza lezione.//Vi scoverò i nemici/per voi così distanti/e dopo averli uccisi/sarò fra i latitanti/ma finché li cerco io/i latitanti sono loro,/ho scelto un’altra scuola,/son bombarolo.//Potere troppe volte/delegato ad altre mani,/ sganciato e restituitoci/dai tuoi aeroplani,/io vengo a restituirti/un po’ del tuo terrore/del tuo disordine/del tuo rumore.//Così pensava forte/un trentenne disperato/se non del tutto giusto/quasi niente sbagliato,/cercando il luogo idoneo/adatto al suo tritolo,/insomma il posto degno/d’un bombarolo./C’è chi lo vide ridere/davanti al Parlamento/aspettando l’esplosione/che provasse il suo talento,/c’è chi lo vide piangere/un torrente di vocali/vedendo esplodere/un chiosco di giornali. //Ma ciò che lo ferì/profondamente nell’orgoglio/fu l’immagine di lei/che si sporgeva da ogni foglio /lontana dal ridicolo/in cui lo lasciò solo,/ma in prima pagina/col bombarolo.

Forse, concludendo questa parte si può dire che non era nelle sue corde affrontare di petto una tematica politica e che i conti con il ’68 li aveva già fatti, a modo suo, altrove, nella riscrittura dell’Antologia di Spoon River.

L’album chiuse un periodo dalla sua produzione, cui seguì una lunga crisi creativa, che tuttavia vide anche l’inizio di nuove collaborazioni proficue (con De Gregori e più tardi con Bubola), traduzioni di canzoni di Cohen, Dylan e altri e una serie di pubbliche esibizioni. Non intendo in questa riflessione seguire un percorso storicistico e dunque salto direttamente all’ultimo De Andrè, quello di Crêuza de mä (1984) e di Anime salve (1996), sebbene nel mezzo un album come Rimini (1978), sia tutt’altro che disprezzabile.

I grandi album

Il vertice dell’opera di De Andrè si trova a mio avviso nei due ultimi album e in quello già citato del 1971: Non al denaro, non all’amore né al cielo.

Crêuza de mä è un’opera del tutto nuova rispetto alle precedenti, che apriva una strada interrotta purtroppo dalla precoce morte: l’attenzione verso la musica etnica, le sonorità mediterranee e le lingue minori. La scelta di scrivere i testi in genovese lo testimonia. Non sono in grado, mi mancano le competenze per farlo, di valutare quale apporto linguistico esso dia alla koinè ligure e genovese che, ancora negli anni ’60, esprimeva autori che andavano ben oltre la commedia dialettale nel teatro (Govi) e che avrebbe espresso poeti come Roberto Giannoni e Paolo Bertolani. Da semplice ascoltatore c’è un dato sorprendente che mi ha colpito subito: il mare, in fondo poco presente nella produzione precedente di De Andrè, diventa il primo protagonista di questo album, un mare che si avverte prima di tutto nelle cadenze ritmiche della partitura musicale. Il merito, in questo caso, non è soltanto suo ma anche di Mauro Pagani.

Anime salve è una lunga meditazione sulla vita e sulla morte, dove precipitano in un’opera compatta e rigorosa tutti i temi della sua poetica, ma anche i diversi stili e timbri musicali, in questo aiutato dalla collaborazione con Ivano Fossati. Viene ribadita anche l’attenzione verso le sonorità mediterranee e le lingue minori (Â cúmba è scritta in genovese). Prinçesa, il brano d’apertura, ci dice fra l’altro quanto tempo sia passato dalle taverne di via Prè, dagli emarginati dei vicoli genovesi, dal porto ormai in parziale disarmo. Lo scenario è diventato globale e De Andrè lo coglie nella storia di un bambino brasiliano che si sente donna e si sottopone a tutta la trafila di dolore e umiliazioni possibili fino ad approdare fra le braccia di un avvocato milanese: l’alternarsi della lingua italiana con quella brasiliana riprende nel testo l’attenzione vero gli altri idiomi di cui si è detto.

Il sodalizio fra Fabrizio De Andrè e Fernanda Pivano nacque intorno all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e portò all’album che a mio avviso è il suo più grande: Non al denaro, né all’amore né al cielo (1971). Pivano in alcune interviste disse che De Andrè, in alcuni casi, aveva fatto anche meglio del poeta statunitense. La critica milanese amava di certo le iperboli, ma in questo caso mi sento di condividere quello che afferma. De Andrè non traduce i testi ma li riscrive, rispettando solo il pilastro fondamentale su cui si regge l’opera di Masters: la riproposizione in chiave moderna della dantesca legge del contrappasso, fondata sulla similitudine piuttosto che sulla metafora. Per il resto compie un’operazione del tutto diversa e in una direzione opposta. Masters scrisse una commedia umana in versi, fondata sull’equilibrio fra il microcosmo (la piccola comunità di un paese) e il macrocosmo che consiste nella dilatazione delle vicende, delle tipologie umane fino ad abbracciare per intero quella comunità, ma anche alludere a un’infinità di situazioni diverse: il piccolo paese diventa così un’allegoria dell’umanità intera. Perciò l’Antologia è una narrazione epico-lirica, a tratti sapienziale, che ritorna sulle stesse situazioni e tipologie di personaggi più volte. De André, dopo l’omaggio a tutti i defunti della comunità nel brano di apertura (La collina), distilla al massimo, riducendo la sua opera a un solo testo emblematico per ogni tipologia e situazione: una scelta metonimica, che mantiene, anzi esalta, la similitudine e la legge del contrappasso. De Andrè riesce a tenere in tutto l’album un livello altissimo di tensione. Non vi sono brani minori in questo album, governato da una rigorosa unità di stile e di scelte. Per darne un esempio, dunque seguirò semplicemente il mio gusto, scegliendo un testo soltanto, che riprende uno dei temi più cari di De Andrè fin dal primo album: la diffidenza verso ogni forma di potere giudiziario:  

Un Giudice

Cosa vuol dire avere/un metro e mezzo di statura,/ve lo rivelan gli occhi/e le battute della gente,/o la curiosità/d’una ragazza irriverente/che vi avvicina solo/per un suo dubbio impertinente://vuole scoprir se è vero/quanto si dice intorno ai nani,/che siano i più forniti/della virtù meno apparente,/fra tutte le virtù /la più indecente.//Passano gli anni, i mesi,/e se li conti anche i minuti,/è triste trovarsi adulti/senza essere cresciuti;/la maldicenza insiste,/batte la lingua sul tamburo/fino a dire che un nano/è una carogna di sicuro/perché ha il cuore troppo/troppo vicino al buco del culo.//Fu nelle notti insonni/vegliate al lume del rancore/che preparai gli esami/diventai procuratore/per imboccar la strada/che dalle panche d’una cattedrale/porta alla sacrestia/quindi alla cattedra d’un tribunale/giudice finalmente,/arbitro in terra del bene e del male.//E allora la mia statura/non dispensò più buonumore/a chi alla sbarra in piedi/mi diceva “Vostro Onore”,/e di affidarli al boia/fu un piacere del tutto mio,/prima di genuflettermi/nell’ora dell’addio/non conoscendo affatto/la statura di Dio.   

La lingua fra poesia e musica  

Uno dei leit motiv che la critica letteraria e anche i poeti rivolgono a chi pensa si possa dare un valore letterario ai testi delle canzoni dei maggiori autori, è che mentre la poesia avrebbe la musicalità incorporata nel testo, la canzone deve ricorrere a un artificio: la musica si pone come esterna e spesso prevarica il testo, piegandolo alle proprie esigenze ritmiche e sonore. Questo discorso è vero solo in parte o lo era quasi totalmente per il melodramma, quasi senza eccezioni. La canzone d’autore è nata e si è evoluta su altri presupposti. Gli autori più importanti padroneggiano entrambi i linguaggi, non ricorrono a parolieri, spesso sono autori anche di versi e raccolte poetiche (Dylan, Vincius de Moraes) e il problema è l’equilibrio che riescono a ottenere fra i due linguaggi: nel caso di De Andrè tale equilibrio è sempre presente nella sua produzione anche se non sempre gli esiti sono dello stesso livello. La scelta della Ballata come genere che può essere sia musicale sia poetico, lo favorisce in questo, almeno nei suoi album maggiori. Tuttavia egli stesso, parlando della propria musica, tenne sempre un profilo piuttosto basso, affermando per esempio che suo figlio Cristiano possiede una cultura musicale migliore della sua. Diamo per scontato un eccesso di affetto paterno in questa dichiarazione, ma è pur vero che De Andrè ricorse sempre a collaborazioni eccellenti. Vi è in ogni caso molta più coerenza, non solo tematica ma di stile, nei suoi testi che non nella partitura musicale assai eclettica, tanto da pensare che nel suo caso è proprio la musica a piegarsi alle esigenze del testo; vale allora la pena di guardarlo più da vicino.  

Pur ricorrendo quasi sempre alla Ballata, De Andrè non sceglie l’ottonario (il verso per eccellenza della ballata come testo poetico), ma più spesso il settenario o l’alternanza fra settenari e novenari, tranne quando la scelta dell’ottonario è imprescindibile per ragioni di ritmo. In qualche caso il doppio settenario si alterna a novenari; raramente ricorre l’endecasillabo, ma piuttosto al verso di dieci sillabe della poesia inglese, aggiungendovi spesso un piede. Tutto questo non è casuale: la coerenza è alta e se in qualche caso, come ne Un giudice riportato più sopra, vi è qualche scostamento rispetto a tale norma in altri casi il rispetto è rigoroso. L’attenzione alla metrica da parte di De Andrè può essere colta anche nella rara presenza di endecasillabi, il verso d’eccellenza della poesia italiana ma che, spesso ridondante in sé anche sulla carta, lo sarebbe ancora di più se associato alla musica. Per chi pensa ancora anche la metrica sia casuale, suggerisco di scegliere uno o due testi fra i migliori di Mogol-Battisti e confrontarli con quelli di De Andrè. La casualità delle scelte nel primo caso è evidente, se ci sono righe che potrebbero far pensare a versi, ciò avviene per caso e perché il linguaggio è almeno in parte sempre ritmico e scandito, persino nei momenti più comunicativi: vado a fare la spesa è un settenario. In De Andrè c’è sempre la ricerca di una regola dalla quale si può scartare a volte (il ritmo musicale ha in suoi diritti e li fa valere), ma sempre dentro un contesto di ricerca di equilibrio fra i due linguaggi.

Lo stile, la voce, la pietas

Concludo con una riflessione su due testi che permettono di tornare alla radice più  profonda di tutta l’opera di De Andrè: la pietas, che diventa un elemento portante del suo stile e che fu anche la strada maestra che lo portò lontano dalle secche dell’esistenzialismo. Il primo brano è ispirato dall’Antologia: Un chimico. Il secondo è Ho visto Nina volare da Anime salve.

Un chimico.

Solo la morte m’ha portato in collina
Un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria
Per bivacchi di fuochi che dicono fatui
Che non lasciano cenere, non sciolgon la brina
Solo la morte m’ha portato in collina

Da chimico un giorno avevo il potere
Di sposar gli elementi e farli reagire
Ma gli uomini mai mi riuscì di capire
Perché si combinassero attraverso l’amore
Affidando ad un gioco la gioia e il dolore

Guardate il sorriso guardate il colore
Come giocan sul viso di chi cerca l’amore
Ma lo stesso sorriso lo stesso colore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore
Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore

È strano andarsene senza soffrire
Senza un volto di donna da dover ricordare
Ma è forse diverso il vostro morire
Voi che uscite all’amore che cedete all’aprile
Cosa c’è di diverso nel vostro morire

Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano

Ma guardate l’idrogeno tacere nel mare
Guardate l’ossigeno al suo fianco dormire
Soltanto una legge che io riesco a capire
Ha potuto sposarli senza farli scoppiare
Soltanto la legge che io riesco a capire

Fui chimico e, no, non mi volli sposare
Non sapevo con chi e chi avrei generato
Son morto in un esperimento sbagliato
Proprio come gli idioti che muoion d’amore
E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

In questo testo la concatenazione di similitudini e la legge del contrappasso emergono limpidamente dal testo, senza scorie. Come sulla bilancia ideale di un chimico ogni elemento viene pesato e connesso con l’altro fino a costruire una rete di rimandi interni fittissimi; ma il testo può essere letto anche come una sequenza di immagini emblematiche, fino a quella davvero sorprendente dell’idrogeno che tace e dell’ossigeno che dorme al suo fianco. Sul richiamo dantesco vale forse la pena di dire che esso è rivolto del tutto all’al di qua, come del resto avviene anche nell’Antologia di Masters, ispirata da quella Palatina. I defunti di Masters e De Andrè hanno lo sguardo che ritorna al mondo come al tempo ritrovato dei propri errori, dei propri sogni e mancanze, senza alcun giudizio. La metrica sfrangiata del testo che oscilla fra rari endecasillabi e blank verse allungato rimane in equilibrio fra solennità del tema e un incedere che lo rende più leggero, come quei fuochi fatui di cui si dice nel primo verso.  

Infine: Ho visto Nina volare:  

Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che venga neve//Luce luce lontana/più bassa delle stelle/sarà la stessa mano/che ti accende e ti spegne//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena//E se lo sa mio padre/dovrò cambiar paese/se mio padre lo sa/m’imbarcherò sul mare//Mastica e sputa/da una parte il miele/mastica e sputa/dall’altra la cera/mastica e sputa/prima che faccia neve//Stanotte è venuta l’ombra/l’ombra che mi fa il verso/le ho mostrato il coltello/e la mia maschera di gelso./E se lo sa mio padremi metterò in cammino/se mio padre lo sa/m’imbarcherò lontano./Mastica e sputa/da una parte la cera/mastica e sputa/dall’altra parte il miele/mastica e sputa prima che metta neve.//Ho visto Nina volare/tra le corde dell’altalena/un giorno la prenderò/come fa il vento alla schiena.//Luce luce lontana/che si accende e si spegne/quale sarà la mano/che illumina le stelle./Mastica e sputa/prima che venga neve.

Vita e morte s’intrecciano e s’incarnano in immagini di grande suggestione. Il ruminare la vita, il distillare il miele eliminando lo scarto, il tempo che ci è concesso (prima che venga neve), l’immagine di Nina, evocata anche nella copertina dell’album, ma che si eleva a misteriosa allegoria. Infine quella stessa mano che accende e spegne. Anche in questo testo ogni elemento di cui è fatto il vivere viene pesato e soppesato, senza mai dimenticare che la materia con cui è fabbricato è spuria (come non ricordare che dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior), necessita di quel continuo masticare e sputare che lo raffina finché ne è capace. Pensando a queste due ultime canzoni, un’ultima notazione la lascio alla voce di De Andrè, una voce sempre in bilico fra recitativo e canto. È proprio quest’ultima  a far risuonare, anche nei testi più aspri ed espressionisti, quella nota di pietas che affonda le sue radici in un mondo mediterraneo e pagano che De Andrè riscopre, seppure traducendolo nella sensibilità di un cristianesimo tutto suo.     

LA MONACA SENZA MONASTERO

Introduzione 1

Marianne Moore nasce a Kirkwood nel Missouri. Figlia di un ingegnere e inventore, cresce nella casa del nonno. Nel 1905 frequenta il Bryn Mawr College in Pennsylvania, ove si laurea quattro anni dopo. Insegna all’Indian Industrial School di Craslile fino al 1915, l’anno che segna una svolta nella sua vita perché comincia a pubblicare poesie. Viaggia molto in Europa, in compagnia della madre. Come osserva Laura Cantelmo,2 quello compiuto dalle due donne è un vero e proprio Grand Tour in stile ottocentesco, ma avvenuto negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale. Le tracce della presenza di Moore nei luoghi canonici dove gli artisti di tutto il mondo si ritrovano (Parigi, per esempio), sono scarse, per il semplice fatto che  – pur frequentandoli – lei mantenne riservata la propria identità; difficile, peraltro, immaginarsela a fare bisboccia e a ubriacarsi in un bistrot insieme a Joyce o a Picasso! La sua poesia attira l’attenzione di Ezra Pound, William Carlos Williams, Hilda Doolittle; ma specialmente di T.S. Eliot e di W. Auden, che scriveranno su di lei due celebri saggi. Dal 1925 al 1929, lavora come editore della rivista letteraria e culturale The Dial. Fu grazie a lei che pubblicarono i primi versi Elizabeth Bishop e Allen Ginsberg. La sua fortuna è costante, ma lei è del tutto schiva e per niente incline a partecipare intensamente alla vita letteraria, se non tramite le corrispondenze e qualche lettura pubblica, oltre che naturalmente nel ruolo di editore. Nel 1951 venne premiata con il Pulitzer e il Bolligen Prize. Piuttosto che frequentare gli ambienti letterari, preferisce gli incontri di pugilato o di baseball e in generale le manifestazioni sportive, cui si reca indossando un cappello a tricorno e un mantello nero. È una grande ammiratrice di Mohammed Alì.

Non è mio costume iniziare un saggio su un poeta, o chiunque altro, dalla sua biografia, ma nel caso di Marianne Moore vale la pena di farlo perché pochi altri artisti e artiste della sua grandezza sembrano del tutto fagocitati dalla loro opera, tanto da vivere solo in essa. In Moore, però, c’è anche qualcosa di più e di ancor più affascinante: perché, come abbiamo visto, era anche profondamente radicata nella società nei suoi aspetti popolari più vistosi. Baseball e pugilato sono quanto di più statunitense e maschile si possa immaginare.

Nel saggio più importante a lei dedicato, T.S. Eliot afferma, fra l’ altro, che:

… le sue poesie fanno parte del piccolo corpo della poesia durevole, scritta nel  nostro tempo; di quel piccolo corpo di scritti, in mezzo a ciò che passa per poesia, nel quale una sensibilità originale e un’intelligenza alacre e un sentimento profondo si uniscono a tenere in vita la lingua inglese. 3

Tenere in vita una lingua non è davvero cosa da poco. La sua poesia, però, non ammalia il lettore con fuochi artificiali, ma gli impone una severa disciplina dell’ascolto. Lina Angioletti ha fatto un lavoro egregio nel tradurre un testo che vede il compasso fra l’italiano e l’inglese, aprirsi al massimo della sua estensione. Tutto in Moore è statunitense, linguisticamente; nonostante dietro ogni testo si avverta la presenza di una cultura che travalica i confini americani e sa essere vastissima e profonda, nonostante l’eclettismo.

Il Bestiario

La capacità di Moore nell’osservazione della natura sa mantenersi in equilibrio fra esprit de geometrie ed esprit de finesse, sa alternare il microscopio al telescopio, ma sempre tenendo il rigore scientifico a contatto con la sapienza del cuore. Fatta questa premessa, la sua opera potrebbe essere descritta come una straordinaria Arca di Noè, dove trovano posto specie reali e immaginarie, qualcuna estinta. Eppure, se pensiamo ai bestiari tradizionali, oppure al modo in cui l’animale è stato rappresentato nel cinema americano del ‘900, da Walt Disney per esempio, si coglie subito la distanza che separa i suoi animali da quelli rappresentati da altri. La differenza è ancora più vistosa se si considera che Moore era una profonda conoscitrice dei maggiori autori che ne hanno trattato: infatti, che fra le sue opere spicca la traduzione delle favole di La Fontaine. Inoltre, si può intuire da molti riferimenti, che i classici greci e latini costituiscono una parte importante del suo patrimonio culturale. Tale diversità poggia, a mio avviso, su due pilastri: prima di tutto la considerazione che quella umana è una specie animale come le altre, con caratteristiche di speciazione proprie. Questo primo aspetto taglia alla radice la tentazione di rendere l’animale antropomorfo. Il secondo pilastro è l’identificazione con l’animale, come avviene per esempio in questo testo densissimo, che si colloca a metà strada fra una dichiarazione di poetica in versi e lo svelamento del suo atteggiamento esistenziale.

Emerges daintly, the shunk -/don’t laugh – in sylvan black and white chipmunk/regalia. The inky thing/adaptedly white with glistening/goat-fur, is wood-warden. In his/ermined well-cuttlefish-inked wool. He is/determination’s totem. Out-/lawed? His sweet face and powerful feet go about/in chieftan’s coat of Chilcat cloth.//He is his own protection from the moth,//noble little warrior. That/otter-skin on it, the living pole-cat,/smothers anything that stings. Well, – /this same weasel’s playful and his weasel/associates are too. Only/wood-weasels shall associate with me./

 /si affaccia con grazia, – non ridete -/ la puzzola con le insegne silvestri,/bianche e nere dello scoiattolo. Fatta d’inchiostro,/mascherata di bianco in una lucida/pelliccia di capra. È custode del bosco. Nella sua/ ermellinata, intinta nell’inchiostro della seppia,/è il totem della determinazione/È un fuorilegge? Il muso dolce e le zampe potenti/vanno in giro in un manto regale di panno di Chilcat./ Trova in sé la protezione dalla tarma,//minuscola e nobile guerriero. Quella/pelle di lontra che la copre, la moffetta vivente,/spegne qualunque aculeo. Ebbene,/questa stessa mustela ama giocare,/e come lei le sue compagne. Solo/le mustele del bosco saranno mie compagne./ 4

Ciò che colpisce in questi versi è la sapiente mescolanza di esattezza della descrizione, tenerezza e ironia: frutto di una lunga osservazione e di un’attenzione viva al dettaglio minimo. Il linguaggio ricercatissimo, fatto di un lessico preciso ma non proprio comune, arricchisce il manto dell’animale e lo fa risaltare in tutta la sua ricchezza. La puzzola, tuttavia, è nota anche per l’odore sgradevole che emana per tenere a distanza gli indesiderati. Non ridete, esorta la poetail lettore a fare, poi lo invita a seguirla in una descrizione che è un piccolo capolavoro di virtuosismo: alla fine scatta l’identificazione, assai ambivalente e capace di affermare quel tanto che basta intorno a se stessa. Figlia del bosco e della macchia lei stessa, così attenta nel tenere a distanza critici, chiacchieroni e uomini, Moore si sente vicina alle mustele, ma il verso finale indica anche l’opposto e cioè che saranno loro a cercarla per associarsi con lei: nel reciproco possibile riconoscimento e dunque nella identificazione seppure parziale con l’animale, si rivela (nel doppio senso del verbo), ma solo per un attimo, quel desiderio intimo di distanza dai propri simili che Marianne Moore ha coltivato per una vita intera. L’appartenenza di tutte le specie animali alla natura organica disegna il perimetro della comunanza che quella umana intrattiene con la fauna e in misura minore la flora (presente, seppure non con la stessa abbondanza nella sua opera). Ciò che manca nella poesia di Moore è la certezza tutta umana della superiorità, per decreto indiscutibile, di una specie sull’altra e della nostra su tutte le altre. Rispondo subito a un’obiezione, che sarà forse già sorta nel lettore: è pur sempre un occhio umano quello che osserva e una mano umana quella che scrive. L’obiezione è sensata, ma se ci si ferma a tale constatazione credo si rischi di rimanere ai margini esterni della poesia di Moore. La constatazione ha un valore nel senso di riconoscere che la specie umana ha elaborato un linguaggio con il quale sembra poter parlare e scrivere di tutto e potersi esprimere su qualsiasi argomento: tale tratto costituisce una sua caratteristica di speciazione. Tale constatazione, peraltro, non afferma nulla su come gli animali possano vedere eventualmente noi, cosa che almeno per ora ci è in larga parte preclusa. Possiamo constatare che alcune specie sono in grado di svolgere compiti che noi assegniamo loro; possiamo pure osservare che alcune domestiche sono in grado, fino a un certo punto, di interpretare il linguaggio umano,5 ma riuscire a dire veramente qualcosa su come ci vedano il cane o il gatto di casa, rimane un mistero impenetrabile: figurarsi gli altri animali! Del resto, gli antropologi sono assai cauti quando si tratta di indicare le differenze fra la nostra e le altre specie. Levi-Strauss, per esempio, propose un atteggiamento minimalista, limitandosi a constatare ciò che è visibile: per esempio, che l’animale, a differenza di noi umani, non cuoce il cibo che mangia, sebbene anche in questa materia ci siano stati esperimenti recenti con le scimmie antropomorfe che ridimensionano anche tale aspetto, ma solo limitatamente ai primati a noi più prossimi. Del resto ci sarà pure una ragione per cui tutte le religioni arcaiche nascono intorno all’animale totemico oppure al culto arboreo: la natura organica è da sempre fonte di mistero religioso e non ha mai smesso di esserlo neppure con l’avvento delle religioni positive. Ciò che colpisce nella poesia di Marianne Moore è riscoprire nel cuore di una società iper tecnologica come quella statunitense, la prima natura e la presenza animale come qualcosa di irriducibile. Moore si avvicina a questi fratelli e sorelle viventi con lo stesso ammirato stupore con cui Montaigne, si avvicinava in pieno ‘700 ai popoli lontani per tradizione e costumi dall’Europa. La cultura occidentale, con lui, scopriva l’altro umano da sé, per Moore l’altro da noi per eccellenza rimangono le specie animali diversa dalla nostra. Su questo passaggio chiave s’innesta un altro aspetto della sua meditazione intorno alla cultura di specie: quella umana ha una capacità maggiore delle altre nel rendere visibile e percepibile l’individuo, possiede cioè la possibilità d’individuazione. Sembra tuttavia di capire, dagli esempi scelti e da uno in particolare, che tale prerogativa della specie non sia fra le più notevoli per Moore. La poesia cui mi riferisco è una delle più celebri dell’intera raccolta ed è proprio questa di cui si occupa anche Wallace Stevens nel saggio dal titolo Su una poesia di Marianne Moore:6

He “digensteth harde yron” “Digerisce durissimo ferro”

/Although the aepyornis/or roc that lived in Madagascar, and/the moa are extinct,/the camel-sparrow linked/ with them in size – the large sparrow/Xenophon saw walking by a stream – was and is/a symbol of justice./…

/Sebbene l’aepyornis/o roc, che viveva in Madagascar,/e il moa siano estinti,/il cammello-passero, che è loro parente/per statura – il gigantesco passero/che Senofonte vide presso un fiume – fu ed è/simbolo di giustizia.

L’animale di cui si parla è lo struzzo: la descrizione, ancora una volta, coglie con mirabile esattezza la sproporzione fra la possanza del corpo e la minuscola testa. La combinazione lessicale cammello-passero, esattissima nel descrivere (il movimento ondulatorio della corsa dello struzzo ricorda quella del cammello), non è solo scientifica, ma predispone alla simpatia, che diviene poi empatia. Tuttavia, è il verso finale di questo incipit perentorio ad attirare l’attenzione: perché mai lo struzzo sarebbe un simbolo di giustizia? 

This bird watches his chicks with/a maternal concentration – and he’s/been mothering the eggs/at night six weeks – his legs/their only weapon of defense./…

… How could he, prized for plumes and eggs and young,/used even as a riding-beast, respect men/hiding actor-like in ostrich skins, with the right hand/making the neck as if alive/and from a bag the left hand strewing grain, that ostriches//might be decoyed and killed! Yes, this is he/whose plume was anciently/the plume of justice;…

/Questo uccello vigila i suoi piccoli/con materna attenzione – e le uova/le ha coccolate per sei settimane/anche di notte – le sue zampe  essendo/l’unica arma in loro difesa./

…. Come può lui che è pregiato per le piume, le uova e i suoi piccoli,/ed è usato persino come cavalcatura, rispettare gli uomini/che si mascherano con pelli di struzzo – muovendo/il collo con la mano destra, come se fosse vivo, e spargendo/ con la sinistra il grano che tengono in un sacco//per adescare e uccidere gli struzzi!sì,questo è l’uccello/la cui piuma era nei tempi antichi/la piuma di giustizia;…   

La nobiltà dell’animale e la crudeltà del cacciatore si confrontano in questa densa descrizione e nella scelta della piuma di struzzo come simbolo della giustizia appare quasi il nesso inscindibile e tragico fra senso di colpa e caratteristiche di specie (la nostra è onnivora con tutte le conseguenze del caso, ma è anche predatrice e calcolatrice). Lo struzzo è il solo regale esemplare di altre specie similari ma estinte, un paradosso della natura se si pensa al suo corpo.

/The egg piously shown/as Leda’s very own/from which Castor and Pollux hatched,/was an ostrich-egg….

/L’uovo indicato religiosamente/come l’uovo autentico di Leda,/da cui nacquero Castore e Polluce,/era un uovo di struzzo.

Il richiamo classico conferisce un surplus di nobiltà all’animale, ma apre le porte alla tragica conclusione.

/Six hundred ostrich-brain served/at one banquet, the ostrich-plume-tipped tent/and desert spear jewel-/gorgeous ugly egg-shell/goblets, eight pairs of ostriches/in harness, dramatize a meaning/always missed by the externalist.//The power of the visible/is the invisible; as even where/no tree of freedom grows,/so-called brute courage knows./Heroism is exhausting, yet/it contradicts a greed that did not wisely spare/the harmless solitaire//or great auk in its grandeur:/unsolicited having swallowed up/all giants bird but an alert gargantuan/little-winged, magnificently speedy running bird./The one remaining rebel/is the sparrow-camel./

/Seicento cervelli di struzzo/serviti ad un banchetto, la tenda e la zagaglia/con pennacchi di struzzo, le orrende coppe/ricavate da uova di struzzo e ingioiellate,/otto coppie di struzzi/ben bardati, danno un senso drammatico/a un simbolo che sfugge sempre ai superficiali//La potenza del visibile/ è l’invisibile; e lo sa bene/anche là dove non cresce l’albero della libertà,/il coraggio che chiamano brutale./L’eroismo è qualità estenuante ma non si oppone/a una cupidigia che non ha risparmiato/saggiamente l’innocuo solitario// o la grande la nella sua maestà:/perché l’indifferenza ha sterminato/tutti i maggiori uccelli, tranne questo magnifico corsiero,/alacre Gargantua con ali minime./quest’ultimo superstipe ribelle/è il passero cammello./

L’episodio storico cui si fa riferimento in questi versi è una cena di Eliogabalo, per preparare la quale fu sterminato un considerevole numero di struzzi. Nella poesia di Marianne Moore il modo di concepire il rapporto fra natura e cultura parte dalla considerazione che anche le altre specie animali possiedono una cultura e non semplicemente un adattamento funzionale all’ambiente che popolano, oppure un adattamento forzato, come avviene con le specie più domestiche che finiscono davvero per assumere tratti umani, almeno per quanto attiene ad abitudini, malattie e nevrosi.

Agonismo, mondo animale e umano

La biografia di Marianne Moore non contiene nulla di particolare, a parte il suo curriculum letterario e la passione per due sport come baseball e pugilato. L’eccentricità non spiega da sola tali frequentazioni e neppure le spiega del tutto l’ipotesi che avesse bisogno di un passatempo qualunque per proteggere il suo mondo interiore dalle invasioni della realtà; anche perché, nella parte finale della sua opera, vi sono testi che affrontano di petto queste passioni extra letterarie, specialmente il baseball. L’antagonismo, la sfida, appartengano assai al mondo animale e forse lei vedeva nello sport proprio questo: un aspetto della specie umana che si avvicinava alla lotta animale, mentre non era per nulla interessata alle dispute intellettuali del mondo letterario. Un testo emblematico s’intitola proprio Baseball and writing (Il baseball e la scrittura):

Fanaticism?No. writing is exciting /and baseball is like writing./You can never tell with either/how it will go/or what you will do;/…

Fanatismo? No.Scrivere è eccitante/ e il baseball somiglia allo scrivere./Per l’uno e per l’altro non si può/mai dire come andrà/o che farai/…

It’s a pitcher’s battle all the way – a duel – /A catcher’s, as, with cruel/puma paw…

Battaglia per il pitcher tutto il tempo – un duello -/battaglia per il catcher, se, con quella/sua crudele  zampata da leopardo…  

La poesia prosegue proponendo altri esempi di agonismo animale e si conclude con un vero e proprio inno a questa battaglia, che tuttavia rimane nell’ambito della rappresentazione, dove il conflitto stesso viene ad assumere un’eleganza e un suo stile:

…”Yes,/it’s work; I want you to bear down,/but enjoy it/while you are doing it”./….

/Studded with stars in belt and crown,/the Stadium is an adastrium./O flashing Orion,/your stars are muscled like the lion./

… “Sì,/ è lavoro; voglio vedervi vincere ma voglio/che la vittoria/sia divertimento”.

/Tempestato stelle nella citura e nella corona,/lo Stadio è un adastrio,/O scintillante Orione,/Ogni tua stella ha muscoli degni di un leone./7

Le ragioni di fascino di questa chiusa sono tante, prima di tutto l’analogia fra la cintura di Orione – celebrata anche nel monologo finale di Blade Runner dal replicante morente –  e uno stadio: ancor più l’adastrio, difficile da mettere a fuoco perché la parola riguarda la pallacanestro, ma anche un tipo di gatto e che si trova anche in racconti di fiction. L’insieme si traduce in una linguaggio epico assai originale.

Un altro testo assai significativo è Combat Cultural:

One likes to se a laggard rook’s high/speed at sunset to outly the dark,/or a mount well schooled for a medal;/tucked up front legs for the barrier -/or team of leapers turned aerial.//

Piace vedere il volo di un corvo attardato /che al tramonto vuol battere la note,/o un cavallo ben addestrato a vincere medaglie;con le zampe raccolte a superare la barriera -/o saltatori in gruppo fatti aerei.//

I due animali mettono entrambi alla prova i loro limiti e l’occhio umano che ne ammira le gesta è quasi invisibile. La forza di questo incipit sta nell’immagine sintetica che crea fra la solitudine del corvo proteso nella notte e il cavallo in gara, che, con una rapidissima metamorfosi, diventa prima gruppo di cavalli e poi aerei in volo. Quest’ultima immagine è l’innesco per la seconda quartina, dove la scrivente umana esce dall’ombra:

 I recall a documentary/of Cossacks: a visual fugue, a mist/of swords that seemed to sever/heads from bodies – feet stepping as though through /hatp-strings in a scherzo. However,

Io mi ricordo di un documentario/sui Cosacchi; una fuga visiva una caligine/di spade che sembravano spiccare/teste da corpi – e quei piedi, mobili/come tra corde d’arpa in uno scherzo. A me, però,/

Il richiamo guerresco evocato dalle spade dei Cosacchi avvicina gli umani a un elemento selvaggio che è certamente parte del mondo animale, ma è solo un attimo perché nella quartina successiva avviene un rovesciamento di prospettiva, aperta da quel however che sospende la scena:

the quadrille of Old Russia for me:/with aimlessly drooping handkerchief/snapped lake the crack of a whip;/a deliciously spun-out-level/frock-coat skirt, unswirled and a-droop//in remote promenade…

mi piace di più la quadriglia della vecchia/Russia: quel fazzoletto abbandonato/a caso e colto a volo in uno schiocco/di frusta;e quella gonna delirante/in un vortice e poi distesa e liscia/in una solitaria promenade …

Dalla guerra alla danza con vestiti sontuosi che sfavillano e l’immagine femminile al centro, la guerra stessa diventa simulazione. Nella parte successiva si torna alla lotta. Imprigionati in sacchi scomodi – infondo come lo sono le divise militari – i combattenti esprimono nella loro gestualità:

… “Some art, because of high quality,/is unlikely to become high sales”;

 Un’arte che, per l’alta qualità/non sarà mai merce d’alto consumo

Infine la chiusa:

 These battlers, dressed identically – /just one person – may, by  seeming twins,/point a moral, should I confess;/we must cement the parts of any/objective symbolic of sagesse.

Combattenti vestiti in modo identico – /una persona sola – ci sembrano gemelli e perciò possono,/lo confesso, indicarci una morale: noi dobbiamo/cementare le parti di qualunque/obiettivo simbolico che esprima la sagesse./

Non ho trovato altri testi in cui la lotta animale si ammanti di un richiamo alla guerra così esplicito, a cominciare dal titolo – Combat. Il concatenarsi rapidissimo di analogie conferisce a queste quartine, dalla posa così composta sulla carta, un ritmo vertiginoso. Il corvo che combatte con la notte è anche un animale che evoca sventura e infatti dal cavallo in gara si passa all’animale come strumento di guerra: l’addomesticamento e il suo uso bellico furono infatti la prima trasformazione tecnologica che diede ai combattenti la superiorità su altri. Questa poesia fa parte della raccolta Oh, essere un drago, siamo nella parte finale della sua opera poetica, successiva al 1951, l’anno in cui Moore aveva ottenuto i maggiori riconoscimenti: è un testo che risente senz’altro di lunghe riflessioni sul tema della guerra che, seppure lontana dal continente americano, aveva toccato da vicino la generazione cui Moore appartiene ed era poi continuata con la Guerra Fredda. Proprio per la sua unicità va considerato a mio avviso come un testo definitivo. Anche nella guerra è attivo un elemento estetico e Moore non lo esorcizza, ma nel monito finale emerge la necessità di saper trasformare in elemento simbolico la lotta, prima che essa degeneri in altro. Il simbolico occupa in questa poesia lo stesso ruolo che i rituali di combattimento e sottomissione hanno nel mondo animale ed è il solo strumento per la specie umana per trasformare la guerra in altro. Quando gli umani non sono più in grado di fare questo, sappiamo cosa accade; ma questo spiega anche l’attaccamento della poeta al mondo animale. In una delle sue incursioni pubbliche, ecco infatti come Moore risponde a una domanda dei suoi interlocutori su tale argomento:

Perché questo smoderato interesse per gli animali e per gli atleti? Sono soggetti ed esemplari d’arte, non credete? E pensano ai fatti loro. Pangolini, buceri, giocatori di baseball: né curiosi, né predaci – non tirano mai in lungo la conversazione; non ci mettono in soggezione; sono nella loro forma migliore quando meno ci badano…” 10

Quando lessi per la prima volta questa risposta, mi sovvenne un’immagine famosa: quella di Marilyn Monroe in compagnia del giocatore di baseball Joe Di Maggio. Nella fotografia lei cammina con un’espressione delle sue, fra lo svagato e il seducente, mentre lui le trotterella a fianco, con il suo corpo massiccio, un volto da luna piena dal sorriso francamente ebete, immagine di un tipo di sportivo che sa fare solo quello che sa fare e niente altro, incarnando una specie di perfezione del gesto o della prestazione dentro la quale si risolve felicemente tutta la sua umanità. Forse era proprio questo che attirava anche Moore: una forma di innocenza primaria, la ricerca di una verginità degli esseri viventi che lei – educata alla rigida etica presbiteriana –   spingeva oltre l’umano, oltre lo stesso peccato originale.

L’umano e la storia nella poetica di Moore

Proprio l’incursione nel mondo dello sport permette di aprire lo sguardo sul continente più misterioso della poesia di Moore: quale immagine dell’essere umano ci restituiscono i suoi versi? Per guardare all’umanità Moore sceglie pochi esempi emblematici, uno in particolare: l’istituzione che per eccellenza fa da cerniera fra personale e pubblico, fra domestico e sociale e cioè Il Matrimonio, una delle istituzioni che più allontana la specie umana dalle altre, nonostante qualunque specie abbia le proprie modalità di socialità e riproduzione della vita. Il testo, assai complesso e denso, si presenta come un vero e proprio trattatello in forma di poesia, ma è anche fortemente teatrale, con veri e propri dialoghi interni fra i due protagonisti principali. Il rifiuto radicale e irriducibile del matrimonio come istituzione è espresso in modo netto nel suo incipit, che ha la funzione di una chiave musicale che stabilisce il tono e il timbro dell’opera intera.

/This institution,/perhaps one should say enterprise/out of respect for which/one says one need not change one’s mind/about a thing one has believed in,/requiring public promises/of one’s intention/to fulfil a private obligation:/I wonder what Adam andEve/think of it but this time,/this fire-gilt steel/alive with goldeness;/how bright it shows – /“of circular traditions and impostures,/committing many spoils”,/requiring all one’s criminal ingenuity/to avoid!/Psychology which explains everything/explains nothing/…

Questa istituzione,/o forse è meglio definirla impresa,/ in ossequio alla quale/si suol dire che non bisogna mutare d’opinione/su una cosa in cui si sia creduto,/che pretende pubbliche promesse/di tener fede/a un obbligo privato:/mi domando che cosa ne pensino/Adamo ed Eva,/di  questo acciaio indorato a fuoco,/tutto lucente d’oro;/e come splende -/di tortuoso tradizioni e inganni,/che sono causa di tante rovine,/a cui si può sfuggire solamente/con tutta l’inventiva criminale!/La psicologia che spiega ogni cosa/non spiega niente,/8

La perentorietà di questi versi va considerata anche tenendo conto che si tratta di una poesia scritta nel 1923, quando movimenti di contestazione del matrimonio non erano neppure pensabili. Nella cultura anglosassone esistevano precedenti illustri fra ‘700 e ‘800, oppure in Europa a seguito della diffusione di idee anarchiche e socialiste; ma erano suggestioni che poco avevano messo radici aldilà dell’oceano. Eppure, come vedremo in certi passaggi, Moore anticipa – a modo suo – istanze femministe che appariranno negli anni ‘70. Certo, gli anni ’20 sono anche quelli definiti ruggenti e immortalati nei romanzi di Fitzgerald, durante i quali – per citare un sociologo di quegli anni: le donne che frequentavano i bar clandestini dove si bevevano alcolici non assomigliavano più alle nostre nonne – ma riguardavano una porzione di mondo che poco interessava a Moore. Inoltre, ciò che colpisce di questo incipit è l’assenza di preambolo, la poesia inizia in medias res e denuncia la lunga riflessione ed elaborazione interiore che la precede; se tutti i testi di Moore appaiono pensati e meditati a lungo, frutto di osservazioni minuziose e reiterate nel tempo, questo è certamente uno dei più meditati. In secondo luogo, la lunghezza stessa del testo e l’ampiezza dei temi trattati; tanto che lo si potrebbe definire un poemetto con una sua autonomia rispetto all’insieme dell’opera. La chiusa dell’incipit – la psicologia che non spiega nulla – è la metafora di tutto ciò che il linguaggio poetico di Moore rifiuta, a cominciare dagli orpelli che le nuove scienze umane, psicanalisi compresa, hanno costruito intorno al rapporto fra i sessi e l’eros. Definito così il perimetro entro il quale si muove il testo, Moore risale alle origini del mito biblico, chiedendosi cosa ne pensassero Adamo ed Eva del primo tentativo di matrimonio fallito. Prima di arrivare al dialogo serrato fra loro due, Moore delinea i caratteri dei due personaggi. 

… Eve: beautyful woman -/I have seen her/when she was so handsome/she gave me a start,/able to write simultaneusly/in three languages – /English, German and French – /and talk in the meantime:/equally positive in demanding a commotion/and in stipulating quiet:/”I should like to be  alone”;/to which the visitor replies,/”I should lie to be alone:(/why not to be alone together?”

… Eva: una donna stupenda -/io l’ho veduta/quando era così bella/da farmi sussultare,/capace di scrivere simultaneamente /in tre lingue diverse -/inglese, tedesco, francese – : /e di parlare nello stesso tempo;/perentoria nel chiedere emozioni/come nel contrattare la sua quiete:/ A me piacerebbe restar sola”;/cui l’ospite risponde:/”A me piacerebbe restar solo;/perché non stare soli insieme allora”?/

Eva è dunque una donna moderna che potremmo definire emancipata – tanto che forse nel nostro immaginario finisce per assomigliare più a Lilith che a Eva – ; questa parte del testo si conclude con la proposta di un patto che viene da Adamo: perché non essere soli insieme?

La descrizione di Adamo è ambivalente: Anche lui ha la sua bellezza ma è anche distressing, parola che può essere tradotta con sconvolgente (è la scelta di Lina Angioletti) ma anche con angosciante. Anche Adamo è magnifico, ma è pure un mostro mitologico, nel senso che può parlare di tutto: dalla storia, al bene e al male come se fosse lui stesso un idolo. Anche in questo passaggio Moore anticipa una critica degli atteggiamenti patriarcali maschili che sarà un tratto del pensiero femminista. Dopo la descrizione sommaria di entrambi, che verrà tuttavia ripresa in altri passaggi, inizia la drammatizzazione teatrale del loro rapporto. I due dialogano, o meglio esprimono – come se davvero  fossero soli e insieme – i loro punti di vista sull’altro e l’altra da sé, in un crescendo che si presta molto bene alla rappresentazione. Questa parte è la più complessa e densa di citazioni e rimandi interni 9

… He says:- What monarch would not blush/to have a wife/with hair lie a shaving-brush”?/…

Egli dice: Quale monarca non arrossirebbe /ad avere una moglie coi capelli/uguali a un pennello per la barba?/…

L’uomo parla come un monarca, che pretende una donna sempre in ordine e da esibire in società. Lei risponde:

… She says: “Men are monopolists/ of stars, garters, buttons/and other shining baubles”/unfit to be the guardians/of another person’s happiness”./

… Lei dice: gli uomini sono dei monopolisti di “medaglie, bottoni, giarrettiere, e altre scintillanti cianfrusaglie”.- /…

Esteriorità e feticismo hanno sempre a che fare con l’esibizione di trofei. In un crescendo che oscilla fra ironia e invettiva, il dialogo rasenta l’insulto reciproco. Il virgolettato non è un vezzo, ma corrisponde al fatto che esso avviene – in molti casi – tramite citazioni da autori assai famosi o sconosciuti, dui cui Moore si serve per disegnare un quadro che va dall’incomprensione assoluta allo stereotipo di: una moglie è una bara. 10

E ancora:

… She says, “This butterfly/This waterfly, this nomad/that has proposed/to settle on my hand for life”…

Lei dice: “Questa farfalla,/questa mosca d’acqua, questo nomade/che ha chiesto la mia mano/per farvi sopra il nido per la vita”/ -…

… He says, “you know so many fools/whoa re not artists

… Lui dice: “E tu conosci tanti pazzi/che artisti non sono …

Questi due versi sono assai sottili. Alla descrizione della propensione maschile a sistemarsi, il testo giustappone la propensione femminile a lasciarsi intortare da uomini e artisti fasulli e dal dubbio fascino. Tali crescendo paradossali s’interrompono per nuove descrizioni che fanno da contrappunto al non dialogo fra i due contendenti. Assai significativa questa descrizione di entrambi:

 … he loves himself so much,/he can permet himself/no rival in that love

… egli ama se stesso a un punto tale/che in questo amore non si può permettere/ alcun rivale./

…. She loves herself so much,/she cannot see herslf enough – a statuette of ivory on ivory/the logical last touch/to an expansive splendor/arned as wages for  work done

 … lei ama se stessa a un punto tale/ – statuetta d’avorio senza avorio,/ultimo tocco logico/al dilatarsi di uno splendore/guadagnato in mercede di un lavoro compiuto/. ..

Le due forme speculari di narcisismo dimostrano come Moore non ignori affatto la complicità femminile che si offre allo sguardo maschile come orizzonte esclusivo della propria identità negata.  Inseguire tutti i passaggi del testo ci porta in un dedalo di immagini a volte molto efficaci in altre meno, ma la sintesi è evidente in questo passaggio che introduce il finale:

… “Everything to do with love is mystery; it is more tha a day’s work/to investigate this science.”/One sees that  it is rare -/that striking grasp of opposites/opposed each to the other, not to unity,/

… “Tutto ciò che ha a che fare con l’amore/è mistero; e non basta un giorno solo/ad esplorare a fondo questa scienza”./Ci si accorge quanto sia cosa rara – /quel bizzarro insieme di contrasti/opposti l’uno all’altro, non all’unità/ …

Nessun cedimento al mito della complementarietà, magari con il tramite della procreazione e dell’invito cristiano a moltiplicarsi. Quella che Moore mette in scena è un’opposizione irriducibile che solo l’istituzione coatta del matrimonio cerca di ridurre. Al testo, aggiungerei un elemento extra testuale che, tuttavia, alla radicalità dei versi rimanda: la coerenza della poeta statunitense, tanto da apparire come una moderna e sorprendente figura virginea, o una paradossale Persefone, come la definisce Laura Cantelmo nel saggio già citato. Etica ed estetica sembrano combaciare in lei come una sfida aperta al romanzo famigliare, che sarebbe facile tentazione costruirle intorno, esistendone tutti gli elementi, a cominciare dal suo rapporto esclusivo e simbiotico con la madre. Eppure, il farlo sarebbe una scelta del tutto errata. Ogni tentativo di costruire intorno a Moore un’aneddotica, s’infrange contro un muro elastico che è fatto d’ironia e auto ironia. L’immagine che ci ritorna indietro, quanto più si voglia indagare nelle pieghe della sua biografia, è quella della Sfinge; ma una sfinge sempre pronta a sorridere, seppure da una distanza irriducibile per l’interlocutore.

Le note e l’attività editoriale

La lettura delle note permette di reperire le fonti delle molte citazioni e suggestioni, quasi sempre spiazzanti, certamente poco riconoscibili anche da chi possiede una cultura discreta. Esse sono la testimonianza dei suoi vasti interessi, prima di tutto scientifici. La letteratura non ha una presenza preponderante: i nomi più ricorrenti sono quelli di La Fontaine, Henry James e Anatole France, qualche citazione da Shakespeare; oppure i classici come Senofonte ed Erodoto. Si coglie una certa propensione per la cultura francese, ma filtrata dall’opera di autori poco di moda, seppure grandi; l’interesse per l’Italia è altrettanto presente, seppure in forma minore. Molti sono i riferimenti alla pittura e ai pittori, non sempre famosi, a parte Giorgione, Dürer e Leonardo da Vinci; ma, specialmente, il suo interesse  è rivolto alle riviste e, in particolare, quelle allegate ai grandi quotidiani americani, oppure illustrate, che si occupano di flora e fauna. Amava molto la divulgazione, sia quella alta sia quella più popolare. Nella breve introduzione alle note, scritta da lei stessa, Moore afferma fra l’altro:

 … Ma poiché in tutto ciò che ho scritto vi sono versi in cui il nucleo più interessante è preso in prestito, e non sono ancora riuscita a liberarmi di questo ibrido metodo di composizione, mi sembra semplicemente onesto dar conto delle mie fonti.11

Il corredo di note è quanto mai eclettico e vasto, ma sarebbe errato attribuirle una forma di citazionismo. Prima di tutto, come lei stessa afferma, il suo è uno scrupolo dettato da onestà intellettuale. L’affermazione va presa alla lettera, ma c’è un elemento in più da prendere in considerazioe e cioè il valore che per ha per lei l’analogia, o l’immagine che una semplice parola o una citazione le susciatano. In alcuni casi tali parole non vanno considerate nel loro contesto perché non esiste una vera teorizzazione a monte o a valle che giustifichi il prelievo: sono semplici spunti che innescano la sua immaginazione.

Infine la sua attività editoriale, che fu assai significativa per gli autori che tenne a battesimo. La casa editrice Dial Press fu fondata addirittura nel 1840, ma il periodo che interessa è quello che inzia nel 1929, quando la rivista diventa lo strumento di maggiore influenza nella diffusione della letteratura modernista nei paesi di lingua inglese. L’anno di svolta fu il 1920, quando Scofield Tahyer e James Sibely Watson rifondarono the Dial come rivista letteraria. Furono loro a pubblicare William Butler Yeats e specialmente The Waste land di Eliot negli Usa. Dal 1920 al ’23 Ezra Pound fu il corrispondente estero di riferimento. Nel solo primo anno di pubblicazione troviamo i massimi autori contemporanei, fra cui lei stessa. Fra gli autori troviamo pure Bertrand Russell perché la rivista propose una saggistica che andava oltre lo stretto carattere letterario, occupandosi di cultura in senso lato con una forte predilezione i saggi sulla pittura contemporanea; infine corrispondente dalla Germania fu Thomas Mann e Hugo von Hofmansthal da Vienna. Nel 1926, da collaboratrice, Marianne Moore ne divenne la direttrice insieme a Watson. 

Per concludere

Come collocare Marianne Moore nella letteratura statunitense del ‘900? Nel suo caso è assai più difficile ricostruire una genealogia: il dato biografico può avvicinarla a Emily Dickinson, mentre il suo verso lungo ha ragioni differenti da quello di Whitman ed è assai più controllato di quello a volte troppo debordante del Bardo statunitense. La natura è certamente presente anche in Dickinson, ma non nel senso grandioso che assume in Moore: il dato scientifico, peraltro, è troppo novecentesco per risalire troppo alla tradizione, se non nel senso dell’eclettismo già ricordato dei riferimenti cui Moore ricorre.  Una seconda questione riguarda le istanze femministe e la critica al patriarcato che qui e là e specialmente in Il matrimonio sono presenti nella sua opera. Quale fu l’atteggiamento di Moore nei confronti dei movimenti degli anni’60, che lei di certo conobbe poiché negli Usa iniziarono ben prima che nel contesto europeo? La domanda suona retorica e la risposta è scontata: se ne tenne a distanza. Rifiutò per se stessa il matrimonio, con una determinazione che non ammette repliche, ma vi è una nota aristocratica nel suo passare nel mondo come una monaca senza ordine monastico, capace di costruire intorno a sé il proprio eremo, senza alcun compromesso possibile. In questo rimane profondamente statunitense e individualista. Fu una donna libera nel difendere e preservare le sue scelte, ma la dimensione collettiva e sociale non le apparteneva. Anche tale atteggiamento affonda le sue radici nella filosofia individualista e trascendentalista statunitense, rigorosamente bianca, che ha in Ralph Waldo Emerson il padre e – almeno per una prima fase – anche David Thoreau, che poi di distanziò dal suo maestro con il saggio sulla Disobbedienza civile e la netta opposizione allo schiavismo. Per queste ragioni e per stile personale di vita, Moore non poteva che essere lontana dagli eccessi verbali e comportamentali degli anni ’60 e ’70. Seppe riconoscere in alcuni casi il talento di chi era molto distante da lei: infatti, fu severa nei confronti di Allen Ginzberg, ma lo pubblicò nella rivista Dial, riconoscendo in lui la sola voce veramente significativa di quei movimenti. 


4 Marianne Moore, Poesie, a cura e traduzione di Lina Angioletti,  pp.256-7

5 Recentemente si sono compiuti esprimenti opposti con le scimmie antropomorfe: alcuni uomini e donne si sono chiusi in gabbia insieme a loro, comportandosi nello stesso modo e imitandoli. Pare che uno degli effetti, dopo la sorpresa, sia stata una grande ilarità da parte delle scimmie.

6 Il saggio di Stevens in cui scrive di questa poesia si trova in L’angelo ncessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Coliseum. Il testo di Marianne Moore si trova in Marianne Morre, Le Poesie, traduzione acura di Lina Angioletti, Adelphi  Milano 1981 pp.204-5.

7 Op.cit. pp. 419-23.

10 Questa citazione è riportata anche nel libro di Adelphi come esergo al saggio di W.H. Auden sulla poesia di Marianne Moore, alla pagina 521. L’originale inglese si trova nella Prefazione al libro A Marianne Moore reader, New York, 1961, p. XVI.

8 Op.cit. 135-49.

9 Ivi.

10 Sul significato delle note e delle citazioni in Moore rimando a un capitolo successivo.

11 Op.cit. pag. 460.


1 Una parte del saggio che segue è stato pubblicato sul numero 17 della rivista Smerilliana del 2015. In tempi successivi ad esso, le nuove e ripetute letture del testo mi hanno permesso di cogliere valenze che erano state lasciate in secondo piano, in un certo senso fagocitate dal Bestiario della poeta, che certamente costituisce uno dei motivi di maggior fascino della sua opera. Pur rimanendo centrale anche nelle letture successive, esso va posto in relazione ad altre problematiche e in particolare riferita al tema del rapporto fra animali e specie umana, che è infondo un altro del grande mistero e fascino di questo testo.

2 Laura Cantelmo, Il mondo in una stanza  in Con la tua voce, a cura di Gabriela Fantato e nota critica di Maria Attanasio, La vita felice, Milano 2010. Il saggio è stato ripubblicato anche sulla rivista online Overleft.

3 T.S. Eliot, Il fascino di un microscopio: in Marianne  Moore, Poesie, Taduzione di Lina Angioletti, Adelphi, Milano, 1991, pag. 518

ARTE AI CONFINI

Il festival Fuori asse – ai confini del circo, che si è tenuto dal 27 a 29 gennaio alla Triennale di Milano, è stato un evento artistico importante e originale. Il titolo stesso evoca una difficoltà di collocazione, che si complica ulteriormente perché la seconda parte – ai confini del circo – si potrebbe trasformare anche in ai confini del teatro. È proprio la parola confine a essere centrale, nel doppio senso del termine: limite, ma anche possibilità di attraversarlo e trasgredirlo. Per orientare chi non c’era, il festival, ideato e curato da Clara Storti, Filippo Malerba e Gaia Vimercati, è consistito di quattro spettacoli che si sono alternati nei diversi giorni: ho assistito a tre di essi mentre del quarto – ideato da Piergiorgio Milano e dal titolo White out – riporto una parte della presentazione. Il titolo, in particolare, si riferisce al:

… termine con cui in alpinismo si definisce la perdita totale di visibilità. Si crea quando il biancore uniforme delle nuvole incontra un terreno innevato e rende impossibile l’avanzare o il retrocedere … White out fonde danza contemporanea, circo di creazione e alpinismo.  

Seconde nascite e post umani

La scena in cui si svolge Mavara, ideata da Chiara Marchese – Porte 27, è molto semplice: un filo sospeso fra due instabili supporti. La protagonista è una, ma i corpi che si muovono sembrano due e solo da un certo momento in poi si comprenderà bene cosa accade in scena. I movimenti convulsi dell’attrice alludono sia alla nascita – alcuni gesti richiamano il parto – sia alla liberazione del corpo della donna da tutto ciò che lo tiene prigioniero. Fra acrobazie sul filo e contorsioni che rappresentano la fatica e la sofferenza della protagonista, alla fine lo scioglimento va nel senso della liberazione, o di una seconda nascita, sottolineata dall’altalena e dalla colonna sonora: onde marine che si muovono in armonia con le evoluzioni dell’attrice sul filo. Nella breve presentazione dello spettacolo si accenna al fatto che, nell’antica tradizione siciliana, Mavara è la donna che possiede poteri magici e curativi.   

Il protagonista del secondo spettacolo, ideato da Alessandro Maida – Magda/Clan, è un uomo che sopravvive in modo assai precario in un deserto roccioso sferzato dai venti. Egli è solo; anzi, tutto fa credere che sia il solo umano rimasto nella porzione di mondo che abita; ma non si tratta di un’attualizzazione di Robinson Crusoe. Il titolo è una citazione letteraria, ma va in tutt’altra direzione: 2984. Siamo alla fine del millennio che abitiamo tutti noi e mille anni dopo 1984 di Orwell. L’evoluzione ha preso una direzione estrema e foriera di momenti di comicità: l’uomo vive in simbiosi con le pietre e si nutre persino di esse. L’arte può fare tali magie, anche se rimango più affezionato all’ipotesi che, in caso di sparizione del genere umano, l’evoluzione ricomincerà da scarafaggi e salmerini. Il sopravvissuto umano ha a disposizione le pietre, una carriola, un vecchio computer che manda segnali strani, una misteriosa bevanda e la sua abilità fisica nel destreggiarsi in quell’ambiente. Fra le pietre spicca la presenza di una sorta di monumento, una specie di moloch o di totem. La natura organica non esiste più, soltanto il sole e la luna continuano a scorrazzare per i cieli sempre più scuri. La colonna sonora è fatta di rumori stridenti e tuoni che nel finale diventano particolarmente sinistri. La scena ricorda per molti aspetti l’ambientazione del romanzo La strada di Cormac McCarthy. Anche in questo spettacolo il protagonista compie dei gesti la cui finalità rimane sospesa fra diverse ipotesi. Le sue azioni attraversano differenti stadi, compreso un delirio di onnipotenza indotto dalla bevanda, i cui effetti però durano poco. Alla fine di questa parte i movimenti diventano più coerenti e determinati nel dar vita a nuove forme, il cui significato vedremo nelle conclusioni.

La leggerezza del gioco

Il terzo spettacolo, Croȗte, di Guillaume Martinet/Defracto, è un ulteriore salto che ci porta nel mondo della giocoleria, anche se il termine è riduttivo. Martinet porta in scena soltanto sei palline di stoffa con le quali si esibisce in alcuni numeri tipici del giocoliere: ma questa parte della performance è in fondo quella più superficiale. Sono il corpo e lo spazio i veri protagonisti della performance. La scelta compiuta dalla regia è stata particolarmente felice, perché lo spettacolo si svolgeva in una parte del salone centrale, a ridosso della scalinata che porta a una delle mostre attualmente in corso di svolgimento. Il pubblico poteva accedere alla mostra e questo creava momenti d’imprevedibile interazione fra spettatori, pubblico ignaro di quanto stava accadendo e performer. In una alternanza fra momenti di comicità ad altri di puro virtuosismo, le azioni consistevano di poche semplici mosse. Più lo spettacolo continuava, più ci si rendeva conto che erano le interazioni fra il corpo e lo spazio più ancora delle abilità del giocoliere il vero motivo di fascino della performance; perché la diversità e anche la scelta, praticamente senza alcun limite, dei luoghi in cui quei gesti possono trovare dimora, fanno di Croȗte, uno spettacolo metamorfico, sempre diverso dal precedente.

Senza parole

Quanto visto m’induce a riflettere prima di tutto sull’assenza di parola. Non è una sorpresa in senso assoluto. John Cage in anni lontani, ma anche alcune esperienze del Living Theatre o di Lindsay Kemp non avevano al centro la parola o essa era addirittura del tutto assente; per non parlare dei Mimi e dell’indimenticabile Marcel Marceau. Tuttavia, la differenza rispetto a quelle esperienze è la possibilità di unificare in uno spettacolo elementi disparati ed eterogenei – un esempio per tutti, saper coniugare un aspetto estremo dell’alpinismo all’arte circense e al teatro –  per dar vita ogni volta a performance difficilmente prevedibili. Proprio l’eterogeneità e l’interazione fra elementi così diversi, ma non arbitrariamente fusi insieme, suggeriscono che siamo forse in presenza di una nuova linea nel solco dell’arte totale, da un lato. Dall’altro che l’analogia, piuttosto che la metafora è la figura retorica prevalente.

Un altro tratto distintivo e vistoso è la capacità di usare il corpo e l’interazione fra di esso e alcuni oggetti. Tale elemento, specifico dello spettacolo circense, ma anche prerogativa della danza contemporanea, è posto al servizio di una trama più complessa come avviene – per esempio – in un passaggio particolarmente emozionante di 2984, per quello che il protagonista riesce a fare con la carriola. Oscillando fra aspetti squisitamente comici e grotteschi, ad altri più drammatici, si arriva allo struggente ballo notturno che evoca l’immagine del femminile assente dalla vita. Questo passaggio e un altro successivo, in cui, dall’esplosione di una pietra, emerge un vecchio braccio umano che verrà posto in cima al totem, portano il protagonista a mettere in scena con le sue pietre il sogno di ricostruire l’umanità.

La conclusione di questo spettacolo mi riporta a un confronto con l’altro dal titolo Mavara. Unisco queste due opere in una riflessione conclusiva perché, proprio per la loro grande diversità, portano in scena anche uno sguardo femminile e uno maschile sulla nostra contemporaneità. Mavara è un percorso di liberazione, compiuto da una donna, la quale sente che la propria presenza nel mondo è soltanto agli inizi e ha davanti a sé un futuro tutto da scoprire. La scena finale in cui la protagonista accompagna con il gesto e con il suono felice della voce, la liberazione di tutte le scorie, si apre alla speranza, ma al tempo stesso ha le proprie radici antropologiche in una tradizione di sapienza femminile che è stata repressa dalle società patriarcali. Niente potrebbe essere più lontano, in questo senso, dall’accompagnamento verso la fine del mondo, evocato da 2984. Entrambi gli spettacoli, però, ci mettono di fronte a un dilemma reale: perché se è vero che l’immaginario apocalittico è prevalentemente maschile e affonda le sue radici nella tradizione millenarista cristiana, d’altro canto la speranza di liberazione non può ignorare che il monito sulla possibile fine dell’umanità non viene da Cassandre d’occasione o pseudo indovini, ma da scienziati e scienziate.

LE ARTI E LA GUERRA

Le vicende storiche reali della città di Ilio sono sfocate al confronto delle immagini che l’Iliade ci tramanda da secoli. All’origine della guerra troviamo un evento storico, ma ancor più una narrazione intorno alla quale si costruisce un discorso dotato di senso, che si tramanda nel tempo. Non solo la guerra è un oggetto estetico fin dagli albori della civiltà che definiamo occidentale ed è quindi collegata all’ideale stesso della bellezza, ma produce anche un’etica che arriva fino a noi. In ogni passaggio storico, grandi narrazioni epiche hanno elaborato questo discorso etico/estetico producendo quell’apparato di simboli, suscettibili  di trasmettere valore, e determinare soglie di differenza fra bene e male. Se di volta in volta la guerra affonda le sue radici nelle contingenze storiche è altrettanto vero che alle lontane origini del primo evento bellico significativo, troviamo un patto fra guerra e letteratura, guerra e  narrazione. Nascono così parole che si caricano di un senso particolare e hanno valore discriminante fra virtù e vizio. Termini come coraggio e persino temerarietà sono sinonimi di positività, mentre parole come paura o diserzione, sono esempi di negatività. Penso che una risposta che prenda di petto e non eluda la domanda – perché la guerra oggi? – debba prendere in considerazione la catena virtuosa che si è stabilita nei secoli fra la guerra come modo di risolvere il conflitto da un lato e un discorso etico/estetico con la conseguente catena simbolica. Contribuire a spezzare tale catena, a interromperla, sottoporre al vaglio che non dà nulla per scontato, proprio quel discorso dotato di senso che è stato costruito dalla letteratura intorno all’evento bellico è una delle poche azioni che ci restano nel clima di impotenza generalizzato dal quale non si riesce a venir fuori.

Diserzione e paura nell’immaginario collettivo sono ovviamente una coppia negativa, ma la rottura del patto fra letteratura e guerra passa anche attraverso la possibilità di ridare senso proprio alle parole considerate sospette o da aborrire da parte dell’apparato simbolico guerresco.

Nessuna causa, anche quella più condivisibile, dovrebbe più suscitare una letteratura di omaggio, di esaltazione  o semplicemente di appoggio;  perché l’epica guerresca di oggi non serve alla guerra di oggi, bensì a quella di domani. Un esempio famoso, ricordato anche a proposito delle guerre in corso, è quello di Wilfred Owen, poeta inglese che Virginia Woolf ricorda come eccezione per il genere maschile. Owen combatté la Prima Guerra Mondiale e vi morì; lasciò però, a differenza di moltissimi altri scrittori prima e dopo di lui, versi memorabili ed inequivocabili contro la guerra. Owen scelse il verso più monumentale della letteratura inglese, il blank verse e le strutture chiuse per rovesciare la logica epico/monumentale della lirica di guerra. Ebbene il suo destino di poeta è significativo. Le sue liriche sono scarsamente visibili nelle antologie anglosassoni e i testi più alti di denuncia vengono solitamente trascurati. Questo dovrebbe testimoniare a sufficienza l’importanza dell’apparato simbolico e la sua forza: perché a oltre un secolo da quella guerra l’establishment inglese teme di più le poesie di Owen che non il suo sacrificio. Al polo opposto di Owen colloco invece Ilia Êrenburg: egli scelse di partecipare alla difesa dell’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale – e  tale scelta in quel contesto fu certamente meritoria; ma scrisse poi versi infami nei confronti della popolazione e delle donne tedesche, che non citerò proprio per questo.

British soldier and war poet Wilfred Owen (1893 – 1918) in uniform with a young boy, circa 1917. (Photo by Evening Standard/Getty Images)

Testi di denuncia della guerra e della logica guerresca si trovano nell’Antologia di  Spoon River di Masters, in Christa Wolf che, in Cassandra definisce Achille, l’eroe  per antonomasia, con l’appellativo che si merita: una bestia più che un essere umano. Sono tutti esempi di rottura dell’ordine simbolico, come lo furono le proposte avanzate anni fa da Gunther Grass e Kazumiro Oe di di erigere un monumento ai disertori tedeschi e giapponesi della Seconda Guerra Mondiale.

A quanto detto fin qui mi si potrebbe facilmente obiettare che non sono più la grande letteratura oppure il cinema a essere veicoli della propaganda guerresca, ma i mass media, l’informazione asservita e quant’altro e che dunque occuparsi della narrativa guerresca come di quella di opposizione è in fondo tempo perso, un atteggiamento che poteva andare bene per il passato ma inservibile oggi. In secondo luogo, l’impotenza che sembra regnare sovrana scoraggia qualsiasi tentativo di discorso, la parola appare fuori gioco rispetto a logiche geopolitiche e di potere troppo più grandi di noi. Sono sentimenti diffusi che quotidianamente verifichiamo, ma sono anche il risultato di una narrazione tossica che può essere smontata e in ogni caso si tratta di due problemi diversi.

L’impotenza è un dato reale, ma è il risultato del fallimento delle élite occidentali e in particolare di quelle europee; tanto è vero che a livello continentale e in percentuali ancor più accentuate in Italia, l’opposizione al continuo invio di armi in Ucraina è molto forte e in alcuni casi maggioritaria, nonostante la propaganda martellante. Più che impotenza è la consapevolezza di non potersi affidare alle forze politiche esistenti a determinare atteggiamenti di disincanto e di indifferenza. Bisogna cercare le parole adatte, ma specialmente continuare a rifiutare il linguaggio bellicista che permea tutti gli aspetti della vita quotidiana, contrastarlo senza cadere però in una spirale reattiva o semplificata. Per questo gli esempi che si possono trovare nella grande letteratura e nel cinema sono quanto mai utili e per concludere questa parte della riflessione suggerisco la visione di 1917, un film di guerra, certo, ma che mette in scena un tipo di comportamento virtuoso che fa emergere tutta la stupidità della guerra: lo stesso si è può dire naturalmente di un classico come Niente di nuovo sul fronte occidentale.     

La propaganda attuale

Una breve nota finale sulla questione della propaganda. Che essa, piuttosto che stare nelle mani di scrittori che sanno usare la parola in modo virtuoso, sia invece in quelle di mediocri giornalisti asserviti nella grande maggioranza dei casi, è un bene e non un male. Tanto più che le vendite di giornali sono in caduta libera come riportato da due diverse fonti citate nella nota: per non appesantire il testo chi voglia verificare i numeri e le percentuali può farlo accedendo ai due siti.1 I dati più eclatanti riguardano proprio Corriere della Sera e Repubblica, in caduta libera, mentre i soli in controtendenza e anche per questo difficili da trovare persino nelle statistiche,  riguardano quotidiani che fanno ancora del serio giornalismo d’inchiesta come Domani. Tutto questo spiega in buona parte perché, nonostante il martellamento costante, la maggioranza della popolazione italiana continua a essere contraria all’invio di nuove armi in Ucraina e ci sono segni che anche nelle opinioni pubbliche europee ci sono incrinatura importanti. Ma è la televisione il guaio peggiore, potrà obiettare qualcuno, e per contrastare le televisioni che cosa su può fare? Anche in questo campo le statistiche dicono che mentre i programmi di intrattenimento e quelli sportivi hanno un seguito come prima, anche perché a volte sono un rifugio alla eccessiva pressione del presente, i telegiornali hanno sempre meno ascolti. Naturalmente esiste un enorme problema che riguarda l’inconsistenza del ceto intellettuale che frequenta giornali e Tv e l’informazione in generale, ma questo è un tema che ci accompagna da molto tempo e che esula dagli intenti di questo scritto che si propone  semplicemente, a un anno dallo scoppio dell’ultima guerra in ordine di tempo, di ricordare che la diserzione dal frastuono mediatico è altrettanto importante quanto la diserzione vera e propria e che i piccoli passi sono in certi momenti storici le sole azioni praticabili.


1 Dati del sindacato autonomo giornalai:

“Sono i principali dati contenuti nell’ultimo Osservatorio sulle comunicazioni (n. 4/2022), l’aggiornamento trimestrale dei settori dei media e delle telecomunicazioni realizzato dall’AGCOM. Nell’editoria quotidiana si conferma dunque l’andamento negativo già rappresentato nei precedenti Osservatori e che ha riflessi diretti negativi sulla rete di vendita della stampa in termini di redditività e sostenibilità dell’attività.”

Da Affari italiani: 11 gen 2023 — A novembre, secondo i dati Ads, c’è stato un calo generale delle vendite dei giornali in edicola. A fare il tonfo più rumoroso è “Il Fatto …

WILLIAM BLAKE: CANZONI DELL’INNOCENZA E DELL’ESPERIENZA

Premessa

La maggioranza dei critici ha evidenziato come la poesia di Blake trovi le sue fonti ispiratrici nella ribellione intransigente e senza compromessi al razionalismo. Perciò la sua ricerca di poeta, ma anche di intellettuale e artista incisore, sarebbe rivolta all’immaginazione pura, popolata di visioni interiori e densa di simboli a volte oscuri, sempre attingenti a fonti esoterico/religiose. Sebbene tutto questo sembri molto ovvio, Blake non si adatta così perfettamente come sembra a tale interpretazione. Il primo a metterne in discussione l’esclusività in Italia fu Agostino Lombardo, ma la storia dei rapporti fra Blake e la poesia nonché la critica italiane comincia ben prima di lui e cioè con Mario Praz, di cui esistono vecchissime traduzioni di alcune liriche, senza un preciso orientamento critico. Il punto di svolta fu l’antologia curata da Giuseppe Ungaretti.1 Al poeta va riconosciuto il merito di aver tolto Blake dall’oblio e di averlo proposto al pubblico italiano; ma anche il torto di averne canonizzato un’interpretazione, con qualche forzatura nelle traduzioni. Ungaretti lo considerava grande poeta nei Libri Profetici e si limitò a trattare gli altri testi contemporanei e i precedenti in modo da farli apparire preparatori a questi ultimi. Non è un caso che nella sua Antologia le poche Canzoni presenti rimandino al dopo, a parte La tigre, una lirica talmente famosa e celebrata da trovare posto in qualsiasi antologia. 

Bisogna attendere gli anni ‘80 del secolo scorso perché lo scenario cominci a cambiare.

Una prima svolta avvenne grazie a una scelta editoriale: la pubblicazione presso l’Editore Guanda dell’opera completa di Blake per  la traduzione e la cura di Roberto Sanesi. La ricca introduzione, nonché la possibilità di leggerlo per intero resero più evidente la complessità dell’opera blakiana.2

La lettura che propongo parte dalla convinzione che la linearità d’interpretazione critica in senso esoterico e religioso sia basata sulla rimozione del carattere originale delle Canzoni. Ciò che viene rimossa, in particolare, è la frattura che si produce nel pensiero e nella poetica di Blake. Parlo di frattura e non di sviluppo di alcune premesse piuttosto che altre perché è proprio su tale diversa analisi che si basa la costruzione di un Blake solo visionario ed esoterico. La diversità profonda e irriducibile che esiste fra Le Canzoni dell’Innocenza e dell’Esperienza e le altre opere, a partire dal Poemetto Il Matrimonio dell’Inferno e del Paradiso, per terminare con Jerusalem, è solo parzialmente radicata nella cronologia. Le Canzoni non sfociano nei Libri Profetici, ma sono contemporanee ad alcuni di essi, anche se il loro linguaggio così tipico e lo stile che le contraddistingue verranno abbandonati dal poeta. Insisto ulteriormente sull’esistenza di questa frattura mettendo in evidenza un’altra reticenza. Nessuno ha mai definito le Canzoni una raccolta minore, cosa che avviene sempre quando si riconosce in alcune opere il faticoso sorgere di un’ispirazione poetica che trova poi il suo compimento in opere successive e maggiori; ma vi è di più. Se si esamina un secolo di giudizi critici si scopre come siano proprio i Libri Profetici a essere più vistosamente criticati. Quale lettura diversa si può allora dare dello sviluppo della sua poetica, nonché  del suo pensiero?

William Blake, come altri giovani artisti e intellettuali fu un protagonista appassionato degli eventi storici e artistici del suo tempo. L’influenza che ebbe su di lui la Rivoluzione Francese fu pari a quella che ebbero sul suo pensiero le teorie di Swedenborg o la lettura della Bibbia. Tutto questo può risultare stridente e contraddittorio, ma i cambiamenti epocali che si stavano verificando mettevano a dura prova tutte le tradizioni e i riferimenti, aprivano la strada ai dubbi e alla molteplicità delle soluzioni possibili. La Rivoluzione Francese esercitò su di lui un’influenza più duratura di quella che ebbe su altri suoi contemporanei; penso per esempio a Wordsworth, passato in pochi anni dall’entusiasmo fanatico all’adesione a correnti reazionarie di pensiero. Gli eventi francesi suggerirono a Blake la necessità dell’impegno e lo si ricorda girare per Londra con il berretto frigio, fino all’arresto. Va detto a questo proposito che non si tratta della semplice sparata provocatoria di un artista d’avanguardia; portare il berretto frigio a Londra, quando lo fece lui, era qualcosa di più di un semplice gesto provocatorio. Blake, oltretutto, non era un Byron ante litteram e non ha mai avuto una propensione per il gesto fine a se stesso e amava assai poco esporsi in pubblico. Secondo Sanesi si può affermare che fosse un giacobino, ma credo che con Blake bisogna sempre essere molto attenti a non prendere posizioni troppo nette o a credere troppo a certi suoi interventi estemporanei, nei quali si trova facilmente un’affermazione e poi il suo contrario. La contraddizione è il vero motore del suo pensiero, come peraltro è lui stesso a dire in una pagina dei suoi scritti:

Do what you will, this Life’s a Fiction/And is made up on Contradictions.

Fate ciò che volete, questa Vita è una Finzione/costruita di Contraddizioni.3

Tuttavia il suo spirito democratico è confermato anche dall’entusiamo nei confronti del processo d’indipendenza delle colonie americane dall’Inghilterra. Agostino Lombardo notò per primo come gli eventi francesi suggerissero a Blake l’ispirazione più sociale e attenta alla concretezza del vivere, tematica che è abbondantemente presente nelleCanzoni, diventando invece sempre più rarefatta nel Libri Profetici, o tradotta in figure e visioni simbolico-religiose.

Poesia e poetica delle Canzoni

Nelle Canzoni la tensione religiosa, sempre presente, è affiancata da uno sguardo penetrante e attento, filosofico e al tempo stesso francamente realista, che trova i suoi oggetti e materiali nella realtà sociale del suo tempo. Per esemplificare tale diversità di fonti e ispirazioni vediamo due testi. Il primo è tratto dalle Canzoni dell’Innocenza e s’intitola the Chymney sweeper. Siamo nel 1794, cioè quando alcuni Libri considerati minori erano già stati scritti e pubblicati con la tecnica dell’incisione. Il secondo testo è uno stralcio da The Marriage of Heaven and Hell, probabilmente composto fra il ’90 e il ’92.

When  my mother died I was very young,/And my father sold me while yet my tongue/Could scarcely cry “weep! weep! weep! weep”!/So you chimneys I sweep, & in soot I sleep.// There’s little Tom Dacre, who cried when his head,/That curl’d like a lamb’s back, was shav’d : so I a said:/”Hush Tom,! Never mind it , for when your head’s bare/You know that the soot cannot spoil your white hair”.//And so He was quiet, & that very night/As Tom was a-sleeping, he had such a sight!/That thousand of sweepers, Dick, Joe, Ned & and Jack,/When all of them look’d up in coffins  of black.!!And by came an Angel who had a bright eye,/And he open’d the coffins & and set them all free;/Then down a green plain leaping, laughing, they run,/And wash in a river, and shine in the Sun.//Then naked and white, al their bags left behind,/They rise upon clouds and sport in the wind;/And the Angel told Tom, if he’d be a good boy,! He’d have God for his father, & and never want joy.//Ad so Tom awoke; and we rose in the dark,/And got with our bags & and our brushes to work./Tho’ the morning was cold, Tom was happy & warm;/So if all do their duty they need not fear harm./

Quando morì la mamma ero molto piccolo,/E mio padre mi vendette mentre/ la lingua era ancora solo pianto./ Ora pulisco i vostri camini e dormo nella  fuliggine.// C’è Tommy Dacre che pianse quando gli rasarono/la testa riccia come una schiena di agnello./Gli dissi: “Dai, Tom non prendertela/così la testa calva non scompiglia/i tuoi capelli bianchi.”// E lui allora si calmò e quella notte/ebbe nel sonno una visione/Migliaia di spazzacamini, Dick, Joe, Ned & Jack/imprigionati in bare di fuliggine,//E venne un Angelo con la chiave lucente/aprì le bare e li liberò e corsero/sulla verde pianura e risero/Poi si lavarono nel fiume e brillarono al Sole// Nudi e bianchi, lasciate le  sacche/volarono sopra le nubi, giocarono nel vento./E l’Angelo disse a Tom se sarai bravo/avrai Dio come Padre e non ti mancherà la gioia//E Tom si svegliò e ci alzammo nella tenebra;/E lavorammo con i sacchi e le scope/Era freddo quel giorno ma Tom era caldo e  felice./Chi fa il suo dovere nulla ha da temere.

Da The marriage of heaven and hell

As a new heaven is begun, and it is now thirty-three years since its advent: the Eternal Hell revives. And lo! Swedenborg is The Angel sitting at the tomb; his writings are the linen clothes folded up. Now is the dominion of Edom, & the return of Adam into Paradise; see Isaiah XXXIV & XXXV Chap:

Without Contraries is no progression. Attraction and Repulsion, Reason and Energy, Love and Hate, are necessary to Human existence.

From these contraries spring what the religious call Good & Evil. Good is the passive that obeys Reason [.] Evil is the active springing from Energy.

Good is Heaven. Evil is Hell.

/Poiché un nuovo cielo ha avuto inizio, e si è ora compiuto il trentatreesimo anno dal suo avvento, l’Inferno Eterno rivive. E ecco! È Swedenborg l’Angelo che siede presso la tomba: e quei sudari di lino ripiegati sono i suoi scritti. Ora è il regno di Edom, e il ritorno di Adamoin paradiso. Cfr Isaia, cap xxxiv e xxxv.

Senza contrari non c’è progresso. Attrazione Repulsione, Ragione e Energia, Amore e Odio sono necessari all’esistenza Umana.

Da questi contrari ha origine ciò che i religiosi chiamano Bene e Male. Bene è il passivo che obbedisce alla Ragione. Male l’attivo che scaturisce dall’Energia.

Bene è il Cielo, Male è L’Inferno.6

Come si può notare, la distanza è grande: diversi sono il linguaggio, lo stile, il  rapporto fra senso e suono: vedremo poi in un secondo tempo quale trasformazione subirà Lo spazzacamino nelle Canzoni dell’Esperienza. 7

La raccolta fu concepita in modo unitario, sebbene le due sezioni siano state in un primo tempo pubblicate separatamente. Fra di esse vi è infatti un parallelismo evidente e questo è un motivo originale di quest’opera: dare lo stesso titolo a due liriche appartenenti ciascuna all’altra sezione, ma intorno allo stesso tema di fondo. Tale scelta stilistica fa balzare in primo piano la contraddittorietà dei due stati d’animo in evidente opposizione fra loro ed in tensione continua; ma anche nei casi in cui due liriche hanno titoli diversi, l’opposizione è altrettanto vistosa. Tale opposizione è in alcuni casi portata ai suoi estremi, come accade in queste due famose liriche  dal  titolo diverso ma speculari:  Divine image e Human  Abstract.

The Divine Image. 

To Mercy Pity Peace and Love,/All pray in their distress:/And to these virtues of delight/Return their thankfulness./For Mercy Pity Peace and Love/Is God our father dear:/And Mercy Pity Peace and Love,/Is Man his child and care./For Mercy has a human heart/Pity, a human face:/And Love, the human form divine,/And Peace, the human dress./Then every man of every clime,/That prays in his distress,/Prays to the human form divine/Love Mercy Pity Peace./And all must love the human form,/In heathen, turk or jew./Where Mercy, Love & Pity dwell,/There God is dwelling too.

L’immagine divina

A Clemenza, Pietà, Amore e Pace,/tutti si rivolgono nella disperazione/e a tali delizie virtuose/restituiscono gratitudine/Perché Clemenza, Pietà, Amore e Pace/Sono Dio e nostro Padre caro:/E Clemenza, Pietà, Amore e Pace/Sono l’uomo suo figlio e cura.//Perché Clemenza ha un cuore umano,/Pietà un volto umano:/Amore l’umana divina forma/la Pace il vestito umano//Così ogni uomo ovunque sia/e preghi nella sua disperazione/prega l’umana divina forma/Amore, Clemenza, e Pietà e Pace.//E  tutti devono amare la forma umana/ pagani, turchi ed ebrei:/dove hanno casa Clemenza, Amore e Pietà/Dio è in quella casa.

The Human Abstract. 

Pity would be no more,/If we did not make somebody Poor:/And Mercy no more could be,/If all were as happy as we;/And mutual fear brings peace;/Till the selfish loves increase./Then Cruelty knits a snare,/And spreads his baits with care. /He sits down with holy fears,/And waters the ground with tears:/Then Humility takes its root/Underneath his foot./Soon spreads the dismal shade/Of Mystery over his head;/And the Catterpiller and Fly,/Feed on the Mystery./And it bears the fruit of Deceit,/Ruddy and sweet to eat;/And the Raven his nest has made/In its thickest shade./The Gods of the earth and sea,/Sought thro’ Nature to find this Tree/But their search was all in vain:/here grows one in the Human Brain

L’astratto umano.

Pietà non esisterebbe più/se non facessimo di qualcuno un Povero:/E Clemenza non ci sarebbe,/Se tutti fossero felici come noi;//la paura reciproca porta pace;/fino a che non crescono gli amori egoistici./Poi la crudeltà tesse un cappio/e dispone con cura le sue esche./seduta con i sacri timori,/inonda la terra di lacrime;/poi l’Umiltà mette radici/sotto i suoi piedi/Presto si diffonde la triste ombra/del Mistero sopra la testa/di cui il bruco e la mosca si nutrono/E cresce il frutto dell’inganno,/dolce e rossastro alla bocca,/dove il Corvo ha fatto il nido nell’ombra più fitta./Gli dei della terra e del mare,/cercarono tale albero nella natura/ma non trovarono nulla;/ne cresce uno nella mente umana. 8

Nella prima lirica le parole Amore, Carità, Pace e Pietà, sono una rappresentazione simbolica in  forma di litania dei valori cristiani cui tutti si rivolgono nella disperazione. Nella seconda lirica lo stesso lessico, le stesse parole, diventano grazie a una sapiente partitura, espressione di falsa coscienza. La religione appare in questa seconda lirica come ideologia e gli accenti usati da Blake non sono distanti da quelli che userà Marx pochi decenni dopo quando definirà la religione oppio dei popoli. Certo, l’orizzonte di Blake è lontano da quello di Marx. Il poeta non vedrà la dimensione di massa e collettiva dei fenomeni urbani che osservava. Per lui non esistevano gli spazzacamini oppure i minatori o gli operai, ma sempre  lo Spazzacamino, l’Operaio, il Minatore.9

Tuttavia, non c’è forse in queste due liriche l’immagine di un mondo che si è spezzato e l’impossibilità di ricostruire quel ciclo armonico natura/esseri umani/dio che sostanziava l’esistenza di quei valori di cui si parlava nella prima lirica? Qui la rappresentazione poetica di Blake tocca un nervo scoperto della sua epoca storica. Non è proprio allora che, in Inghilterra, la Rivoluzione Industriale stava portando a compimento la separazione degli esseri umani dalla natura e dagli strumenti del loro lavoro?

Non era questo medesimo passaggio che colse Wallace Stevens più di cento anni dopo quando a proposito della società statunitense, si espresse nel modo che qui riporto da una nota del saggio dedicato a lui?

… La realtà è data dalle cose così come sono… Dapprima abbiamo una realtà che viene data per scontata, latente e tutto sommato ignorata. È l’agiata vita americana degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e del primo decennio dell’attuale. C’è poi una realtà che ha cessato di essere irrilevante, e questo si è avuto quando, una volta accantonati i vittoriani, le minoranze intellettuali e sociali hanno cominciato ad occupare il loro posto, trasformando la nostra vita in qualcosa di potenzialmente instabile. Di fronte a questa realtà, molto più vitale, quella precedente appare simile a un libro di litografie stampate da Rudolf Ackermann o a uno dei libri di schizzi svizzeri di Töpffer…

In queste espressioni si ritrova una versione Usa di età dell’oro cui Stevens, a differenza di Blake, credeva fino a un certo punto fin dall’inizio; ma che segnava comunque un passaggio epocale. Le minoranze intellettuali di cui parla Stevens, vanno di pari passo con lo sviluppo dell’industrializzazione statunitense: saranno loro a dissolvere quanto di vittoriano esisteva ancora nella società dei puritani d’America, aprendo le porte ai ruggenti anni ’20, immortalati dai romanzi di Francis Scott Fitzgerald. Stevens si richiama maggiormente a Wordsworth, ma in alcuni passaggi e figure emblematiche come in quella del sarto, troviamo echi che si possono ricondurre anche a Blake. Peraltro, anche nell’Inghilterra della fine del ‘700 e poi dei primi trent’anni del successivo, le minoranze intellettuali erano già attive anche in quel contesto e avrebbero resa ancor più evidente la scissione in atto. Blake sentì la sinistra musica dei tempi prima di altri e spesso la polemica antirazionalista diventa, nei testi delle Canzoni, molto di più una polemica antiborghese che scaglia i suoi strali sugli aspetti drammatici di una realtà sociale sempre più cinica e violenta nei confronti dei più deboli.

Il linguaggio  e  la scelta  stilistica  sono  naturalmente fondamentali in un’opera letteraria, perché ne sono il tratto distintivo saliente. Gli esempi già proposti sono sufficienti  a  dimostrare  la  lontananza  che  esiste  fra le Canzoni e i Libri Profetici: è un argomento che possiamo archiviare. Il titolo stesso dell’opera suggerisce che si tratta di componimenti popolari, solitamente brevi, generalmente lirici. Per i suoi ritmi, la canzone è lontana dalla solennità del linguaggio oracolare e visionario. Il primo componimento della raccolta, nella sezione Canzoni dell’Innocenza è assai importante a tale proposito:

Introduction

Piping down the valleys wild/Piping songs of pleasant glee/On a cloud I saw a child./And he laughing said to me./Pipe a song about a Lamb;/So I piped with merry chear,/Piper pipe that song again—/So I piped, he wept to hear./Drop thy pipe thy happy pipe/Sing thy songs of happy chear,/So I sung the same again/While he wept with joy to hear/Piper sit thee down and write/In a book that all may read—/So he vanish’d from my sight./And I pluck’d a hollow reed./And I made a rural pen,/And I stain’d the water clear,/And I wrote my happy songs/Every child may joy to hear

Introduzione

Suonando lungo valli selvagge/suonando canzoni di gioia e piacere/Sopra una nuvola vidi un bambino,/Ed egli mi disse://”Suona una canzone dell’Agnello!”/E io suonai con allegria/”Dai suona ancora, suonatore, la canzone.”/Ed io suonai di nuovo le stesse canzoni/mentre lui piangeva di gioia.//”Suonatore, lascia il tuo flauto, siediti e scrivile/in un libro che tutti possano leggere”./Scomparve poi dalla mia vista,/ed io colsi una canna vuota//ne feci una penna rurale/macchiai l’acqua limpida/e scrissi le mie canzoni felici/ogni bambino le può ascoltare con gioia. 10

Si tratta di una dichiarazione di poetica e i testi che seguono sono coerenti con tale intento. La difficoltà delle Canzoni non deriva dalla loro oscurità, ma discende paradossalmente dalla loro semplicità, dalla chiarezza disarmante di certe soluzioni, dalla trasparenza d’immagini che sembrano tanti quadretti naif. È sorprendente constatare come non sia stato messo in evidenza un fatto che i testi invece documentano: la rottura rispetto ai modelli della poesia inglese settecentesca, fu Blake a compierla, prima che Wordsworth e Coleridge dichiarassero pubblicamente tale intento nel famoso Preface alle Lyrical Ballads. Se si considerano alcuni punti di quel documento, essi sono ben presenti in Blake e sono precedenti. Vi sono almeno tre elementi significativi comuni: l’irrompere del parlato nella versificazione, l’uso del linguaggio comune e popolare nella poesia, i prelievi diretti dalla tradizione folkloristica. Altre caratteristiche non sono presenti, così come saranno diverse le soluzioni. Infine, un tema controverso riguarda l’Arcadia: si può dire che Blake ne fosse un esponente? Non mancano i testi che giustificano tale giudizio e secondo il critico Gerald Parks, la sua appartenenza a quella corrente è data per scontata. In particolare penso che egli abbia in mente la prima sezione e cioè i Canti dell’Innocenza. 11

Tuttavia un certo sentore di arcadia è presente anche in Wordsworh, per esempio in uno dei suoi testi più famosi: The solitary reaper. In lui, però e a differenza di Blake, prevale sempre di più l’espressione del sentimento legato ai sensi, la sua forza ed è per questo in definitiva che riconosciamo nella sua opera gli stilemi romantici. In Blake vi è una netta contrapposizione fra lo scenario agreste e quello urbano: anche in Blake la scena rurale è idilliaca, ma perché il poeta non saprà cogliere il nesso sociale che trasformerà milioni di braccianti e piccoli agricoltori in fuga dalle campagne in tanti spazzacamini e poi in operai nelle città. Nel testo blakiano si passa dal piano della realtà agreste – che certamente può essere ricondotta a un paesaggio idilliaco e quindi vicino al movimento dell’Arcadia – al simbolico religioso. Il bambino che invita il poeta prima cantare e poi a scrivere una canzone dell’agnello è una figura angelica, cioè un mediatore con il divino.12

Tuttavia, Blake non ha affatto una visione idealizzata del lavoro in generale, solo che le figure prevalenti della sua critica sono di carattere urbano, a parte gli spazzacamini che si ritrovano un po’ ovunque. Anche il testo di Wordsworth ha elementi che lo riportano all’Arcadia, perché bisogna davvero ignorare cosa succedesse nella campagne inglesi in quel momento storico per immaginare una mietitrice come la giovane della poesia. La protagonista del testo di Wordsworth incarna il rimpianto per un mondo contadino che non esiste più. In Blake tali elementi arcadici sono più presenti, specialmente nelle Canzoni dell’Innocenza, ma vengono rovesciati nel contrario di una idealizzazione nella seconda parte del testo.

Questa constatazione rende ancora più bizzarra una certa critica che sottolinea sempre come la diversa fortuna e successo di Wordsworth, Coleridge e Blake andasse cercata nella natura ostica del testo blakiano, nella sua complicata partitura. Come si può vedere facilmente, tali giudizi rimuovono l’esistenza delle Canzoni e prendono in considerazione solo la simbologia del Libri.

La minor fortuna di Blake va cercata in altro: prima di tutto nel suo atteggiamento pre moderno per quanto attiene il rapporto con il pubblico.

Wordsworth e Coleridge, pur detestando formalmente la società industriale, furono più consapevoli dei suoi meccanismi; la loro Prefazione alle Lyrical  Ballads fu un vero manifesto che suscitò un forte richiamo sull’opera. Non solo: i cenacoli e le serate di letture erano frequenti e a esse partecipavano anche poete. Insomma, i due seppero ben curarsi delle necessità di creare un pubblico della poesia che coinvolgeva anche le donne. Blake, nonostante certe frequentazioni, rimane un artigiano e in questo senso appartiene a un mondo preindustriale e pre moderno. Rifiutava sdegnosamente di leggere in pubblico per esempio. La sua visione del lavoro artistico rifugge dagli aspetti salottieri e di massa che si andavano diffondendo. Wordsworth e Coleridge, invece, hanno molti tratti in comune con l’artista sradicato dalla società da un punto di vista del loro modo di vita; ma ben più integrati nei suoi meccanismi sociali. Essi furono i primi artisti/intellettuali di una nuova era. Blake rimase al di qua della problematica che riguarderà i rapporti fra l’artista moderno ed il suo pubblico, anche se per altri aspetti, fu addirittura più moderno dei due romantici della prima generazione; per esempio nel cercare una forte simbiosi fra la pittura e la scrittura attraverso l’incisione. Fu uno dei primi artisti dell’epoca a sentire la necessità di una sinergia fra le arti e se pensiamo all’’800 dovremo aspettare qualche decennio perché un altro grande artista – Richard Wagner – parlasse di arte totale. Ciò che non va mai dimenticato di Blake, è la sua perenne oscillazione fra due tendenze e mondi che lo lacerano in continuazione: in lui convivono aspetti moderni e pre moderni in una continua tensione, anche se alla fine saranno i secondi a prevalere.

Vi è poi un’altra ragione della sua minore fortuna, connessa a un fattore più complesso e che toccherà in sorte anche a Wordsworth e Coleridge, nonostante la loro maggiore  capacità  di essere uomini del mondo nuovo che stava nascendo. Con la Rivoluzione Industriale il pubblico borghese in senso moderno, assegnava fatalmente un ruolo diverso alla poesia nell’ambito delle arti e della cultura. Quel programma di rinnovamento linguistico da cui sia Blake, sia i due romantici erano partiti, sarà sviluppato per tutto l’800 – e con ben altri mezzi – dai prosatori, dai romanzieri, dai critici letterari e d’arte – si pensi al ruolo di John Ruskin – dai giornalisti. Il rinnovamento prenderà quella strada, approfondendo una tendenza che era già nata e si era consolidata nel ‘700, durante il periodo più  stabile  della  società  inglese  dopo che i rivolgimenti del secolo precedente, erano culminati nella Glorious Revolution. Il mandato di fungere da mediatori sociolinguistici, non era più esclusivo dei poeti e dei filosofi; dopo i romanzieri sarà la volta degli scienziati sociali e degli scienziati tout court, degli antropologi, degli economisti e dei politici. Con la Rivoluzione Industriale gli intellettuali moderni diventano un gruppo sociale con dinamiche proprie anche di potere. Baudelaire è ancora lontano, ma s’avvicinano i tempi in cui l’aura cadrà dalle teste dei poeti laureati. Questo passaggio sfuggì a Blake nella stessa misura in cui sfuggì a Wordsworth e a Coleridge, ma a Blake in definitiva poco importava. Agli altri due sì, ma a leggere le loro biografie, specialmente quella di Wordsworth, si ha la sensazione di finire su un binario morto.

Le fonti linguistiche delle Canzoni

Due mi sembrano le più importanti: la tradizione e il folklore popolare da un lato, i canti del radicalismo puritano dall’altro. Per quanto riguarda la prima è interessante notare come, nella lirica The Blossom, sia citato Pretty Robin, il pettirosso, che rimanda ai canti popolari della festività di San Giovanni a metà giugno, con tutti i rimandi  precristiani  e  pagani  che esso ha:

Merry, Merry Sparrow!/Under leaves so green/A happy Blossom/See you swift as arrow/Seek your cradle narrow/near my Bosom.//Pretty, Pretty Robin/Under leaves so green/A happy Blossom/Hears you sobbing, sobbing/Pretty, Pretty Robin,/Near my Bosom:

Passero, Passero felice!/Sotto foglie così verdi/un Fiore gioioso/ti vede veloce come freccia/mentre cerchi/la tua minuscola culla accanto al mio seno//Sei bello pettirosso/sotto foglie così verdi/un fiore allegro/ti sente piangere e piangere/Bel pettirosso/accanto al mio seno. 13

Infine, l’uso del dialogo nei testi poetici. Esso è fra le scelte stilistiche più suggestive delle Canzoni e apre le porte a sviluppi successivi che percorreranno la poesia inglese del secondo ottocento: si pensi al dramatic monologue di Robert Browning. Sono in molti ad essersi avvalsi di Blake, anche se non sempre lo hanno riconosciuto o si sono ricordati di lui.

Concludo questa parte lasciando l’ultima parola di nuovo a tre testi. Appartengono tutti alla seconda delle sezioni, Canzoni dell’esperienza. Il primo è Lo Spazzacamino simmetrico e dissonante rispetto al testo che si trova nella prima sezione. Il secondo, The Garden of Love, riprende con modulazioni leggermente diverse gli stessi temi di Human abstract. Il terzo s’intitola Londra ed è assai interessante perché si tratta della sola vera incursione di Blake nello scenario nuovo della grande città industriale.

The Chimney Sweeper

A little black thing among the snow:/Crying weep, weep, in notes of woe! /Where are thy father & mother? say?/They are both gone up to the church to pray./Because I was happy upon the heath,/And smil’d among the winter’s snow:/They clothed me in the clothes of death,/And taught me to sing the notes of woe./And because I am happy, & dance & sing,/They think they have done me no injury:/And are gone to praise God & his Priest & King/Who make up a heaven of our misery. t

Una piccola cosa nera in mezzo alla neve/ che piange ue ue tristemente/” Dove sono tuo padre e tua madre, dimmi?”/” Sono in Chiesa a pregare.//” Poiché ero felice nella brughiera/ E ridevo in mezzo alla neve invernale:/mi vestirono con gli abiti della morte,/mi  insegnarono  a  cantare  le  note  della tristezza”//” E poiché sono felice e ballo e canto/ pensano di non avermi ferito/e sono andati ad adorare Dio, i suoi Preti  e il Re/che han fatto un paradiso della  nostra miseria.”

The Garden of Love.

I went to the Garden of Love,/And saw what I never had seen:/A Chapel was built in the midst,/where I used to play in the green.//And the gates of this Chapel were shut,/And “Thou shalt not”writ over the door;/So I Turn’d to the Garden of Love/That somanyswee flowers bore;/And I saw it wa filled woth graves,/And tomb-stones where flowrrs should be;/And priensts in balc gowns where walking there round/And binding with briars my joys & desiers./

Andai al Giardino dell’Amore,/e vidi ciò che mai avevo visto:/una Cappella stava nel mezzo,/dove nel verde avevo giocato.//Erano chiusi i Cancelli della Cappella,/”Tu non devi” scritto sopra la porta;/volsi lo sguardo al Giardino d’Amore/che tanti generò dolci fiori;//Vidi ch’era cosparso di tombe/e lapidi di pietra dov’erano i fiori;E Preti in nere gonne giravano in tondo/e legavano coi rovi le mie gioie e i desideri./

London

I wander thro’each charter’d street,/Near where the charter’d Tames does flow,/And mark in every face I meet,/Marks of weekness, marks ov woe.//In every cry of every Man,/In every Infant’s cry of fear,/In every voice, in every ban,/the mind-forge’d manacles I hear.//How the Chimneys-sweeper’s cry/every black’ning Church appals;/ And the hapless Soldier’s sigh/Runs in blood down  Palace walls.//But thro’ midnight streets I hear/How the youthful Harlot’s curse/Blasts the new born Infant’s tear,/ And blights with plagues the Marriage hearse./

Vago per ogni celebre via,/Là dove scorre il famoso Tamigi,/E noto in ogni volto che incontro/Segni di debolezza, segni di dolore.//In ogni grido di ogni Uomo,/In ogni urlo di paura di un bambino,/In ogni voce, in ogni divieto/Io Sento le catene forgiate dalla mente //Come l’urlo dello Spazzacamino/sporchi di nero e atterisca ogni chiesa;/e il sospiro del Soldato sventurato/insanguinare le mura del Palazzo.//Io sento nelle strade di mezzanotte/come la maledizione della giovane prostituta/spegne la lacrima del noenato/e copre di peste la bara del matrimonio./ 14

La poesia è scritta al presente indicativo, il suo tono è dolente, nel leggerla viene spontaneo scegliere il sottovoce, una nota costante di sventura avvolge il testo in un’atmosfera lugubre e infernale. Pur trattandosi di un testo isolato, i modi con cui il poeta si accosta alla città anticipano scenari che saranno celebrati da Baudelaire qualche decennio dopo, con una differenza sostanziale: mentre per il poeta francese la città può essere sordida ma anche fonte di esperienze straordinarie, per Blake, la città industriale è un Inferno nell’al di qua. Una eco di quest’ultimo testo lo ritroveremo in un passaggio molto celebrato di Waste Land

Per concludere

La collocazione di Blake nella cultura e nella poesia di fine ‘700 e inizi ‘800 ha arrovellato i critici, dal momento in cui il poeta è stato veramente scoperto e cioè a metà del 1800 e questo è certamente sorprendente se si considera che era invece conosciutissimo da tutti, tanto che ci sono battute su di lui e aneddoti raccontati dai contemporanei.15 Tuttavia, la particolarità delle sue scelte editoriali, fecero sì che le sue opere fossero stampate e messe a disposizione di pochi amici, concepite come veri e propri libri d’arte in cui la parola e l’incisione, la struttura grafica, la stessa modalità di stampa ne facevano dei pezzi unici replicati in pochi esemplari. La sua attività d’incisore vanta fra l’altro l’illustrazione assai preziosa della Divina Commedia.

La prima biografia autorevole del poeta è quella di Alexander Gilchrist del 1863! Da quel momento inizia il dibattito sulla sua collocazione: proto romantico o esponente dell’Arcadia? Oppure romantico non riconosciuto? Esoterico irrazionalista o anomalo giacobino?

Böhme e Swedenborg sono certamente i suoi punti d’arrivo e vanno in una direzione ben definita, ma lo diventano solo in ultima analisi e la stessa oscurità dei simboli blakiani e del suo linguaggio hanno anche una motivazione mimetica, annunciata dallo stesso poeta, necessaria secondo lui a proteggerlo dalla reazione, dall’oscurantismo e persino dalla censura. Dunque la scelta di passare dal linguaggio delle Canzoni a quello dei  Libri ha pure una motivazione extra letteraria. Esagerava nel ritenersi così pericoloso per il potere? Sicuramente sì e nella sua eccentricità più volte ricordata da tanti è possibile leggere anche un disagio e un disturbo più profondi; ma che una delle ragioni del ricorso al mimetismo fosse quella di nascondersi al potere è indubbio.

L’immagine che mi suggerisce il suo tormentato e affascinante percorso è quella di un uomo che sente la terra sotto i suoi piedi spaccarsi e dividersi in due continenti che si stanno separando. Lui tenta di resistere con un piede su entrambi, ma questo alla lunga non è possibile. L’intento unitario che ispirava le Canzoni, peraltro, deve essere apparso a lui stesso come il sogno di una ricongiunzione impossibile fra i due continenti. Esse, infatti, non rappresentano soltanto due stati della persona umana, ma due diverse ere nello sviluppo dell’umanità; un’età  dell’oro – per Blake lo era davvero e dunque è lecito usare tale espressione – che sta finendo, un oscuro nuovo che nasce e rispetto al quale egli manifesta una lacerante ambivalenza; affermazioni che possono essere ricondotte all’adesione verso questo nuovo, convivono con il rifiuto radicale e irriducibile del medesimo. Quando fu costretto o si sentì costretto a scegliere su quale continente continuare a vivere, Blake si rivolgerà a un progetto grandioso: quello di ricercare in un nuovo sincretismo adatto ai tempi la religione del futuro. Il percorso che lo porterà ai Libri profetici inizia dalla Bibbia del 1611, cioè la Bibbia per eccellenza degli inglesi, che esercitò anche un ruolo di alfabetizzazione di massa e contribuirà fortemente al processo rivoluzionario e repubblicano di Cromwell. Proprio ai Levellers e ai Diggers, le ali più radicali  della Rivoluzione continuerà ad ispirarsi Blake e saranno loro, in definitiva, a portarlo a Swedenborg. Come si vede è una tradizione molto particolare e molto anglosassone. Da quel momento in poi Blake si scaglierà in modo veemente contro tutti gli aspetti della modernità e questa è la ragione che mi induce a prudenza quando si usano per lui parole come giacobino o anarchico. È vero che sostenne, per esempio, il libero amore, seguendo il pensiero di Godwin e Wollstonecraft e la cosa gli costò certamente le critiche dei benpensanti; ma è pur vero che rimase fedelissimo alla moglie per tutta la vita, perché in definitiva non sentiva in quelle idee il proprio habitus.

Blake, infine, rimane pre moderno sotto due aspetti fondamentali ed è proprio rispetto a tali questioni che, per quanto mi riguarda, va nettamente separato il poeta dal pensatore.

Prima di tutto la sua ostilità alla scienza, ribadita in prese di posizioni nei confronti di Bacon e di Newton, confondendo nel primo caso la parte scientifica del suo pensiero con la sua rozza filosofia. Insofferente e ostile a Voltaire – come lo capisco! –  era in secondo luogo irriducibilmente anti materialista e fu questo in definitiva ciò che lo spinse nella direzione di un esoterismo sempre più oscuro, nel quale è assai difficile seguirlo.

Infine, mi piace però ricordarlo anche per un altro aspetto. Blake fu un uomo profondamente buono e mite, in un’epoca di grandi antipatici – Wordsworth – di tigri che stavano diventando squali sociali feroci e pronti a tutto – i padroni delle ferriere e altri squali. C’è in lui la conservazione di un’innocenza primaria che fu la sua difficile salvezza, ma che lo condannò in molti momenti all’isolamento, alla solitudine e all’incomprensione.


1Agostino Lombardo fu allievo di Mario Praz e appartiere a quella generazione di critici e accademici che hanno fondato l’anglistica e l’americanistica in Italia insieme a Melchiorri. Fu docente anche a Milano per alcuni anni e fu proprio allora che assistetti a due sue lezioni alla facoltà di Lingue della Bocconi: una su Troilo e Cressida di Shakespeare e l’altra su Blake. Ungaretti aveva cominciato a interessarsi a Blake fin dal 1936, quando pubblicò qualche traduzione del poeta inglese in un’antologia che comprendeva anche traduzioni di altri poeti fra cui Gongora e Pierce. Nel 1965, uscì Visioni per gli Oscar Mondadori, interamente dedicato a Blake.

2 Nel 1980 Sanesi tradusse per Guanda I Libri profetici, nell’’84 Opera intera di W. Blake, seguita dalla traduzione del Paradiso perduto di Milton nel 1987. Particolarmente importante è il saggio introduttivo di Sanesi stesso ai Libri profetici: per chi voglia avventurarsi nella decifrazione dei simboli e delle figure simboliche che popolano i testi si tratta di uno strumento imprescindibile nella critica italiana. Quanto a quella anglosassone e statunitense, i maggiori critici se ne sono occupati. L’opera profetica di Blake è particolarmente adatta a un testo come Il grande codice di Northorp Frye. Con questa espressione il critico intende la Bibbia, considerata come uno degli archetipi dell’intera letteratura occidentale.

3 Il giudizio di Sanesi, ripreso più volte,  si trova nel saggio introduttivo ai Libri proftici Guanda 1984. La citzione  si trova in W.Blake, Complete  writings, pag. 751. Le traduzione dei testi delle Canzoni sono mie. Il criterio che ho cercato di seguire nella traduzione privilegia il mantenimento del ritmo e del tono, sacrificando quasi sempre la rima, assai difficile da rispettare a causa di alcune caratteristiche oggettive della lingua inglese, per esempio l’esistenza di rime grafiche che tuttavia non sono rime sonore, oppure il contrario. Quanto all’uso delle miuscole ho deciso di rispettare l’uso che ne fa il poeta, nonostante più di un critico abbia notato come Blake sia piuttosto disinvolto in materia.

6 Il libro da cui ho tratto l’originale è W. Blake Canzoni dell’innocenza e dell’esperienza, Edizioni Studio Tesi, contiene un’importante introduzione di Gerald Parks. L’ho scelto per l’importanza del saggio introduttivo. Il secondo testo è tratto da W. Blake Libri profetici, The marriage of Heven and Hell, a cura e traduzione di Roberto Sanesi,  Biblioteca della Fenice, Guanda, 1980 pag.18.  

7 In origine Blake diede all’opera anche un sottotitolo: Songs of Innocence and Songs of Experience: Shewing the Two Contrary States of the Human Soul. Canzoni dell’innocenza e canzone dell’Esperienza: Che mostrano i due stati contrari dell’animo umano. Il sottotitolo è assai importante perché in esso il poeta definisce in termini chiari  quale fosse il suo intento.

8 Op. cit. pp.28 e 118.

9 L’affermazione può sembrare troppo forte se si considera che Blake frequentò per un certo periodo il circolo radicale e anarchico di William Godwin e Mary Wollstonecraft. In certe dichiarazioni, in effetti, Blake sembra comprendere la dimensione sociale e di massa dell’impoverimento collettivo causato dalla Rivoluzione Industriale, ma la sua vicinanza ai deboli e agli umili non uscirà mai del tutto dalla dimensione morale per abbracciarne una politica e sociale. In ogni caso rinvio alle conclusioni per una più attenta riflessione su questa tematica. 

10 Il testo in inglese è tratto da W. Blake Canti dell’innocenza e dell’esperienza, introduzione di Gerald Parks, Edizioni Studio tesi, Pordenone 1995,  pag. 6.

11 Gerald Parks si sofferma su questo problema nel saggio introduttivo di cui sopra.

12 Questo passaggio dal bambino all’Angelo ha fatto scrivere a una parte della critica, che le Canzoni preparano i Libri Profetici.  Tale affermazione mi sembra ingiustificata sotto due aspetti. La cronologia la smentisce perché alcuni dei Libri furono scritti in contemporanea alle Canzoni e quindi le differenze di stile e linguaggio sono una scelta ben consapevole compiuta da Blake. In secondo luogo, la decisione di indirizzare la propria ricerca verso un linguaggio esoterico sempre più oscuro, avverrà più tardi e fu determinata anche da fattori extra letterari, come vedremo.

13 Le leggende intorno al pettirosso sono diffuse in tutto il mondo. Nel folklore francese e britannico era associato nientemeno che al dio del tuono Thor; più simpaticamente era l’uccellino che indicava come l’inverno fosse alle porte e infatti tutti i riferimenti all’uccellino si richiamano al solstizio d’inverno. Nelle campagne inglesi e scozzesi era assai diffusa – non so se lo sia ancora – una filastrocca che cantavano i bambini, dal titolo Who killed Cock Robin? Chi ha ucciso il pettirosso (Robin in inglese). Secondo la leggenda era Primavera a ucciderlo con una freccia e questo significava che l’inverno era finito. Anche Frazer, ne Il ramo d’oro,  si sofferma su molti aspetti diversi dei culti celtici e anglosassoni legati al passaggio dall’inverno all primavera, ma in lui troviamo anche qualcosa di più che ci riporta a Blake. Nel capitolo intitolato Il culto degli alberi nell’Europa moderna, vine ricordata una maschera molto diffusa per la festività del Primo di maggio, o Cantar maggio, cerimonie diffuse anche in Italia. La maschera ricordata da Frazer è quella di Jack-in-the-green (Gianni nel verde), uno spazzacamino che gira per la festa dentro una struttura di vimini ricoperta di foglie.  In James. G. Frazer, Il Ramo d’oro, volume primo, Euroclub, su licenza Boringhieri, Cartiere del Garda, pag. 205. 

14 William Blake, Canti dell’innocenza e dell’esperienza, Edizioni Studio Tesi,  Pordenone 1984, pp. 88-9, 108-9 e 114-15.

15 C’è una parola che ricorrre spesso negli aneddoti su Blake, facilmente reperibili anche in rete: eccentricità. In qualche caso ci si spinge più in là, parlando di bizzarrie e anche di momenti di diffidenza paradossale che sconfinano in atteggiamenti che possono far pensare alla mania di persecuzione.

IDA MAGLI

Introduzione

Ida Magli è stata per me una maestra e lo è ancora, nonostante il netto dissenso rispetto alle sue prese di posizione negli ultimi anni. L’antropologa, anche per questo, non ha goduto di grandi attenzioni dopo la sua morte e gli studi su di lei non sono molti. Le ragioni però non sono dovute soltanto alle polemiche suscitate dai suoi interventi: oltre all’atavico ostracismo misogino della cultura media italiana per le donne intellettuali, Magli aveva due gravi difetti in più: prima di tutto l’essere politicamente molto scorretta, tanto d’avere abbandonato il sacrario progressista di Repubblica per scrivere su quotidiani di destra; in secondo luogo per essere invisa a una discreta parte del femminismo, come i commenti comparsi in facebook nei giorni successivi la morte testimoniano. La mia speranza è che il tempo le restituisca quanto a lei è dovuto, senza sconti verso alcune derive del suo pensiero ultimo.

L’antropologia al centro

Magli è stata ed è prima di tutto una grande antropologa che ha applicato il metodo della ricerca sul campo alla cultura occidentale (Viaggio intorno all’uomo bianco) e ha proposto una lettura antropologica dei Vangeli. Sono due mosse decisive perché solitamente l’antropologia si occupa dei diversi, siano essi i popoli originari ancora presenti in mezzo a noi, oppure i popoli antichi. Nel rivolgersi invece a noi e alla nostra storia, inoltre, Magli non ha dimenticato che il linguaggio e l’immaginario sono sessuati e non neutri e che la costruzione del femminile e del maschile occidentali sono il risultato di un pensiero maschile, mediato in particolare dalla teologia che ha fornito immagini, lessico ed espressioni ritenute ovvie anche da chi credente non è. Il centro d’irradiazione del suo pensiero e delle sue opere è stato questo e anche le incursioni che s’allontanavano da tale campo di ricerca, erano per lo più estemporanee e legate a fatti d’attualità: mi riferisco in particolare al libro Alla scoperta di noi selvaggi, una raccolta di suoi articoli comparsi su Repubblica o altri periodici. I libri sul Cristianesimo sono a mio giudizio le sue opere più decisive. Gesù di Nazareth, La Madonna e Storia laica delle donne religiose, sono strettamente legati; in essi Magli si allontana da tutto il dibattito fra credenti e non credenti sulla divinità o meno di Gesù e tutto quanto ne consegue. Magli legge i testi evangelici e gli altri documenti dell’epoca collocandoli nel contesto degli usi e dei costumi della comunità di appartenenza: sono le strutture che Braudel ha indicato con il termine di lunga durata, espressione che Magli cita nell’introduzione a La Madonna.1 In sostanza, Magli prende alla lettera l’assunto – che è anche dei credenti – che tutte le figure che popolano i vangeli fossero veri uomini e donne situati nel loro contesto culturale e antropologico. Nel terzo libro, e anche nella biografia di Teresa di Lisieux, Magli affronta con lo stessa strumentazione teorica la costruzione dell’immagine femminile a partire dalle biografie delle donne santificate dalla Chiesa Cattolica o che hanno scelto, o cui più spesso è stato imposto, il monachesimo o addirittura – nel caso di Bernadette Soubirous o dei tre pastorelli di Fatima – una sofisticata e indotta forma di martirio. Nei libri di Ida Magli, pur non immuni da eccessi di strutturalismo, l’analisi delle strutture non prescinde dal contesto e dalla loro origine: non vi è affermazione che non sia corredata da una rigorosa indagine sulle fonti e da un’analisi puntuale delle loro contraddizioni. Anche nell’analizzare le permanenze e dunque la lunga durata, l’origine è sempre presente – fino a dove questo è possibile – e dunque la storia. Questo permette a Magli incursioni rapide, limitate ma decisive, anche in campi come l’arte e la letteratura. Il mio studio, esaurite queste premesse, si dedicherà proprio a tali incursioni, a partire tuttavia da una sostanziale condivisione della sua analisi antropologica dei testi cristiani.

Il doppio registro dell’arte occidentale

Nei paragrafi finali de La Madonna, Ida Magli affronta il tema dei rapporti esistenti fra la costruzione teologica del culto mariano e l’arte occidentale, sacra e non. La citazione che segue è un punto di partenza importante:

La storia dell’arte occidentale è una storia contrassegnata dall’emergere di due livelli culturali di simbolismo, quello mariano e quello dell’arte.2

Siamo alle origini della cultura occidentale cristiana, in quel periodo di tempo che più o meno va dalla nascita dei volgari intorno all’anno 1000, per passare poi ai poemi delle origini, al ciclo bretone, alla pittura sacra; infine, all’amor cortese. Volendo indicare più precisamente il periodo, possiamo dire che esso va dall’opera del Venerabile Beda fino alla fine del 1200. Il presupposto implicito dell’affermazione di cui sopra è la coincidenza fra storia dell’occidente e storia del cristianesimo; dunque, almeno in una prima fase, per Ida Magli la cultura classica precedente, i suoi modi e stili di simbolizzazione sembrerebbero esclusi dall’analisi, sebbene ciò non sia poi del tutto vero. Tuttavia, nello spingersi indietro nel tempo rispetto all’arco temporale indicato, Magli si rivolge prevalentemente all’ebraismo. Si può dire dunque, che il suo orizzonte di riferimento sia, principalmente, la cultura ebraico-cristiana, all’interno della quale il Cristianesimo come costruzione successiva alla morte di Gesù di Nazareth, diventa l’elemento centrale, pur senza rompere i legami antropologici con la cultura profonda dell’ebraismo, specialmente per quanto riguarda i tabù legati al femminile. La parte più originale della frase di Magli è laddove afferma che nella cultura occidentale ci sono due diversi simbolismi: quello mariano e quello dell’arte. L’affermazione è problematica perché per un lunghissimo periodo di tempo il soggetto principale dell’arte pittorica è stato di natura esclusivamente sacra e lo stesso vale per la musica mentre maggiore libertà c’è stata nella letteratura e nella poesia. Dunque, in che senso Magli parla di due diversi modi di simbolizzare? Lo afferma subito dopo:

Se la Madonna è un’opera culturale unica, creata dal Cristianesimo, … sviluppatasi soprattutto del XII secolo in poi, l’arte occidentale si è trovata di conseguenza di fronte a una libertà creatrice che a nessun’altra arte è stata concessa. La Madonna ha assorbito la parte “negativa” dell’atteggiamento artistico dell’uomo quella che gli dà la forza di desiderare l’assoluto ma che non permette quasi mai di lasciarlo assoluto.” Nella Madonna, infatti si chiude il cerchio del simbolico-concreto e nella storicizzazione dell’ideale, l’ideale diventa realtà, brutalmente ridotto nei limiti del desiderio. Si trova qui il confine sottilissimo fra psicosi e arte. 3

L’interpretazione di questo passaggio non è facile: tento di darne una pensando in particolare alla tre parole chiave negativo assoluto e desiderio  e ritornando a un mito più antico: Orfeo ed Euridice.  La lettura di questo come di tutti i miti si presta a interpretazioni diverse. Faccio mia quella di Blanchot che è stata ripresa recentemente con maggiore profondità anche in un libro di Alessandro Carrera.4 Secondo tale interpretazione, Euridice rappresenta il desiderio senza limiti, sia che si intenda la parola nel senso greco oppure genericamente, sia che la si intenda in senso psicoanalitico. Il desiderio illimitato e assoluto, però, non produce nulla, oppure una deriva narcisista. Perché l’opera nasca, esso non basta. Nel momento in cui Orfeo, il principio maschile, permette all’opera di esistere, perde Euridice.5 Nel mito classico, dunque, Orfeo ed Euridice sono una coppia indissolubile, nonostante il loro diverso destino. Il fatto che l’ispirazione debba avere sembianze femminili mentre l’opera sia compiuta da un agente maschile non è affatto neutra: si tratta di un’idea platonica e patriarcale. Il non detto (o detto a metà) è che l’ispirazione deve essere per forza un principio femminile perché esso è in rapporto diretto con la divinità e dunque illimitato come il desiderio, mentre il principio maschile, pur limitato, proprio per questo è il solo produttore di cultura. Questa, peraltro, è anche l’opinione che Magli esprimerà con perentoria chiarezza nelle primissime pagine di Viaggio intorno all’uomo bianco e anche con ben altra articolazione nel libro intitolato La Madonna e che susciterà la diffidenza di larga arte del mondo femminista.6 Nella cultura occidentale e cristiana, invece, avviene – secondo Ida Magli – una scissione. Da un lato la Madonna, grazie all’elaborazione del culto mariano, assolve la funzione di assoluto negativo del desiderio. La parte di Euridice, che nel mito classico si perde definitivamente nell’Ade per permettere che l’opera nasca, viene così trasformata in una figura di tipo nuovo che dal simbolo concreto, diviene un Ideale reale. Magli definisce questo processo come la parte negativa dell’atteggiamento artistico dell’uomo (vale la pena di ricordare che per Magli l’uomo è sempre il maschio e non un universale che comprende entrambi i generi e quando non è così lo specifica sempre) rispetto all’opera. A differenza di quanto avviene nel mito classico, dove ispirazione e opera, pur rappresentati da agenti diversi, hanno lo stesso oggetto in comune e cioè la creazione artistica, la parte di Euridice, con l’elaborazione del culto mariano, viene delegata a un gruppo chiuso di maschi teologi e relegata in un campo che sta sul confine sottilissimo fra psicosi e arte.7 Parafrasando Bion, si potrebbe dire che i teologi medioevali sono per Magli una specie di un gruppo in assunto di base che si carica di un principio assoluto negativo, liberando così le arti e gli artisti da ogni vincolo, affrancando la creazione artistica anche dalla pesantezza dei bisogni simbolici del gruppo. 8

Gli esempi che Magli fa e le citazioni dalle opere dei Padri della Chiesa sono quanto mai probanti. In alcune affermazioni dei teologi dei primi secoli, prevale ancora una forma di concretezza analogica e così la madre di Gesù è un carro che porta il re della luce nella vita, oppure la casa del re. Ambrogio non rimuove ancora del tutto la fisicità di Maria ed esalta il grembo che cresce.9 Passo dopo passo, però, Maria di Nazareth perde tutti gli attributi fisici del femminile e specialmente l’utero. La Madonna diventa così una costruzione del tutto nuova. L’ultimo a lasciarsi andare a un grido che suona angoscioso per come lo dice è Agostino, che riferendosi alla donna, urla: Per foemina mors, per foemina vita. Certo, per lui che il corpo femminile lo conosceva molto bene e per esperienza personale, doveva essere particolarmente doloroso e difficile rimuoverlo! Ida Magli così descrive il compimento di questa prima fase dell’elaborazione del culto mariano. Invece di ricorrere alle molte citazioni disponibili ho scelto questo passaggio perché in esso sono contenute alcune espressioni usate dai padri della Chiesa con le relative fonti originali, per cui lo ritengo esaustivo:

La Madonna finalmente è una donna chiusa, prima durante e dopo il parto, è un muro inespugnabile, una rocca sicura, una trincea da ogni lato fortificata, una torre potente, una montagna mai tagliata, una porta chiusa un giardino sigillato… Sicuri di questo, gli uomini possono lanciarsi ad amarla, ad adorarla, fissando in lei tutte le caratteristiche della non azione, della non-vita. La donna ideale è sempre morta, fissata in un aldilà eterno, che permette la definizione del suo non-essere.”10

La parte devozionale dell’iconografia cristiana che si rivolge alla Madonna diviene per Magli una forma d’arte alimentata dalla teologia mariana ed è questa la prima forma di simbolizzazione: di essa fanno parte le immagini popolari, le statuette votive e le rappresentazioni direttamente legate al culto. L’ipotesi di Magli è suggestiva e quanto mai feconda perché si apre alla verifica sul campo, che lei fa solo per brevissimi tratti, ma che può essere continuata da altri, avendo lei aperto una strada quanto mai importante. Il suo punto di partenza è il soggetto più frequentato per molti secoli dall’arte pittorica occidentale e cioè la Madonna e la Madonna con bambino. Magli osserva che, quanto più cresce l’elaborazione del culto mariano, tanto più cresce intorno ad esso un’iconografia ingenua, che tende sempre di più a uniformarsi ai caratteri salienti della teologia mariana. Tali tratti portano a un’esasperazione del modello, tanto da raggiungere presto una forma consolidata di stereotipia. Le immagini sono sempre uguali. Magli definisce queste opere come appartenenti alla cultura popolare, al folklore, ma anche dettate da chi elabora il culto. Fanno parte in sostanza di quella che definirei un’alfabetizzazione di massa all’iconografia mariana, che traduce in immagini quello che la teologia vuole trasmettere e cioè l’ immagine di una donna che ha perduto tutte le sembianze del femminile concreto, ma ne ha assunte altre stilizzate e sempre uguali: l’inespressività dei volti per esempio, è una costante, ma anche il modo di rappresentare il bambino (che non sempre è presente in queste immagini o sculture); la posizione statica del corpo, l’aureola, la stilizzazione dell’abito e i colori. Il gusto popolare in sostanza viene educato secondo canoni precisi e delimitati. Cosa avviene invece con l’arte secondo Magli? Accade che il soggetto sacro, imprescindibile per tutti, anzi esclusivo per un lungo periodo di tempo, si distanzi per piccoli e grandi scarti dal modello teologico e dia vita a un secondo canale di simbolizzazione che sta alle origini anche della cultura laica europea e occidentale, assumendo dei caratteri che s’allontanano sempre di più dall’iconografia del gruppo psicotico e che riportano in scena un soggetto femminile diverso. Gli esempi che Magli fa sono pochi ma assai significativi. Il primo è l’Annunciazione di Lorenzo Lotto, diversa da tutte perché la donna (in questo caso è proprio una donna e non un’invenzione dei teologi), ha un volto terrificato all’annuncio che darà alla luce un dio: immagine ben più realistica che non quella di volti serafici, come se dare alla luce un dio non spaventasse almeno un po’! In questa divaricazione, sostiene Ida Magli, prende forma un primo esempio di cultura laica. Alla fine del libro Magli indica alcune altre opere che a mio giudizio testimoniano la validità della sua ipotesi. Fra le maglie strette della fedeltà alla tradizione da un lato e le necessità artistiche dall’altro, prende corpo un’arte laica, le cui caratteristiche sono quelle di ritornare a una rappresentazione del femminile in cui la donna prevale sulla teologia. In modi a volte più provocatori – Caravaggio dipinge una Madonna con il volto della sua amante –  altri meno, tale tendenza s’impone e viene sostanzialmente tollerata dalla stessa Chiesa, grazie a Papi che tutto avevano in mente tranne la fedeltà al detto evangelico, ma che almeno hanno aperto le porte alla grande arte occidentale, diventandone i primi mecenati. Lo stesso si può affermare di un’opera come la Pietà Rondanini di Michelangelo, dove la morte e il dolore prevalgono e il mito della Resurrezione è assente.

Musica e poesia

Cosa avviene per le altre arti? Magli sottolinea la dipendenza del linguaggio della courtoisie e quindi dell’amor cortese dall’elaborazione del culto mariano da parte dei Padri della Chiesa. L’esempio più alto è naturalmente quello di Dante. Beatrice è una donna della teologia, anche se sappiamo che si chiamava Portinari di cognome. Dante la rende simile all’immagine iconografica dell’Assunzione al cielo della Madonna perché Beatrice è già in alto, ascesa nell’Empireo e sebbene il dogma sia stato proclamato nel 1950, già nel quinto secolo la devozione popolare lo accoglieva come un atto di fede indiscusso. Che la Beatrice dantesca non sia uno stereotipo del tutto amorfo come nelle immaginette del culto mariano lo si deve a una straordinaria poesia, ma dal punto di vista delle radici del pensiero è a Bernard De Clervaux e all’Aquinate che occorre rivolgersi. Quanto alla musica è fondamentale la lettura dell’intero capitolo intitolato Il tempo interrogativo della musica.11 In esso viene ricostruito il percorso che la musica occidentale, ma prima di tutto europea, ha compiuto dal gregoriano per arrivare fino a noi. Nel gregoriano:

… nessun ostacolo si frappone alla concezione ciclica del tempo … Il gregoriano può permettersi di spaziare in durate infinite perché è sorretto dalla certezza della risposta di Dio.

La contraddizione però è dietro l’angolo, dal momento che proprio il Cristianesimo ha introdotto una variante rispetto al tempo ciclico. Cristo segna un prima e un dopo, la cui presenza scandisce il tempo in altro modo: dal peccato originale a Cristo è il passato da redimere, dopo di lui e fino al giudizio universale è il futuro. La risposta alla domanda di certezza non è più data ma deve essere cercata e inseguita nel tempo. Bach, che componeva musica nel contesto di un mondo matematizzato dalla rivoluzione scientifica e sistematizzato da Cartesio, cambia il registro dell’eterno ritorno su cui si fondava il canto gregoriano:

… In lui la ripetizione diventa un inseguirsi continuo di domande-risposte, uno sforzo immane dell’intelligenza per riempire di un contenuto autosufficiente la forma del tempo assoluto, senza subordinare la ragione alla certezza del tempo già dato.

 Magli pensa in primo luogo all’arte della fuga ma si può dire che già con l’avvento della polifonia, la certezza del tempo già dato era stata infranta. Il paradosso messo in scena da Bach, secondo Magli è che:

… Il tempo della scienza coincide con la struttura interrogativa della musica e con un tempo che da Mozart a, Behetoven, da Debussy, Schönberg, Berg, fino a Bussotti si allontana sempre più dal concetto di durata, di inizio e fine … fino alla dissoluzione della fisicità del suono.

Ci si potrebbe domandare, a questo punto, cosa resta. Le ultime osservazioni Magli le riserva alla danza:

… La danza è in effetti il massimo tentativo che gli uomini hanno fatto per innalzarsi, concretamente e simbolicamente, al di sopra della fisicità, servendosi del proprio corpo come strumento: sublimazione del corpo attraverso la fiducia assoluta del corpo. La danza perciò è esclusa dalle cerimonie liturgiche in quanto nega la subordinazione del corpo a Dio, nega la rinuncia alla sessualità … la danza dunque non può essere che Eva … in lei si riassumono tutte le Maghe, tutte le Sirene, tutte le Calipso, tutte le Silfidi e tutte le Circi …

La conclusione è altrettanto perentoria:

Maria non può danzare.   

Riflessioni conclusive

Le sollecitazioni di Magli contenute negli ultimi capitoli de la Madonna si prestano a un ulteriore approfondimento. I dipinti che lei cita come spostamento da quello che è l’asse devozionale indotto dalla teologia mariana sono pertinenti ma si potrebbe continuare la ricerca per capire meglio in che cosa consiste la doppia simbolizzazione presente nell’arte europea e come essa si sia evoluta nel tempo. Lo stesso si può dire per la poesia: il modello concettuale della courtoisie è sopravvissuto al Dolce stil novo e alle poetiche coeve, reiterando la scissione fra un’immagine del femminile quasi sacrale da un lato e l’emarginazione delle donne reali dalla cultura e dalla storia dall’altro. Nella poesia italiana, tuttavia, la poesia di Cavalcanti si pone come un contraltare quanto mai importante a tale visione.12 Tale scissione cominciò a entrare veramente in crisi dopo la Rivoluzione Francese. Magli, a proposito di Bernadette, nota come sia per la prima volta una donna a essere spettatrice di un’apparizione miracolosa che assume una dimensione pubblica. C’era probabilmente bisogno di rimodulare il femminile dopo lo spavento suscitato dalle donne in armi e in massa apparse improvvisamente sulla scena della storia alle Tuilleries: che una ragazzina senza cultura diventasse il tramite con il trascendente cancellava quell’immagine e ne riproponeva un’altra più consona al ruolo che le donne dovevano mantenere. Bernadette ebbe solo una vita di sofferenze come premio e se ne rese amaramente conto lei stessa. Baudelaire alcuni decenni dopo avrebbe demolito il linguaggio della courtoisie rivelandone il doppio registro, ma specialmente mettendo in scena un’ultima volta – per distruggerla dall’interno – la figura della Musa. Infine, con il femminismo dei primi del ‘900 e poi con la seconda andata dagli anni ’70 in poi, è davvero  cominciata un’altra storia.


1 Ida Magli: La Madonna, Rizzoli, Milano 1987, pag. 10. Gesù di Nazareth è stato pubblicato da Rizzoli, mentre Storia laica delle donne religiose è uscito per Longanesi.

2 Ida Magli, La Madonna pag. 103.

3 Op. cit. pp.103-4.

4 Alessandro Carrera, La distanza del cielo, Leopardi e lo spazio dell’ispirazione, Medusa, Milano, 2011

Nel libro, Carrera compie un ampio excursus storico che va dal mito di Orfeo ed Euridice e – passando attraverso Il Dolce stil novo e poi Leopardi – arriva fino a noi. Carrera, in un capitolo, riassume in poche parole l’interpretazione canonica, che ne fa un mito di fondazione del canto poetico, dove Euridice è l’ispirazione, che svanisce nel momento in cui l’opera è compiuta. Orfeo, per diventare cantore, deve rinunciare al proprio delirio di onnipotenza giovanile che vorrebbe possedere contemporaneamente Euridice e l’opera poetica. Delle due figure simboliche, la seconda, il principio femminile, rappresenta l’ispirazione poetica, che svanisce nel momento in cui l’opera viene alla luce. Fin qui Carrera. Del libro in questione mi sono occupato a lungo nel saggio Amore, morte e … altro, pubblicato sulla rivista online Overleft – www.overleft.it – nella sezione Dopo il diluvio.

5 Una suggestiva testimonianza su questo passaggio dal desiderio all’opera ci è stato offerto nella contemporaneità da Proust. Riferendosi a Jean Santeuil egli afferma a un certo punto che quella scrittura fu anche un modo di non far nascere la Recherche, un modo di girare intorno al tema e al problema senza risolverlo. Per definire tale situazione usa la parola paresse che ha un significato più articolato di pigrizia e allude all’accidia ma anche agli ignavi danteschi perché  in definitiva decidere di far nascere l’opera è anche prendersi la responsabilità di una scelta. La recherche nacque dopo quando il suo autore decise di obbligarsi in una sorta di clausura. Pur sfrondata da elementi suggestivamente narrativi delle proprie vicende personali, questa testimonianza rimane importante per comprendere quel doloroso passaggio che dal desiderio porta alla realizzazione.

6 La questione è talmente controversa che è impossibile trattarla in una nota. Mi limito solo a dire che per Magli l’affermazione che la cultura è stata nell’universo ebraico-cristiano un prodotto eminentemente maschile non è diversa infondo da quello che i femminismi hanno messo in evidenza. Il problema sta nella diffidenza che Magli ebbe comunque sempre nei confronti di questi movimenti come di altri: diffidenza che l’antropologa ha espresso anche in prese diposizioni che hanno suscitato polemiche per la loro parzialità. Credo che in questo caso occorrerebbe farei conti con il pregiudizio strutturalista e con la propensione dell’antropologia a considerare solo le permanenze e la lunga durata, il che  – se portato alle estreme conseguenze – porta allo strabismo nei confronti del presente storico, che l’antropologia, e specialmente quella più ligia ai dettami dello strutturalismo, non riesce a vedere.  

7 Op. cit. pag 103.

8 Op. cit. pag. 104.

9 Entrambe le espressioni si trovano in Ida Magli, La Madonna, Pag. 109 e seguenti.

10 Op.cit. pag.102.

11 Ida Magli La Madonna, dalla pagina 154 fino alla fine.

12 Paolo Rabissi ha compiuto un’analisi assai importante della poesia di Cavalcanti evidenziando l’originalità che egli rappresenta per l’epoca e non solo. Il saggio si trova  sulla rivista online Overleft e s’intitola  Il doppio effetto dell’amore, desiderio e frantumazione dell’io nella poesia di Guido Cavalcanti. Ad esso rimando per approfondire la tematica.   

SRAFFA E LA CRITICA AL MARGINALISMO

Premessa. I due lavori qui pubblicati di seguito sono la conclusione di una ricerca sulle teorie del valore di Sraffa. Tutta la documentazione è disponibile collegandosi al sito della rivista poliscritture alla voce SRAFFAX.

L’articolo si collega ai miei precedenti già pubblicati qui, qui e qui.

Verso le conclusioni

di Franco Romanò

Così riprende il testo:

Ora che abbiamo esaminato le diverse idee di costo elaborate da diverse generazioni di economisti, e le difficoltà che abbiamo incontrato, passeremo a discutere quali sono le relazioni fra il valore delle merci e il loro costo di produzione; e in particolare in che senso si può dire che il costo di produzione determina il valore e in che misura deve condividere il suo potere di determinazione con la domanda. Naturalmente la prossima parte della nostra inchiesta sarebbe stata più facile qualora avessimo trovato una chiara e definita concezione di costo di produzione, sulla quale fossero d’accordo gli economisti. In prima istanza abbiamo fallito, ma vedremo pure che nella dettagliata applicazione della nozione di costo alla teoria del valore saremo in grado di portare avanti la nostra analisi per un pezzo un po’ più lungo di strada prima di essere costretti di nuovo rinunciare a fronte di nuove difficoltà che possono finalmente spingere la nostra mente a considerare cosa intendiamo realmente quando parliamo di costo. La difficoltà è dovuta al fatto che. nella determinazione del prezzo di ogni particolare merce, la nozione di spese di produzione sarà sufficiente per molti propositi, senza che sia necessario decidere se 1) ci sia o meno l’ombra di “costi reali” oppure sacrifici dietro di esso; 2) un altro nome per utilità del prodotto (costo  di opportunità), esso stesso costo reale in ultima analisi (non in quanto somma di denaro ma somma di cose consumate nella produzione) e se tale concetto abbia o meno un solido fondamento. Per alcuni qualsiasi definizione di costo funzionerà bene. Tutte tranne una e cioè il costo di opportunità nella sua estrema e più consistente interpretazione … che non ha alcunché a vedere con la determinazione del prezzo delle merci.

Tale drastica conclusione ci permette di trascurare tutta una serie di esempi concreti e di ripartire da questa affermazione:

… Ora, lasciando da parte le interpretazioni estreme dei costi, quali sono le condizioni in base alle quali si può determinare il valore di una merce? La questione si trasforma nel domandarsi se i costi variano o meno per diverse quantità prodotte.

Le considerazioni che seguono non sono sempre chiare e una delle ragioni sta certamente nel dilemma che riguarda il nesso fra costi e quantità prodotte. Sraffa ragionerà per lungo tempo su tale materia finché darà una risposta netta in Produzione di merci a mezzo merci la necessità di ritornare ai classici. Le lezioni così proseguono:

Naturalmente la questione è quali costi costanti contano maggiormente per unità prodotta, non i costi totali, qualunque sia il volume prodotto. La confusione può generarsi perché, come abbiamo visto, se l’ammontare di un fattore è costante (pag. 61) si dice che non entri nel costo e perciò non determina il valore; laddove invece quando una merce è prodotta in condizioni di costi costanti, il valore è interamente determinato dai costi. Ma c’è una grande differenza fra i due casi nella realtà. Nel primo caso il totale è davvero costante, mentre nel secondo il costo totale cambia in proporzione alle quantità prodotte. Nel caso estremo in cui la curva della domanda nella sua interezza sia inferiore al costo di produzione, nulla viene prodotto; ma, laddove è possibile produrre, la merce deve essere vendita a un prezzo fissato. La stessa cosa vale per la domanda: se quella di una merce ha una elasticità infinita, il suo valore sarebbe interamente determinato dalla domanda stessa. E i cambiamenti nelle funzioni di costo non avrebbero alcuna influenza. Per converso anche nel caso dell’assoluta rigidità dell’offerta cioè quando la fornitura totale è fissata, il costo non influisce sul valore e solo la domanda è determinante. Lo stesso avviene in caso di domanda non elastica  Fra i due casi estremi ci sono naturalmente tutta una serie di casi intermedi che vanno da zero a infinito..

L’interdipendenza fra costo e quantità prodotti è un’idea moderna. Tutti gli economisti classici la ignorano ma non si può neppure dire se se essi pensino che siano i costi costanti a operare, dal momento che non prendono in considerazione l’intera questione. La loro analisi si riferisce solo alla quantità di lavoro e anche di profitto, e persino la rendita incorporati nell’offerta, che è la sola che prendono in considerazione. L’argomento che acqua e aria  hanno una grande utilità, ma che nulla si può scambiare con esse, mentre l’oro ha scarsa utilità ma può essere scambiato con una quantità di altre merci sembrava porre fine a ogni discussione. 

Queste considerazioni sono una sintesi delle ragioni delle oscillazioni di Sraffa. Da un lato, pur nell’oscurità di certi passaggi, che tuttavia in buona parte si chiariranno nel prosieguo e cioè quando affronterà la questione dei rendimenti decrescenti e delle curve delle domanda e dell’offerta secondo Marshall e altri, Sraffa considera le loro analisi assai confuse e infatti approderà a una critica senza appello del marginalismo. Il  tipo di critica che Sraffa muove ai classici è diversa. È evidente che anche per lui la frase che segue non può essere l’ultima parola:

… L’argomento che acqua e aria  hanno una grande utilità, ma che nulla si può scambiare con esse, mentre l’oro ha scarsa utilità ma può essere scambiato con una quantità di altre merci, sembrava porre fine a ogni discussione … 

Non si tratta però di certo di una parola inutile, specialmente se la connettiamo all’affermazione successiva. Vediamo di districare la matassa prima di giungere alle conclusioni. L’interdipendenza fra costo e quantità prodotte è un’idea moderna. La ragione è che solo in pieno ‘900 la produzione industriale su larga scala ha raggiunto un grado di autonomia e se vogliamo anche di autoreferenzialità che nel secolo precedente non era così netta. Tutto nasceva ancora dalle viscere di ciò che esisteva prima (l’industria dalla bottega artigiana, la produzione su larga scala da quella precedente  ecc. ecc): il problema è quello di capire se tale interdipendenza esista veramente oppure no, a parte la considerazione su acqua e aria che cambierà pure nelle sue analisi mentre nella frase di cui sopra, Sraffa sembra ancora accettare il fatto che esse siano illimitate e non abbiano un costo; sappiamo bene oggi quanto questo non sia affatto vero! Tuttavia la conclusione cui egli approda del discorso è assai interessante.

Ma ciò non cambia i valori delle singole e particolari merci, dal momento che i rendimenti decrescenti che derivano dalla terra riguardano in forma uguale tutti i prodotti, dal momento che tutti dipendono in uno modo o nell’altro dal prodotti dell’agricoltura e perciò la loro posizione relativa rimane invariata. Ricardo parla spesso soltanto della produzione del grano mettendola in connessione con i rendimenti decrescenti, ma non vi è dubbio che egli usi il termine “grano” per intendere il prodotto agricolo in generale … 

Ma in ogni caso, la coordinazione fra quantità e costo e  di entrambe con la domanda è uno sviluppo molto recente, dovuto principalmente a Marshall e alla teoria dell’utilità marginale e anche un tentativo di compromesso. Dovremo poi notare che il fatto che le due leggi furono elaborate per due diversi propositi rispetto a quelli ora presenti è causa di molte difficoltà.

Tutto il ragionamento sui rendimenti decrescenti sarà più chiaro nel prosieguo quando riprenderà il discorso sull’agricoltura risalendo addirittura a Turgot, ma la conclusione che essi non possono essere considerati discriminanti dal momento che riguardano tutti i prodotti indistintamente e tutti i comparti industriali è realistica e di buon senso. La domanda da porsi è: lo è ancora anche oggi? Si può utilizzare lo stesso ragionamento, magari estendendolo dall’agricoltura alla logistica, per esempio? A mio avviso sì ma lo vedremo meglio soltanto alla fine del percorso. Torniamo al testo:

Nelle ultime lezioni abbiamo visto come la legge dei rendimenti decrescenti e quella dei rendimenti crescenti abbiano avuto delle origini storiche distinte, e come alle origini fossero elaborate per essere usate in connessione con problemi che solo indirettamente avevano qualche rapporto con il valore. Abbiamo visto pure come tale connessione sia uno sviluppo recente della teoria e che le interpretazioni che le riguardano in quanto tendenze sono simili nel carattere ma vanno in due direzioni opposte: quest’ultima deduzione è ancora più recente. Ora, molte delle difficoltà in cui si trovano a causa della nuova funzione in cui vengono poste si possono attribuire a quei caratteri che le hanno rese così adatte al posto che occupavano in precedenza nella teoria economica; tali caratteri le rendono in larga parte contraddittorie rispetto alle condizioni essenziali su cui è basata la teoria del valore. Non propongo ora di discutere in questo momento di esaminare in modo completo le condizioni alle quali l’uso delle curve della domanda e dell’offerta sono soggette nella determinazione del valore. Lo faremo alla fine come conclusione sulla base di quelle curve e cioè vale a dire i costi variabili e la diminuzione di utilità. Lo dirò in breve e in modo piuttosto dogmatico al fine di determinare dove porta l’argomentazione. Spesso, le condizioni cui le curve di domanda e offerta sono soggette, vengono riassunte nei libri di testo con l’espressione “assumendo inalterate tutte le altre condizioni”. … In primo luogo, il guaio è che la definizione comprende troppe cose, perché non avviene mai che qualsiasi cosa rimanga ferma al mondo e non modificata mentre noi muoviamo le nostre variabili: ci sono un sacco di cose che possono mutare senza che questo incida sull’argomento che stiamo trattando …. La condizione espressa dicendo “altre cose rimangono uguali” è contraria al principio che il numero delle nostre assunzioni dovrebbe essere ridotto al minimo.

Questo passaggio chiarisce molte delle ragioni che spingeranno Sraffa a scrivere le sue equazioni di Produzione di merci a mezzo merci presupponendo una sola stringente condizione e cioè considerare solo quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti dal volume della produzione e nelle proporzioni fra i “fattori” impiegati. Se sia davvero possibile e se lo sia sempre lo vedremo a tempo debito, ma vale la pensa di osservare che tale ipotesi era quella degli economisti classici.

Ma il pericolo veramente serio è che nella marea di cose che non dovrebbero cambiare ci sono sicuramente delle quantità che non possono rimanere inalterate se le variabili cambiano … Nel nostro caso, le condizioni che sottostanno alle curve della domanda e dell’offerta di una merce sono: 1) che le due curve devono essere indipendenti l’una dall’altra; 2) che i prezzi e le quantità prodotte di tutte le altre merci dovrebbero rimanere inalterate, il che equivale a dire tutti gli altri prezzi e le altre quantità dovrebbero essere indipendenti dalle variazioni nella quantità e nel prezzo della merce presa in considerazione in quel momento. Indipendenza delle curve di domanda e offerta significa che la forma e la posizione di ciascuna debba rimanere inalterata mentre un’altra si modifica. Per esempio: se una tassa viene posta su un certo articolo, la curva dell’offerta salirà a causa dell’ammontare della tassa, ma tale fatto non deve per forza incidere sulla forma della curva della domanda. Naturalmente il prezzo della domanda sarà diverso, se la quantità commercializzata è diversa, ma tale cambiamento prenderà posto nella preesistente curva della domanda, e non nella nuova curva. La ragione per cui si verifica tale condizione è chiara. Le due curve rappresentano due diverse equazioni: y = f(x) – y1 = (x1), dove x è la quantità del prodotto comprato o venduto, y è il prezzo di offerta e x1 il prezzo di domanda. Nella posizione di equilibrio il prezzo di offerta è uguale a quello di domanda, e perciò  y = y1 e x = a x1. In questo modo ci sono solo due variabili e ed essendo le due equazioni come date, prezzo e quantità sono così determinate. Ma se un cambiamento avviene nella funzione della domanda, non soltanto vengono modificati il prezzo e la quantità dell’offerta, cioè le variabili x e y1, anche le costanti che sono rappresentate e quindi abbiamo sempre più variabili che equazioni e allora il sistema diventa indeterminato.

Il problema dell’indeterminatezza, insieme a quello delle equazioni simultanee e dell’eterogeneità delle merci sono alla base della critica di Sraffa all’economia neoclassica o marginalista che dir si voglia e sotto certi aspetti costituiscono un unico e medesimo problema: com’è possibile ricondurre a poche variabili l’universo eterogeneo delle merci? Dire che il sistema diventa indeterminato, come nell’affermazione finale del brano precedente, significa dire che è necessaria una diversa equazione per ogni diversa situazione, ma tale moltiplicazione ad infinitum  rende di fatto impossibile una descrizione realistica del processo e delle curve di domanda e offerta: è un’impossibilità per definizione oppure è tale perché i presupposti su cui si basa la teoria marginalista sono errati? Come prima approssimazione il problema va diviso in due. Per Sraffa i presupposti del marginalismo sono sicuramente sbagliati, per sciogliere il secondo dilemma bisogna avere più pazienza e anche qualche ulteriore mossa che ci porterà verso Keynes, specialmente il Keynes dei libri di Anna Carabelli. La parte che segue, come altre che verranno in successione, sono una critica dettagliata e puntigliosa delle formulazioni di Marshall e altri sulle curve e i rendimenti crescenti e decrescenti. L’acribia di Sraffa, a volte velata di sottintesi ironici e vere e proprie stroncature, l’ho più spesso lasciata solo nella lingua originale, ma alcuni passaggi sono tuttavia utili per arrivare a comprendere le scelte cui Sraffa approderà. In particolare i brani che seguono e prima di tutto quello di certo sorprendente della riscoperta di Turgot, sono essenziali e vale la pensa di seguirli anche in traduzione.

Ora, supponiamo un cambiamento nella domanda e supponiamo che questo non incida sulla curva dell’offerta. La sostanza di questo è che date le curve della domanda e dell’offerta … se una tassa viene imposta su un prodotto, possiamo prevedere gli effetti di essa sul prezzo, una volta stabilito che le curve rimangono inalterate, a parte l’aggiunta dell’ammontare della tassa sui prezzi di offerta; Ma se essi cambiano nella loro forma, non possiamo in realtà sapere nulla sui possibili effetti della tassa fino a che non ci venga detto in che modo la forma della curva si sia modificata, ciò equivale a dire che dobbiamo fare ricorso ad altre equazioni. La seconda condizione e cioè che i prezzi e le quantità di tutti gli altri prodotti dovrebbero rimanere inalterati, può derivare essenzialmente dalla esistenza di prodotti sostitutivi per i quali esiste una sorta di domanda congiunta. La curva della domanda di un articolo è basata sull’assunzione di una scala dei prezzi data rispetto alle altre merci, se i prezzi cambiano anche i prezzi della domanda di una data merce presa in considerazione cambierebbero, dal momento che sarebbero sostituiti da prodotti sostitutivi più economici.  Ora, nel paragonare i rendimenti crescenti e decrescenti troviamo prima di tutto che c’è una differenza fondamentale nel modo in cui essi sorgono … Nella loro forma più usuale e largamente accettata c’è fra loro una distinzione fondamentale e cioè che i rendimenti decrescenti provengono da un cambiamento nelle proporzioni in cui i differenti fattori sono combinati in un’industria, indipendentemente dal fatto che la grandezza globale del prodotto totale aumenti o diminuisca. I rendimenti crescenti, al contrario, sono generalmente connessi con l’aumentare delle dimensioni di un’industria mentre hanno una relazione remota con la proporzione in cui i fattori vengono impiegati: … L’apparente somiglianza delle condizioni grazie alle quali rendimenti decrescenti o crescenti sorgono è dovuta al fatto che solitamente … scegliamo, come metodo di visualizzazione del cambiamento in proporzione ai fattori, per assumere che un fattore rimanga costante mentre gli altri vengono accresciuti con successive dosi … Tale metodo delle successive dosi applicate al fattore costante è solitamente adottato, perché è più conveniente per rappresentare il cambiamento di una quantità mentre tutto il resto rimane costante, piuttosto che cambiare entrambi nello stesso momento. Tuttavia, nella loro essenza, i rendimenti decrescenti potrebbero essere rappresentati con identica correttezza assumendo che due quantità  impiegate in ciascuno dei due fattori cambi in direzioni opposte, e in proporzione  tale da mantenere costante il prodotto globale. Questo può essere rappresentato da curve di indifferenza … che sono note a coloro che hanno seguito i miei consigli di leggere Edgeworth e Pareto. Le curve di indifferenza vengono usate solitamente anche in connessione con i problemi della domanda, quando l’utilità marginale di entrambe le merci scambiate si suppone variare- mentre una normale curva della domanda assume che l’utilità marginale di una delle merci (il denaro) rimanga invariata.

Nell’ultima lezione ho messo in evidenza la differenza fra la natura delle cause che portano ai rendimenti crescenti da quelle che ne causano invece la diminuzione. Abbiamo visto come i rendimenti crescenti sono dovuti all’allargamento delle dimensioni di un industria e conseguentemente delle economie di produzione su larga scala, le accresciute opportunità di divisione del lavoro e così via. I rendimenti decrescenti, al contrario, sorgono dai cambiamenti nelle proporzioni in cui i differenti fattori della produzione vengono combinati fra loro che porta alla decrescente efficienza di quei fattori in cui la proporzione della loro importanza in quanto grandezza è stata già portata oltre il massimo dell’efficienza possibile. Tale punto di vista, che considera il cambiamento nelle proporzioni dei fattori ma trascura i cambiamenti avvenuti nella grandezza assoluta di un’industria, è il punto di vista adottato dalle teorie della distribuzione secondo il prodotto marginale di ogni fattore. Ma la curva dell’offerta, rilevante per arrivare alla determinazione del prezzo delle merci, si tramuta in costo marginale e deve essere collegato in modo diretto ai cambiamenti del volume di quanto prodotto. Tale connessione si ottiene assumendo che la quantità di un fattore rimanga costante mentre tutti gli altri fattori e conseguentemente anche il prodotto, aumentano. Un caso tipico di un’industria in cui uno dei fattori rimane, e non può essere accresciuto quando la stessa industria cresce, si verifica in agricoltura. L’adozione di tale strumento ha fortemente oscurato la differenza fra le cause che danno luogo alle due opposte tendenze rispetto ai rendimenti e certe ambiguità nella definizione del senso in cui un fattore debba essere considerato costante ha rafforzato e contribuito a creare tale oscurità, perché quando il fattore costante venga considerato come fissato in senso assoluto, non solo rispetto alle crescite ma anche alle decrescite, c’è la possibilità che si verifichi un caso in cui i rendimenti crescenti si verifichino al di fuori delle condizioni che sono tipiche e che dunque non abbiano nulla a che vedere con le condizioni di produzione su larga scala che formano invece la base più comune in cui si verificano i rendimenti crescenti. Tale forma eccezionale che propone in quel caso i rendimenti crescenti è chiaramente portata avanti nelle prime formulazioni (della teoria economica ndr)  È l’idea che ha espresso in modo assai chiaro l’economista francese Turgot nel 1768 e dunque siamo proprio agli inizi della formulazione di una legge dei rendimenti decrescenti in agricoltura. Nelle sue “osservazioni” a favore delle tasse indirette egli afferma: “Le sementi gettate su un suolo naturalmente fertile ma totalmente impreparato sarebbero un anticipo quasi completamente a fondo perduto. Una volta che il suolo fosse arato e preparato, il prodotto sarebbe più grande; rassodandolo e curandolo una seconda volta il prodotto aumenterebbe ancora … e potrebbe crescere anche più da tre o quatto volte fino a dieci. Il prodotto dunque sarebbe destinato ad aumentare in una proporzione maggiore rispetto all’aumento degli anticipi e fino a un certo punto cioè fino a un punto massimo. Superato quel punto se gli anticipi continueranno ad aumentare il prodotto crescerà ancora ma in misura minore essendo la fertilità della terra sempre più esausta …”

Fin qui Turgot. Scrive Sraffa a commento:

Questo passaggio è assai notevole non solo per la novità che esso costituisce in quegli anni, ma per la precisione con cui la materia viene trattata. Nella sua prima parte dove si assume che il primo anticipo cioè “le prime dosi di capitale e lavoro” applicate a un certo tratto di terra danno un ritorno crescente, egli sta semplicemente notando ciò che avverrebbe se un agricoltore con limitate risorse non sapesse il modo migliore di usarle.

La sua riflessione è altrettanto significativa quanto il brano di Turgot perché non si limita a un semplice commento ma ne modifica in parte i presupposti e introduce altri elementi su cui occorre fermarsi puntualmente. Turgot parlava solo di sementi mentre Sraffa parla di dosi di capitale e di lavoro, introduce cioè un altro elemento, ma che non contraddice l’affermazione che il primo anticipo è quasi a fondo perduto. Qualsiasi attività nuova è basata su un anticipo dal rendimento crescente ma incerto per definizione.

In effetti curando il suolo una, due o più volte, egli ottiene quattro volte quello che si otterrebbe arandolo una sola volta e se le sue risorse non gli permettono di arare e preparare l’intera area disponibile fino al raggiungimento della massima efficienza, è chiaro che sceglierebbe questa strada, lasciando l’altra parte del suolo non coltivato.  …. 

Anche questo  non è un semplice commento. Sraffa amplifica il modello di Turgot e lo rappresenta nel prosieguo in un diagramma. Varrà la pena tornare già a questo punto all’introduzione delle Lezioni, proprio a quel preambolo in cui per la prima volta si rivolgeva ai suoi studenti per invitarli, nel suo modo sempre in traslato, a leggere i classici. In quell’occasione aveva usato per convincerli una frase lasciata quasi cadere con nonchalance:

 … Poi, naturalmente ci sono gli Economisti Classici. La miglior cosa da fare sarebbe di leggerli in originale – sono sicuro che li trovereste più leggibili e meno astrusi dei moderni economisti.

Possiamo riprenderla ora per una costatazione che penso si sia già imposta a chi legge. Ogniqualvolta si torna ai classici l’esposizione dei problemi risulta chiara e comprensibile, anche se incompleta e infatti, in questo caso, come in altri, Sraffa non manca di aggiungere dati, ma sempre a partire da un nucleo di comprensibilità che è invece assai più arduo quando si tratta di confrontarsi con le teorie marginaliste. Lo stesso linguaggio di Sraffa diventa a sua volta più oscuro, in quel caso, cosa che non è affatto laddove la materia economica s’impone nella sua fisicità e materialità: è così per esempio, nella parte che segue, che presenta carenze di comprensione anche in inglese, specialmente a causa della scelta di non rendere disponibili i diagrammi. In ogni caso ho deciso di mantenere la traduzione perché essa rende comunque più comprensibile lo sviluppo del ragionamento successivo.

Tutto questo può essere rappresentato in un diagramma. 1) l’ottimo non è il massimo marginale ma la media massima 2) corrisponde all’ intersezione. 3) Questo può essere dimostrato nell’osservare che la curva media deve cresce fino a che non incontra quella marginale, e cade non appena l’ha incontrata: infatti ogni punto appena precedente l’intersezione è una media fra un punto medio più basso e uno più elevata della curva marginale – perciò deve essere più alto del punto appena precedente; dopo l’intersezione è una media fra un punto in cui le due ordinate sono uguali e un punto marginale più basso.  4) Proprietà delle due curve: area marginale= rettangolo della media. Ora nessuno dei punti sulle due curve che abbia una ascissa minore di OM può essere un punto di equilibrio per il proprietario agricolo e questo equivale a dire che egli continuerà a immettere dosi crescenti di capitale e lavoro fino a che non raggiungerà il massimo di ritorni possibili, sempre che disponga delle risorse necessarie. Se esse non saranno adeguate, restringerà l’area di coltivazione in proporzione alla risorse disponibili, perché in questo modo egli otterrebbe un prodotto maggiore di quello ottenibile da un trattamento superficiale dell’intera superficie coltivabile. In generale si può dire che l’agricoltore coltiverebbe quella porzione di terra che gli consente di raggiungere il rendimento massimo.

A questo punto, Sraffa applica lo stesso principio valido per l’agricoltura all’intera economia:

Ora, abbandoniamo il caso particolare delle terra che abbiamo considerato perché, in definitiva, il caso dei rendimenti decrescenti che dipendono dai cambiamenti nelle proporzioni dei fattori riveste un carattere generale che è presente in ogni sorta di impresa. Se stipiamo più gente nello stesso bus, oppure facciamo correre un numero maggiori di treni sulla stessa linea, oppure mettiamo lo stesso lavoratore a occuparsi di un maggior numero di macchine … tutto questo significa utilizzazione sempre più intensiva, fino a che si raggiunge un margine in cui i vantaggi e gli svantaggi si bilanciano. Mi sembra allora necessario, vista la grande varietà di circostanze che portano ai rendimenti decrescenti, cercare di capire che cosa tutti questi diversi casi hanno in comune, visto che portano ai medesimi risultati.

La scelta dei due exempla è assai importante in sé e perché sotto traccia è avvertibile anche una critica alla teoria di Ricardo del massimo profitto come infinito, criticata anche da Marx. Ne parlano anche Neri Salvadori e Kurz in questo passaggio:

Sraffa diede credito a Marx per avere scoperto che in queste condizioni il saggio massimo di profitto era finito e non infinito, (cui portavano invece come conseguenza come le assunzioni di Ricardo), e per avere specificato che la sua grandezza è uguale all’inverso delle composizione organica del capitale considerato come insieme … 

Dagli exempla si può anche comprendere il motivo per cui Sraffa non dimentica mai la consistenza fisica dell’economia, perché in definitiva sono proprio i suoi limiti fisici a porre dei confini alle teorie, mentre l’accumulazione di capitale e gli algoritmi si muovono nella cattiva infinità. Partire dalla terra, allora, per dire che le superfici coltivabili non possono essere estese all’infinito, non è un modo naif di guardare all’economia, ma è il solo modo realistico. La cattiva infinità esiste solo nel mondo degli algoritmi e delle proiezioni, ma su questo come su altri punti saranno illuminanti le riflessioni di Keynes sulla matematica applicata all’economia e la ripresa di Anna Carabelli nei suoi libri dedicato all’economista britannico. Così prosegue la disamina intorno al problema dei rendimenti decrescenti:

La scorsa volta ho iniziato a esaminare le basi su cui i rendimenti decrescenti possono essere considerati quasi come una tendenza universale che opera nelle più svariate sfere della produzione (e in un certo senso anche nel consumo), quando avviene un cambiamento nelle proporzioni in cui i fattori che sono stati diminuiti come quantità vengono ora ripristinati. La varietà delle industrie è così grande che molti autori hanno pensato che sia impossibile parlare di una singola legge dei rendimenti decrescenti e che occorrerebbe considerarli per ciascuna industria presa singolarmente e riferendosi dunque solo alle circostanze particolari di quell’industria specifica perché in ciascuna di loro ci saranno cause specifiche che provocano tale tendenza, e che tali cause sono senza relazione alcuna con altre che si verificano in altre industrie. Perciò, se il risultato è il medesimo in casi diversi, tale eguaglianza deve essere considerata come puramente accidentale e non ricondotta a una causa comune. Ora appare molto improbabile che risultati simili dovrebbero originarsi a partire da circostanze completamente differenti l’una dall’altra e senza una causa comune. D’altro canto molte parti importanti della teoria economica che fanno propria la convinzione dell’esistenza dei rendimenti decrescenti si baserebbero su fondamenti davvero instabili se, prima di applicarli a una particolare industria, fosse necessario provare che a causa di un accidente fortunato, le condizioni tecniche di quella industria danno luogo al fenomeno dei rendimenti decrescenti.

La logicità di questa obiezione è assai sottile e anche con un fondo di ironia. Quella che segue, infatti, è una vera e propria stroncatura.

Ciò che cercherò di dimostrare oggi è che i rendimenti decrescenti non dipendono dalle peculiarità tecniche di un’azienda o dell’altra, ma dall’azione dell’agente umano che concretamente controlla la combinazione dei fattori cercando di massimizzare il risultato. La sua azione tesa ad allargare il più possibile il rendimento che può ottenere dalla situazione data è il fondamento del carattere universale che si manifesta nei rendimenti decrescenti. Questo non significa negare che i fattori tecnici possano spingere nella stessa direzione; semplicemente mi limito a sostenere che ai fini della teoria economica non è necessario assumere che essi dovrebbero farlo. Se lo fanno tanto meglio, ma se non lo fanno tale fatto non è sufficiente ad inficiare le teorie economiche basate sull’assunzione del dato dei rendimenti decrescenti. Questa interpretazione richiede la realizzazione di due condizioni: 1) che l’imprenditore nelle sue decisioni sia governato dal principio di sostituzione. 2) che ci sia un certo grado di varietà e di indipendenza fra le unità che vengono prese in considerazione. Per esempio quelle che compongono il fattore variabile, oppure fra le unità che compongono il fattore costante, oppure ancora fra i metodi in cui i due fattori possono essere combinati fra loro cioè i modi in cui il fattore variabile possa esser utilizzato  (A questo punto nel testo compare in italiano la parola spiega, ndr.) Date tali condizioni i rendimenti decrescenti si verificheranno perché l’imprenditore stesso valuterà che gli sia conveniente mettere a punto successive dosi o unità di quei fattori e degli usi cui li destina, in un ordine decrescente dai più efficienti ai meno. Inizierà producendo modeste quantità e usando le migliori combinazioni possibili e con la crescita del suo prodotto nonché le dosi più produttive fino a che non si raggiunge un punto massimo dal quale si può soltanto tornare a dosi meno efficienti.

L’espressione agente umano usata da Sraffa non va qui intesa in senso individuale, anche se il testo conserva su questo una certa ambiguità. In realtà, affermare che ai fini della teoria economica non è necessario assumere i fattori tecnici come rilevanti, significa togliere l’alibi che nasconde in realtà che ciò che accade è dovuto a decisioni che stanno tutte in alcune mani e non in altre. Lo vedremo meglio alla fine dell’intero ragionamento.

Prendiamo il caso dell’agricoltura. Anche nel suo caso, la prima ipotesi formulata era che i rendimenti decrescenti erano dovuto alle condizioni tecniche. Mill è stato il primo a suggerire tale interpretazione e sembra in contrasto con l’opinione di Ricardo. La definizione di Mill è adottata in molti libri di testo. Dice che ‘il rapporto decrescente tra prodotto del suolo e investimento è una di quelle verità che i testi di Economia Politica prendono a prestito dalle scienze fisiche alle quali più propriamente appartengono’. Ciò significa affermare che la tecnica agricola determina in modo definitivo il modo in cui le successive dosi di investimento devono essere impiegate su un terreno dato, e pure che, a causa di ragioni che dal punto di vista di vista economico appaiono come accidentali, determina il fatto che il prodotto di successivi investimenti diminuisce al crescere dell’esborso totale. (Il testo a questo punto finisce con la parola Unset. ovvero unsettled, non definitivo Ndr.) L’agricoltore non avrebbe scelta rispetto al modo di spendere una unità di capitale che lo ripaghi al meglio, tutto sarebbe dunque determinato da una legge fisica, indipendentemente dalla sua scelta e azione. In effetti le cose stanno in modo differente. Quando l’agricoltore ha speso una certa cifra annua per un tratto di terra dato, e si propone di spendere in aggiunta altre 100 sterline, non c’è alcuna legge fisica che lo costringa a spenderle in un determinate modo che non impieghi considerazioni di tipo economico. La tecnica agricola offrirà all’agricoltore un ventaglio di modi differenti in cui l’investimento addizionale di 100 sterline possa essere impiegato. Supponiamo di definire queste diverse e possibili soluzioni come A.B.C. D ecc. la tecnica agricola suggerirà all’agricoltore quale ammontare di prodotto può aspettarsi dalle diverse ipotesi. Ma oltre questo la tecnica non potrà andare. In primo luogo la chimica agricola o quella fisica non ha alcun modo di paragonare una tecnica di concimazione oppure di aratura rispetto a un’altra definendo in quale modo una può essere migliore dell’altra: questo lo si può fare solo riducendole a una qualche unità comune. In secondo luogo non esiste alcuna ragione per supporre che il prodotto aumentato sarà dello stesso tipo e qualità di quello ottenuto con l’investimento della prima dose di capitale e lavoro. I rendimenti decrescenti rilevanti per l’economia non implicano in alcun modo che se il prodotto finale è accresciuto il tipo di raccolto rimanga costante. Può essere che in un primo tempo il modo migliore di spendere le prime dosi sia quello di usare la terra come se fosse una foresta; con l’aumento della spesa si può decidere di allevare bestiame, poi ci si può rivolgere a un tipo di raccolto, poi accrescendo di nuovo l’investimento la terra può essere trasformata in una serra per coltivare verdure. Il confronto fra i rendimenti di successive dosi marginali non può avvenire su basi puramente fisiche cioè non possiamo dire se qualche metro cubo di legno è più grande più piccolo in quanto prodotto a uno staio di grano senza ridurre i due prodotti a una misura comune, cioè che stabilisca quale sia il loro valore. Supponiamo che il miglior rendimento sia ottenuto  usando l’impiego di tipo B. Se dopo questo l’agricoltore vuole spendere altre 100 sterline la sua scelta si restringerà: rimarranno solo i metodi che possono essere usati adattandosi al metodo B, sia che si parli di differenti unità dei fattori oppure di un cambiamento di uso. La scelta sarà ristretta a A,C,D e così via. Nelle condizioni dell’agricoltore cioè, se dopo l’impiego del metodo B la produttività degli altri metodi rimane inalterata, (il che può succedere solo se essi sono del tutto indipendenti da B), è chiaro che la seconda dose di 100 sterline immesse darà un rendimento inferiore o al limite uguale a quello di una dose se i diversi e possibili metodi di spesa non sono indipendenti abbiamo due casi possibili. Se nelle nuove condizioni e cioè dopo che è stato usato il metodo B, i rendimenti ancora disponibili grazie a quel metodo sono decrescenti, ci troviamo di fronte a una caso di legge fisica dei riendimenti decrescenti che si manifesta in modo cumulativo. Se, d’altro canto, dopo avere impiegato il metodo B la produttività degli altri metodi che sono stati lasciati ma che sono ancora disponibili  viene aumentata, sembra che ci troviamo di fronte a rendimenti crescenti. Ma questo solo perché l’agricoltore ha fatto male i suoi conti. In effetti, in questo caso, avrebbe dovuto spendere il primo apporto addizionale di 100 sterline non per usare il metodo B per l’intera superficie della terra ma adottare una combinazione fra il metodo B e il metodo C … Perciò se l’agricoltore avesse fatto bene i calcoli, questo  sarebbe al massimo un caso di rendimenti costanti e non crescenti. Si tratta infatti del caso che abbiamo preso in considerazione nella lezione precedente quando abbiamo visto che arando e rassodando due volte la terra, essa dà un prodotto superiore al doppio rispetto ad averlo rassodato una volta sola. Perciò se l’ammontare di capitale è limitato, soltanto metà della superficie di terra deve essere coltivata ma rassodata due volte. Perciò, se le condizioni che abbiamo assunto si realizzano, rendimenti decrescenti o costanti si realizzano applicando dosi successive dei fattori diversi a un fattore costante, indipendentemente dalle particolarità tecniche che caratterizzano un’industria o l’altra. Da questo punto di vista possiamo capire le ragioni di Ricardo, e generalmente degli economisti classici che hanno sempre enfatizzato che i rendimenti decrescenti sorgono dalla coltivazione prima delle terre più fertili e poi passando gradualmente a quelle sempre meno fertili, e lasciato sullo sfondo la questione delle dosi successive di capitale e lavoro impiegati sulla stessa terra il che equivale a dire l’estensivo opposto all’intensivo. È certo e anche ovvio che la produttività della terra in un dato tratto è in larga misura indipendente dalla circostanza se la terra accanto sia coltivata o meno, ma la produttività di una data dose di capitale è in generale meno dipendente dalle altre dosi che sono spese nello stesso tempo sulla medesima terra. Perciò la generalità ed affidabilità della legge dei rendimenti decrescenti è maggiore in un coltivazione estensiva che non in quella intensiva.

Tutto il ragionamento ha il significato di ribadire che in realtà i rendimenti decrescenti non sono in realtà altro che rendimenti costanti in alcuni casi e che la loro decrescita è dovuta a limiti fisici non superabili. Chi prende però le decisioni? Mi sembra importante richiamare, proprio a questo punto del discorso, ciò che scrive Emiliano Brancaccio, in dialogo con Augusto Graziani. Il testo completo del saggio si trova anche in Sinistra in rete ma non è difficile trovarlo anche in altri siti. È doveroso ricordare che il dialogo fra Brancaccio a Graziani ha molte sfumature e che dunque il brano che segue va considerato un’interpretazione che, per quel che vale, condivido pienamente.

Sul problema delle quantità prodotte date di Sraffa, tuttavia, Graziani ha proposto una diversa chiave di lettura. Anche l’interpretazione grazianea si situa dal lato della linea di demarcazione che spetta alla visione marxiana, vale a dire del capitalismo inteso come processo “circolare”. Graziani, però, sembra distanziarsi per più di un aspetto dalla concezione delle quantità date suggerita dagli interpreti sraffiani tradizionali. Per Graziani, non è detto che nel sistema sraffiano la composizione della produzione si adatti alla composizione della “domanda effettuale”. A suo avviso, piuttosto, Sraffa potrebbe avere omesso di analizzare il modo di determinazione delle quantità prodotte per sottolineare che quelle quantità sono frutto di una decisione autonoma da parte dei capitalisti. La scelta di considerare date la scala e la composizione del prodotto sociale potrebbe cioè costituire un modo per evidenziare che la produzione capitalistica si realizza in un contesto asimmetrico, in cui la sola classe dominante fissa a priori le quantità prodotte, determina anche la loro ripartizione e per tali vie esercita un potere sulle altre classi. Questa chiave di lettura, secondo Graziani, consentirebbe tra l’altro di ipotizzare l’esistenza di un filo di congiunzione tra l’opera principale di Sraffa e alcune tesi precedenti che lo stesso Sraffa, ispirato dal Trattato della moneta di Keynes, aveva avanzato in una recensione critica ad Hayek (Graziani 1986) … L’interpretazione grazianea di Sraffa mi è sempre parsa interessante per una sua potente implicazione teorico-politica. Attribuendo alla classe capitalista un potere di decisione autonoma sulla scala, sulla composizione e quindi anche sulla ripartizione del prodotto sociale, Graziani fa piazza pulita di qualsiasi possibilità di riabilitazione del concetto neoclassico di sovranità del consumatore … Ma non è finita qui. Assumendo che la classe dominante decida le sorti della scala, della composizione e della ripartizione sociale della produzione, Graziani sembra dubitare della possibilità di incidere su tali grandezze attraverso le rivendicazioni salariali o le pressioni sulla domanda effettiva esercitate con i consueti strumenti di politica monetaria e fiscale. Che si tratti di rimediare ai guasti del capitalismo sul versante della disoccupazione di massa, o delle disuguaglianze sociali, oppure anche della crisi ecologica, le possibilità di intervenire sulla domanda per correggere le distorsioni del processo produttivo appaiono frustrate se contrastano con le autonome decisioni della classe dominante. Così, assieme al singolo consumatore, anche il lavoratore in lotta per il salario e il politico keynesiano illuminato sembrano finire nell’oblio dei soggiogati dalla forza del capitale. Si potrebbe sintetizzare il tutto affermando che lo Sraffa “dopo” Graziani risulta alquanto scettico sulla concreta efficacia del “riformismo”, inteso come quel complesso di prassi politiche che tentano di disciplinare la dinamica capitalistica tramite strumenti di regolazione della domanda, autorità di controllo dei mercati e incentivi di vario genere, ma che rinunciano a qualsiasi forma di governo collettivo della produzione. Uno scetticismo tanto più disturbante quanto più se ne ravvisi l’attualità.

Riprendiamo le lezioni. Quanto detto in precedenza potrebbe rendere superfluo quanto segue, ma il ragionamento di Sraffa è talmente elegante, che vale la pena di leggerlo, fosse pure soltanto per ragioni estetiche.

Penso di dovere andare oltre la questione del significato delle Curve Funzionali  e delle Curve descrittive … e affrontate la differenza introdotta da Marshall  fra quelle che egli chiama “curva particolare delle spese” e curva dell’offerta; più in generale  con la  determinazione di quale tipo di rendimenti decrescenti sono rilevanti per l’analisi economica dell’offerta di una merce che sia distinta però dalla tipologia che vediamo coinvolta nella distribuzione dei fattori della produzione secondo il loro prodotto marginale. Secondo la distinzione di Wicksteed, in una curva funzionale la relazione fra costo e quantità  marginale e numero delle unità impiegate è una necessità, nel senso che è basata su una relazione di tipo causale: dal momento che le unità di un fattore variabile sono  identiche a un altro, ciò che producono non è una peculiarità della dose marginale a renderli meno produttivi, ma semplicemente al fatto che tale dose (di investimento ndr)  è stata impiegata insieme ad un numero dato di altre dosi. Perciò la curva funzionale attuale  rappresenta l’ordine delle cose per come accadono empiricamente, laddove la curva descrittiva rappresenta un ordine arbitrario selezionato dall’economista, che non è necessariamente coincidente con l’ordine degli eventi. La curva descrittiva è costruita arbitrariamente ponendo in un ordine discendente di efficienza un campione differente di terreni. Ma in questo caso la produttività della terra marginale non dipende dal fato di essere stata impiegata dopo che tutti gli altri terreni siano stati impiegati. Supponiamo che il terreno marginale, in uno stato di equilibrio dato, sia la millesima unità. Ora, tale terreno, che occupa il millesimo posto nell’ordine dei terreno, avrebbe esattamente la stessa fertilità e perciò la medesima produttività se esso fosse coltivato dopo una serie di unità piccolo o grandi che fossero, coltivate in precedenza. In una fabbrica, laddove fossero impiegati un migliaio di lavoratori di identica efficienza, il lavoratore marginale non è un uomo dato, Jones o Smith, ma qualsiasi lavoratore: il suo prodotto è determinato dal numero di posto che egli occupa e se invece di essere il 999 esimo di altri fosse uno di altri 2000 il suo prodotto sarebbe interamente differente. Perciò la distinzione fra due diversi tipi di curva sta nella natura della relazione fra prodotto marginale e numero delle unità impiegate: la decrescita in un prodotto è dovuta in un caso da un arrangiamento di tipo arbitrario e a una “legge” necessaria nell’altro. In realtà non esiste alcuna differenza fra le due curve. Una è altrettanto arbitraria quanto lo è l’altra perché in entrambi i casi di decrescita il prodotto marginale è dovuto all’azione del produttore che in prima istanza dosa direttamente al fine di ottenere in ciascun caso il prodotto massimo che preferisce.    

Il prosieguo delle lezioni è comunque importante perché permette alla fine di comprendere alcune delle affermazioni basilari che Sraffa proporrà in Produzione di merci a mezzo merci.

Una relazione fra cambiamento delle proporzioni e cambiamento nel costo di equilibrio in un mercato competitivo – il che equivale a dire che il costo è uguale al prezzo di equilibrio – si verifica soltanto quando la quantità totale disponibile di un fattore per una comunità data è costante – nel senso che non può essere ulteriormente aumentato. Questo fatto non può avere luogo in una sola impresa, ma può essere osservato solo dal punto di vista dell’intero comparto industriale. Il ruolo giocato dalla teoria dei rendimenti decrescenti è perciò radicalmente diverso se consideriamo la singola impresa oppure l’insieme delle imprese Per la ditta individuale esso rappresenta semplicemente una stato di transizione e aggiustamento e quando viene raggiunto l’equilibrio interno questo equivale al massimo possibile e questo significa che al punto di intersezione (fra le curve dei rendimenti crescenti e decrescenti ndr)  (considerando tutti i fattori) e perciò siamo al limite del rendimento costante. Ma il comparto industriale nel suo complesso può essere benissimo in uno stato di equilibrio anche in una zona a rendimenti decrescenti. Questa è la ragione delle difficoltà che sorgono quando si vogliono collegare le condizioni per una singola impresa con quelle generali dell’intero comparto in particolare nella costruzione delle curve totali dell’offerta a partire dalle curve individuali che la compongono. Ci sono molti metodi per arrivare a questo  che si prestano in molti casi a obiezioni, sebbene possano esser utili per alcuni propositi. In primo luogo c’è il metodo di cui ho già detto e cioè organizzare le singole ditte in ordine decrescente per quanto attiene alla loro efficienza. Questo metodo ci fornisce un diagramma molto simile a quello dei costi crescenti nella curva dell’offerta, ma senza che abbia con essa qualcosa in comune: si può usare il diagramma per la curva particolare della spesa ma non per la curva dell’offerta. La ragione è che non è necessariamente vero che siano le ditte più inefficienti a finire fuori mercato quando c’è una caduta della domanda e che invece vi entrano quando l’industria è in espansione – . … Poi c’è il metodo usato da Marshall in connessione con la teoria degli effetti di miglioramento in agricoltura (credo intenda dire nei metodi agricoli ndr), che riguardano sia il comportamento della singola industria che impiega la totalità dei fattori costanti e spende dosi successive di fattori variabili fino al punto in cui  esso. Il guaio è che questo tipo di curva si basa sull’assunto che non cambino né le economie interne né quelle esterne con la crescita dell’industria; così che ciascuna impresa, dal suo punto di vista individuale, aderirebbe alle condizioni dei rendimenti costanti, ma il numero di imprese componenti l’industria nonché le dimensioni sarebbe del tutto indeterminato. Inoltre tale metodo dimentica completamente che le caratteristiche primarie di un’industria competitiva, e cioè l’equilibrio generale, è il risultato di una serie di equilibri parziali che si raggiungono nella competizione e indipendentemente l’una dall’altra. D’altro canto questa specie di curva collettiva mostra nel modo più evidente gli effetti dei rendimenti decrescenti su scala nazionale e in effetti è sufficiente per testare i limiti su cui è legittimo basare su di loro la curva dell’offerta.

Anche in questo caso non è necessario alcun ulteriore commento.

Il metodo che io credo corretto ha maggiormente a che fare con i rendimenti crescenti per cui non lo tratteremo qui. La sostanza, naturalmente, è di considerare prima di tutto le curve individuali che mostrano variazioni nel costo in quanto funzione delle dimensioni di una industria: successivamente inglobate nella curva collettiva, non la totalità di ciascuna curva ma solo la quantità di costo che corrisponde alla dimensione ottimale di ciascuna azienda – ma in questo modo si tiene conto dei rendimenti decrescenti dovuti al fattore costante solo nella curva collettiva e non in quelle individuali. Ora, voglio concludere la parte dedicata ai rendimenti decrescenti e definirò in breve quali sono i limiti entro i quali una curva dell’offerta si possa basare sui rendimenti decrescenti. Questi limiti, credo, consistano nel fatto che la loro influenza si verifica in casi talmente ristretti da risultare eccezionali.

Come si può constatare la logicità del ragionamento si traduce in una stroncatura senza appello. A questo punto cambia l’oggetto dell’indagine.

Ora, dobbiamo introdurre una distinzione fra due tipi diversi di variazioni nella quantità di un fattore, conseguenti a un cambiamento nella remunerazione:1) aumento o diminuzione della proporzione nella vendita di quel fattore sul mercato da parte del proprietario in cambio di denaro. 2) aumento o diminuzione della quantità totale attualmente esistente di quel fattore, sia che esso venga usato direttamente dal proprietario, oppure venduto ad altri.  Per esempio: un aumento delle ore di lavoro lavorate come conseguenza di un aumento dei salari appartiene al primo caso – e si tratta meramente di una diversa distribuzione del tempo ed energia fra due diversi usi possibili e cioè più lavoro per avere più salario, oppure più ozio; ma in entrambi i casi non muta il totale disponibile: una crescita di popolazione dovuta a un aumento dei salari appartiene invece alla seconda classe. Ora, i teorici del costo di opportunità pensano in realtà alla prima classe e da questo punto di vista essi hanno ragione nel non fare differenza fra un fattore e un altro, la cui remunerazione entra nel costo. Il proprietario terriero è libero di aumentare o diminuire la proporzione di terra da usare produttivamente, come risposta a un mutamento della rendita, tanto quanto il capitalista è libero di aumentare o diminuire la parte del suo capitale che presta ad altri se il tasso d’interesse cambia. Oggi vi propongo di soprassedere ancora sulla questione delle relazioni fra la teoria di Marshall dei costi reali e dei costi di opportunità (o perdita di utilità) da un lato e invece la concezione classica e fisiocratica dei costi, cioè considerata solo quantità fisica di materiale richiesta per il mantenimento del lavoro. Forse dovrei chiarificare a priori cosa sto cercando di mostrare. Credo che Marshall abbia tentato di conciliare due cose che sono incompatibili. In primo luogo egli desidera avere a disposizione una sorta di costi reali che sono paragonabili all’utilità, in modo tale che si bilancino fra loro, quello che chiama rendere uguale l’utilità marginali più i sacrifici più quello che definisce  “simmetria fondamentale”  fra offerta e domanda. In secondo luogo vuole che i suoi costi siano qualcosa di diverso dall’utilità in modo tale da non essere identificato meramente come perdita di utilità. Non credo sia possibile avere le due cose.

Infatti si tratta di una versione sofistica del gioco delle tre carte.

Il primo punto di vista porta diritto al costo di opportunità più identità fra costi e utilità negativa. Poi la quantità totale dei fattori deve essere considerata costante e diventa impossibile spiegare le variazioni sul totale disponibile. Il secondo porta alla teoria classica dei costi che essendo una quantità di materiali e non di sentimenti non si può rendere uguale alle utilità marginali … L’idea di “costo reale” sostenuta da  Marshall porta necessariamente come conseguenza logica al concetto di “costo di opportunità” e tale conseguenza è inconsistente se si considerano le due fondamentali dottrine di Marshall e cioè: 1) che “utilità e costi reali sono le due forze opposte che determinano il valore delle merci”. 2) Che la rendita “non è parte del costo di produzione”, mentre l’interesse e i salari lo sono, così che la rendita viene ad avere una posizione del tutto differente da quella di interessi e salari in relazione al valore …

L’obiezione logica non sembra tuttavia bastare a Sraffa che riprende il discorso introducendo nuovi elementi:

A questo proposito vanno notate diverse cose: 1) le due cose (sacrifici e sussistenza) non  possono essere addizionate e se lo potessero ci sarebbe una duplicazione e cioè sacrifici da parte del lavoratore e sacrificio dei suoi genitori (parents ndr). Questo non sono affatto costi reali nel senso di Marshall: piuttosto essi rappresentano delle utilità per il lavoratore.

L’uso di una parola come parents e il ribadire che è proprio quello s’intende, lascia a prima vista perplessi. Cosa c’entrano i genitori di un figlio che lavora e cosa bisogna intendere qui per sacrifici e sussistenza che non si possono sommare? L’argomento, in realtà, era già stato trattato da Sraffa e sembrava in effetti concluso. Vediamo però prima di tutto di capire cosa sono sacrifici, utilità e costi di opportunità per la teoria marginalista. Faccio due esempi mettendomi dalla parte del consumatore. Se mangio tutti i giorni in casa, il mio comportamento è un’utilità per il supermercato sotto casa dove vado a fare la spesa: ovvio. Solo che il marginalismo non si ferma qui e scopre che il mio comportamento è una disutilità per la trattoria che si trova anch’essa sotto casa. Anche in questo secondo caso siamo dalle parti dell’ovvio, ma se poi si pretende che per la trattoria io sarei addirittura un costo o un sacrificio, ecco che le cose cambiano perché la stessa cosa – il mio comportamento – viene spostata dalla parte dell’utilità o dei costi a seconda delle esigenza della teoria, ma in questo modo si ha una duplicazione indebita: insomma siamo sempre a una versione più o meno raffinata del gioco delle tre carte. Il testo prosegue in questo modo:

Le “necessità per efficienza” non è affatto un sacrificio per lui (e neppure per i suoi genitori per quanto attiene alla formazione, ecc.. ). Se fanno un sacrificio questo non è affatto compensato dal salario che non riceveranno, ma se mai il piacere di stare bene e avere figli che vanno a scuola) (in ogni caso per i genitori questi sarebbero non costi negativi ma perdita di utilità. 3) Ciò che essi hanno è costo nel senso inteso dagli economisti classici,  cioè “anticipi di lavoro” per il cibo richiesto dal lavoratore, carburante per la macchina, ecc. ecc. e per i quali il concetto di utilità non entra affatto. Ma allora ciò significa che i costi non sono disponibili per la teoria di Marshall che richiede un tipo di costi che dovrebbero essere misurati in termini di bilanciamento rispetto alle utilità cioè sarebbe dello stesso tipo.

Vediamo di cominciare a dissolvere, o almeno a cercare di farlo, le nebbie che avvolgono queste affermazioni. La prima constatazione, che può sembrare sorprendente, è che in questo brano Sraffa si pone dal punto di vista di una famiglia operaia per ritorcere le argomentazioni marginaliste contro la teoria stessa: su questo non vi è dubbio, visto il reiterato uso della parola parents ma anche l’accenno al training, cioè alla formazione diremmo oggi: e poi la scuola ecc. Anche in questo caso, Sraffa riprende un’argomentazione che aveva già usato, ma allora si era posto soltanto dal punto di vista del lavoratore singolo, mentre in questo caso ingloba nel ragionamento l’intera famiglia. Vediamo però di scomporre la frase. Sraffa ritorce l’argomentazione soggettivistica su cui si basa la teoria marginalista per dire, in definitiva, che se si assume quel punto di vista, ogni azione di tipo economico può essere intesa come utilità per qualcuno o il suo contrario per altri, a seconda del punto di vista che si assume; ma questo non ha alcuna rilevanza nella determinazione dei costi e neppure del valore di una merce. In sostanza Sraffa sta dicendo che se una famiglia decide che il figlio invece di andare lavorare è meglio se va a scuola (assumiamo come data la possibilità di scelta), il sacrificio non è il mancato salario, ma la possibilità di stare meglio e avere più tempo da passare insieme: ma queste non sono forse utilità per il lavoratore? Tuttavia, quello che per la famiglia è una utilità, sarebbe un costo per l’azienda che non può usufruire del lavoro del figlio: ma si tratta della medesima cosa non di due. Infatti la conclusione di Sraffa è che i costi non sono disponibili nella teoria di Marshall. E quali sono allora i costi e come si calcolano? Come affermavano i classici e cioè “anticipo di lavoro” per il cibo dei lavoratori, il carburante per la macchina ecc. ecc. È sufficiente tutto questo? No, o almeno dobbiamo sospendere il giudizio, mettendo però in evidenza due questioni niente affatto minori: Sraffa mette fra virgolette l’espressione “anticipo di lavoro” e non è affatto soltanto un vezzo, coma si vedrà meglio nel prosieguo e specialmente in un capitolo di Produzione di merci a mezzo merci.

Tutti gli elementi di costo di questo tipo sono già stati incorporati nel concetto di utilità (dal lato della domanda), in quanto costo di opportunità. Ciò che ancora resta dei costi non è nulla del genere. Infatti siamo rimasti a due tipi diversi di materia (utilità e costi fisici), ciascuno dei quali può essere usato come la sola base della teoria del valore: abbiamo così due teorie indipendenti non una teoria che li prende in considerazione entrambi. 4) In definitiva, questo tipo di costo adottato in ultima analisi da Marshall distingue fra rendimenti che corrispondono a costi reali e ad altri che non corrispondono, ma invece di porre la rendita da un lato salari e interessi dall’altro, egli mette i salari da una parte, e rendita più interesse dall’altra … Questo può essere vero quando s’intende mantenere il livello presente di produzione, ma se si tratta di accrescerlo, si potrebbe dire che il capitale passa dalla classe in cui è rendita del lavoro a quella in cui diventa lavoro.

Partiamo dalla prima affermazione che ribadisce come quello che per Marshall sono i costi è qualcosa già incorporato nel concetto di utilità e non può quindi essere spostato a seconda delle convenienze. Sempre nella prima parte Sraffa ribadisce che una teoria del valore può usare come base i costi fisici, oppure le utilità (che diventano costo di opportunità dal lato della domanda), ma non entrambe. Non è del tutto chiaro a questo punto se Sraffa ritenga che invece sarebbe possibile farlo. Il punto 4 dell’argomentazione, però ci offre un’indicazione precisa e cioè che il costo di Marshall non ha nulla di reale dal momento che non sa distinguere fra rendimenti decrescenti che sono effettivamente costi e altri che non lo sono. La rendita come un anticipo di capitale nel suo costo va inglobato anche l’interesse su quel capitale, ma se si considera il salario non più un anticipo ma una quota del reddito da distribuire il discorso cambia. La frase finale, però, complica ulteriormente il discorso perché mi sembra che qui Sraffa unifichi due problemi diversi.

In questo caso anche il surplus che va in maggiori salari per l’aumento della popolazione cessa di essere un surplus. In effetti non c’è aumento della rendita che possa permettere al proprietario terriero di aumentare il volume della terra ; sebbene non sia provato da nessuna parte che rendite più alti non portino alla colonizzazione di terre incolte, in nuove nazioni o continenti

Anche quest’ultimo brano è assai importante ma anche particolarmente spericolato. Ne propongo una possibile interpretazione. La prima frase è del tutto comprensibile nel sistema sraffiano e cioè che se il surplus va in maggiori salari cessa di essere surplus perché è reddito.

Veniamo ora alla parte conclusiva delle Lezioni, dove Sraffa sembra finalmente prendere per le corna il toro dei costi e la connessione con il valore.

… Ora, lasciando da parte le interpretazioni estreme dei costi, quali sono le condizioni in base alle quali è possibile affermare che le spese di produzione determinano il valore di una merce? La questione ci riporta a un’altra e cioè se i costi variano o meno se cambiano le quantità prodotte. Naturalmente s’intende i costi costanti per unità per prodotto, non il costo totale, qualunque sia l’ammontare del prodotto. La confusione può sorgere, come abbiamo visto, quando l’ammontare di un fattore è costante … Quando una merce è prodotta in condizioni di costi costanti, il suo valore è interamente determinato dai costi. (passaggio non chiaro ndr). Nel mondo reale c’è una differenza fra i due casi … Nel primo caso il totale è davvero costante, mentre nel secondo cambia in proporzione delle quantità prodotte L’aumento di domanda per Mashall non ha alcuna influenza sul valore nel caso di costi costanti: Nel caso estremo in cui la curva della domanda è più bassa della curva dei costi, niente sarà prodotto, ma se qualcosa lo sarà esso sarà venduto a un prezzo fissato.

Naturalmente, gli economisti classici conoscevano la legge dei rendimenti crescenti e decrescenti, ma non pensavano che essa avesse a che fare con la valore di una particolare merce. Altrettanto non trattarono mai il problema in connessione con le questioni dello scambio, ma sempre come parte  della teoria della distribuzione e dei metodi di produzione. I rendimenti crescenti giocavano un ruolo minore nell’economia classica,  il solo aspetto preso in considerazione era la divisone del lavoro come mezzo per accrescere la produttività: ma la divisone del lavoro era per loro dovuta molto di più alla generale progresso della società che non alla crescita di una particolar industria. I rendimenti decrescenti furono invece molto enfatizzati da Ricardo e dai sui amici e avevano chiara la connessione fra essi e la produzione globale; ma la consideravano soltanto in connessione alla crescita della popolazione e la teoria della rendita.

La posizione dei RD (Rendimenti Decrescenti) è diversa quando consideriamo la teoria dell’equilibrio generale di tutte le merci e di tutti i fattori della produzione. Il punto essenziale è che la teoria del valore di particolari prodotti e la teoria della distribuzione del prodotto totale non sono  considerate del tutto separate e distinte (così come viene detto da Marshall nei Principi). I due problemi sono risolti simultaneamente e considerati come un problema solo. Non propongo oggi di entrare nel dettaglio della teoria dell’equilibrio generale, lo farò nella prossima sezione. Voglio solo mostrare qui la parte che penso i RD debbano occupare in essa. Supponiamo un caso molto semplice. Un certo numero di merci differenti sono prodotte da due fattori della produzione, diciamo la terra e il lavoro: assumiamo allora che una certa quantità di entrambi i fattori sia necessaria per ogni prodotto, ma che la loro proporzione possa variare, poi assumiamo anche che tutte le unità di terreno siano di qualità uniforme e anche le unità di lavoro. La condizione di equilibrio sarà quella in cui il prodotto marginale del lavoro sia uguale in tutte le altre industrie, così come pure la produttività marginale della terra (salari più affitti in valore uniforme). In tale posizione di equilibrio … il valore del prodotto marginale dipenderà dalla ripidità della curva della produttività di dosi di lavoro applicate a un’area fissata di terra, quanto più ripida sarà la curva più grande sarà la proporzione del prodotto che va in affitto, più piccolo sarà il costo marginale in lavoro  (valore per unità) dal momento che tale valore moltiplicato per l’affitto in prodotto deve essere uguale in tutte le industrie. Tutto ciò può essere rappresentato da diagrammi che si riferiscono ad aree uguali impiegate in industrie diverse. Al fine di accertare tale questione il diagramma rovesciato delle produttività deve essere rappresentato in questo modo:  affitto salari affitto salari. In entrambi i diagrammi gli assi rappresentano uguale ammontare del fattore (a o b) prodotto del  lavoro.  In questo modo avremo che più lavoro sarà speso su ciascun acro nelle industrie in cui i rendimenti da lavoro scendono lentamente e minor lavoro dove i rendimenti scendono bruscamente. (La stessa cosa può essere rappresentata altrettanto bene in termini di produttività marginale della terra assumendo che successive dosi di terra siano impiegate a quantità costanti di lavoro). Supponiamo ora che, stante tale situazione di equilibrio, ci sia un aumento della domanda di uno dei prodotti. In che modo il valore del prodotto ne verrà toccato? Dal momento che i RD sono ottenuti da ciascuno dei fattori sembrerebbe che il valore debba crescere. Ma non è così. La semplice informazione che l’aumento della curva della domanda di un prodotto non è sufficiente per capire cosa accadrà del suo prezzo. Tutto dipende da quale sia l’origine dell’aumento avvenuto nella domanda. Possiamo così distinguere due casi: 1) dovuto al cambiamento nel gusto dei consumatori; 2) dovuto a un aumento dell’offerta di uno dei fattori (questo comprende anche miglioramenti e invenzioni), cioè il terzo caso. Se l’aumento della domanda è del primo caso, questo significa che la domanda di un altro prodotto sarà diminuita in proporzioni uguali: dal momento che tutti i prodotti sottostanno alla legge dei rendimenti decrescenti sembrerebbe allora che nulla sia destinato a cambiare. Ma non è così. Lo stesso accade con l’offerta dal momento che tutti i prodotti sono divisi fra fattori di produzione. La domanda totale non può crescere se l’offerta di fattori della produzione rimane invariata. Tutto allora dipende da: 1) se la merce la cui domanda è aumentata è prodotta a una più alta  o più bassa intensità di capitale o di lavoro per unità di terra e paragonata con la domanda della merce che è diminuita  2) se la merce in questione è prodotta con una più alta o bassa intensità di lavoro per unità di terra paragonata alla media di tutte le merci (oppure selezionando una merce standard come unità di valore). 3) Tanto per fare un esempio. Cavoli (alta proporzione di lavoro), Grano (bassa intensità di lavoro). Supponiamo che la domanda di cavoli cresca, e che quella del grano diminuisca. Terra e lavoro si trasferiranno nella produzione di cavoli, ma fino a che le proporzioni rimangono inalterate, una parte della terra sarà incolta. Allora tale porzione si distribuirà sull’insieme delle industrie fino a che il prodotto marginale sarà caduto. Alloro il valore di tutti i prodotti che sono ridotti facendo ricorso a una maggiore quantità di terra (il grano per esempio), cadrà se la paragoniamo al prezzo di quelli che sono prodotti con più lavoro. Si noti che: 1) Se il cambiamento della domanda avviene passando da un prodotto a un altro, che hanno entrambi la medesima proporzione di lavoro e capitale terra, tutti i valori rimangono inalterati; 2) Le proporzioni sono diverse, il valore dell’articolo la cui domanda è aumentata salirà sempre della stessa proporzione in cui cade la domanda di un altro; ma la domanda può anche cadere per tutti gli altri articoli. Fine (in italiano nel testo ndr) Tassa sul prezzo di un prodotto. Se il prezzo salirà per una quota minore, superiore o uguale alla tassa, ciò dipende interamente dal modo in cui il governo intende spendere il gettito; per esempio se deciderà di acquistare merci prodotte in proporzioni uguali oppure no. Un altro caso: aumento della popolazione del 10%. Supponiamo che i gusti dei consumatori siano inalterati. Non si possono aumentare tutti i prodotti, la terra, per esempio è quella che è. Se vi è un aumento di lavoro in una industria del 10%, i prodotti aumenteranno in proporzioni variabili e valori e anche la produttività marginale cambierà.  Il prodotto, tuttavia, crescerà meno dove i valori salgono per cui il nuovo aggiustamento dovuto alla domanda sarà inferiore. (Finito con prova che in condizioni di ritorni costanti il solo costo non determina il valore).

La conclusione che abbiamo raggiunto sui rendimenti decrescenti è che solo in casi eccezionali possiamo usarli come base per la variazione del costo e per la curva dell’offerta di una merce.

Ciò avviene quando la produzione della merce di cui si cerca di determinare il valore impiega la totalità di un fattore nella produzione. (tutto il fattore disponibile). In generale, e cioè quando un fattore che causa i rendimenti decrescenti è usato nella produzione di diverse merci, la curva dell’offerta di queste merci non può prendere in considerazione i rendimenti decrescenti che sorgono da essa senza stravolgere le condizioni essenziali che stanno alla base della teoria del valore di Marshall. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura e per la produzione dei minerali più importanti che vengono usati come materie prime in una varietà di industrie.

Raggiungeremo lo stesso tipo di conclusione con i rendimenti crescenti. Il prestigio di cui ancora godono come base della curva dell’offerta è basato sulle variazioni di costo in una singola ditta quando aumenta il suo prodotto. Anche in questo caso, il fatto è irrilevante dal momento che ciò che è necessario per determinare la curva dell’offerta, è il RC (Rendimento Crescente) er l’industria nel suo complesso.

Due casi per la singola azienda: 1) economie interne; 2) spalmatura delle spese generali su un più largo numero di unità. In un regime competitivo, i rendimenti crescenti non possono mai essere causati da economia interne; ciò equivale a dire che la curva dell’offerta di una ditta singola deve sempre comportare costi crescenti. Se in qualche caso ciò non avviene, vuol dire che quella ditta è stata in grado di espandere la produzione indefinitamente fino a ottenere il monopolio del mercato … Perciò RC per un’industria possono scaturire solo dall’esistenza di economie esterne, il che implica che mentre un’industria nel suo complesso sta producendo in condizione di RC ciascuna delle ditte di quel comparto industriale sta producendo in condizioni di RD. Il risultato è che se una singola ditta espande il suo  prodotto i suoi costi salgono; ma se tutte le ditte sono in espansione nel medesimo momento, i costi per ciascuna di esse scendono. Dobbiamo ora prendere in considerazione le relazioni fra le tabelle dell’offerta di una singola azienda e quelle di un comparto industriale nel suo complesso, nel caso di costi in diminuzione. Le economie esterne sono un vincolo che connette le condizioni di produzione di una singola impresa rispetto al complesso industriale. Il costo di produzione di ciascuna non è determinato soltanto dalle quantità prodotte, ma anche dalla quantità della produzione di tutte le altre. Considerando l’equilibrio della impresa individuale dobbiamo perciò prendere in considerazione tre variabili. Il costo, quantità prodotte, e produzione totale. La curva dei costi di una impresa individuale in condizioni di competizione stabilità o equilibrio, deve avere una forma definita. In primo luogo non può mostrare costi crescenti in tutto il ciclo. All’inizio il costo cadrà, perché in caso contrario la competizione obbligherebbe l’impresa a contrarsi, a diminuire indefinitamente il suo prodotto, dal momento che quanto più l’impresa è piccola tanto più è piccolo il prezzo di vendita che può permettersi.  In questo modo il numero di imprese crescerebbe senza limiti e questo non permette di raggiungere l’equilibrio. D’altro canto dovrà finire a costi crescenti perché se i costi continuassero semplicemente a scendere, solo un’impresa rimarrebbe in  piedi in quel comparto e verrebbero meno le condizioni della concorrenza. La curva dei costi medi aggregati dell’offerta avrà in ogni caso una forma di questo tipo: un minimo che corrisponderà a un massimo di economicità, cioè la quantità che potrà produrre al più basso costo per unità di prodotto— Supponiamo che tale curva dia un prodotto che indichiamo come z.

  • Perciò il prezzo di mercato è fissato
  • Definizione di concorrenza: l’individuo non può influenzare il prezzo di mercato.
  • Curva della domanda dal punto di vista delle ditta individuale: diritta
  • Sempre tangente alla curva individuale al minimo (??? Ndr)

In effetti, i costi includono le remunerazioni di tutti i fattori, inclusa l’abilità manageriale. Se la curva non fosse tangente, la ditta avrebbe profitti al di sopra del normale: la causa che provoca questo può essere solo un fattore monopolistico oppure un fattore non preso in considerazione. Se supponiamo una concorrenza perfetta, e una considerazione di tutti i fattori, ciò non può accadere.

  • Prudenza (pag. 310)
  • Dedurre la curva marginale.
  • Curva tridimensionale.
  • Composizione in una curva collettiva sul piano
  • Marginale più media dei due casi
  • Economie esterne che accrescono quelle interne ecc. (quando il minimo individuale slitta verso le conseguenze giuste. (???? Ndr)

Annali in italiano nel testo.

Vediamo un’obiezione che si può sollevare verso il modo in cui ho disegnato la curve di domanda e offerta rispetto a una azienda singola in concorrenza con altre. In primo luogo ho disegnato la curva dell’offerta e ho detto che deve avere una certa forma poi ho sostenuto che la curva della domanda deve essere orizzontale, una linea retta e che in condizioni di equilibrio deve essere tangente alla curva dell’offerta nel punto di costo medio più basso. Secondo il signor Plumpre * questo implica che la curva della domanda venga disegnata prima e solo successivamente quella dell’offerta. In altre parole, la curva dei costi è quella che è perché il prezzo di mercato è quello che è, ed ogni cambiamento nel prezzo implica un cambiamento complete nella curva dei costi. In questo modo il mio ragionamento diventerebbe un circolo vizioso. L’argomento da me usato era questo: se i costi sono più altri del prezzo, l’industria verrà eliminate dal mercato sul lungo periodo, mentre se il costo sono bassi si crea un surplus di profitto e questo implica che non ci possa essere equilibrio e che l’entrata in scena di altre industrie, attratte dai super profitti, riporterà il livello dei prezzi a quello dei costi. Se una impresa gode di un qualche speciale vantaggio e questo può diventare un elemento di monopolio (ma lo escludiamo nel nostro esempio), o altro in uno dei fattori della produzione, la cui remunerazione avrebbe dovuto essere presa in considerazione  nel costruire la curva dei costi. Veniamo al punto di tale obiezione. Credo che la remunerazione di questo tipo di “fattore” che è rappresentato dalla speciale vantaggio di cui gode una ditta specifica, varia al variare del prezzo del prodotto così che la curva totale dell’offerta, se si assume la sua remunerazione come data, deve riguardare un prezzo dato di quel prodotto. La risposta è che possiamo soltanto disegnare una curva dell’offerta in base all’assunzione che il prezzo di un fattore rimanga invariato, così che il concetto di “spese di produzione” venga ad avere un significato definito perché sempre proporzionale ai costi reali: Ciò che muta è la quantità dei fattori impiegati per unità di prodotto, ma non il prezzo. Se cambia il prezzo l’intero schema perde di significato avremo così costi crescenti se li misuriamo dal punto di vista del fattore il cui prezzo sia caduto, e costi decrescenti nel caso contrario Prima di abbandonare questa materia, voglio enfatizzare un paio di punti che sono piuttosto importanti e andrebbero ricordati. 1) la differenza fra costo marginale per una ditta e costo marginale per un intero comparto industriale, una differenza che compare non appena ci sono in gioco economie esterne. Ciò è dovuto al fatto che la media e il costo marginale devono essere uguali per la ditta (dal momento che sono dei punti di flesso della curva dei costi medi), ma sono differenti per l’intero comparto. La proposta di Pigou di pagar dei compensi alle industrie con rendimenti crescenti, al fine di equiparare i prodotti marginali complessivi va in questa direzione.

2) La causa della uguaglianza dei costi medi e della divergenza dei costi marginali fra quelli di una impresa singola e dell’industria nel suo insieme è questa: il costo marginale è relativo a un cambiamento di prodotto – cioè è il tasso di crescita del costo totale in presenza di una crescita del prodotto – e quindi vi sono due costi marginali separati, uno in relazione ai cambiamenti dell’impresa, e l’altro a causa dei cambiamenti nel prodotto totale dell’industria. Mentre il costo medio è semplicemente il costo totale diviso per unità prodotte e perciò non è relativo ad alcun cambiamento, cioè indipendente dai cambiamenti  3) Abbiamo visto come le economie esterne possano influire sulla forma delle curve individuali in modo tale che, quando un comparto si espande, la singola impresa può accrescere il suo prodotto e diminuire i prezzii. Ma questo non contraddice l’affermazione che una condizione di rendimenti crescenti individuali sia incompatibile con la condizione di equilibrio.

Abbiamo visto come tanto con RC a causa di economie esterne, che con RD dovuti a fattore costante, il costo medio e quello marginale per una singola impresa sono uguali. Sono pure uguali al prezzo di offerta dell’industria nel suo insieme. Ma mentre per i RC questo prezzo di offerta è uguale alla media dei costi dell’industria, per i RD  sono uguali al costo marginale. (La ragione sta nel fatto che in regime di RD cresce la rendita e per di più questo incide sul costo della singola azienda ma non riguarda l’industria. Ora, nel caso in cui entrambe le forze e cioè economie esterne più fattore costante, agiscono contemporaneamente in un intero comparto, abbiamo ancora uguaglianza fra utilità marginale e media dei costi per la singola azienda e a loro volta uguaglianza di prezzo di offerta dell’intera industria. Ci dovremmo aspettare questo punto che il prezzo di offerta non sia uguale a quello marginale e neppure alla media dell’industria, ma che sia da qualche parte in mezzo fra questi due costi: ma le cose non stanno così. La curva dell’offerta è più alta sia di quella marginale sia della media dell’industria. Perché? Il prezzo di offerta collettivo deve essere ovviamente uguale al costo marginale per una impresa singola altrimenti lavorerebbe in perdita. Il costo marginale individuale è più alto del margine collettivo a causa delle economie esterne. Ma è anche più alto del costo medio di comparto perché esso è uguale alla media di tutte le singole imprese che includono le rendite e deve per forza essere più alto di quello di comparto che non tiene conto della rendita.

Ora prendiamo in considerazione il caso in cui le due forze, per caso, esattamente si bilancino, per cui per esempio il prezzo di offerta sia costante supponendo che il suo equilibrio sia a una quantità OM e che il totale del prezzo pagato sia OP. Possiamo disegnare una curva che divide quest’area in due: rendita dei fattori costanti e remunerazione dei costi reali. Tale curva in realtà non esiste. Solo il punto P è reale, l’altro non lo è dal momento che la curva intera è soggetta alla condizione che il prodotto sia OM. Essa rappresenta che cosa accadrebbe se le economie esterne fossero assenti  mentre invece sono presenti. Possiamo dedurre tale curva da una curva di indifferenza, in cui le proporzioni fra i fattori sono cambiate, mentre il prodotto no; e quindi, dato che le variazioni nella produttiovità marginale dipendono da proporzioni, ci fornisce la produttività marginale di lavoro e capitale quando le proporzioni mutano..

La maggiore difficoltà nel determinare la nozione di economie esterne riguarda la loro relazione con le invenzioni. Dovremmo rivolgere lo sguardo alle invenzioni e in generale ai miglioramenti nelle tecniche di produzione come parte delle economie esterne che devono essere prese in considerazione per la curva dell’offerta forse? E in caso contrario, dal momento che i costi devono decrescere necessariamente coinvolge certi miglioramenti nelle tecniche, dove vediamo la differenza fra due tipi di miglioramenti che possono essere presi in considerazione e altri no>?> Marshall sostiene che nel costruire lo schema dell’offerta per le industrie a rendimenti crescenti “escludiamo da ogni considerazione le economie che possono risultare da sostanziali invenzioni, mentre dovremo includere quelle che ci si aspetta di vedere aumentare ma nell’ambito degli adattamenti naturali delle idee esistenti.” )(460). Ciò che io ricavo da questa affermazione è che ciò che rilevante non è tanto se le invenzioni sono sostanziali, ma se possono o meno essere previste. Nel complesso ritengo tale distinzione accettabile sebbene da qualificare nel senso che i miglioramenti non devono sorgere naturalmente ma solo come conseguenza alla crescita del prodotto in una industria data. Pigou, d’altro canto, sembra guardare alla dipendenza delle invenzioni dalla crescita del prodotto come il solo criterio della distinzione fra quelle invenzioni che vanno prese in considerazione oppure no. Egli pone la distinzione in questo modo: …v ref..

Ora, a parte il fatto che non è così chiaro per me che non esistano difficoltà logiche nello speculare sulla storia che avrebbe potuto svolgersi diversamente, il problema reale mi sembra questo: Se nuove invenzioni future devono essere prese in considerazione per disegnare una curva di offerta dei rendimenti crescenti, ogni speranza di disegnare una curva attuale dell’offerta deve essere abbandonata per sempre, dal momento che prima che gli economisti possano misurare gli effetti che una nuova invenzione ha sui costi è necessario che tale invenzione sia già avvenuta.

Il prof Pigou distingue fra due tipi di nuovi cambiamenti nei metodi di produzione e nelle applicazioni tecniche dovute alle invenzioni: “Alcuni cambiamenti avvengono più o meno ‘spontaneamente’, cioè sono dovuti a fattori che opererebbero anche se il prodotto dell’industria rimanesse costante. Altri sono invece il risultato dei cambiamenti di scala del prodotto e vengono chiamati in causa in risposta a cambiamenti nella domanda.” … Poi procede nel dare una definizione di industrie a rendimenti crescenti che include, fra tutte le cause possibili dei costi, la seconda classe di invenzioni mentre esclude la prima.

Naturalmente, si potrebbe disegnarle per il passato, ma costruzioni come le curve della domanda e dell’offerta, che inducono a speculare su diverse possibilità in un momento dato, hanno senso solo se proiettate nel futuro. Per quanto riguarda il passato, una delle curve si è effettivamente realizzata mentre  le altre si sono dimostrate impossibili in quelle circostanze. …. È utile tracciare una storia passata se essa può gettare qualche luce sul futuro, ma nel nostro caso lo escludiamo. Le invenzioni passate sono già state fatte una volta per tutte e non si riproporranno in futuro, mentre quelle future se fossero conosciute già, cesserebbero di essere qualcosa di futuro  – dal momento che una invenzione diventa tale nel momento in cui viene conosciuta. Perciò credo che la soluzione corretta per quanto attiene la questione dei miglioramenti della tecnica industriale dovuta a invenzioni, è la soluzione data da Marshall che tutto quello che riguarda metodi superiori processi o forme di divisione del lavoro, o macchine ha senso se le consideriamo se sono conosciute adesso, anche nel caso in cui non siano adottate perché nel momento presente la scala di produzione non le rende convenienti. Ora dobbiamo domandarci: se le curve della domanda e dell’offerta debbono rappresentare, come si suppone facciano, le cause attuali che determinano il valore di una merce, che influenza può avere il fatto che gli economisti le sappiano individuare in modo corretto oppure no? Non è forse vero che un’invenzione ha a che fare con il costo sia che lo si sappia o no? La risposta naturalmente è che la curva dell’offerta, essendo disegnata da un economista, può rappresentare soltanto quello che sa e quando questa conoscenza diverge dai fatti la curva dell’offerta è dalla parte del torto. A parte le nuove invenzioni ci sono altri tipi di miglioramenti nella tecnica dovuta a processi di adattamento delle idee esistenti emerge un’altra difficoltà e cioè che tali metodi sono stati adottati in un momento di crescita del prodotto e non possono costituire una regola  quando il prodotto diminuisce. Perciò Marshall afferma: “La lista dei prezzi dell’offerta può aver ben rappresentato la caduta effettiva nel prezzo di offerta…ma se l’offerta dovesse diminiuire..l’andamento di ritorno prenderebbe un corso inferiore..”

Ma questo è un modo troppo blando di descrivere la cosa: significa che dobbiamo introdurre una nuova variabile e alla lunga il sistema diventa indeterminato. …. il che equivale a dire che in quel caso le curve della domanda e dell’offerta non ci dicono quale sia il valore della merce.  

Questa è la mia ultima lezione del trimestre. Perciò concluderò questa parte dell’argomento trattando delle variazioni di costo. Ho ancora poche cose da dire sui limiti dell’uso delle economie esterne come base dei RC. Abbiamo visto come un secondo gruppo di economie che non possono essere prese in considerazione per la costruzione delle curve di domanda e offerta riguarda i miglioramenti permanenti nei metodi di produzione i quali, se sono stati introdotti in precedenza a causa di un aumento del prodotto, non vanno perduti se c’è una riduzione a una scala precedente. Quando diciamo che non possono essere presi in considerazione, intendo dire che essi non possono essere rappresentati in una curva statica dell’offerta, perché questo causa una modifica nella curva stessa. Una curva rappresenta un’equazione essa dunque può mostrare cambiamenti nella variabili, ma non i cambiamenti nelle costanti – cioè nei parametri che definiscono la forma e la posizione della curva stessa.   Cambiamenti nelle costanti implicano che si debba disegnare una nuova equazione e quindi una nuova curva. Ma c’è un altro gruppo di economie esterne che non possono essere prese in considerazione: quelle economie grazie alle quali la crescita di alcune industrie va a beneficiarne anche altre; il che equivale a dire che il costo di produzione decresce nelle industria nella loro totalità e non soltanto per l’articolo che stiamo considerando.

Escluse dalle economie esterne:

-invenzioni

-miglioramenti irreversibili

-economie comuni ad altre industrie

tali requisiti equivalgono a dire che le economie esterne lo devono essere dal punto di vista delle single aziende, ma da considerarsi interne se si guarda all’intero comparto industriale. La curva dell’offerta basata sulle economie esterne assume per forza di cose che ci sia una stretta interdipendenza fra i costi di una impresa e la quantità prodotta da altre della stessa industria, ma pretende al tempo stesso che vi sia totale indipendenza fra tali costi e la quantità prodotta dalle altre. Perciò, la classe più importante di economie esterne, cioè quelle che derivano dallo sviluppo generale dell’ambiente industriale (Marshall), deve essere espunta dall’analisi: per esempio i costi più bassi di produzione delle nazioni molto industrializzate rispetto alle nazioni ancora agricole, sono dovuti principalmente a fattori di carattere generale piuttosto che caratteristici di una singola industria.… Ora, la ragione  per cui questo tipo di economie esterne non devono essere prese in considerazione è la stessa che abbiamo incontrato a proposito del RD, che sorgono dalla impossibilità di crescita di un fattore che venga usato contemporaneamente in diverse industrie o comparti … Conseguentemente, le condizioni che la curva dell’offerta dell’industria presa in considerazione dovrebbe essere indipendente dalla corrispondente curva della domanda, non sarebbe soddisfatta dal momento che in generale la forma della curva di una domanda di un articolo cambia quando i prezzi delle  altre merci cambiano … Per esempio, la crescita di uno dei fattori, rende possibile lo sviluppo di mezzi di trasporto meno costosi per esempio le ferrovie, e questo vantaggio si riflette ovunque generale piuttosto che da fattori particolari legati a una particolar industria p comparto Tali limitazioni restringono il campo delle applicazioni delle economie esterne alla curva dell’offerta il che non è affatto sorprendente e questa è la ragione per cui si trovano pochi esempi nei libri di testo! Vediamo dunque sia i rendimenti decrescenti sia le economie esterne possono essere prese in considerazione per un numero limitato di casi …

LA SVOLTA.

A questo punto e con ben altra consapevolezza di tutto il percorso, possiamo ripartire dallo Sraffa del 1940. Egli ritorna nello stesso punto dove aveva interrotto la sua riflessione degli anni ’20, ma questa volta riconosce subito la forza dell’argomentazione marxiana:

Marx si appella a un principio comunemente accettato che dovrebbe essere reso esplicito: se due cose sono equivalenti l’una rispetto all’altra devono essere equivalenti rispetto a qualche altra cosa.

Poi prende in considerazione le critiche che vengono rivolte a tale convinzione, in particolare quella di Cassel, ma solo per respingerla. Dopo aver riconosciuto che fra due equivalenti ci deve essere un tertium comparationis ecco la conclusione:

Se si considera il profitto uguale a zero i valori delle merci sono proporzionali alle quantità di lavoro in esse incorporate. A questo caso si applica la teoria del valore lavoro ed il lavoro è la sostanza comune,

Occuparsi di Cassell è la coda delle oscillazioni precedenti ed è l’ultima e lo dimostra in fatto che nelle terze equazioni che entreranno in Produzione di merci a mezzo merci, il lavoro viene quantificato. Anche Neri Salvadori e Kurz ripartono da questo  punto:

Mentre nella prima e nella seconda equazione Sraffa considera il salario come una quantità di merci fisiche, … nel caso preso in considerazione con la terza equazione, dove esiste un surplus, Sraffa s’interroga – tornando a Ricardo –  sulle implicazioni della partecipazione dei lavoratori al surplus e giunge alla famosa proposizione sulla distribuzione e cioè che il saggio di profitto è inversamente proporzionale alla quota di salario erogata. Se i lavoratori partecipano alla distribuzione del surplus il concetto di salario espresso in merci fisiche diviene obsoleto. Tuttavia non si ferma qui. L’adozione di questo nuovo concetto di salario obbliga Sraffa a riconsiderare tutta la questione e a domandarsi quindi che cosa distingue il nutrimento dato a un cavallo, per esempio, con il salario necessario al sostentamento dei lavoratori? Anche questa è una vecchia domanda che era stata posta anche ai suoi studenti nelle Lezioni. La risposta, allora era che il nutrimento del lavoratore fa parte del reddito nazionale mentre quello del cavallo no. Nel 1940, tuttavia, Sraffa aggiunge qualcosa d’altro e cioè che mentre nel caso del cavallo è solo il proprietario a decidere la quantità e qualità del nutrimento, nel caso dei lavoratori dipende dai rapporti di forza. Sraffa chiarisce in un appunto del 1942 che nelle prime due equazioni egli considera il salario alla stessa stregua del foraggio dato a un cavallo.

Questo passaggio dissolve la polemica precedente, quando Sraffa aveva imputato a   Marx, addirittura di occuparsi di cose metafisiche. La necessità di distinguere fra salario e foraggio porterà Sraffa alla necessità di quantificare il lavoro, ma anche a comprendere la differenza fra lavoro animale e lavoro umano in un modo in fondo non diverso dalla considerazione di Marx. La compresenza fra due diverse accezioni del termine lavoro dipende però dalla sua connessione con l’ente generico o meno. Potremmo definire il sistema capitalistico come il tentativo di eliminare completamente l’ente generico e trasformare gli esseri umani in macchine specializzate del tutto alienate da se stesse, nel linguaggio di oggi in macchine post umane. Quindi nel caso di produzione del surplus, il lavoro umano non poteva più essere trattato come gli altri tipi di lavoro (animale ecc.) e dunque come un costo reale espresso in termini fisici, ma bisognava prenderlo in considerazione in quanto tale e quindi nella sua diversità. Dal momento che i salari venivano pagati in relazione al lavoro svolto Sraffa si convinse che il lavoro doveva essere trattato come una quantità misurabile a differenza di quanto sostenuto nel ’27. I dubbi sulle sue idee precedenti, però, emergevano già nel 1929, ma fu solo in questi appunti che il mutamento appare chiaro e credo che abbia a che fare con la cura delle opere di Ricardo.

… Un altro concetto classico perse molto del suo appeal e cioè il salario come ante factum cioè anticipo che implicava di rapportare il salario come appartenente al capitale anticipato all’inizio del periodo di produzione. Ricardo e Marx adottarono il punto di vista dell’anticipazione in un primo tempo, Sraffa li seguì, ma poi avanzo la sua ipotesi di salario come interamente pagato dal prodotto. Tale mossa lo portò a riconsiderare la distinzione classica fra beni necessari e beni di lusso che lo portò infine a distinguere fra prodotti di base e prodotti di non base. Questo passaggio è fondamentale per arrivare alla terza serie di equazioni.      

Considerazioni finali.

Nelle conclusioni Neri Salvadori e Kurz prendono le distanze da Stademann. La materia sarà controversa per un bel po’ di tempo ed è bene dire per l’ennesima volta che l’opera di Sraffa si presta a interpretazioni diverse, anche se la possibilità di accedere ad essa in forma più o meno completa è destinata a far cadere molti pregiudizi se ci si pone da un punto di vista dei suoi sviluppi e quindi anche della sua storia niente affatto lineare. Ecco come essi ricostruiscono il tutto:

…. With regard to Sraffa’s analysis, of (single-product system), without and with a surplus and given (commodity) wages, he pointed out that the general rate of profits and relative prices are fully determined by the ‘objective data’ for which Sraffa har started. Being themselves merely derivates of the given physical conditions, labour value magnitude have no role to play in  this determination and are therefore superfluous in developing a materialist analysis of history…

Riguardo all’analisi di Sraffa del sistema a prodotto singolo, senza o con un surplus, e con un salario dato in forma di merce, egli mise in evidenza che il saggio generale di profitto e i prezzi sono interamente determinati dai ‘dati oggettivi’ da cui l’analisi di Sraffa ha preso avvio. Essendo dei meri derivati di condizioni fisiche date, la grandezza del valore lavoro non gioca alcun ruolo in tale determinazione ed era perciò superflua  ai fini dello sviluppo di una analisi materialistica della storia

Anche Neri Salvadori e Kurz affermano a questo punto che si può considerare valida l’interpretazione di Stademann per il periodo 1927-31 ma non per il dopo. Peraltro, anche considerando quel periodo, abbiamo già visto come in singoli appunti, frasi e qualche nota, i dubbi e gli interrogativi erano già presenti. In realtà, ciò che prevale in quel periodo è la confusione, poco c’è di univoco e la parte di gran lunga più valida della stesse Lezioni è quella in cui Sraffa attacca senza mezzi termini il marginalismo. Le conclusioni di Neri Salvadori e Kurz, che condivido, mettono in evidenza uno Sraffa che riaccredita Marx nella propria analisi; tuttavia, proprio perché la materia è controversa e continuerà ad esserlo, preferisco entrare direttamente nel merito delle Lezioni e delle altre parti dell’archivio – nonché di Produzione di merci a mezzo merci – per arrivare a una qualche conclusione. La questione dei rapporti fra Sraffa e Marx, infatti, va divisa in due parti distinte. Un conto è dire che ci sono stati equivoci e diffidenze ingiustificate nei confronti di Sraffa, che in gran parte si stanno dissolvendo; altro sarebbe sostenere che allora il rapporto Marx-Sraffa sia diventato improvvisamente del tutto lineare, cosa che non è affatto. Inoltre, i due attori principali, non possono più essere lasciati soli: c’è un convitato di pietra fra loro –  John Maynard Keynes  – specialmente dopo i libri fondamentali di Anna Carabelli e altri che tuttavia andranno presi in considerazione, per esempio Augusto Graziani.

Sraffa, Marx e la primavera

di Paolo Di Marco

1- il quadrato magico

Il testo di Sraffa che oggi compare, l’ultimo delle Lezioni, completa il quadro della critica dei fondamenti della teoria economica: quadro in tutti i sensi, dato che abbiamo l’articolo di Sraffa del 26, queste Lezioni, Keynes visto attraverso gli occhi di Anna Carabelli nella edizione completa delle opere, e infine Graeber col suo ‘Debito, gli ultimi 5000 anni’.
Da Sraffa vengono tre elementi di analisi della teoria marginalista: il primo (nell’articolo del 26) è che non necessariamente c’è un solo punto d’incontro tra la curve di domanda ed offerta, quindi un punto di equilibrio non è determinato con certezza, e con esso un saggio del profitto; il secondo che in generale tutte le curve che formano la parte analitica della teoria sono arbitrarie e provengono da sistemi di equazioni indeterminati; il terzo che l’ambito in cui possono avere applicazione pratica è ristretto a pochi casi marginali. Il tutto accompagnato dall’osservazione che la riscoperta della ‘economia volgare’ da parte dei marginalisti e la loro fortuna appare dovuta più alla voglia di abbandonare la teoria classica e con essa l’imbarazzante fardello del valore-lavoro, nonché lo spettro socialista che ad esso si era accompagnato, che non a meriti intrinseci.
Conviene aggiungere una nota matematica che non è sempre palese: quando si dice che in una teoria economica un sistema è sovradeterminato (come nel caso di Marx che aggiunge con l’uguaglianza somma-prezzi=somma-valori una condizione di troppo) o è indeterminato (come nel caso di Marshall- e con lui tutti i marginalisti per l’insieme delle curve di produzione) diciamo una cosa molto precisa: il sistema è sbagliato. Non è una soluzione. Se fosse uno studente che si presenta col compitino fatto gli diremmo: torna a casa e rifai da capo.
Alla stroncatura senza scampo di Sraffa, Anna Carabelli, colla sua edizione delle opere di Keynes, aggiunge altre bordate di non poco peso: il suo Keynes non rappresenta solo, come nella tradizione, un’altra tendenza di politica economica, nota per il ruolo propulsore della spesa pubblica rispetto all’individualismo ‘egoista’ dei marginalisti, ma soprattutto pone grande attenzione ai fondamenti. Se a qualcuno vien da piangere leggendo i periodici commenti sullo stato dell’economia dei paesi basandosi sull’andamento del PIL, questa grandezza del tutto avulsa non solo dai bisogni reali della gente ma anche dallo stato reale dell’economia, dalla sua struttura, dalle sue tendenze..bene, trova conforto in Keynes, che avverte, quasi invano, che il PIL è grandezza in sé priva di senso, un aggregato inomogeneo e non rappresentativo, che va preso con tre paia di pinze e solo nei momenti di sconforto. Ma il suo discorso è assai più ampio, ché avverte della difficoltà di misurare le grandezze economiche, del livello ampio di incertezza che sempre le accompagna, legato non solo e non tanto ad elementi statistici ma soprattutto alle difficoltà intrinseche di misurazione, sia della sua effettuazione sia della scelta dell’unità.
Cos’è allora l’economia per Keynes? La risposta è lui concepisce l’economia come una scienza morale e insieme un ramo della logica. È una scienza morale in quanto riguarda valori etici e introspezione (CW XIV, 300). E nel contempo è un ramo della logica, un modo di pensare. Fondamentalmente è un metodo che serve agli economisti per ottenere risultati ‘logicamente’ corretti- per evitare di cadere in ragionamenti logicamente fallaci come l’errore dell’additività nella probabilità o l’errore della composizione in economia.
Per Keynes il punto centrale è che senza questa logica gli economisti potrebbero perdersi nel bosco empirico e matematico, come secondo lui è stato il caso di econometristi come Tinbergen e Colin Clark e di altri economisti matematici. Il problema, come lui lo vede, è che l’applicazione di linguaggi matematici e statistici-coi loro presupposti di omogeneità, atomismo, e indipendenza- a una materia economica che è essenzialmente ‘vaga’ e ‘indeterminata’ produce fallacie logiche, una delle quali è la ‘ignoratio elenchi’ (un ragionamento irrilevante rispetto all’argomento ndr) nella teoria economica classica (Carabelli 1991). La definizione di matematica come ‘imprecisa’ nella Teoria Generale di Keynes significa che l’applicazione cieca di matematica e statistica all’economia -coi suoi aspetti invece non-numerici, non-comparativi e -non-ordinali, richiede attenzione logica. (CW VII, 298; Carabelli 1995).
E qui si apre il tema dirompente dei ‘presupposti nascosti’, tema noto ai matematici e agli scienziati, meno in altri campi; ma in Matematica e nelle scienze è obbligatorio elencare tutti i postulati su cui ci si basa, tutte le affermazioni che si danno per vere e su cui il ragionamento si basa. O meglio sarebbe obbligatorio, perché spesso si danno per scontati (in geometria sono spesso sottaciuti); ma talvolta sono presupposti di cui non ci rendiamo conto, o che non sono appropriati. Se in Geometria chiedessi di formare 4 triangoli equilateri con 6 stecchini dovrei anche precisare che la risposta non è necessariamente su un piano, cioè in 2 dimensioni (dato che la soluzione esiste solo in 3 dimensioni). Finché siamo in geometria i presupposti nascosti sono innocui, al massimo procurano mal di testa, in altri campi sono assai nocivi: sono la base di molte credulità e di molti trucchi illusionistici (come di molte ‘medicine’ illusorie). E mentre nelle scienze ‘esatte’ in genere si sta attenti, e talvolta si elencano puntigliosamente tutti i presupposti di un ragionamento o di un esperimento, in Economia e Sociologia -ma spesso anche in Medicina- è prassi rara, e spesso sconsigliata; (come sarebbe in una ricerca americana sull’obesità trascurare il reddito e il colore della pelle, ovvero i fattori determinanti dell’alimentazione negli USA; o in sociologia fare interviste a campioni sbilanciati-ad esempio pagati 100$ per rispondere). Non è un caso isolato il Nobel dell’Economia del 2019, un cialtrone che derivava la propria fama dall’essere stato il primo ad avere una cattedra in Economia Ambientale, e grazie a questo dirigeva la rivista che se ne occupava, dove metteva amici e benefattori. Il cui metodo ‘scientifico’ di lavoro consisteva nel inviare questionari a un certo numero di persone, di cui poi selezionava le risposte che gli facevano comodo come significative. E così chiedeva ‘pensate che l’estrazione crescente del petrolio possa far male al pianeta e all’economia?’, selezionava tutti i no e poi vendeva lautamente le proprie consulenze ai governi interessati.
Ed è sui presupposti nascosti che interviene a gamba tesa David Graeber, che dopo aver capovolto con ‘L’alba del tutto’ le nostre conoscenze sull’organizzazione sociale dell’uomo antico con ‘Debito, i primi 5000 anni’ smantella le basi delle nostre convinzioni più radicate.
Il concetto di debito è infatti alla base non solo dell’economia ma anche di molti dei nostri rapporti sociali, fino alla religione; la sua disanima mostra la trasformazione che ha subito, man mano verrebbe da dire ma in realtà con un percorso assai poco lineare, apparendo e scomparendo e poi riaffiorando nei rapporti sociali, in opposizione o compresenza con società di cooperazione dove l’uso era assente e il concetto inutilizzato, dato che non c’era scambio né immediato né procrastinato. Fino a quando, come dice ne ‘L’alba’, rimaniamo incastrati in un vicolo cieco con una sola organizzazione sociale e il debito, stavolta più gradualmente, esce dall’ambito delle scelte ed entra in quello dei presupposti, così necessari ed ‘inevitabili’ da risultare nascosti.
“..ovviamente lei aveva letto molto a proposito di Seattle, Genova, gli scontri nelle strade e i lacrimogeni ma..bene, avevamo ottenuto qualcosa in quel modo? ‘In effetti’ risposi ‘penso sia abbastanza stupefacente tutto quello che siamo riusciti ad ottenere in un paio d’anni’ ‘Ad esempio?’ ‘Beh, ad esempio, siamo riusciti a distruggere quasi completamente il FMI’ . Come spesso succede lei non sapeva esattamente cosa fosse il Fondo Monetario Internazionale, così le accennai che il FMI agiva di fatto come l’esattore dei debiti internazionali -si potrebbe dire come l’equivalente per l’alta finanza degli energumeni che vengono a romperti le gambe- e mi lanciai nei retroterra storici spiegando come, nel corso della crisi del petrolio degli anni 70, i paesi dell’OPEC avevano finito per versare tante di quelle loro improvvise ricchezze nelle banche occidentali che queste non sapevano più come investire tutti quei soldi; come Citybank e Chase cominciarono allora a spedire agenti in giro per il mondo per convincere politici e dittatori del terzo mondo a prendere prestiti (allora questo veniva chiamato ‘banche a gògò’); come inizialmente i tasse d’interesse fossero estremamente bassi ma poi andassero alle stelle al 20% o più a causa della politica monetaria di austerità degli USA.; come, durante gli anni ’80 e ’90 questo portasse alla crisi del debito del terzo mondo e come allora il FMI intervenisse insistendo che per ottenere rifinanziamenti i paesi poveri avrebbero dovuto abbandonare il sostegno dei prezzi sui generi di prima necessità e persino le politiche di formazione di riserve strategiche di cibo e abbandonare la sanità gratuita e l’educazione gratuita; e come tutto questo abbia portato al collasso di tutti i sostegni base per alcune delle popolazioni più povere e vulnerabili del pianeta. Parlai di povertà, del sacco delle risorse pubbliche, del collasso di intere società, di violenza endemica, denutrizione, disperazione e vite infrante. ‘Lo scopo a lungo termine era l’aministia del debito. Qualcosa del tipo del Giubileo biblico.’ ‘Per quello che ci riguardava’ le dissi ‘trent’anni di denaro che fluiva dai paesi più poveri a quelli più ricchi era fin troppo’ . Ma, obiettò lei, come se fosse evidente ‘loro hanno preso in prestito i soldi! Certamente uno deve pagare i propri debiti’.   

Il problema alla base di tutto stava qui: proprio l’assunzione che che I debiti devono essere pagati. In realtà quello che è notevole in questa affermazione ‘uno deve pagare i propri debiti’ è che anche secondo la teoria economica standard questo non è vero. Un prestatore deve accettare un certo grado di rischio…La cosa buffa è che non è il modo in cui dovrebbero operare I debiti; le istituzioni finanziarie avrebbero il compito di distribuire le risorse. Il fatto stesso che non sappiamo cosa sia il debito, la flessibilità del concetto, è la base del suo potere. Se la storia insegna qualcosa è che non c’è miglior modo di giustificare relazioni basate sulla violenza per farle sembrare morali che esprimerle in termini di debito; soprattutto perché questo in questo modo è la vittima che sembra subito che faccia qualcosa di sbagliato. I mafiosi lo sanno. E altrettanto i comandanti di eserciti invasori. Per migliaia di anni i violenti sono stati in grado di dire alle vittime che erano in debito con loro. Oggi ad esempio l’aggressione militare è definita un debito contro l’umanità e le corti internazionali, quando sono chiamate in causa, normalmente chiedono all’aggressore di pagare dei risarcimenti. La Germania ha dovuto pagare pesanti risarcimenti dopo la WW1, e l’Iraq sta ancora pagando il Kuwait per l’invasione del 90. Eppure il debito del terzo mondo, quello di paesi come il Madagascar, la Bolivia, e le Filippine sembra che vada esattamente nel verso opposto. Le nazioni debitrici del terzo mondo sono quasi esclusivamente paesi che a un certo punto sono state attaccate e conquistate da paesi europei- spesso proprio le stesse nazioni di cui sono ora debitrici. Ma il debito non è solo la giustizia del vincitore; è anche un modo di punire vincitori che non avrebbero dovuto vincer L’esempio più spettacolare è quello della Repubblica di Haiti- il primo paese povero a venir posto in uno stato di servitù da debito permanente. Haiti era una nazione fondata da ex-schiavi di piantagioni che hanno avuto la temerarietà non solo di ribellarsi- nel mezzo di dichiarazioni roboanti di diritti universali e libertà- ma anche di sconfiggere le armate che Napoleone aveva mandato per riportarli in schiavitù. La Francia sostenne immediatamente che che la nuova repubblica le doveva 150 milioni di franchi di danni per l’esproprio delle piantagioni, come anche le spese delle spedizioni militari, e tutte le altre nazioni, inclusi gli USA, acconsentirono a imporre un embargo sull’isola finché non venisse pagato. La somma era intenzionalmente impossibile (equivalente a circa 18 miliardi di dollari) e l’embargo risultatnte assicurò che il nome Haiti fosse sinonimo di debito, povertà e miserabilità per sempre.

A volte tuttavia debito sembra significare esattamente l’opposto. A partire dagli anni 80 gli USA, che avevano insistito per applicare termini rigorosi per il rimborso dei debiti del terzo mondo, si indebitarono essi stessi per una somma che eclissava di gran lunga quella dell’intero terzo mondo- una somma generata principalmente dalle spese militari. Il debito estero degli USA però prende la forma di buoni del tesoro detenuti investitori istituzionali di paesi (Germania, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Tailandia, Golfo Persico) che nella maggior parte dei casi sono di fatto protettorati militari degli USA, coperti di basi militari piene di armi pagate con quelle stesse spese in debito’.…”

2- il ritorno del re
Ma ci si potrebbe chiedere: se la teoria economica è ridotta così male, a cosa affidarsi per capire l’economia?
Penso la domanda sia mal posta: il passo di Graeber citato sopra dove descrive la storia di Haiti ci dice dell’economia reale assai più di un trattato; e questo ci insegna che parlare di economia avulsa dal mondo reale è grave errore; ed è intenzionale, chè la teoria neoclassica nasce proprio con l’intento di mascherare sia l’origine del valore nello sfruttamento dei lavoratori sia la violenza necessaria a mantenerlo; ivi compresa la violenza degli stati imperialisti sugli altri.
Per chiarire meglio il mio punto di vista faccio un esempio tratto ancora una volta da un economista onesto (nonostante il Nobel) come Krugman, che rispetto ai bitcoin (e alla loro recente crisi) chiede: ‘ma in fondo, c’è un qualche uso pratico dei bitcoin che non sia il riciclare denaro sporco?’: domanda retorica ma significativa, perché quello che ci dice in realtà è che l’economia non è in grado di capire i bitcoin. Infatti alla base dei bitcoin -con tutti i loro limiti e difetti, che ne fanno sconsigliare l’uso a qualsiasi persona ‘normale’- sta proprio il tentativo di uscire dalle regole dell’economia ufficiale, dell’uso del denaro inscindibile dalla coercizione. (Valga ad esempio il fatto che nella ristretta comunità che li ha originariamente generati era sufficiente che a un certo momento qualcuno detenesse poco più della metà per appropriarsi di tutto; e nonostante questa condizione si sia verificata più di una volta nessuno ne ha mai approfittato).
Così come la sociologia non ha una teoria generale, ma un comune oggetto e tanti metodi per studiarlo, propongo quindi di abbandonare una volta per sempre la ‘teoria economica’ come oggi ci viene presentata e tenerci poche cose:
-le riflessioni di Keynes sull’incertezza e la difficoltà di misurazione come criteri fondamentali per valutare la realtà economica;
-alcune formule empiriche (anche se millantate come alta matematica) che di volta in volta ci spiegano alcune contingenze economiche,
-delle tavole delle interdipendenze settoriali alla Leontief
-e la teoria del valore-lavoro di Marx, che è il risultato più alto dell’economia classica e ci spiega come nasce il profitto; fra l’altro il sistema di Marx, anche se non è possibile mantenere la sua condizione dell’eguaglianza complessiva tra somma dei valori e somma dei prezzi, (anche se tanto Sraffa quanto altri come Pala ne recuperano la sostanza come processo storico di accumulazione) ci dice molto sui percorsi dell’economia, anche attraverso la dialettica proprio fra questi due elementi.
Val la pena di citare ancora una volta il passo dei Grundrisse sulle macchine, dove dice che il valore -e con esso il lavoro umano quindi- è ormai base ben misera per misurare la ricchezza; se questo implica la sparizione della classe operaia come centro delle contraddizioni e con questo del suo ruolo centrale come soggetto rivoluzionario non comporta però la sparizione di ogni soggetto rivoluzionario, anzi: significa più cose contemporaneamente:
-l’allargamento dell’estrazione del plusvalore a tutte le branche e livelli del percorso delle merci -dalla produzione alla distribuzione alla circolazione- come prima fase di autonomizzazione del capitale dal lavoro;
-la perdita del ruolo progressivo del capitale nel rivoluzionamento continuo dei mezzi di produzione (scienza inclusa);
-la perdita della centralità della fabbrica (processo compiuto solo in Occidente, laddove Cina e India funzionano come enormi fabbriche decentrate) comporta anche un carattere caotico delle contraddizioni e delle lotte, prive di quel riferimento unificante, di contraddizione ma anche di controllo; e questo a sua volta comporta sviluppi caotici della gestione del potere, con ruolo maggiore delle forze esterne come esercito e polizia (ruolo accentuato da una necessità di controllo a distanza di una forza lavoro decentrata, che è uno degli elementi dell’attuale guerra silenziosa tra USA e Cina: lo strangolamento delle capacità produttive nell’IA da parte degli USA non dice solo ‘non vogliamo concorrenza’ ma anche ‘dovete limitarvi a fornirci merci a basso costo da cui estrarre sovraprofitti’).
-epperò implica anche, una volta rovesciato quel potere, la possibilità di una gestione dolce -non coercitiva- di forze produttive ormai abbastanza sviluppate da poter fare a meno del socialismo e del suo controllo su un lavoro necessario ormai ridotto a termine minimo.
Ma se vogliamo aver successo su questa strada bisogna però fare prima un po’di pulizia, in primis dei paraocchi che ci hanno cucito addosso, poco a poco.

IL LIBRO CONTRO LA MORTE

Premessa

Il saggio qui di seguito è stato pubblicato la prima volta sulla rivista online Overleft nel 2021, nella Rubrica Dopo il diluvio: www.overleft.it.

L’ultimo libro di Elias Canetti pubblicato in Italia ha un titolo ovvio se si pensa a gran parte della sua opera: un incessante lavorio attraverso miti, aforismi, sentenze fulminanti, narrazioni, tutti rivolti a una non accettazione della morte. Questo tema è presente anche nei momenti più apparentemente leggeri dell’Autobiografia. Ciò non toglie che di fronte a tale perentorietà non si rimanga ugualmente sconcertati e la critica, forse per imbarazzo, ha trovato diversi modi per aggirare il problema o tenerlo sullo sfondo senza renderlo troppo minaccioso. Il merito dell’edizione italiana, curata da Ada Vigliani, è invece proprio quello di prendere il toro per le corna. Il saggio di Pater von Matt, postfazione al testo, colma una lacuna e apre nuove prospettive alla critica canettiana. Il suo merito sta nel prendere l’autore sul serio e alla lettera, accettando il confronto con questo apparente assurdo che è il proposito di non cedere alla morte, di non accettarla, anzi di avanzare l’utopia di un’umanità che prima o poi riuscirà a liberarsene. Matt evita di parlare di metafora, parola che ormai serve spesso come passpartout quando si vuole scansare un argomento spinoso. Canetti, peraltro, è impregnato di cultura ebraica, pur essendo critico di molti suoi aspetti; in quella cultura il ruolo della metafora non ha la preminenza che ha in altre. La predilezione di Canetti per l’aforisma, la sentenza breve che ha alle volte anche forti connotati narrativi, pesca a piene mani proprio in quella tradizione: dalla storiella più o meno comica, alla parabola. Se mai a volte compare la similitudine.

L’idea di un libro dedicato interamente a questa tematica, peraltro, accompagnò Canetti per l’intera vita. Peter von Matt scrive di taccuini pieni di appunti e centinaia di matite consumate, tanto che l’inedito di Canetti sembra assumere le dimensioni del famoso baule di Pessoa dal quale continuano a uscire scritti, come peraltro conferma la figlia Johanna in una recente intervista dove parla del rapporto del padre con la religione:

«Elias Canetti non era credente, ma dedicò alla religione molte delle sue riflessioni, circa 1.500 pagine. Nel 2019 verrà pubblicato un libro con le più importanti». Ma a quante pagine ammontano in totale gli appunti canettiani mai pubblicati? «Tra le dodici e le quindicimila»

In realtà, poi, Canetti lo ha lasciato incompiuto il suo libro sulla morte, probabilmente volutamente e anche in questo paradosso occorre andare a leggere.

Il saggio di von Matt cerca di collocare l’opera e l’intento di Canetti accennando ad altre imprese letterarie altrettanto ardue, ma a un certo punto della sua disamina, consiglia il lettore di non seguire oltre un certo limite lo scrittore nel suo proposito e di dedicarsi piuttosto alla ricchezza del testo. Si tratta di un consiglio ragionevole, ma solo in ultima istanza perché la curiosità rimane per quello che sembra un vero e proprio enigma. Una domanda ovvia si pone: perché un progetto così radicale e apparentemente irricevibile nella sua concretezza fattuale? Siamo di fronte alla reincarnazione di un Orfeo impazzito che vuole sbarrare le porte dell’Ade e farli ritornare tutti in vita? Oppure Canetti pensa forse alla scienza (non dimentichiamoci che fu pur sempre un chimico mancato), oppure bisogna cambiare radicalmente il tipo di domanda se si vuole tentare di capire? Von Matt stesso dice che forse occorre allontanarsi dal perché ed è quello che ho tentato di fare, abbandonando io stesso la domanda che mi sono posto per prima.

Una grande scrittura contiene sempre in sé anche la scelta felice di un punto di vista particolare sul mondo o su di sé o su qualsivoglia cosa, cioè un luogo da cui lo scrittore parla e scrive  e che in qualche caso è stato addirittura il primo a scoprire.

Mi è venuto in mente, allora, un gioco molto semplice: proviamo a pensare a qualche grande autore, per esempio i primi che sono venuti in mente a me, ma ognuno può metterci quelli che crede. Da dove parla e scrive Baudelaire? Facile dirlo: dalle viscere di Parigi, da una città notturna o raramente albeggiante, dalle sue strade più malfamate o dal camerino dove scrive al lume di una lampada a petrolio, più o meno in compagnia dell’oppio. Insomma se abbiamo bisogno di dialogare con lui, perderemmo un po’ di tempo ma sapremmo dove trovarlo ed è stato il primo a scoprire la poeticità della grande città tentacolare. Quanto a Jane Austen non può che essere nel salotto di casa o in quello di un’amica con cui si intrattiene bevendo il te. Per non parlare di Hegel: anche quando dorme non può che essere alla sua scrivania, oppure in strada, lungo le poche centinaia di metri che lo separano dall’aula universitaria.

Da dove parla e scrive Canetti?

Qui il pensiero si blocca e anche le risposte più semplici che si affacciano (i caffè di Vienna, quelli di Berlino, il mitico tram delle scorribande serali verso il Grinzig), svaniscono subito ricordando come Canetti, presente ovunque, sembra non venga mai notato da qualcuno. È lui a dirci che frequenta quei luoghi, ma era proprio vero? E che dire della sera in cui ritornando a casa dal Grinzig s’imbatte in un delinquente comune, un ladro e riesce a intrattenerlo, con la sua conversazione; anzi a irretirlo, tanto che alla fine potremmo persino pensare che gli abbia rubato lui il portafoglio piuttosto che il contrario? Su Brecht ne dice di tutti i colori ma in Brecht non vi è alcun cenno ai loro incontri. E nel caffè di Vienna dove si scaglia una volta in modo veemente contro la pulsione di morte freudiana è proprio lui a parlare, oppure quella strana figura silenziosa e cupa  – una sorta di Sarastro piombato in mezzo a noi – che se ne sta solitario, seduto a un tavolo di fronte a quello dove avviene la conversazione? Se non avessimo le fotografie che lo ritraggono un po’ ingessato mentre ritira il Nobel all’Accademia di Svezia si sarebbe tentati di dire che Canetti è un’invenzione della letteratura europea novecentesca, una specie di parto spontaneo della medesima, piuttosto che un autore in carne ed ossa. Alla reiterazione della domanda – da dove parla e scrive Canetti? – si sarebbe allora tentati di rispondere che la sua presenza nel mondo letterario e nel mondo tout court sembra governata dal principio di indeterminazione di Heisenberg e da tutto quella che la fisica einsteiniana e post einsteiniana e quantistica ha scoperto. Lo stesso può dirsi della sua morte, che sembra essere un’ovvia conseguenza del suo grande progetto di lotta contro la medesima. Canetti morì nel sonno e dunque in un certo senso ha vinto la sua battaglia perché la morte stessa ha dovuto sorprenderlo per poterlo afferrare e si potrebbe persino arrivare a dire che se si fosse accorto della sua presenza avrebbe trovato il modo di sgattaiolare via. Allora, forse il suo incredibile progetto va visto non tanto alla luce del perché ma del da dove. Solo ponendosi in un luogo introvabile se non dalla morte medesima, Canetti poteva cogliere l’orizzontalità della sua scandalosa presenza e rivolgersi orizzontalmente a tutti e a ciascuno con il suo dono: perché pensare di sconfiggere la morte è un grande atto d’amore nei confronti dell’umanità e degli animali, che Canetti abbraccia nel suo sguardo riservando loro alcuni fra i suoi più memorabili aforismi:

Nel riguardo degli animali ciascuno di noi  è un nazista. (pag. 47.)

L’umanità di Canetti, però, non è intesa come un aggregato generico (un morto e un altro un morto non fanno due morti egli scrive) ma un tutti e un ciascuno. La matematica non ha per lui alcun valore e la conta dei morti, da cui comincia il libro, è uno dei suoi atti d’accusa più severi. Non si contano i morti e già il farlo è un tradimento e un cedimento, perché trasforma il defunto in una statistica. ed è questo il senso della frase apparentemente incomprensibile che chiude il primo brano del libro, dove i numeri sono scelti a caso per dire che se si cominciano a contare i morti, non c’è più limite fino  alle centinaia di migliaia e ai milioni; la mancanza del limite porta all’indifferenza. 

La guerra come pretesto e la natura

Gli appunti che compongono il libro partono dal 1942 e c’è da domandarsi quale ruolo abbia giocato la guerra nel proposito di scriverlo. Certamente tanto, ma meno di quanto si possa credere. L’inizio di Massa e potere, cioè il libro che può essere accostato a questo per molti aspetti, Canetti cominciò a scriverlo nel 1920 e lo pubblicò con scarso successo nel 1960. Lo scrittore era rimasto affascinato dalla trasformazioni che avvengono negli individui quando fanno parte di una massa: siamo nella Vienna degli anni ’20, uno dei centri europei del movimento operaio, anche se quella storia è meno conosciuta di quella tedesca o della repubblica dei Consigli di Bela Kun in Ungheria. L’atteggiamento di Canetti, non ostile alle lotte operaie, è tuttavia catturato da altro, ma anche dalla necessità di rispondere al convitato di pietra che sta alle spalle di Massa e potere: Sigmund Freud. La sua irriducibile non accettazione della pulsione di morte è uno dei motori del libro ma si sbaglierebbe leggendo in tale atteggiamento una sorta di formazione reattiva nei confronti del concittadino, un atteggiamento peraltro comune a molti nella Vienna del tempo. Lo scenario che Canetti apre con la sua ricerca antropologica, infatti, travalica del tutto l’intento polemico iniziale, così come toglie di mezzo la guerra come spunto superficiale e ispiratore del Libro contro la morte. Il sentimento bellico occupa una parte rilevante del libro, ma lo occupa altrettanto in tutti gli altri libri di Canetti, risultando così del tutto sganciato dalla contingenza storica per affondare le sue radici nelle costanti antropologiche e nella loro lunga durata. Basta una citazione come quella che segue a certificarlo:

Le guerre si fanno per amore della guerra. Finché non si ammetterà questo non si riuscirà mai a combattere veramente contro le guerre.

Se mai è un altro l’aspetto sconvolgente di questo libro: in nessuna parte viene attestato che la morte sia un evento naturale. Non che Canetti lo neghi, ma neppure lo sottoscrive, piuttosto ne tace. Se pensiamo invece ai momenti di vera e propria invettiva, a volte veemente, non è la natura a essere chiamata in causa, ma altro. Prima di tutto chi uccide, in primis in guerra, in secondo luogo dio stesso e le religioni:

La promessa d’immortalità basta a mettere in piedi una religione. Il puro e semplice ordine di uccidere basta a sterminare tre quarti dell’umanità. Che vogliono gli uomini’ vivere o morire’? Vogliono vivere e uccidere  e finché lo vorranno dovranno accontentarsi delle varie promesse di immortalità.

Tutti i morenti sono martiri di una futura religione universale.

Infine a pag. 46:

Dio, il paranoico che annienta gli uomini perché dagli uomini si sente perseguitato. D’improvviso i risorti in tutte le lingue accusano dio, il vero giudizio universale.

Oppure è direttamente la morte cui si rivolge come se fosse un personaggio e seppure parlando in terza persona. La natura in quanto tale rimane un altro enigma al centro di quest’opera. Cosa pensa davvero Canetti?

Ritenere che la morte faccia parte del ciclo organico di ricambio della vita (come viene mirabilmente espresso in una poesia dell’Antologia di Spoon River intitolata Paul Nitze) di certo egli non lo può accettare, ma non parlandone direttamente, ci lascia in una zona sospesa: la morte è o non è un evento naturale? Una risposta definitiva su questo nel libro non c’è, sebbene in un passaggio, ma del tutto incidentalmente, Canetti affermi cautamente la non naturalità della morte. Forse la risposta sta in questo. Egli tace su questo tema perché in realtà le morti naturali sono pochissime rispetto alle altre morti. Come si può parlare di morte naturale per un bambino che dalla nascita ha conosciuto solo bombe e guerre? Come si può parlare di morte naturale quando i tassi di inquinamento da polveri sottili ammazzano centinaia di migliaia di persone ogni anno?

A quest’ultimo proposito viene in mente ancora una volta Canetti con la sua prolusione del 1935 sull’opera di Broch, dove immagina che nel mondo futuro sarà sempre più difficile respirare. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

Per tutte queste ragioni forse noi non sappiamo più bene che cosa sia una morte naturale e potremo saperlo solo alla fine di quel percorso in cui tutte le altre cause di saranno eliminate a cominciare dalle guerre. Solo allora potremo metterci di fronte alla natura ponendole il quesito, ma fino a quel momento non abbiamo più il diritto di farlo.

DA UN ANNO ALL’ALTRO

Fernando Pessoa ortonimo

Viaggiare! Perdere paesi!

Essere un altro continuamente,

affinché l’anima non s’inchiodi

a vivere e a vedere e basta!

Non essere neppure mio!

Sempre avanti perseguendo

La mancanza di ogni scopo

E la smania che lo accompagna!

Questo sì che è viaggiare.

Ma io viaggio senz’altro bagaglio

Che il sogno del viaggio.

Il resto è solo cielo e terra.

                   ***

Onda che, arrotolata ritorni,

piccola, al mare che ti ha portato,

e nell’indietreggiare ti frastorni

come se il mare nulla fosse,

perche porti con te

solo il tuo cessare,

e nel tornare al mare antico

non ti porti il mio cuore?

Ce l‘ho da così tanto tempo

Che mi pesa di sentirlo.

Portalo nel rumore che ha misura

Con cui ti sento fuggire!

              ***

Gatto che giochi per la via

come se fosse il tuo letto,

invidio la sorte che è tua,

ché neppur sorte si chiama.

Buon servo di leggi fatali

Che reggono i sassi e le genti,

che hai istinti generali,

e senti solo quel che senti;

sei felice perché sei come sei,

tutto il niente che sei è tuo.

Io mi vedo e non sono mio,

mi conosco e non sono io.

Fine d’anno

Jorge Luis Borges

Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.

          

Dall’antologia di Spoon river:

 Knowolt Hoheimer

Io fui il primo frutto della battaglia di Missionary Ridge.

Quando sentii la pallottola entrarmi nel cuore

mi augurai di esser rimasto a casa e finito in prigione

per quel furto di porci di Curl Trenary,

invece di fuggire e arruolarmi.

Mille volte meglio il penitenziario

che avere addosso questa statua di marmo alata,

e il piedistallo di granito

con le parole “Pro Patria”.

Tanto, che vogliono dire?

               ***

Sarah Brown

Maurizio, non piangere, non sono qui sotto il pino.

L’aria profumata della primavera bisbiglia nell’erba dolce,

le stelle scintillano, la civetta chiama,

ma tu ti affliggi, e la mia anima si estasia

nel nirvana beato della luce eterna!

Va’da cuore buono che è mio marito,

che medita su ciò che lui chiama la nostra colpa d’amore: –

digli che il mio amore per te, e così il mio amore per lui,

hanno foggiato il mio destino – che attraverso la carne

raggiunsi lo spirito e attraverso lo spirito, pace.

Non ci sono matrimoni in cielo,

ma c’è l’amore. 

            ***

Edmund Pollard

Vorrei aver immerso le mie mani di carne

Nei fiori tondeggianti pieni di api,

nello specchiante cuore di fiamma

della luce vitale,un solo d’estasi.

A che servono petali o antere

O le aureole? Larve, illusioni

Del cuor profondo, la fiamma centrale!

Tutto è tuo o giovane che passi;

entra nella sala del banchetto pensandoci;

non sgattaiolarci come reso dal dubbio

se tu sia il benvenuto – il festino è per te!

E non prendere solo un poco, rifiutando il resto

Con un timido “grazie” quando sei affamato.

E’viva la tua anima? Allora, che possa nutrirsi!

Non lasciare balconi che tu non abbia scalato.

Né seni nivei che tu non abbia premuto;

Né teste d’oro di cui dividere il guanciale;  

né coppe di vino, quando il vino sia dolce;

né delizie del corpo o dell’anima.

Tu morrai, non c’è dubbio, ma morrai vivendo

In profondità azzurre, rapito e accoppiato,

baciando l’ape regina, la Vita!

LA POESIA DI PIER PAOLO PASOLINI

Introduzione

La produzione poetica di Pasolini copre l’intero arco della sua vita ed è vastissima. La prima parte è dominata dalle opere in dialetto friulano: da Poesie a Casarsa, che è del 1942 fino a La meglio gioventù del 1954. È il Pasolini che tutti amano e quello su cui la critica sembra unanime, fino ad attribuirgli il merito di avere rilanciato la poesia dialettale in Italia. Che Pasolini le abbia ridato rango e valore è vero e non va dimenticato che la poesia dialettale è stata un oggetto di attento studio critico da parte del poeta: dalla fondazione, insieme a Nico Naldini e altri dell’Academiuta de lengua furlana, fino alla pubblicazione, nel 52, di un libro sulla poesia dialettale del 900.

Senza nulla togliere al valore poetico di queste raccolte, ritengo che tale incondizionato elogio sia anche un modo per mettere la sordina alla poesia successiva. La poetica in cui sono immerse le due opere citate è ancora quella dell’ermetismo; ma l’uso del friulano a ovest del Tagliamento, un lingua che era solo orale, conferisce all’opera un valore altamente sperimentale. Quanto ai temi e all’atmosfera di queste liriche si può dire che il Pasolini di Casarsa non ha ancora conosciuto il male del mondo, l’ombra; la poesia riflette perciò uno stato di innocenza vera, pura, non letteraria, la stessa che si avverte anche in Sandro Penna. Solo successivamente il mondo di Casarsa diventerà una sorta di mitologia e al tempo stesso stimolo per la ricerca di un universo arcaico dentro la maglie della modernità: è un mondo che Pasolini cercherà e penserà di trovare (quasi sempre deluso), nelle borgate romane, poi alle Mura di Sanaa, in Africa e in India, infine nell’immaginario dei suoi film, specialmente in quelli più rivolti al passato: a cominciare dalla Trilogia dell’amore, ma anche nel Vangelo secondo Matteo. L’incanto che pervade le poesie di Casarsa è quello della fiducia primaria, quella che si ha per la madre.

Il darsi del male proprio nel luogo dell’Eden, prima con la tragica morte del fratello, poi con l’accusa di omosessualità e l’espulsione dal PCI, sarà il trauma che segnerà tutta la vita di Pasolini e una ferita che non si rimarginerà, ma verrà rielaborata in mille modi.

In lingua italiana

Il Pasolini in lingua italiana esordisce nel pieno del dibattito letterario del tempo, in un momento cruciale del dopoguerra. Il neorealismo, che peraltro aveva dato poco in poesia, si era ormai esaurito anche in narrativa. Pasolini non rifiuta del realismo gli elementi popolari e la tensione etica e civile; rifiuta invece la sua angustia ideologica, ma se si legge Scherzo Shakespeariano, in cui almeno nella parte iniziale rifà il verso al discorso di Marco Antonio in morte di Giulio Cesare, si potrà constatare come egli non rifiutasse i contenuti drammatici ed epici di quell’esperienza, ma rimproverasse semmai una certa acquiescenza successiva da parte di alcuni suoi protagonisti all’andazzo dei tempi; anzi, in quel testo, sembra proprio attribuire a questo accomodamento la fine del neorealismo.

Quando Pasolini sta per esordire in lingua italiana i poeti dominanti sono Quasimodo, Ungaretti e Montale; ma è la poetica dell’ermetismo a occupare ancora la scena. Altri protagonisti come Bertolucci, Caproni e Luzi sono più defilati, mentre la nascente Linea Lombarda non sarà mai vista da Pasolini come un’alternativa credibile alla poetica ermetica. Egli entra nell’agone con idee molto chiare per quanto riguarda la pars destruens: la necessità di superare l’ermetismo, ma anche il petrarchismo, di cui peraltro l’ermetismo è espressione. Pasolini è il primo a parlare di plurilinguismo, di contaminazioni fra registri alti e bassi, guarda al Dante dell’invettiva, alle commistioni fra lingua letteraria e lingua popolare. Sulla rivista Officina, da lui diretta insieme a Fortini, Roversi, Romanò e Leonetti, esordiscono Sanguineti e Pagliarani e altri che daranno poi vita al Gruppo 63, la neo avanguardia da cui Pasolini prenderà aspramente le distanze. Tuttavia, sarà un rapporto mai del tutto risolto né nel Pasolini poeta, né nel critico, anche perché fu proprio lui il primo a parlare della necessità di un neo avanguardismo, espressione che successivamente sentirà ritorcersi contro di lui. Questo rapporto conflittuale, complesso e non risolto, è a mio avviso anche un limite che influenzerà negativamente la sua ricerca poetica.

Il problema è che le ragioni che spingevano Pasolini a superare l’ermetismo erano diverse da quelle che ispiravano Sanguineti e tutto il Gruppo 63. Lo testimoniano sia gli scritti teorici, La libertà stilistica, per esempio, un saggio pubblicato proprio su Officina, ma anche la sua prima opera pubblicata in lingua italiana, proprio Le ceneri di Gramsci, (1957), che resta uno dei vertici dell’opera poetica, insieme a La religione del mio tempo e in parte anche Poesia in forma di rosa, che è del 1961.

Nel saggio ricordato, l’idea di sperimentalismo che viene avanzata è quella di una lotta innovatrice nella cultura e nello spirito. È un nuovo orizzonte culturale quello che Pasolini auspica e non semplicemente il rinnovamento della lingua della poesia; nel dire questo, egli pone per primo la necessità di uscire dal Novecento. Questo a me pare un punto d’irriducibile differenza con la neo avanguardia.   

Quanto a Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo, anch’essi sono esempi della distanza che separava Pasolini dalla sperimentazione neo avanguardista. Gli elementi salienti di differenziazione mi paiono tre: la scelta poematica, la materia epica seppure spuria, il corto circuito fra scelta metrico stilistica improntata a un forte legame con la tradizione (la terzina dantesca, l’endecasillabo) e un lessico popolare che recupera tutto il meglio dello stesso realismo; l’assenza in Pasolini di ogni intento volto allo scardinamento sintattico della lingua e ad un’esaltazione pirotecnica del significante. La valenza sperimentale, invece, si colloca proprio al livello in cui Pasolini la voleva: un rinnovamento dello spirito che indicasse un orizzonte culturale nuovo rispetto a quello in cui erano nati l’ermetismo in periodo fascista e il neorealismo del dopoguerra.

Nonostante gli elementi spuri a me pare che le due opere e in parte anche Poesia in  forma di rosa siano da riportare proprio al genere epico, sia per la materia (la storia, la società, la condizione della comunità e non importa, a questo proposito, che Pasolini sentisse la fine di questa storia e ne vivesse la tragicità), sia per le scelte metriche; spuri perché segnati in contro canto da una memoria soggettiva interiore, quasi intimista (quello che è stato definito un canzoniere intimo alla Machado), estranea al genere epico per come lo conosciamo, se manteniamo ferma nel tempo la definizione stessa di epica. Chi ha detto però che il genere epico non possa, nel tempo, assumere al proprio interno contenuti e forme che non gli appartenevano all’origine? La stessa poesia lirica si è rivolta a temi che non le erano tradizionali. Non bisogna poi dimenticare che per Pasolini ciò che altri potevano leggere come elementi di un canzoniere intimo, venivano da lui considerati in ben altro modo. Per lui la condizione di omosessuale escluso non è l’irruzione nella partitura della grande storia di un elemento di biografismo, o non è semplicemente questo (se mai lo diventa nei momenti di caduta della poesia); bensì la metafora di una più generale emarginazione dei popoli del terzo mondo, dei borgatari romani, dei sotto proletari ecc. ecc. Discutibile o meno che sia tale convinzione, il punto di vista soggettivo che Pasolini introduce in contro canto non ha nulla a che vedere a mio avviso con un recupero dell’io biografico dell’artista.

Antimoderno

C’è infine un ultimo elemento da considerare poiché in questo Pasolini è stato davvero un caso unico nel secondo dopoguerra, per gli artisti della sua generazione: parlo della sua irriducibile anti modernità e della ricerca di mondi arcaici che lo portavano sempre più lontano dall’Occidente. Per anti modernità costituzionale intendo anche il fatto che Pasolini non ha mai introiettato l’idea della fine del mandato, cioè la convinzione che nella società moderna al poeta non spettasse più il compito di rappresentare la voce profonda di un’epoca o di un popolo. Questo mandato Pasolini lo ha conservato e praticato in pieno, si è posto senza remore e vergogne come un maître à penser in quanto artista. Un altro aspetto altrettanto importante della sua anti modernità è l’avere inseguito un’idea di opera totale, attraversando tutti i mezzi espressivi per approdare anche al cinema, certamente il più moderno di tutti, ma sempre in un’ottica che definirei leonardesca, piuttosto che a valorizzare l’apporto della tecnica nel senso della riflessione di Benjamin. La sua non accettazione del moderno, che in alcuni momenti può essere certo viziata da un volontarismo ingenuo, ne fa un autore lontano da un altro cliché che gli è stato indebitamente attaccato addosso: quello di essere un maledetto. C’è in lui troppo senso di colpa da un lato e troppo scandalo per la tragicità della secolarizzazione per presupporlo. Nel maledetto, almeno in quello moderno che ha in Rimbaud il padre (Rimbaud che – sia detto fra parentesi – Pasolini non amava), c’è sempre il disincanto, mentre in Pasolini c’è il dolore mai risolto, la ferita aperta che non si chiude mai. Di questo risentirà sempre la sua poesia, anche come limite; ma l’estetica del disincanto che poi finirà di passo in passo nel nichilismo non lo attirerà mai, neppure nei momenti più narcisisti che pure non mancano.

Il maledetto moderno è un dandy disincantato che fa della scissione della personalità non una materia di problematica sofferenza, bensì il suo punto d’onore. I grandi maledetti della contemporaneità sono i tecnocrati, gli gnomi della finanza, quelli che si travestono dal giovedì sera alla domenica da maledetti, ma che rientrano nell’ordine (anzi ne sono le colonne portanti) ogni lunedì mattina.

Rispetto a questa irriducibile anti modernità è pur vero che nella parte finale della sua vita Pasolini si sentiva sconfitto ed era giunto alla convinzione che la sua disperata vitalità non bastasse più. Vedeva i suoi amici intellettuali e gli altri poeti in preda a una deriva inarrestabile, vedeva l’omologazione venire avanti senza contrasti. È il periodo più oscuro per me della sua produzione poetica, quello in cui sembra arrendersi alle ragioni della neo avanguardia che pure aveva così aspramente combattuto. Trasumanar e organizzar è un’opera in cui Pasolini sembra rinnegare molto della sua opera poetica precedente in lingua italiana. Nella parte finale c’è una cesura (che comincia di già in Poesia in forma di rosa), che del resto Pasolini aveva anche chiaramente indicato. Nel motivare la sua scelta quasi esclusiva per il cinema Pasolini aveva affermato che riteneva la lingua della poesia e la poesia stessa fossero state sconfitte dalla modernità. Per questo parlo di una resa per Trasumar e organizzar. In quest’opera l’impoetico, l’estetica del brutto, il verso libero senza misura, quasi con un’esibizione, come se stesse dicendo alla neo avanguardia, vedete che se voglio queste cose le so fare anch’io, l’andare verso quella poesia in prosa, ecco tutto questo mi sembra una sorta di resa. Così come un’altra forma di resa mi sembra il suo ritorno tardivo al dialetto friulano; La nuova gioventù, pubblicata nel ’75 pochi mesi prima della morte, è un ricamo manierista intorno alle due opere del suo esordio. Era convinto che la sua fosse stata una battaglia perduta, ma se si guarda a quello che aveva fatto in così pochi anni, c’è da rimanere ammirati. Forse era vero che all’interno di quella vicenda del dopoguerra Pasolini avesse dato fondo a tutte le risorse a sua disposizione per contrastare la logica dei tempi; anche se tutto questo è comprensibile, tuttavia vi è un fondo oscuro nella parte finale della sua vita artistica, quasi una metafora, il presentimento di una fine tragica fine.

DEL SILENZIO E DEL RISO

Chiamato a pronunciarsi sul paradosso di Zenone, il cinico Diogene di Sinope non disse nulla, si alzò in piedi e si mise a camminare.

Le fonti non dicono se i presenti scoppiarono a ridere, oppure se considerarono imbarazzante o addirittura irriverente il suo comportamento; fatto sta che, nonostante la grande popolarità di cui Diogene godeva, non credo che i presenti  considerassero il camminare una confutazione del famoso paradosso. Del resto Diogene era noto per essere lui medesimo un paradosso vivente, per le sue stranezze (viveva in una botte e non giudicava disdicevole masturbarsi in pubblico) e anche per le sue battute fulminanti.

I paradossi logici svolgevano un ruolo essenziale nella cultura greca pre filosofica, così come – in epoca ancora precedente – lo scioglimento dell’enigma. Il paradosso di Zenone continuò a essere ritenuto inconfutabile da un punto di vista logico fino ai nostri giorni più o meno e secondo alcuni i paradossi logici (non solo questo ma anche gli altri di Zenone, meno famosi ma altrettanto importanti) sono inconfutabili e basta. Secondo altri, non lo sono perché scritti in modo tale da non esserlo, dal momento che la loro formulazione serviva ad altro e cioè ad allenare la mente a ragionare. In rete si trovano molti siti che discutono sui molti tentativi di confutazione ma anche di adesione all’idea della inconfutabilità.

Personalmente trovo suggestivo e geniale il ragionamento di Bertrand Russell (è una confutazione oppure no?), che sostiene la seguente tesi che riporto nella sua enunciazione e non nelle sue formule matematiche (calcolo infinitesimale) che peraltro si trovano facilmente in rete. Due insiemi possono essere divisibili in infinite parti ma questo non esclude che uno dei due sia più grande dell’altro. Abbandoniamo momentaneamente il filosofo inglese.

De Ruggiero, nella sua monumentale Storia della filosofia, prende invece sul serio il gesto compiuto da Diogene e lo considera come una vera e propria confutazione.

Il primo a cimentarsi, in epoca filosofica, con il paradosso di Zenone fu nientemeno che Aristotele. La sua argomentazione è la seguente: esiste uno stato potenziale del movimento ed esiste il movimento in atto. Sul piano potenziale il ragionamento di Zenone era inconfutabile e quindi la distanza fra Achille e la tartaruga poteva essere suddivisa in segmenti sempre più piccoli all’infinito; ma questo non era più valido se dallo stato potenziale si passava al movimento in atto. In apparenza, tale ragionamento sembra avere tutti i crismi del buon senso, ma apre almeno tanti problemi quanti ne risolve. La sua argomentazione potrebbe essere considerata come la spiegazione logica e argomentata del comportamento di Diogene di Sinope: camminare è movimento in atto. Aristotele dunque, nella sua confutazione, introduce surrettiziamente il concetto di esperienza o di potenza in atto per confutare un’argomentazione di tipo logico, il che era considerato da molti un trucco, almeno ai tempi suoi. Personalmente ritengo che la scienza sperimentale abbia radicalmente mutato le cose, ma so altrettanto che molti filosofi non sarebbero d’accordo e mi tirerebbero le orecchie. Tuttavia, se stiamo parlando di Aristotele e cioè di un tempo in cui il metodo sperimentale era di là da venire, la confutazione del nostro appare inconsistente. Perché allora Aristotele usa tale argomento piuttosto grossolano? Lasciamo per il momento la domanda in sospeso e rivolgiamoci di nuovo al contesto del paradosso di Zenone e anche di Diogene di Sinope.

Uno dei nodi del problema sta nella possibilità o meno di considerare il paradosso di Zenone un’argomentazione di tipo sofistico. Lui e altri proprio a quella corrente filosofica vengono di solito ascritti, ma Giorgio Colli, per esempio, avanza dei dubbi che sono venuti anche ad altri. Il contesto è quel momento assai fertile ma anche avvolto più di altri in una sottile nebbia, nella storia del pensiero greco. Gorgia, molto probabilmente, non era un sofista, ma un uomo sgomento di fronte a un’evidenza sconvolgente. Come gli antichi che si dedicavano allo scioglimento dell’enigma, egli riteneva che la verità fosse alla portata degli esseri umani, ma che essa non andasse cercata per quella via (l’enigma e la sua decifrazione), ma tramite la dialettica, che per lui era l’arte di condurre il discorso e non ciò che viene subito in mente a noi che siamo post hegeliani. Di fronte ai paradossi del linguaggio e constatato come con esso si può sostenere qualsiasi cosa e anche il suo contrario, Gorgia comprese che neppure per quella via e forse per nessun’altra la verità fosse alla portata degli umani. Non solo: quanto più si era abili nel condurre il discorso, tanto più si correva il rischio di finire in argomentazioni e paradossi che allontanavano dalla verità altro che raggiungerla! La sofistica è l’arte del paradosso, ma non credo che Gorgia lo fosse e infatti recenti studi affermano proprio questo: manca in lui il compiacimento (tipico dei sofisti) di rivoltare la frittata a proprio piacimento. In Gorgia e nei sui amici è lo sgomento a prevalere. Partiti lancia in resta alla ricerca della verità, scoprono la menzogna! Con Gorgia svanisce definitivamente l’illusione di possedere la Sofia, cioè la Sapienza: da quello scacco nacque un lavorio intermedio del pensiero che sfocerà nella filo-sofia e darà vita alla setta degli amanti di Sofia: i filosofi.

Con Aristotele siamo già nel pieno dell’epoca filosofica, ma la filosofia è ancora giovane e come tutti i giovani è anche un po’ arrogante. Non mi riferisco qui all’età anagrafica di Aristotele e alla sua personale arroganza, che tuttavia un po’ emerge nella confutazione del paradosso di Zenone. Il nostro non se ne cura perché pensa che si tratta di argomentazioni che non vanno resuscitate. Mi pare persino di sentirlo parlare e dire in sostanza a suoi discepoli: Ancora con queste sciocchezze della Sofia, degli enigmi e dei paradossi? La sua argomentazione infatti è un po’ tirata via, come quando non si dedica troppa importanza a una cosa, altrimenti si sarebbe accorto di avere introdotto in una confutazione logica un argomento esperienziale che non poteva essere usato: e infatti non mi risulta che qualcuno abbia preso sul serio la sua confutazione, probabilmente neppure lui stesso, così rigoroso nel porre limiti e barriere alle enunciazioni.

Torniamo a Diogene di Sinope. Di fronte all’aneddoto che lo riguarda, così come di fronte agli altri, alcuni dei quali notissimi (oltre al vivere in una botte, la lanterna con cui cercava l’uomo, ma anche la sua risposta fulminante a chi gli chiedeva dove abitasse “sono un cittadino del mondo” risposta assai sorprendente per quell’epoca) mi sono chiesto più volte per quale motivo siano giunti fino a noi. Può essere che il buon Diogene sia stato così sfortunato da vedere distrutte tutte le sue opere, ma se anche così fosse e se potessimo dunque ipotizzare, come in un romanzo fantastorico, che il nostro Diogene fosse in realtà un gigante del pensiero le cui opere si sono perse, tranne poche battute qui e là, rimarrebbe comunque il mistero di capire per quale motivo qualcuno ha ritenuto tali aneddoti da conservare. Le fonti sono incerte anche sulla scrittura: dei presocratici rimangono dei frammenti scritti, alcuni anche assai estesi e dunque di per sé non può essere questo il motivo della scarsità di fonti, anche perché sappiamo che il nostro godeva di grande popolarità. Se qualcosa ci arriva da quei tempi così remoti, dobbiamo sempre venerare con commozione colui o colei che si sono presi cura di quel frammento o di quel libro perché lo hanno ritenuto significativo, senza ulteriore speculazione sulle loro ragioni. Arrivati così fino a noi possiamo leggere gli aneddoti e le citazioni con i nostri occhi e domandarci se non ci sia sfuggito qualcosa. Eccome se andava trasportato nei millenni fino a noi l’aneddoto! La portata del gesto compiuto da Diogene mi sembra assai rilevante, ma la sua grandezza non va cercata a mio avviso nel camminare, ma nel “non disse nulla.” Rimanendo in silenzio, Diogene ha compiuto un gesto filosofico di enorme portata: da un lato ha reso evidente l’inconsistenza del paradosso sul piano fattuale, dall’altro ha indicato il limite del linguaggio. Solo nel silenzio poteva essere mostrata la confutazione; e con un gesto allusivo, non verbale. La Sofia non era del tutto scomparsa, ma poteva mostrarsi e risuonare solo così. 

L’aneddoto riguardante Diogene di Sinope me ne ricorda un altro, analogo e precedente. Siamo nel settimo secolo e Talete, mentre guarda il cielo, cade in un fosso. Una fanciulla tracia, che assiste alla scena, scoppia a ridere e lo prende in giro. Il riso svolge in questo aneddoto la stessa funzione del silenzio nell’altro. Ridere è un gesto che sta ai confini del linguaggio, come ci sta il silenzio. Al di qua il linguaggio esiste come codice e casa dell’umano, al di là si affaccia come allusione a ciò che esisterebbe anche senza di noi. L’umano abita una soglia e un precario confine, in equilibrio precario ed esposto a cadere fuori di esso, o al suo interno vivendolo però come codice. Forse l’eterna diatriba fra il linguaggio come codice o il linguaggio come eco di qualcosa che lo trascende ha una spiegazione logica nell’essere gli umani sulla soglia e dunque destinati a cadere da una parte o dall’altra, oppure a tenersi in equilibrio, come un pendolo. Non abitiamo il mondo (ci stiamo troppo poco), così come non abitiamo il linguaggio, ma stiamo sul confine.

La genialità di Bertrand Russell, con il quale concludo  questo discorso forse un po’ strampalato, sta però nell’esempio che sceglie per dimostrare la sua ipotesi matematica che ripeto qui: due insiemi possono essere divisibili in infinite parti ma questo non esclude che uno dei due sia più grande dell’altro. Dopo essersi servito della matematica e del calcolo infinitesimale per dimostrare la sua tesi, Russell per renderla comprensibile e alla portata di tutti, sceglie un esempio letterario da un romanzo inglese assai noto e sperimentale per l’epoca in cui fu scritto:

Tristran Shandy vuole scrivere la propria biografia. La sua vita e la sua biografia sono due insiemi distinti e divisibili ciascuno in parti, infinitesime. Shandy comincia il suo lavoro e dopo un anno di tempo ha descritto i primi due giorni della sua vita …

HORROR VACUI

Premessa

Il 6 dicembre scorso a Fuori orario è andato in onda Zabriskie Point. Mi è capitato di rivederlo diverse volte e ad ogni nuova visione cambiavano un po’ le prospettive, si aggiungevano riflessioni che modificavano le sensazioni precedenti, tranne per un particolare: la scena finale, una delle sequenze più straordinarie della storia del cinema.

Antonioni mise in scena nel film la contestazione globale del sistema. La sceneggiatura è una delle più felici e straordinarie sulle vicende di quegli anni per l’acutezza con cui sa cogliere tutte le sfumature e le contraddizioni di una generazione; le scene iniziali del film, in particolare, il dibattito nell’università occupata, sono una sintesi difficilmente superabile – anche dal punto di vista della semplice documentazione storica – del vissuto emozionale, della psicologia, delle passioni dei protagonisti di quegli anni.

La trama si snoda intorno alla vicenda di un ragazzo che si crede (o meglio finge di credersi) accusato di avere sparato a un poliziotto durante un assalto delle forze di polizia a un’università occupata. Egli sa di essere innocente anche se la tentazione di uccidere l’ha avuta dopo aver visto un agente sparare a un manifestante. Decide di salvarsi da quella che è una sua ipotesi di reato commesso tentando una fuga folle e irrazionale, che culmina con il furto di un aereo. Il gesto imprime alla narrazione una svolta, poiché da quel momento egli è ritenuto davvero colpevole di avere sparato.

Antonioni usa abilmente un cliché tipicamente americano, quello della fuga solitaria di un protagonista maledetto (sempre maschile perché il tempo di ‘Thelma e Louise era ancora lontano), senza interrogare lo spettatore sulle ragioni psicologiche che hanno spinto il protagonista a una soluzione così palesemente assurda; perché non bisogna dimenticare che il ragazzo non ha sparato affatto, il poliziotto è stato colpito da qualcun altro e non da lui. Tale cliché è presente nei films di James Dean, ma è ovviamente l’archetipo che sta dietro anche un romanzo come On the road di Jack Kerouac, altro mito di quegli anni.

I protagonisti di queste fughe patetiche e disperate sono di solito piccoli o grandi criminali, bulli, spostati e appartengono tutti alla generazione precedente quella della contestazione, passata alla storia con l’epiteto di gioventù bruciata.

Antonioni rilegge il cliché con l’occhio di un europeo, eliminando gli aspetti banalmente sentimentali, ma pone anche un preciso limite alla potenzialità politica del suo protagonista. Fra gli spostati interpretati da James Dean (totalmente estranei alla politica) e il ragazzo di Zabriskie Point (che dovrebbe rappresentare una generazione politicizzata), esistono più affinità che distanze.

Il ragazzo sorvola, inseguito da mezzo esercito, le autostrade; il suo, in fondo, è un viaggio in automobile, solo un po’ più sollevato da terra. Dall’alto vede una giovane donna e atterra vicino a lei. Siamo vicini a Zabriskie Point, un luogo selvaggio, disseminato di colline brulle, scoscese e solitamente assolate. È in questo scenario estraniato ed estraniante che i due s’incontrano, dopo che con le sue evoluzioni il ragazzo è riuscito ad attirare l’attenzione di lei.

Daria è una giovane che ha un appuntamento a Phoenix con un uomo d’affari che potrebbe anche essere suo padre. È il tipo della donna emancipata che sa il fatto suo e sembra appartenere a un mondo lontano da quello del suo occasionale compagno di viaggio. Tuttavia i suoi modi non sono diversi da quelli delle studentesse che occupano le università, anche lei è segnata da un marchio generazionale che attraversa le classi e le culture. Nel dialogo con lui, però, è meno prigioniera di schemi. Fuma tranquillamente marijuana senza remore di nessun tipo ma anche con la capacità di tenere sotto controllo la sua trasgressione: è il prototipo di quella che diventerà in pochi anni una donna in carriera, molto maschile nei modi, aggressiva al punto giusto.

I due raggiungono il punto più bello della vallata e lì fanno l’amore, come in un sogno. È una scena molto mimata, una rappresentazione teatrale e quasi a volerla rendere ancora più onirica, Antonioni immagina altri corpi che si rotolano in amplessi plastici e rallentati che ricordano movimenti animaleschi.

Una volta concluso il loro breve idillio i due ripartono, ciascuno per la propria strada, non prima però di aver dipinto l’aereo di nero con due grandi occhi. Il suo muso si confonde con quello di Micky Mouse: siamo in pieno mito americano!

Daria prosegue il suo viaggio e tiene la radio accesa per sapere come andrà a finire la storia di questo strano ragazzo con il quale ha condiviso due ore della sua vita e di cui, cosa molto americana, tutte le radio libere seguono in diretta la vicenda. Lei giunge finalmente alla sua meta: una villa sontuosa in cima a una collina rocciosa. Mentre si accinge a entrare apprende dalla radio che il ragazzo con cui ha fatto l’amore è stato brutalmente massacrato dalla polizia in una scena al tempo stesso feroce e grottesca per l’evidente sproporzione esistente fra la pericolosità del soggetto e i mezzi impiegati per ucciderlo. La giovane donna si aggira inebetita fra i locali della sontuosa dimora, incapace di parlare, in preda a un’emozione fortissima. Sbircia da dietro le porte e ode in una specie di trance la trattativa che si sta svolgendo fra il manager con cui ha un appuntamento e altri uomini. Stanno decidendo come trasformare la valle in cui lei e il ragazzo hanno fatto l’amore in un business turistico: una specie di drive in con vista sulla vallata. L’uomo la vede, non si accorge del suo stato d’animo e le indica semplicemente dove accomodarsi. La ragazza si aggira ancora nella casa, spiando senza sentirli i discorsi di alcune signore che prendono il sole ai bordi della piscina. È a questo punto che avviene in lei un metamorfosi rapidissima. La giovane donna, in preda a una rabbia impotente e disperata s’immagina che quello che è stato fino a quel momento il suo mondo, esploda. E la sua visione si materializza: la villa e tutta la collina saltano per aria, non una ma più volte, prima con il suono dell’esplosione, poi silenziosamente e al rallentatore. Per lunghi dieci minuti tutto quel mondo solido e compatto si frammenta e come un fungo atomico fa salire verso il cielo pezzi di sé. Volano televisori, elettrodomestici, come in un collage futurista sullo sfondo di un cielo terso, pezzi di oggetti diversi convivono in un volo lento e inesorabile fino a diventare pulviscolo. Alla fine la ragazza sale sulla sua auto e se ne va con un sorriso: la catarsi è avvenuta, inizia da quel momento la sua vera vita. Ciò che andava in frantumi nella scena finale del film era quella società dei consumi che da noi non si era ancora affermata: certo gli slogan contro il consumismo erano vivi anche qui, ma la scelta di Antonioni di collocare il film negli USA, fa emergere l’asimmetria esistente fra i due mondi. La regia, insistendo su ogni minimo particolare con sequenze sempre più ravvicinate, che dal piano lungo a quello intermedio arrivano fino al primo piano, lo sottolinea ancora di più. Valga per tutte l’esplosione del frigorifero.

Dal 1970 a oggi

Qualcosa è davvero esploso nel mondo occidentale, ma non sono stati gli oggetti a dissolversi e a volare via, bensì le nostre vite. I grandi artisti e le grandi opere d’arte, cui Zabriskie Point appartiene, sanno spesso vedere il futuro ma non sempre alla lettera. Antonioni, con quella scena, voleva rappresentare i sogni colorati, apparentemente violenti, ma sostanzialmente ingenui, di una generazione di rivoluzionari a metà: contraltare impotente di un potere che non sapeva valutare il pericolo reale rappresentato dal ragazzo e lo massacra non direi senza pietà (all’impersonalità crudele del potere siamo abituati), ma senza nessuna minima intelligenza di quanto sta accadendo.

Visto con gli occhi di oggi, tuttavia, il film si presta a più complesse considerazioni. Partiamo dalla scena del massacro del ragazzo. Antonioni filma con quella sequenza il gap generazionale che negli Usa di quegli anni separava ormai i padri dai figli. Una società sgomenta di fronte alle domande del mondo giovanile e dominata da un ceto politico largamente paranoico (come aveva peraltro dimostrato il maccartismo di qualche anno prima), rispondeva alle proprie paure con la cecità di una violenza irrazionale e stupida rivolta contro i suoi stessi figli! Il problema è che a poco più di trent’anni di distanza, tale atteggiamento si è trasformato, né più né meno, nella politica estera statunitense.

Torniamo ora alla sequenza finale. È accaduto agli oggetti il contrario di quanto accade in essa. Un cumulo di macerie materiali e morali ci sovrasta e ci circonda; in questa enorme discarica, detriti di esperienze passate di diverso e talvolta opposto segno convivono e si sommano saturando lo spazio psichico e quello fisico. Gli oggetti non sono esplosi ma si sono moltiplicati (o si potrebbe anche dire che è esplosa la loro produzione) e se qualcosa accadrà di questa massa vagante, sarà un’implosione; oppure succederà che i rifiuti, sempre meno riciclabili, di questa massa inutile satureranno sempre più lo spazio fisico.

Infine la villa del magnate. Nel film di Antonioni essa è un vero e proprio bunker circondato dal deserto; assomiglia a un antico feudo europeo, ma senza i villaggi contadini intorno. Il dominio espresso in quelle immagini è un dominio sul vuoto, sulla terra bruciata. Antonioni vede qui, profeticamente, il destino di una società in cui il dominio diventa identico a quello del signore; ma spogliato di ogni nobiltà e signoria.

Gli oggetti, sia in quanto valori d’uso sia in quanto scorie da rottamare, sono cresciuti in quantità saturando lo spazio, hanno sgretolato ogni senso, ma tutto questo è avvenuto come in una sequenza rallentata, mentre l’immaterialità si è trasferita altrove, nella metafisica del rizoma informatico e nella sua rete di relazioni virtuali. Entropia nello spazio fisico e asettica immaterialità nello spazio virtuale.

Lo spazio fisico diventa così un simulacro del potere, ma al tempo stesso viene presidiato in negativo nella forma dell’inefficienza programmata dei servizi vitali: le nostre città vengono lasciate a un progressivo abbandono perché esse non sono più la sede fisica del dominio ma soltanto il paravento dietro il quale il bunker si riorganizza in modo tendenzialmente invisibile, distruggendo tutti i legami sociali e le infrastrutture civili che reggono una società.

LE VITE IMMAGINARIE, I MIMI E I DIALOGHI CON LEUCÓ

Premessa

Questo saggio fu pubblicato sulla rivista Il cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo ora nel blog con qualche modifica.

Ci sono opere letterarie e autori che creano personaggi memorabili, tanto che spesso sono ricordati più di loro stessi: Macondo, per esempio, è stato nell’immaginario collettivo, più importante di Garcia Marquez, almeno per alcuni anni. Vi sono invece opere e personaggi che agiscono in profondo, influenzano altri narratori, tanto da divenire un’onda lunga e carsica che ogni tanto risorge.

Le vite immaginarie e I mimi di Marcel Schwob fanno parte di quest’ultima categoria. Le opere risalgono alla fine dell”800, in un’epoca di svolta della storia europea, quando cominciava a profilarsi quella crisi profonda della nostra civiltà che sarebbe culminata nella Prima Guerra Mondiale e sarebbe continuata, di disastro in disastro, per tutto il secolo scorso.

Le vite immaginarie sono un’opera che ricorda il Giano del mito classico. Esse hanno lo sguardo proiettato nel futuro, dal momento che ispireranno molta narrativa novecentesca; tuttavia le loro radici profonde affondano nella classicità. Esse richiamano alla memoria, nel titolo, le Vite Parallele di Plutarco, sebbene si discostino da loro in modo radicale, come afferma Schwob nella sua prefazione all’opera:

Il genio di Plutarco, in qualche brano, ha fatto di lui un artista; ma non riuscì a capire l’essenza della sua arte, perché immaginò dei “paralleli” – come se due uomini ben descritti in ogni dettaglio potessero assomigliarsi 1.

Allo stesso modo I mimi, opera certamente meno celebre della prima ma non per questo minore, non si rivolgono alle figure chiave dell’antichità classica, ma a personaggi intermedi, ambivalenti, perlopiù inventati, che potrebbero stare benissimo nel Pantheon maggiore. Con quest’opera, in cui il gusto del dettaglio e la pura invenzione s’inseguono in ogni riga, Schwob apre le porte a due diversi generi che sembrano lontani fra loro (e lo saranno nei loro sviluppi successivi), ma che lo scrittore francese è capace di tenere uniti nel suo piccolo e prezioso arabesco: il racconto fantastico e quello iperrealista.

La sua poetica può essere definita lapidariamente da questo concetto: che la verità di una vita stia nel suo diventare immaginaria. A questo compito si dedicherà con scrupolo e pazienza da certosino, lavorando sempre sulle fonti storiche dei suoi personaggi e operando quei piccoli scarti che permettono di arrivare a una verità nascosta. Il tutto però, tratteggiato con estrema esattezza, con una scrittura limpida e trasparente, inseguendo quel tratto capace di rendere unico un ritratto: la sua ammirazione per Hokusai lo testimonia. Del grande pittore giapponese egli amava proprio la ricerca spasmodica del segno perfetto, la nitidezza dei contorni che permette all’artista di arrivare “al punto di rendere individuale ciò che c’è di più generale”2. Affermazione sorprendente, se ci pensiamo bene; perché sembra procedere nella direzione opposta di quello che di solito viene attribuito all’arte e cioè la ricerca dell’universalità. In realtà, la contraddizione è solo apparente: ciò che si affaccia in questo libro è una visione divergente del rapporto fra individuo, società e tempo, rispetto al senso comune. Rispetto all’avvento di una società di massa, che tende a ridurre l’individuo a semplice anello di una catena, la ricerca di ciò che rende unica una vita non si pone nel solco dell’esaltazione dell’individualismo narcisistico, ma del suo contrario.

Canone e anti canone

Qualcosa d’analogo accade anche ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, l’opera più enigmatica dello scrittore delle Langhe, la più diversa fra tutte, rispetto alle altre sue, sebbene una traccia di continuità si possa riscontrare nel riferimento al mito come fonte d’ispirazione. Pavese era un conoscitore profondo e acuto delle opere di Károly Kerényi e di altri studiosi, ma I dialoghi sono opera letteraria, governata da una tensione dialogica che rimanda al teatro.

I personaggi di questi tre libri, distanti fra loro dal tempo che separa quasi due generazioni (Pavese nasce nel 1908, tre anni dopo la morte di Schwob), sono una piccola schiera minore (quantitativamente parlando), rispetto a quelli immortalati dagli scrittori più celebrati del ‘900, ma dagli effetti dirompenti, a tanti anni di distanza.

Il canone del romanzo novecentesco ruota intorno alla crisi di quello ottocentesco, legato alla convenzione del narratore onnisciente, improntato al realismo e alla verosimiglianza, per dirla con Manzoni. Tale modello poteva contare su una sostanziale coincidenza di sentimenti e valori fra gli scrittori e il pubblico dei lettori, entrambi appartenenti alla borghesia urbana industriale o ai ceti intellettuali rurali. Quando tali valori comuni cominciano a scricchiolare sotto l’urto di fenomeni sociali dirompenti o di rivoluzioni nel campo scientifico e del pensiero (si pensi soltanto alla questione sociale, com’era definita allora, o all’irruzione della psicanalisi), anche il romanzo ottocentesco entra in crisi.

Il primo pilastro a cadere sotto le critiche perplesse e poi irridenti di studiosi e narratori è la cosiddetta trama, o plot. L’intreccio avventuroso cede il passo a un collage di frammenti, oppure si sgretola al proprio interno come accade nei romanzi di Henry James. Non mancavano, nei secoli precedenti, esempi di narrazioni frammentarie che hanno anticipato questi esiti (si pensi al Tom Jones di Fielding e ancora di più al Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne); si trattava, però, di casi isolati, considerati quasi delle bizzarrie letterarie, che non davano corpo a una poetica consapevole. Saranno le avanguardie, con i loro Manifesti a fare ciò e dicendo questo siamo già nel cuore della crisi e non più ai suoi prodromi.

Tornando un poco indietro, il secondo pilastro messo in discussione è lo statuto del personaggio-eroe, o eroina. Alle Anne Karenine e ai Jean Valjant subentrano figure più ambigue, fragili, fino alla irrisione del personaggio: lo Zeno di Svevo, gli Andrea Sperelli, il Fu Mattia Pascal. Vi saranno in quegli anni d’inizio ‘900 anche tentativi di sintesi fra tradizione e avanguardia, come testimonia il grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità; oppure altri che come la Deledda in Italia, continueranno imperterriti nel solco del romanzo ottocentesco, seppure con poderosi innesti che venivano dalla cultura europea decadentista e simbolista.

Infine la sperimentazione linguistica, l’uso spregiudicato della licenza poetica o narrativa, fino alla disarticolazione delle strutture sintattico grammaticali della lingua, come è nelle opere estreme di Joyce (Finnegans’ Wake), di Beckett e altri.

La narrativa di Schwob e quella di Pavese nei Dialoghi con Leucò, vanno in una direzione opposta a questa, che è senza dubbio la tendenza principale del secolo scorso. Prima di tutto, i personaggi delle loro opere sono memorabili. La trama può sembrare assente, nel senso tradizionale del termine, ma se guardiamo alla struttura sotterranea rispetto a quella apparente e superficiale, queste storie s’inseguono formando un mosaico di narrazioni che ricordano l’intreccio inestricabile della mitologica tela di Aracne. In secondo luogo i personaggi di questi romanzi o dialoghi nel caso di Pavese, non hanno nulla a che vedere con gli anti eroi novecenteschi, sebbene in modi fra loro diversi.

Per Schwob non si tratta di demistificare l’eroe e di ricondurlo alla comune piccolezza umana, oppure di irriderne le pretese, ma di considerare il lato eroico d’ogni vita; specialmente di quelle più segnate dal vizio, oppure da una condizione di sofferenza. È così che la vita dell’anonima merlettaia di Parigi diventa decisiva come quella di Lucrezio o di Paolo Uccello; la penna dello scrittore tratteggia il loro destino necessario perché cerca nella loro esperienza ciò che li rende unici. Nel fare questo, però, Schwob allarga il campo di ciò che può essere considerato eroico. In fondo gli eroi antichi non sfuggono a un cliché che si ripete nei secoli con pochissime varianti: è la guerra che garantisce il loro statuto e il premio è la gloria. L’eroismo dei personaggi di Schwob abbraccia un’esperienza più vasta, coincide con la nuda vita, cui tutti sono esposti. Perciò la storia di Lucrezio che conosce l’amore e la morte in una sola sequenza temporale, che sembra scandita secondo i ritmi delle unità aristoteliche o di un karma, ci commuove come quella sconclusionata di Erostrato, o quella dello stuolo di pirati e assassini protagonisti della parte finale del libro.

Pavese segue un percorso diverso. Egli cerca, nelle pieghe del mito, la risposta al mistero, si pone la domanda che non ha mai fatto nessuno; oppure al contrario, si pone l’interrogativo più ovvio che nessuno indagava più da tempo. È così, per esempio, nel caso di Orfeo. Pavese rifiuta il racconto in sé della vicenda e si chiede perentoriamente perché mai si sia voltato. È lo stesso interrogativo che aveva ossessionato Rilke, in tempi non troppo lontani da quelli in cui fu scritta l’opera pavesiana. Nel dialogo con Bacca, Orfeo racconta la sua versione dei fatti e scompagina le risposte precedenti; rivela tutta l’illusione che vi è nella pretesa di vincere il tempo e la morte e quando Bacca lo rimprovera dicendogli:

Chi non vorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata … Orfeo gli risponde: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla”3

Lo stile scelto è quello di una drammatizzazione essenziale e scarna, dominata fin dall’inizio da una perentorietà che ci fa presagire l’esito tragico:

È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. 4.

Bacca però insiste, ha le sue ragioni, l’antica fede che la discesa nell’Ade sia il passaggio necessario per una ricompensa ctonia è presente e viva in lui:

Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

La risposta del moderno Orfeo ci fa rivivere tutta la tragicità della scena primaria:

E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.5.

Parole straordinarie e quanto mai attuali in una società che vive sospesa fra il paese dei balocchi e la guerra di tutti contro tutti. L’illusione dell’orgia continua, della festa perenne, di un’ansia dionisiaca selvaggia, nascondono il delirio di onnipotenza; occorre il senso del limite, ma questo non cancella la necessità di accettare quella sfida. È necessario, oggi come ieri, scendere nel proprio inferno; la consapevolezza nasce dall’incontro con il limite, il canto è ancora una volta la risposta. Il paradosso di Pavese emerge qui in tutta la sua forza: il ricorso al mito è indispensabile anche se non gli si può più credere alla lettera. Esso apre ancora, come sempre, le porte alla sublimazione simbolica: senza quest’ultima vi è soltanto il pendolo depressivo che oscilla fra le esaltazioni dell’orgia o gli agiti, nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine.

Il maestro e gli allievi

Schwob, per ragioni anagrafiche, va considerato il maestro di una resistenza alla corrente principale del ‘900; ma il suo esempio è tutt’altro che solitario. Non mi riferisco alla stima di cui era circondato nel suo tempo, ma all’influenza che ha esercitato su molti altri venuti dopo di lui. Valga per tutti la testimonianza limpida e inequivocabile di Jorge Luis Borges, che gli attribuisce un ruolo primario come ispiratore:

Senza di lui la mia narrativa non esisterebbe.

Perfino un autore lontano dalle atmosfere francesi respirate da Schwob, come lo svedese Per Olav Enquist, nel suo recente romanzo Blanche e Marie, gli deve qualcosa.

Non mi pare un caso che Schwob sia stato un maestro per molti anche fuori dall’Europa. In altre culture letterarie ha pesato meno che da noi il pensiero negativo. Tuttavia, sempre Schwob, ci dimostra come fosse possibile un’interpretazione diversa da quella letterale della morte di dio, così come appare nello Zarathustra nicciano. Anche i suoi Mimi prendono spunto dalla morte di Pan (così s’intitola proprio l’ultimo dei racconti dell’opera), ma egli non ne tira le conseguenze filosofiche. Pur prendendo atto della fine egli rilancia il mito come narrazione: ritesse la tela assumendo la maschera di personaggi inventati ma plausibili che ci offrono vie d’uscita laterali; Pavese, in fondo farà, a modo suo, la stessa cosa.

Nel ‘900 e dopo Nietzsche, invece, il mito come narrazione è sostituito dal concetto filosofico di mito; si parlerà, per esempio, in modo del tutto improprio, di mito del superuomo, espressione – questa – che contiene più di un’imprecisione.

È ipotizzabile un’influenza diretta di Schwob su Pavese? La voluminosa antologia della critica pavesiana non ne parla: né Givone né altri, che si sono occupati in modo particolare dei Dialoghi con Leucò vi accennano. Soltanto Roberto Speziale lo fa di sfuggita nella quarta di copertina de I Mimi 6

Bisogna però considerare che la fortuna di Schwob in Italia è recente. Introdotto dagli Adelphi, il libro ha vissuto una fortuna limitata alla cerchia dei francesisti e poco più. Rilanciato dalle traduzioni recenti dalla casa editrice Azimut e oggetto di nuove attenzioni è stato di nuovo proposto dalla casa editrice Adelphi, ma ci troviamo sempre in un ambito ristretto. È difficile ipotizzare una conoscenza diretta da parte di Pavese della sua opera, ma di certo lo scrittore delle Langhe conosceva Borges e può essersi imbattuto nel suo giudizio su Schwob.

Forse, semplicemente, accade che scrittori anche lontani e indipendenti l’uno dall’altro, fiutino nell’aria le stesse atmosfere o le stesse necessità e diano risposte analoghe. C’è un’aria di famiglia che si avverte leggendo questi tre libri, le loro diversità non cancellano quel sentire comune che li percorre. La ragione del loro fascino può essere rilanciata oggi perché il contrasto evidente fra un razionalismo positivista imperante, di carattere puramente tecnologico, cui fa da contraltare un agito che salta la mediazione del simbolico, ci stanno portando in un vicolo cieco. Queste opere ci ricordano che il simbolico esiste e che è necessario per vivere, non per intrattenerci. Nel nostro mondo postmoderno, una vulgata largamente diffusa ritiene che ogni narrazione sia divenuta impossibile perché tutto è alla luce del sole, verificabile, documentato, senza mistero. Il narrare, in tale contesto, non può che essere sempre più confinato in generi: il giallo, la fantascienza ecc..

Quale sciocca miopia! Faccio tre semplicissimi esempi che smentiscono questa illusione ottica. Negli Stati Uniti d’America, secondo decine e forse centinaia di migliaia di persone Elvis Presley non è morto nella data indicata dai suoi biografi e forse per alcuni è ancora vivo! Sempre nella patria della tecnologia più avanzata un’alta percentuale di statunitensi, dopo aver visto il film Capricorn one, si convinse che gli astronauti non erano mai sbarcati sulla Luna, ma che quell’evento non fosse altro che un’ingegnosa messa in scena hollywodiana girata nel deserto del Nevada. Infine l’Italia: in occasione del decennale della morte di Moana Pozzi, abbiamo assistito a seri programmi televisivi in cui commentatori tutt’altro che sprovveduti, avanzavano più di un dubbio sulla sua morte. Se per avventura rimanessero solo questi documenti e testimonianze, fra le poche cose conservate della nostra civiltà e fra mille anni capitassero nella mani di colonizzatori extraterrestri, Elvis Presley e Moana Pozzi verrebbero considerati eroi come Achille e Cassandra, mentre l’avventura lunare statunitense rientrerebbe nella infinita catena di narrazioni sull’argomento: dalla Storia vera di Luciano di Samosata, passando all’Orlando Furioso e via di seguito.

Del mito inteso come narrazione fantastica non si può fare a meno perché esso contiene una verità che non può essere detta degli storici. Non si tratta naturalmente di sostituire una ricerca di verità a un’altra, di attribuire a queste avventure dello spirito lo stesso rango. La razionalità storica, la cura certosina della ricostruzione minuta e documentaria parla alla nostra ragione, la narrazione fantastica parla al nostro inconscio: abbiamo bisogno di entrambi. Le commistioni indebite, le confusioni e quant’altro, hanno spazio proprio nei momenti storici in cui la pari dignità fra questi modi di cercare la verità viene cancellata e repressa. Nascono allora gli apprendisti stregoni che mescolano tutto con tutto arbitrariamente, invadendo i campi degli altri perché non riconoscono più il loro; oppure perché costretti da una cultura che riconosce solo certi statuti e percorsi, tendendo a eliminarne altri.


1 Marcel Schwob, Vite immaginarie, prefazione dell’autore, traduzione di Cristiana Lardo, Azimut editore, Roma 2005, p.9

2 Ivi, p.14

3 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino 1999, p.78.

4.Ivi, p. 77

5.Ivi, p.79

6 Marcel Schwob, I mimi, a cura di Roberto Speziale, :duepunti edizioni, Palermo 2006.


 

 

 

BORIS GODUNOV

La scelta di Chailly e Kasper Holten di non cambiare il programma della Prima della Scala è stata felicissima, anche perché compiuta senza troppo rumore e inutili forzature, puntando tutto sulla potenza del dramma di Musorgskij e Puškin, modernissimo se si va oltre l’apparenza. Storiaccia ultra maschile di potere, trono e altare, apparentemente da ancien regime ma in realtà, come sottolineato anche dalla regia che ha modernizzato i costumi in corso d’opera, esempio di una storia che non passa e si ripete. Il tratto modernissimo, che distanzia a mio giudizio l’opera di Musorgskij dal Macbeth di Verdi, è il dramma psicologico di Boris, il suo contorcimento emotivo che testimonia come la ripetizione infinita del cliché va comunque incontro a una modernità che non si può più evitare: Dostoevskij non è poi così lontano. Gli interpreti poi sono stati superbi, in particolare Ildar Abdrazakov nel ruolo di Boris; ma tutti, a cominciare dai cori; per concludere con un finale emozionante.

Ottime anche le proteste, quelle vere di piazza, non quello di chi voleva fermare tutto.

 

GUIDO GOZZANO NEL ‘900 ITALIANO ED EUROPEO

Gozzano non è il più grande poeta italiano del ‘900 per quel troppo di legame sabaudo che permane in gran parte della sua opera. Tuttavia, dell’italianità seppe cogliere alcuni elementi che oggi sono ancora attuali. I suoi animali impagliati, gli oggetti incartapecoriti, che tuttavia sembrano più vitali degli abitanti della casa in cui vengono collocati, erano l’immagine di una decadenza e di un crepuscolo, ma limitata a un ambiente sabaudo; era la vecchia borghesia piemontese e torinese (grande e piccola) che aveva fatto l’unità d’Italia a modo suo. Di questa società Gozzano è stato il figlio un po’ ribelle, un po’ dandy e un po’ flaneur. [1]

Tuttavia, la sua opera può essere letta oggi amplificandone la portata per almeno due ragioni: perché ora sappiamo meglio come la storia culturale e letteraria italiana del ‘900 sia stata piena d’imbarazzanti provincialismi ma anche di altrettanto imbarazzanti tentativi di porsi al passo con la cultura europea. Antonio Gramsci, specialmente in alcune rubriche dei Quaderni, come le Noterelle di cultura, I nipotini del Padre Bresciani, Miscellanea e La letteratura nazional popolare, ha compiuto la ricostruzione più meticolosa dei vizi e delle virtù della cultura nazionale. Gozzano si colloca in una sorta di via di mezzo: il suo alto provincialismo, che si distingue da tutti gli altri, rimane di un livello poetico superiore a molti tentativi di smarcarsi dal provincialismo basso per entrare in una dimensione formalmente più europea. La seconda ragione è di carattere stilistico: ci sono aspetti innovativi della poesia di Gozzano che si legano al meglio della cultura poetica del tempo, per esempio il verso lungo in alcuni dei testi più celebrati: La signorina Felicita, Cocotte, Totò Merùmeni.[2]

Nel ‘900 italiano hanno pesato due diverse forme di provincialismo: la prima e più ovvia è quella legata alla cosiddetta Heimat, cioè alle piccole patrie locali, mentre la seconda consisté nel seguire le tendenze maturate altrove, spesso quando erano già state superate, oppure senza metabolizzarle veramente. Un terzo caso assai interessante riguarda Montale, oggetto di un’intelligente costruzione politico-culturale da parte di Mario Praz, che in qualche misura si sovrappose al Montale poeta. Le ragioni dell’illustre critico erano nobili: contrapporre alla dilagante cultura fascista una figura che incarnava una prospettiva diversa, che il critico cercò di riconnettere alla grande poesia della crisi novecentesca e prima di tutto a Eliot. Montale si prestò con intelligenza e furbizia al progetto, ma questo lo portò a un relativo trionfo solo dopo la guerra, anche perché la cultura letteraria fascista qualche buona freccia al suo arco l’aveva eccome! Per esempio, il regime era riuscito nel capolavoro di tenere sotto la propria ala protettiva sia il Futurismo sia D’Annunzio, dimostrando così una capacità egemonica notevole. Questo non toglie che Montale sia un grande poeta del ‘900 italiano, ma non tanto per le ragioni volute così fortemente da Praz (il paragone con Eliot non regge ed è pure basato su qualche traduzione un po’ troppo libera e un po’ troppo astuta), ma perché in lui confluiscono la musicalità del grande verso italiano, che si sposa al bel canto (Montale era un buon baritono): è la tradizione di Metastasio ma anche del Caproni più melodico, niente affatto minore rispetto ad altre, ma che nulla c’entra con la grande poesia europea della crisi novecentesca.

Un secondo esempio di cattiva integrazione europea fu la coltivazione del mito della classicità; perché, dopo Holderlin, essa non poteva più essere riproposta in chiave poetica, ma solo in chiave critica. La classicità occidentale, in poesia, significava Dante, non più Omero e Virgilio e infatti Eliot e Pound scelsero quella strada, riscoprendo in chiave modernista la Commedia e il sommo poeta. Al tempo stesso, tedeschi, inglesi e statunitensi furono i maggiori dantisti del ‘900, così come erano stati tedeschi e inglesi i maggiori classicisti e mitografi durante l’800 e anche dopo: si pensi all’opera straordinaria di un Graves, per esempio, di Schelegel e di altri ancora prima.

Gli altri maggiori poeti italiani del ‘900 hanno coltivato un provincialismo alto (Caproni), declinandolo nell’epica di una saga famigliare che seppe tenere conto anche della psicoanalisi (Bertolucci); oppure, come Saba, hanno goduto del particolare privilegio di vivere a cavallo di due mondi e di essere stato il primo in Italia – insieme a Svevo seppure con modalità assai diverse – a fare della psicoanalisi medesima uno dei motori della propria opera. Infine Pavese, che seppe connettere in modo originale mito ed epica, tanto da risultare una voce anomala non solo in Italia. Quanto all’ermetismo e cioè la poetica dominante nella prima parte del secolo, esso fu un fenomeno molto italiano, legato alla necessità di smarcarsi della retorica fascista e dal Futurismo marinettiano.

Tornare a Gozzano dopo questo giro al largo implica domandarsi se oltre all’alto provincialismo e al verso lungo ci sia dell’altro che riguarda sia la sua poesia sia la consapevolezza critica e la sua capacità di leggere la propria collocazione in quel contesto.

La Torino di Gozzano sta in una via di mezzo come lui: il Risorgimento e i suoi miti sono tutti alle spalle, la Torino operaia e moderna di Gramsci e di Ordine nuovo non è ancora apparsa. Il poeta muore nel 1916, un altro anno di mezzo: la guerra è appena cominciata per l’Italia, ma gli sconvolgimenti cui essa porterà a livello europeo, cominceranno ad apparire l’anno dopo. Inoltre, il viaggio in India con l’amico Garrone, nel vano tentativo di curare per vie naturali la tubercolosi, l’avevano portato altrove in ogni senso. Se I Colloqui e le altre liriche più celebrate si muovono nel contesto già indicato e cioè fra decadentismo e crepuscolarismo, c’è un’opera modernissima, che va a mio avviso rivalutata: Le farfalle epistole entomologiche, un poemetto originalissimo, incompiuto e considerato minore se non per la poesia intitolata Acherontis atropos. Invece si tratta di un’opera unica nel contesto italiano e in anticipo sui tempi, prima di tutto per quanto riguarda la sua costruzione. La probabile data d’inizio dell’opera è il 1908 e questo dimostra che si tratta di un progetto parallelo ma considerato assai importante dal poeta, che ne parla in una lettera indirizzata ad Amalia Guglieminetti e reperibile in rete:

… Le mie crisalidi sono tutte farfalle! L’ho scoperto oggi, attraverso il reticolato del coperchio: ho chiuso le finestre e aperta la scatola ed è stato, nella mia grande camera chiara, un frusciare turbinoso di prigioniere sbigottite …

Gozzano sarà a sua volta un appassionato collezionista di farfalle e anche questo dimostra un interesse niente affatto estemporaneo per la materia: fra l’altro la sua collezione sarà impreziosita da ulteriori esemplari che riportò in Italia da Ceylon. Quanto si testi, egli sa combinare la capacità d’osservazione tipica dello scienziato entomologo con la sensibilità poetica e la delicatezza che gli sono proprie. Certo, l’oggetto scelto sembra fatto appositamente per vedere in queste poesie l’ennesimo elogio della fragilità effimera, il gusto per ciò che dura lo spazio di un mattino. A questo contribuisce senza dubbio anche il testo, a cominciare dall’incipit del primo dal titolo Come dal germe:      

Come dal germe ai suoi perfetti giorni/giunga una schiera di Vanesse; quali/speranze buone e quali fantasie/la creatura per volar su nata/susciti in cuore di colui che sogna/col suo lento mutare e trasmutare,/la maraviglia delle opposte maschere,/la varia grazia delle varie specie,/in versi canterò… Non vi par egli d’essere in Arcadia?

La parodia dell’invocazione alla Musa e il richiamo alla settecentesca Arcadia è il sottofondo ironico che accompagna tutta l’opera del poeta ma fermarsi a questo sarebbe assai poco, perché fin da questo primo testo si dispiega un progetto poematico di grande robustezza, anche se purtroppo rimasto incompiuto: dal germe al bruco, alla collezione di vanesse è lo sguardo sul mondo animale che cattura. Gozzano lo esplora alternando esprit de finesse a esprit de geometrie, competenza nel merito dell’oggetto trattato. Quanto alle ragioni della scelta tematica, esse sono espresse in questi versi, nella parte finale di Come dal germe     

Forse lo stanco spirito moderno/altro bene non ha che rifugiarsi/in poche forme prime, interrogando,/meditando, adorando; altra salute/non ha che nella cerchia disegnata/intorno dall’assenza volontaria,/come la cerchia disegnata in terra/dal ramoscello dell’incantatore:/magico segno che respinge tutte/e le lusinghe e le insensate cure;/solo rifugio dove il cuore spento/vibri fraterno e riconosca l’Uomo,/ché più non vede l’esemplare astratto,/ma la specie universa eletta al regno/del mondo. E come il Dio d’antichi tempi/appariva all’asceta d’altri tempi,/così l’asceta d’oggi senza Dio/sente nel cuor pacificato un bene/sommo, una grazia nova illuminante,/lo Spirito immanente, l’acqua viva,/e si disseta più che alle sorgenti/che mai non troverete, o sitibonda.

Il verso finale si rivolge a un tu femminile che possiamo pensare sia Amalia Guglielminetti, almeno in prima istanza, ma più generalmente rivolto a chi si ostina a cercare nella natura ciò che mai troverete piuttosto che quello che invece c’è e interrogarlo con umiltà.

Dei Bruchi è il secondo testo, che segna il passaggio naturale dalla potenzialità del seme alle prime trasformazioni. Anch’esso ha un inizio ironico dove si canta non il celebratissimo alloro ma l’ortica pungente. Tuttavia la parte davvero interessante è quella in cui il poeta introduce una metafora assai suggestiva:   

Volsero i giorni, crebbero gli alunni;/per ben tre volte usciti di se stessi/tre volte tanto apparvero voraci./Or fatti pesi, flettono le cime/della mia selva, ammantano le foglie/con loro mole fosca, irta di punte./

I bruchi diventano una classe di alunni che crescono insieme: questa strana scolaresca diventa vorace e va verso il suo destino: Delle crisalidi ci porta nel cuore della metamorfosi, di cui Gozzano ci offre una rappresentazione potente e drammatica. Il poeta riprende la metafora degli alunni in questo modo:

Ma il sesto dì la mia famiglia trovo/dispersa tutta lungo le pareti./Come le sacre vittime d’un tempo/s’apprestavano degne col digiuno,/i bruchi alunni mondano i precordi,/ricusano la fronda. È giunta l’ora./Consapevoli quasi del mistero/imminente, s’ammusano l’un l’altro,/lenti volgendo ad ora ad or la testa,/esplorano gli arredi gli scaffali/le cimase gli spigoli, un rifugio/cercando eccelso come gli stiliti./Cercano in vero il luogo ove celarsi/dai nemici del cielo e della terra;/quale vigilia torpida li attenda/ben sanno e sotto quale spoglia inerte/pendula ignuda, senza la custodia/del bombice di sua seta fasciato;/ché le Diurne mutansi in crisalidi/non difese che dalla forma subdola,/dalla tinta sfuggente, non armate/che di silenzio immobile e d’attesa.

Quando la metamorfosi è in parte compiuta la presenza umana che fino a questo momento era ritirata nell’ombra oppure aveva adottato mascherature ironiche, entra qui in scena nella figura del “negromante”:

Oggi tutto è silenzio di clausura,/digiuno, attesa immobile, sgomento/di necropoli tetra. Alle pareti/ogni defunto è un pendulo monile,/ogni monile un’anima che attende/l’ora certa del volo. Ed io mi sono/quel negromante che nel suo palagio/senza fine, in clessidre senza fine,/custodisce gli spiriti captivi/dei trapassati, degli apparituri./Veramente la mia stanza modesta/è la reggia del non essere più,/del non essere ancora. E qui la vita/sorride alla sorella inconciliabile/e i loro volti fanno un volto solo.

Un volto solo. Mai la Morte s’ebbe/più delicato simbolo di Psiche:/psiche ad un tempo anima e farfalla/scolpita sulle stele funerarie/da gli antichi pensosi del prodigio.
Un volto solo…

Con questo testo si chiude la prima parte del poemetto e inizia la seconda. Intitolata Monografie di varie specie. Le farfalle sono nate, il poeta ne sceglie alcune alle quali dedica i suoi testi: i titoli si riferiscono a questo e portano sempre anche il termine originale latino. La prima è Del Parnasso (Parnassum Apollo). Come nei testi precedenti, c’è sempre una metafora al centro, che nel caso specifico è un interrogativo: come sia possibile che nel disegno delle ali e nei colori la natura si sia servita di un essere fatto d’aria per riprodurre in esso il disegno della montagna. La chiusa del testo recita:

Il volo stanco, ritmico, diverso/dall’aliar plebeo delle pieridi,/ha un che di malinconico e s’accorda/mirabilmente con la gamma chiara/dell’alte solitudini montane./E il poeta disteso sull’abisso,/col mento chiuso tra le palme, oblia/la pagina crudele di sofismi,/segue con occhi estatici il Parnasso/e bene intende il sorgere dei miti/nei primi giorni dell’umanità;/pensa una principessa delle nevi/volta in farfalla per un malefizio…

Della cavolaia Pieris brassicae. Con questo testo Gozzano apre un nuovo campo tematico: la farfalla diventa un tramite per un discorso che si estende alla Natura ma anche al pensiero umano:

Come in questa vicenda e in altre molte,/la Natura, che i retori vantarono/perfetta ed infallibile, si svela/stretta parente col pensiero umano!/Non divina e perfetta, ma potenza/maldestra, spesso incerta, esita, inventa,/tenta ritenta elimina corregge./Popola il campo semplice del Tutto/d’opposte leggi e d’infiniti errori./Madre cieca e veggente, avara e prodiga,/grande meschina, tenera e crudele,/per non perder pietà si fa spietata.//E quando vede rotta l’armonia/riconosce l’errore, vi rimedia/con nascite novelle ed ecatombi. /Essa accenna alla Vita ed alla Morte;/e le custodi appaiono, cancellano,/ritracciano la strada ed i confini.

Questo passaggio è uno dei più complessi dell’intero poemetto. Apparentemente ci sono echi leopardiani, ma il testo non si risolve del tutto in essi. Al centro sta l’isomorfismo che Gozzano vede fra pensiero umano e natura, anch’essa maldestra come il pensiero e il volo irregolare delle farfalla può di certo avere ispirato questo passaggio.    Dell’aurora Anthocarius cardamine è il simbolo della primavera. Dell’ornitottera Ornithoptera Pronomus ci porta invece altrove. Il viaggio verso oriente nel vano tentativo di vincere la tubercolosi, lo porta a contatto con una natura diversa dalla nostra e sarà proprio da quel viaggio che Gozzano tornerà con una collezione preziosa di farfalle. L’ornitottera evoca i paesaggi esotici del suo e di altri viaggi che pittori e poeti europei intrapresero a cavallo dei due secoli precedenti.  

Sopra l’astuccio nitido di lacca/una fascia di seta giavanese/evoca un mare calmo che scintilla/tra i palmizi dai vertici svettanti.

E la farfalla, che non so pensare/sui nostri fiori, sotto il nostro cielo,/ben s’accorda coi mostri floreali:/gnomi panciuti dalle barbe pendule,/ampolle inusitate, coni lividi/evocanti la peste e il malefizio;/s’accorda coi paesi della favola /sopravissuti al tempo delle origini:/vulcani ardenti, moli di basalto,/foreste dal profilo mïocenico/dall’aria dolce senza mutamento,/dove la luce tremola e scintilla/tra il fasto delle felci arborescenti./

Della testa di morto (Acherontia Atropos

Acherontia atropos MHNT

È il testo più celebrato: farfalla notturna e simbolo di morte. L’Acherontia, rispetto a tutte le altre farfalle, emette un suono che assomiglia a un lamento piuttosto che al frusciare delle ali. Il testo, di certo il più compatto e drammatico, simile in questo a Delle crisalidi riprende il tema del ciclo vita-morte. La drammatizzazione è scandita in tre parti. La prima, apparentemente solo descrittiva, evoca invece un elemento sinistro:

D’estate, in un sentiero di campagna,/v’occorse certo d’incontrare un bruco/enorme e glabro, verde e giallo, ornato/di sette zone oblique turchiniccie./Il bruco errava in cerca della terra/dove affondare e trasmutarsi in ninfa;/e dalla gaia larva, a smalti chiari,/nasceva nell’autunno la più tetra/delle farfalle: l’Acherontia Atropos.

Certo vi è nota questa cupa sfinge/favoleggiata, dal massiccio addome,/dal corsaletto folto, con impresso/in giallo d’ocra il segno spaventoso

Natura volle l’Acherontia Atropos/simbolo della Notte e della Morte,/ messaggera del Buio e del Mistero,/e la segnò con la divisa fosca/e d’un sinistro canto. L’entomologo/tuttora indaga come l’Acherontia/si lagni. Disse alcuno, col vibrare/dei tarsi. Ma non è. Mozzato ho i tarsi/all’Acherontia e s’è lagnata ancora./Parve ad altri col fremito dei palpi./Io cementai di mastice la bocca/all’Acherontia e s’è librata ancora/per la mia stanza, ha proseguito ancora/più furibondo il grido d’oltretomba;/grido che pare giungere da un’anima/penante che preceda la farfalla,/misterioso lagno che riempie/uomini e bestie d’un ignoto orrore:

Anch’essa crudele come l’entomologo che l’esplora, l’Acherontia spaventa le api operaie perché il suo lamento imita quello dell’ape regina. Esse si vendicano con lei all’alba:

All’alba solo, quando l’Acherontia/intorpidita e sazia tace e dorme,/l’operaie decretano la morte./Depone ognuna sopra l’assopita/un granello di propoli, il cemento/resinoso che tolgono alle gemme./E la nemica è rivestita in breve/d’una guaina e non ha più risveglio./L’apicultore trova ad ogni autunno,/tra i favi, questi grandi mausolei.

La natura può essere crudele come l’umano che l’esplora e che con i suoi strumenti può interferire su di essa specialmente quando si ha a che fare con organismi fragili o con le micro dimensioni. La chiusa riporta all’inizio del testo: la scena notturna e famigliare è turbata dalla presenza dell’Acherontia:

La villa è immersa nella notte. Solo/spiccano le finestre della sala/da pranzo dove la famiglia cena./L’Acherontia s’appressa esita spia/numera i commensali ad uno ad uno,/sibila un nome, cozza contro i vetri/tre quattro volte come nocca ossuta./La giovinetta più pallida s’alza/con un sussulto, come ad un richiamo./«Chi c’è?» Socchiude la finestra, esplora/il giardino invisibile, protende/il capo d’oro nella notte illune./«Chi c’è? Chi c’è?» «Non c’è nessuno. Mamma!»/Richiude i vetri, con un primo brivido,/risiede a mensa, tra le sue sorelle./Ma già s’ode il garrito dei fanciulli/giubilante/per l’ospite improvvisa,/per l’ospite guizzata non veduta./Intorno al lume turbina ronzando/la cupa messaggera funeraria.

La poesia non può essere tuttavia separata dall’ultima che Gozzano scrisse – Della passera dei santi (Macroglossa Stellantarum) – che celebra invece la vita. Ci sono delle somiglianze fra le due farfalle, ma sono le piccole differenze a proiettarci in un mondo in cui l’amore e l’eros trionfano.  

Amica, sotto il nostro sguardo ignaro/si celebra tra il fiore e la farfalla/il rito più mirabile, il mistero/più tenero: le nozze floreali.// «Mariti uxores unoeodemque thalamo/gaudent…», Linneo/meditabondo scrive./Degli sposi gran parte nasce vive/ama nel tabernacolo smagliante/della stessa corolla; sul pistillo/giunge dall’alto degli stami il bacio/desiderato, il polline fecondo.

Questo inno all’amore diventa un inno alla natura e a quella che oggi chiamiamo biodiversità:

Ma dopo esperienze millenarie/molti fiori s’avvidero che il bacio/nella stessa corolla, che lo stimma/fecondato dal polline fraterno,/conduceva la stirpe in decadenza,/e vollero l’amplesso dell’amante/lontano e meditarono le nozze/non possibili. Alcuni, gli anemofili/affidarono i baci d’oro al vento;/gli entomofili vollero gli insetti/paraninfi discreti e vigilanti./Ma il fiore – che sa tutto – non ignora/che vano è al mondo attendere conforto/se non da noi, che la farfalla esiste/pel suo bene soltanto e la sua specie;/ed ecco le scaltrezze del richiamo:/i colori magnifici, i profumi/ineffabili, il nettare che il fiore/distilla in fondo al calice, a compenso/del messaggio d’amore, per attingere/la coppa ambrosia con la sua proboscide,/la macroglossa deve tutti compiere/ i riti delle nozze floreali.

Infine il monito all’elemento umano: 

A tante meraviglie il nostro vano/orgoglio mal s’oppone col sofisma/che l’intesa tra il fiore e la farfalla/è fissa, che il mirabile congegno/non muta. Ma il convolvolo domestico abolisce/ il nettario, più non chiama/la macroglossa da che sente l’uomo/paraninfo sicuro e vigilante;/altri fiori depongono gli aculei,/il latice, i viticci, da che l’uomo/li difende li guida li sorregge.

La chiusa, di nuovo rivolto a un tu femminile, è un invito a ritrovarsi nella natura:

Amica, forse troppo a lungo e troppo/superbamente noi c’immaginammo/creature divine incomparabili/senza parenti sulla Terra. Meglio/ritrovarsi tra i fiori e le farfalle,/essere peregrin come son quelli,/verso la meta sconosciuta e certa./Certa è la meta. Com’è dato leggere/tutto il destino della Macroglossa/in ogni parte del suo corpo aereo/foggiato ad eternare la bellezza/d’una fragile stirpe floreale,/chiaro si legge il compito dell’uomo/nel suo cervello e nei suoi nervi acuti./Nessuno s’ebbe più palese il dono/d’elaborare la materia sorda/in un’essenza non mortale: anelito/di tutto ciò che vive sulla Terra/fluido strano ch’ebbe nome Spirito,/Pensiero, Intelligenza, Anima, fluido/dai mille nomi e dall’essenza unica./Tutto di noi gli è dato in sacrificio:/la ricchezza del sangue, l’equilibrio/degli organi, la forza delle membra,/l’agilità dei muscoli, la bella/bestialità, l’istinto della vita

Per concludere

Le opere maggiori di Gozzano sono coeve al sorgere del Futurismo: il contrasto è stridente, ma poco considerato perché, anche a causa delle scelte compiute da Gozzano stesso, era la sua vicinanza a D’Annunzio nella primissima parte della sua produzione poetica a ossessionare prima di tutti lui stesso, ma anche i critici. Il poeta torinese espunse dalle prime produzioni tutte le liriche che potevano apparire vicine al Vate e rifiutò persino di pubblicare con l’editore Treves perché troppo esposto con D’Annunzio. A un secolo di distanza mi sembra invece più interessante sottolineare le vistose differenze che separano Gozzano dal Futurismo; non solo per una sensibilità poetica lontana anni luce dal frastuono futurista, ma piuttosto per due diversi modi d’interpretare la modernità. Con Le farfalle lettere entomologiche  Gozzano amplia i confini del poetico estendendolo alle scienze e sebbene esistano dei precedenti storici nella poesia settecentesca (Sopra una conchiglia  fossile di Zanella per esempio), si tratta di una novità per la poesia italiana che avrà poco seguito nel ‘900, se si esclude qualche sensibilità espressionista e Pagliarani nella seconda parte del secolo. Tale novità può essere ancor più apprezzata se posta in relazione con i Futuristi che si propongono a loro volta di ampliare i confini del poetico, ma non è per loro la scienza in quanto strumento di conoscenza del mondo e della natura ad attirarli, bensì la macchina, il rumore e specialmente la guerra, vero centro propulsore della loro poetica. Oppure, come dimostra la campagna pubblicitaria di De Pero per la Campari, è il rapporto fra merce, capitale ed arte ad attirare le loro attenzioni. Il Futurismo russo cercherà una strada diversa e quanto mai creativa fino a che Stalin non porrà fine a tutte le sperimentazioni più ardite, ma trattare tale argomento esula dagli intenti di questo studio. Quanto a quello italiano, trascurato o irriso dall’avanguardia europea più agguerrita,  finirà nella deriva fascista e da parte di un Marinetti terminale addirittura nell’Inno alla Decima Mas.

Eliot lesse per curiosità il Manifesto di Marinetti e lo irrise, quanto a Pound il suo giudizio questo: …  impressionismo accelerato, una schiuma vomitata da un vortice senza propulsione. Questa presa di posizione di Pound è contenuta in una serie di articoli di polemica che la ‘Review of the great English verse’ conduceva riguardo alle interpretazioni del movimento imagista, cui il poeta apparteneva. Essa è riportata nel libro  T. S. Eliot in Italia, 1925-1963 saggi e bibliografia’ di Laura Caretti. Bari, Adriatica Editrice, Biblioteca di studi inglesi, 1968. Pag. 13.


[1] Va tuttavia detto che intorno alla vita di Gozzano è stato costruito un alone posticcio e la sua morte precoce a causa di una malattia come la tubercolosi, sono diventate metafora di fragilità, di effimero e malinconico. I dati biografici smentiscono in buona parte tutto questo. Gozzano, come tutti quelli della sua cerchia – maschi e femmine – era anche un gaudente un po’ guascone; di Guido, per esempio, viene detto che i suoi insuccessi scolastici (fu bocciato due volte), erano in larga parte dovuti all’insofferenza verso uno studio troppo guidato, ma specialmente per la propensione allo scherzo e all’irriverenza goliardica. Un capitolo a parte è poi costituito dalla relazione con Amalia Guglielminetti che si presta a diverse interpretazioni, alla luce di riflessioni recenti che mettono in evidenza l’omosessualità del poeta, di cui esistono testimonianze in lettere assai esplicite. Fu una vera storia d’amore quella con Amalia, oppure entrambi e non solo Gozzano, sapevano che mai lui avrebbe potuto accedere a una relazione eterosessuale? Un importante saggio scritto da Franco Buffoni nel 2016, in occasione del centenario della morte del poeta e facilmente accessibile in rete, offre a mio giudizio una esauriente, sobria e documentata ricostruzione della biografia di Gozzano che mi sembra definitiva nel correggere interpretazioni fantasiose. Emerge ovviamente da tutto questo anche un velo di ipocrisia che in quegli anni, pur così laici e spregiudicati, impediva comunque di nominare l’omosessualità per quello che era. Gozzano dissimulò la circostanza e lo si può capire visto che a oltre cent’anni di distanza, la strada dei diritti civili è ancora in salita.

[2] I Colloqui furono pubblicati nel 1911.

L’APOCALISSE  E LA SINISTRA.

Le scritture apocalittiche sono cresciute di numero fino a diventare esorbitanti, come avviene quasi sempre in momento di acuta crisi. Una variante rinata in pieno ‘900 in ambito linguistico anglo-statunitense, è la distopia. Il rapporto della narrativa distopica con l’Apocalisse di Giovanni è problematico: assente in alcuni casi (Animal Farm e 1984, per esempio), presente labilmente in altri, tale riferimento è però di uso corrente nelle interpretazioni catastrofiche del testo giovanneo; specialmente in certa saggistica. Proprio a questo livello la relazione è innegabile, seppure basata su una lettura che può non soddisfare molti credenti, ma che è ben radicata nella tradizione protestante nordamericana; tanto radicata che importanti consiglieri di presidenti statunitensi si sono spesso lanciati in ardite formule terrificanti. Fredkin, per esempio con il suo urlo: la bomba all’idrogeno è la buona novella della dannazione! e i continui richiami all’Harmageddon, cioè allo scontro finale fra il Bene e il Male.1 Per non parlare dell’ineffabile Edward Luttwak che studia da decenni la Caduta dell’Impero romano per capire come cadrà quello americano e cercare di impedirlo.

In anni a noi prossimi, però, è avvenuto un nuovo cambiamento rispetto al passato e cioè l’uso della scrittura apocalittica come strumento di denuncia e di critica anticapitalistica. Prendo come pretesto per questa riflessione un lungo saggio di Dany-Robert Dufour, introdotto da una nota di Miguel Martinez. Il saggio s’intitola L’uomo modificato dal neoliberismo. Dalla riduzione delle teste all’alterazione dei corpi e fu pubblicato su Le monde diplomatique nell’aprile del 2005. Lo riprendo a distanza di anni perché mi sembra ancora attuale. Non mi addentrerò in un’analisi dettagliata delle tesi di Dufour che si rifà anche a esempi molto diversi e disparati fra di loro e fa molte affermazioni senza motivarle e senza spiegarle. Cercherò piuttosto di dire per quale motivo ritengo che le scritture apocalittiche non possono essere usate come strumenti di denuncia anticapitalistica o come critica allo storicismo della sinistra, come afferma Martinez nella nota introduttiva, confondendo però a mio giudizio storicismo con positivismo e riferendosi soltanto al marxismo storico novecentesco più che al pensiero di Marx. La sinistra non ha perso perché è stata storicista, ma perché ha smesso di essere anticapitalista, perché non ha accolto la sfida del femminismo, neppure quello che è rimasto ancorato alla critica anticapitalista, perché è rifuggita da un bilancio teorico, antropologico e non solo politico dell’esperienza fallimentare del socialismo reale; perché, infine, ha sposato le tesi neoliberali e neo liberiste, come dimostra il fatto che in Italia e non solo, le privatizzazioni più selvagge e tutta l’impalcatura disastrosa della cosiddetta casa europea sono state messe a punto e realizzate dai due governi Prodi e dal governo D’Alema (che ci ha pure regalato la partecipazione alla guerra alla Serbia) e non dai governi Berlusconi, che hanno fatto ben altri danni ma su terreni diversi. Lo stesso è accaduto in Francia e in Germania. 

Le scritture apocalittiche non possono essere strumenti di critica e denuncia in quanto non ammettono l’esistenza di una via d’uscita se non nell’escatologia e dunque fuori dalla storia. Come tali assumono la veste involontaria di apologie dell’esistente. L’Apocalisse di Giovanni, infatti, finisce con la discesa della città di Dio sulla terra solo alla fine dei tempi quando la guerra di tutti contro tutti ha dissolto la storia umana. La leggiamo ancora oggi dopo migliaia di anni perché è un grande testo letterario. Essa non fu scritta per criticare i mali del mondo, che erano terrificanti tanto quanto i nostri se non di più, ma per alimentare la speranza di un rapido ritorno di Gesù Cristo sulla terra. Mentre la via d’uscita per Giovanni esisteva come trascendenza, nell’uso catastrofico che dell’Apocalisse si fa nelle scritture mondane, la via d’uscita non esiste più, si viene posti di fronte al ritorno di Ananke, ma senza la grandezza del pensiero greco. Il linguaggio usato, allora, produce un effetto contrario a quello che vuole ottenere perché, invece di produrre indignazione aumenta i vissuti di frustrazione e impotenza. Viviamo dunque nei migliore dei mondi? Proprio no, ma la critica è altra cosa e non può essere disgiunta dall’indicazione almeno di un orizzonte di senso, cioè quello che manca alla sinistra ormai da decenni. Perché è l’orizzonte di senso che muove le persone ed è quest’ultimo il solo a generare praxis: qualsiasi denuncia disancorata da questo non produce nulla. C’è un’altra ragione che scoraggia l’uso critico della scrittura apocalittica. Come i miti, l’Apocalisse è qualcosa che esiste sempre ma non accade mai, ma nel suo aspetto di sempre esistente è sempre già accaduta. Gli esperimenti di clonazione umana di cui parla Dufour, Antinori li fa da anni, l’esistenza di corpi predati per fornire organi è documentata dall’Onu, la dissoluzione dei vincoli sociali è all’origine del sistema capitalistico, ma noi siamo ancora qui! Infine, la critica apocalittica assolutizza gli aspetti più appariscenti del momento ma non ne coglie gli aspetti ideologici, distopici e di falsa coscienza A questo proposito l’uso che Dufour fa di una celeberrima citazione di Marx è del tutto fuorviante. Riporto per intero citazione:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento dell’antico sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le istituzioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti … Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Se storicizziamo tale affermazione, ne comprendiamo bene la ragione: il suo intento era proprio quello di mettere in evidenza le differenze fra la staticità del mondo precedente, quello dell’ancien regime, regolato ancora dal sorgere e calare del sole e la nascente società industriale, governata dagli orologi, da un’ossessiva dinamicità e da tempi di lavoro che non coincidevano più con i tempi della prima natura. Se la critica di Marx viene riproposta tout court in un contesto diverso e destoricizzato assume essa stessa  una tonalità apocalittica del tutto estranea al suo pensiero. Per un verso Dufour non ci dice nulla di nuovo, visto che Marx lo aveva scritto duecento anni fa, dall’altro veicola un vissuto che si può condensare in un sentimento di resa: se le cose andavano così allora e vanno nello stesso modo oggi, non c’è nulla da fare. In questo modo però siamo del tutto interni alla legge dell’eterno ritorno, che è appunto la ragione per cui fu scritta l’Apocalisse di Giovanni. Invece le cose non sono andate affatto così e anche quella frase di Marx, è stata smentita e non confermata dalla storia, che è stata anche storia dell’insorgenza operaia, di una Rivoluzione contro il Capitale e di molto altro ancora. L’auto contraddittorietà del ragionamento apocalittico emerge a mio giudizio in questo passaggio del saggio di Dufour:

Ma il mercato riesce a strumentalizzare tutto a proprio vantaggio: già sono sulla breccia numerosi gruppi che vantano e vendono una morale da paccottiglia. Sarebbe però un errore cruciale abbandonare il dibattito sui valori ai conservatori, siano essi “neo” o di vecchio stampo. Se si trascura questo terreno, ad occuparlo provvedono George W. Bush, i tele-evangelisti e i loro accoliti puritani, come sta accadendo negli Stati uniti, oppure i populisti fascistoidi come in Europa. È dunque urgente costruire una nuova riflessione sui valori, sul significato della vita nella società e sul bene comune, rivolgendosi a fasce di cittadini allarmati, sia pure confusamente, dai guasti morali dovuti all’espandersi indefinito del regno delle merci. È chiaro che se si trascura questo terreno, molti cittadini saranno tentati di lasciarsi trascinare dalla parte di chi lo occupa in maniera tanto abusiva quanto rumorosa.

Se il mercato può strumentalizzare davvero tutto, quello che segue nel ragionamento di Dufour smette di avere senso se non nella direzione di un discorso astratto sui valori che non può essere conteso ai telepredicatori ma anche a un Bergoglio, per esempio, il quale cacciatosi nella missione impossibile di convertire al cristianesimo la curia romana e molti cattolici, si trova ad essere inviso a una buona parte dei medesimi, diventando al tempo stesso un involontario leader della sinistra senza pensiero!

Nel quaderno 32 intitolato Americanismo e fordismo, Gramsci, dopo una lunga serie di osservazioni sulla fabbrica fordista, arriva alla conclusione che l’ideale di operaio per il signor Henry Ford erano il robot e la scimmia ammaestrata. Se ci fermiamo qui la frase è apocalittica e sembra un’anticipazione di quell’uomo nuovo costruito in laboratorio di cui parla anche Dufour. Gramsci, però, la usa sia per affermare che il modello fordista si sarebbe affermato ovunque e che era quello cui si doveva guardare per capire i nuovi orizzonti della conflittualità di classe, sia per mettere in evidenza i caratteri ideologici e cioè di falsa coscienza di quell’osservazione. Quella della scimmia ammaestrata era l’utopia del signor Ford e di tutti quelli come lui (anche se preferisco definirla distopia e sul fatto che questo genere letterario sia nato in ambiente anglo-americano ci sarebbe molto da dire, ma esula dagli intenti di questo scritto). Ognuno ha le sue utopie, anche i capitalisti: alcune terrificanti come quelle indicate anche da Dufour, altre meno, come  quella di Adriano Olivetti. Ora, se è sbagliato irridere le utopie degli altri è ancora più sciocco crederle vere alla lettera! Rimango fedele a un’idea di essere umano come ente generico (Gattungsgewesen, per dirla con Marx), cioè non specializzato. Ciò vuol dire in sostanza che mentre le termiti sanno bene cosa sono al mondo per fare, lo fanno bene e sanno fare solo quello, gli esseri umani sanno fare un po’ di tutto, ma lo fanno genericamente e anzi, gli eccessi di specializzazione portano a corpi paradossalmente fragili. Questo lo si può notare osservando gli sportivi, specialmente in alcune specialità come la ginnastica e a prescindere dal doping. La ragione di questo è indicata anche da Dufour: la specie umana è neotenica. L’animale umano nasce immaturo rispetto a tutte le altre specie e l’osservazione di un qualsiasi animale appena nato ce lo indica facilmente: nessun cucciolo ha bisogno di tanta cura da parte di altri, mentre un neonato morirebbe nel giro di pochi giorni se fosse lasciato solo: la neotenia ci obbliga a inventare protesi e questo, grazie alla tecnologia, può favorire deliri di onnipotenza che sono anche forme ideologiche. Non so se Antinori pensa davvero di essere il dio di una nuova creazione, non lo conosco se non per avere letto un po’ di polemiche sulle sue ricerche (lo pensa, invece sicuramente Fredkin e cioè il massimo esperto di intelligenza artificiale); ma forse dovrà arrendersi alla mancanza di fondi e qualcuno che lo ricondurrà a miti consigli e altro ancora.

Paolo Rabissi, sul primo numero della rivista online Overleft, ha scritto un saggio sul più grande studioso del post modernismo – Frederick Jameson – che nella sua opera monumentale definisce proprio utopie del capitale certe ipotesi o intendimenti visionari e catastrofici, svelandone il contenuto ideologico. Al saggio di Rabissi rimando per chi volesse approfondire la questione.

Per venire a tempi a noi recenti e forse ancora nella memoria collettiva, il fordismo non è morto di morte naturale, ma perché ci sono state le lotte operaie di un secolo intero e perché le scimmie ammaestrate non erano tali, ma uomini e donne che si sono ribellati, che hanno creato valori diversi nella concretezza del loro agire e non in astratto; che questo in Italia, per esempio, ha significato anche avere per anni una scuola e un servizio sanitario di alto livello, che rimpiangeremo assai dopo averlo criticato perché volevamo di più. Il problema è che, se si smarriscono le radici, si smarrisce anche la propria storia e smarrendola non si cercano più gli errori che si sono fatti o le nuove aperture che non si sono viste, ma non ci si ricorda di quanto positivo è durato nel tempo! Allora si cade in una duplice forma di oblio: quella del tempo che non passa e che si traduce nel finto agire della cosiddetta sinistra radicale, oppure nel rinnegare del tutto il proprio passato sposando la causa neoliberista come è avvenuto sia per i partiti ex comunisti sia per le socialdemocrazie europee.


1 Uno studio dettagliato sui rapporti fra mistica e tecnologia si trova nel libro di David Noble intitolato La religione della tecnologia: divinità dell’uomo e spirito di invenzione. Esiste una vecchia edizione introvabile tradotta in italiano per Einaudi, ma fuori catalogo.

IL RIMOSSO DELLA STORIA: VIOLENZA DI STATO E SOCIALE AL TEMPO DEL PATRIARCATO CAPITALISTA

Il testo che segue è la trasposizione scritta del mio intervento al convegno che si tenne a Barranquilla in Colombia  nel 2019 ed è stato pubblicato nel libro bilingue (castigliano e italiano) a cura di Eva Gerace, dal titolo La psicoanalisi e la sua causa nel tempo del non ascolto, pubblicato da Città del Sole edizioni.

L’uso che faccio della parola rimozione o rimosso della storia non ha nulla a che vedere con il concetto analitico, fra l’altro controverso per via della traduzione in italiano del termine freudiano. L’uso che qui faccio della parola rimozione si riferisce alla storia e alla politica e con tale termine intendo nominare quei processi di cancellazione della memoria storica che il potere tende sempre a mettere in atto e a cui resistono le narrazioni altre che cercano invece di porle al centro discussione. 

***

La categoria del rimosso non appartiene solo alla clinica psicoanalitica ma può essere estesa alla storia. Le diverse forme attuali di violenza, alimentate dalle politiche economiche e di potenza, oppure le manifestazioni più efferate che nascono nel tessuto sociale devastato dalle politiche neoliberiste, non sono spiegabili soltanto con le dinamiche dei conflitti attualmente in corso, ma sono il precipitato di antiche ferite mai risolte che riappaiono improvvisamente.   

Non è stato facile decidere di che cosa parlare in questo incontro e infatti sia il titolo sia i contenuti del mio intervento sono cambiati più volte. La parola ascolto ha una lunga tradizione nella cultura europea moderna. Montaigne fu il primo filosofo e antropologo che si rese conto della diversità culturale e fu il primo ad avvicinarsi ai popoli lontani dall’Europa con una volontà di ascolto e non predatoria. Da questa tradizione europea sono nate molte cose fra cui la Rivoluzione Francese, il concetto di riconoscimento dell’altro, fondamentale in Hegel almeno tanto quanto la dialettica; poi i diritti umani, il movimento operaio con le sue pratiche, un modello costituzionale che viene oggi adottato anche in altre parti del mondo. Aldilà del riconoscere tutto ciò, occorre tuttavia domandarsi perché permangono allora forme brutali di sfruttamento, una mescolanza fra violenza di stato e sociale, poteri criminali che sono ormai una parte anche della cosiddetta economia legale (penso al ruolo del narcotraffico e delle mafie). Infine, pensando a ciò che accade in Europa negli ultimi anni: cosa significano le periodiche ondate migratorie che raggiungono le metropoli europee, se non un ritorno del rimosso della storia? Sono uomini e donne che fuggono da guerre e povertà quasi sempre causate da interventi militari delle potenze occidentali. Questa è storia contemporanea, che è causa di molte polemiche politiche in Italia; ma come non vedere le radici lontane di questi fenomeni, le ferite mai sanate e metabolizzate della storia? Lo stesso si può dire della violenza maschile contro le donne, i femminicidi. Allora mi sono posto una domanda sul luogo in cui mi trovo. I luoghi non sono neutrali e io mi trovo in una città colombiana, in un continente molto lontano, rispetto al quale in quanto europei abbiamo una responsabilità storica che non può essere rimossa, tanto meno in un convegno che ha al proprio centro la psicoanalisi. Più pensavo a tutto ciò più mi rendevo conto che il campo del non ascolto nella mia relazione si restringeva a una sola forma delle tante possibili: la violenza pura e semplice che si manifesta in molti modi ma che è prima di tutto utilizzo della forza brutale, istigazione all’odio razziale particolarmente virulento in Italia in questo momento, una violenza nella doppia accezione di violenza di stato da un lato ma anche sociale, che sorge dalle viscere del corpo sociale devastato della società capitalista a patriarcale, in Europa come in altre parti del mondo. 

La scoperta dell’altro

Il problema è molto antico e si perde nel tempo, però pensando alle relazioni fra Europa e continenti americani mi sono ricordato di un testo teatrale di Dario Fo.  Juan Padan alla scoperta delle Americhe è un’opera che continua quella più importante di Fo e cioè Mistero buffo. In tali opere, documentazione storica e invenzione si confondono in modo inestricabile. La lingua in cui sono scritti è il Grammelot, una mescolanza di idioma lombardo, italiano maccheronico e antico francese. Una lingua dei giullari che è al tempo stesso invenzione, imitazione del parlato quotidiano, molto espressionista. Che cosa si racconta in questa opera teatrale? Che fra gli invasori europei che arrivarono prima in Messico e poi in tutta l’America Latina, c’era anche un uomo che è nato dalle parti dove sono nato io stesso, nella Lombardia a nord Milano, a ridosso del confine svizzero. Joan Padan, il personaggio, è un falegname e artigiano, si occupa di molti aspetti di vita quotidiana della spedizione. È un uomo comune, semplice, che partì per spirito di avventura e per fuggire da qualcuno o da qualcosa, come molti altri. Dal suo racconto sappiamo che aveva già partecipato ad altre spedizioni militari in Europa e all’inizio sembra che la nuova esperienza non sia diversa dalle altre. Tuttavia, giorno dopo giorno Joan Padan capisce che no, le cose non sono uguali. Gli uomini e le donne che stanno dall’altra parte, i nemici, sono diversi, prima di tutto perché quando s’incontrarono per la prima volta il loro atteggiamento non era affatto bellicoso. Nelle guerre europee gli uomini che si combattevano erano molto simili, qui no. Prima di tutto lo scandalo della nudità, un tabù per gli europei, in particolare la nudità delle donne indigene, i loro modi di vita. Per farla breve Joan Padan incontra l’Altro per la prima volta e non è solo una sua esperienza, ma una metafora che riguarda l’Europa intera. Si potrebbe pensare che questo non sia del tutto vero, che durante le Crociate – per esempio – l’Europa avesse già incontrato l’altro, ma si tratta di un’esperienza ben diversa. Ci sono molti aspetti in comune fra Cristiani, Ebrei e Islamici, Gesù Cristo è un profeta ebreo nominato nel Corano e non solo quello che è per i Cristiani, ci sono differenze riguardo ai cibi in alcuni casi ma in altri no. Il riconoscimento reciproco era possibile anche in una situazione di guerra e poi nel trattamento dei tabù riguardanti la sessualità, l’impurità delle donne, il dominio maschile, erano tutti d’accordo. L’indigeno latino americano è l’Altro assoluto, gli europei non sanno nulla di loro. Il personaggio di Fo non si limita a osservare, ma comincia a porsi delle domande, fa le sue deduzioni: a volte comiche, a volte tragiche o strampalate, ma si rende conto che anche nel modo di condurre al guerra ci sono delle diversità. La mancanza di ogni pietà, il disprezzo dell’altro lasciano nel suo animo un segno profondo. Egli non è un eroe, però non fa finta di non vedere: e cosa vede? Cristiani che commettono ogni genere di crimini verso popolazioni considerate inferiori. Noi oggi abbiamo una parola per definire tutto questo, razzismo, un marchio originale del colonialismo europeo. La conquista fu violenza militare e politica, successivamente nella storia europea sarebbe diventata – con la rivoluzione industriale – predominio economico e finanziario. Ci sono poi forme sociali di violenza che sono collegate alla prima che e pure hanno una loro autonomia: la violenza maschile sulle donne, quella sui bambini, gli abusi sessuali come la pedofilia, il turismo sessuale. Che risposte possiamo tentare di dare? Pensando alla domanda mi sono venuti in mente due libri. Il primo fu scritto negli anni ’70 dalla femminista italiana, Lea Melandri, il titolo del libro è L’infamia originaria. Il secondo è un libro recente scritto dallo psicoanalista francese Gerard Pommier che mi sembra molto conosciuto in America Latina, ma non è stato ancora tradotto in italiano e io stesso l’ho letto nella lingua castigliana. Il libro s’intitola Il femminile una rivoluzione senza fine. Che cosa hanno in comune i due libri? Entrambi si interrogano sulla violenza e subordinazione di genere e anche sull’origine del potere.

Melandri critica sia l’idealismo filosofico europeo sia l’economicismo marxista e riporta l’origine della violenza alla dominazione sessuale che è per lei il paradigma di tutte le forme successive di oppressione, sfruttamento e dominio. Pommier riconduce alla legge del padre una delle ragioni del dominio e s’interroga al tempo stesso sulle ragioni per cui il processo rivoluzionario francese si arenò proprio sulla questione del potere politico. Per lui i rivoluzionari francesi dopo avere distrutto i simboli più vistosi della legge paterna, a cominciare da quelli religiosi, hanno introiettato il medesimo meccanismo del potere nell’inconscio e dopo avere ucciso il padre hanno ricostruito la legge patriarcale affidandosi a un piccolo padre come Napoleone Bonaparte. Da questa dinamica del potere le donne, ma anche le minoranze sessuali o gli immigrati (gli antichi meteci della polis greca) continuano a essere esclusi. Del libro di Melandri, si può dire che si tratta di un classico insieme ad altri della cultura femminista degli anni ’70 in poi, attuale e importante anche oggi. Del Femminile un rivoluzione senza fine si può dire che è scritto da un uomo che ha saputo interrogarsi sulle ragioni del femminismo e non le ha ignorate come molti altri. Ne cito due brevi passaggi nei quali è citata anche Judith Butler riportati nel libro di Pommier:

..il rifiuto del femminile fu sempre una questione teologica , correlata alla spiritualizzazione del padre. Questa repressione si esercitò di padre in figlio fin dall’origine dei tempi. Però la sua longevità non le dà alcuna legittimità…”

Bisogna considerare l’impulso teologico istituito da questa rappresentazione della legge paterna, come autorità insondabile inconoscibile cui il soggetto è sottomesso ancora prima di essere sessuato, come un continuo fallimento…La costruzione di una legge che garantisce il fallimento è il sintomo di una morale da schiavi, che smentisce la produttività stessa del potere che essa impiega per costruire la legge come impotenza permanente.”(pag 85-86). 

Quali ulteriori e conclusive riflessioni si possono fare? Riprendo il tema che ho posto all’inizio del mio intervento. La categoria del rimosso non è importante solo per la clinica analitica, cioè nel rapporto fra analizzante e analista, ma riguarda anche la storia. Ascoltare, nella nostra contemporaneità, significa per me ascoltare prima di tutto questo enorme rimosso che insorge un po’ ovunque nel mondo. Penso ai movimenti delle donne, quelli della rete Nonunadimeno ma non solo, con le loro diverse caratteristiche. Penso allo sciopero sociale dell’otto marzo che è giunto quest’anno alla sua terza edizione. Penso al movimento Friday for future sulle questioni climatiche che ha indetto proprio per il prossimo 20 settembre un sciopero a livello mondiale.

Concludo allora con un’immagine ricorrente nella cultura europea del ‘900. Fu inventata dal filosofo tedesco Walter Benjamin. L’immagine è quella dell’angelo della storia che secondo Benjamin procede impetuosamente in avanti ma ha gli occhi solo dietro di sé, per cui può vedere soltanto le terribili distruzioni che il suo procedere provoca. Se non riusciamo collettivamente a girare la testa dell’angelo e a guardare come umanità in avanti verso il futuro, credo che ci attendono tempi ancor più terribili di questi, perché il pilota automatico patriarcale e capitalista e cioè l’immagine attualizzata dell’angelo della storia, non si fermerà da solo se non ci saranno decise e collettive azioni per fermarlo.


McCARTHY, KAFKA, LISPECTOR. Terza parte

Dopo che il bambino, la donna e l’uomo armato sono usciti di scena, la narrazione vive un momento di sospensione del tempo. Nel silenzio di tutto ciò che è umano, il narratore sogna o rimpiange il momento originario della vita, che precede la specie umana:

Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini … Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero.

Tale conclusione è idealmente divisa in due parti distinte. Le mappe e i labirinti sul dorso dei salmerini di montagna sono certo una rappresentazione della complessità della vita che già portava in sé il codice evolutivo che avrebbe portato ai primati e poi agli umani; il narratore lo descrive come un progetto e un codice che non possono essere modificati, ripete però il concetto due volte, in forme diverse. Nella seconda inizia con un Not  che nella traduzione italiana diventa un che quanto mai opportuno perché suggerisce l’idea di un pensiero che colpisce improvviso qualcuno: non si comincia un periodo con il not o con il che se non si è colti da una sorta di soprassalto, il che in particolare ha qualcosa di percussivo, come se all’ultimo momento il narratore non si arrendesse all’idea di un progetto che non può essere modificato e infatti la conclusione sposta di nuovo il confine e si sottrae a una conclusione univoca, ma riapre tutta la questione. Era la prima natura a vibrare di mistero e nel soprassalto finale del testo c’è come un’oscillazione: il narratore rimpiange semplicemente una natura nella quale la seconda non era ancora comparsa, se non come progetto futuro, oppure il testo si apre alla speranza che la prima natura continua ad operare seppure dentro una seconda natura che ha portato alla devastazione che il romanzo rappresenta? L’interrogativo non può essere sciolto dal momento che McCarthy si ferma a questi punto.14

Tuttavia, nella narrativa del ‘900 ci sono delle assonanze con questa conclusione.     Nel 1938 Walter Benjamin scrisse uno dei suoi saggi critici più importanti. L’occasione fu il decennale della morte di Kafka. Il saggio nacque anche dalla fitta corrispondenza che in quegli anni egli intratteneva con Gershom Scholem e infatti alcune ulteriori riflessioni si trovano non tanto nello scritto principale, ma nelle lettere che si scambiarono, in particolare la lettera 109. Benjamin contesta la tesi secondo cui Kafka si sarebbe trovato sulla via della santità e obietta come non si possa dare un concetto come quello al di fuori di una concezione religiosa fondata sulla tradizione. Dopo tale affermazione Benjamin cita una pagina di Eddington leggendo la quale in effetti, come dice lui stesso, sembra di leggere Kafka. La citazione di Eddington è davvero impressionante per la vicinanza al praghese e Benjamin lo sottolinea di nuovo affermando che non c’è nulla di più vicino al romanziere di questa prosa di un fisico. Perché Eddington descrive un’aporia e lo fa con accenti che oscillano fra il comico, l’assurdo e il tragico e basterà forse citare l’inizio:

Sono sulla soglia, in procinto di entrare nella mia stanza … In primo luogo devo lottare contro l’atmosfera, che preme sul mio corpo con la forza di un chilogrammo per centimetro quadrato … 15

Benjamin tira una prima conclusione affermando che l’aspetto folle in Kafka sta nell’aver potuto accedere al mondo recentissimo della fisica relativista, tramite la tradizione mistica e che ciò ha avuto effetti devastanti sulla tradizione stessa. Kafka in sostanza vivrebbe in un mondo complementare, che Benjamin giudica affine a quello di Klee. Secondo lui, allora, l’opera di Kafka rappresenterebbe una malattia della tradizione, che non ammette il tempo relativistico. Lo scrittore sperimenterebbe così la complementarietà di mondi diversi ma anche di tempi diversi nella contemporaneità: un vero e proprio paradosso! L’esperienza mondana, alla luce della fisica novecentesca, è immersa in un tempo diverso da quello della tradizione, ma è grazie a quest’ultima che Kafka lo comprende. Se si pensa a due racconti speculari come Davanti a legge e Un messaggio dell’imperatore, così oscuri in apparenza, questa intuizione di Benjamin li rende immediatamente più chiari. Per lui, anche altri avevano già raggiunto tale soglia, ma il tratto geniale di Kafka consiste per Benjamin nel fatto che, arrivato a quel punto… lui sperimentasse qualcosa di completamente nuovo: sacrificò la verità per non rinunciare alla trasmissibilità … cioè a quello che nella tradizione ebraica è l’elemento haggadico. In sostanza, nel momento in cui la tradizione permette a Kafka di accedere al mondo fisico relativistico, egli perde la verità che quella stessa tradizione rappresenta; ma scegliendo la trasmissibilità di qualcosa (la narrazione), invece che abbarbicarsi alla verità, Kafka, secondo Benjamin, sceglie di credere a qualcosa, nonostante non esista più una verità in cui credere. La verità in senso sacrale, esoterico o esoterico-religioso è persa, non la trasmissibilità di qualcosa, che diventa la strada nuova per significare di nuovo il mondo senza cadere nel nichilismo. Una volta resosi conto con orrore dell’aporia in cui è precipitato l’umano che vive l’esperienza della nuova fisica, il Kafka di Benjamin scopre i limiti della saggezza umana:

Per questo in Kafka non si parla più di saggezza. Restano solo i prodotti della sua disgregazione. Sono due: da un lato la diceria sulle cose vere (una specie di giornale teologico dove si sussurra del malfamato e dell’obsoleto); l’altro prodotto di questa diatesi è la follia che ha dissipato il contenuto proprio della saggezza … La follia è l’essenza delle creature predilette da Kafka: da Don Chisciotte agli assistenti fino agli animali.16

La diceria delle cose vere ha a che fare con la seconda natura, che per Benjamin, grazie alla riproduzione tecnica, ha fatto un salto gigantesco, mentre la follia diventa, nei personaggi kafkiani, una specie di difesa tragicomica: tranne in uno, Gregor Samsa, per il quale l’autodifesa diventa metamorfosi e tentativo di fuga dall’umano nell’animale e non semplicemente identificazione con esso. Dopo la metamorfosi Kafka può ritornare nel consorzio umano, secondo Benjamin, con:

alcune convinzioni fermissime: in primo luogo un uomo, per aiutare, deve essere un folle; in secondo luogo solo l’aiuto di un folle è veramente tale. Incerto è solo un punto: giova ancora all’uomo? Forse giova piuttosto agli angeli … Come dice Kafka, è data una quantità infinita di speranza, solo non per noi. Questa frase racchiude veramente la speranza di Kafka. È la fonte della sua radiosa serenità.17

Questa sintesi di Benjamin è profondissima, ma era pure destinata a rimanere oscura quando fu scritta, così come oscuro rimase Kafka per lungo tempo.Ora che sappiamo che cosa sia l’energia atomica, ora che sappiamo che lo scarafaggio sarebbe fra i pochi animali capaci di sopravvivere a una catastrofe nucleare e dunque a non interrompere la catena della vita ma a riproporne una diversa evoluzione, possiamo comprendere meglio la profondità del suo sguardo. Il finale de La strada non ci riporta forse, decenni dopo, allo stesso punto di snodo? Da un lato si allude al fatto che la vita può fare a meno di noi e che continuerà anche senza di noi; dall’altro, nel sussulto finale e nel mistero delle origini sembra di poter intravedere una scommessa assai simile al concetto kafkiano di speranza, secondo l’interpretazione di Benjamin. Si tratta di una speranza generica, non necessariamente rivolta ancora agli umani, ma pur sempre speranza che Kafka, a differenza di Benjamin vede forse maggiormente negli animali. È quello che avviene nel romanzo di Clarice Lispector La passione secondo GH, dove la protagonista femminile incorporando lo scarafaggio e assumendolo con la solennità che ricorda la comunione cattolica allude in modo estremo a una speranza completamente folle, di ricongiungimento fra prima e seconda natura.


14 Nel marzo 2022 è stata annunciata la prossima pubblicazione di due romanzi di Cormac McCarthy, sedici anni dopo l’uscita de La strada: i titoli inglesi sono The passenger e Stella Maris. La casa editrice Einaudi, che detiene in Italia i diritti per la pubblicazione del romanziere statunitense, ha comunicato che la traduzione di entrambi sarà pronta nei primi mesi del 2023. In rete si trovano delle anticipazioni sia sulla trama sia sui protagonisti che non riporto qui perché nulla può sostituire al lettura diretta delle opere che cercherò di procurarmi prima in lingua originale.

15 Benjamin e Scholem Teologia e utopia, Einaudi Torino, 1966, pag.254

16 Ivi.

17 Ivi.

CORMAC McCARTHY: LA STRADA. Seconda Parte

Il romanzo di McCarthy si presenta dalle primissime pagine segnato dall’asimmetria fra tempo e spazio: il primo è azzerato nel senso che il futuro sembra non esistere più e il mondo vive in un eterno presente, mentre i luoghi e gli oggetti, sono riconoscibili e fanno già parte del nostro quotidiano, seppure in una forma solo un po’ più degradata rispetto alla realtà:

Nel giro di due giorni arrivarono in una regione dove le tempeste di fuoco si erano lasciate alle spalle chilometri e chilometri di terra bruciata. Sulla strada una crosta di cenere spessa diversi centimetri e difficile da affrontare con il carrello. L’asfalto sottostante aveva ceduto per il calore e poi si era risolidificato … Gli esili alberi caduti. La fanghiglia grigia dei canali. 7

I due protagonisti, un padre e un figlio, sono in fuga verso sud ovest – e quindi la California – perché in riva all’Oceano sperano che la vita sia più clemente. C’è di nuovo la frontiera, dunque; ma dall’epopea della conquista, passando per la Grande Depressione immortalata da Steinbeck in Furore e nelle poesie di Karine Hesse, si è giunti al tempo presente azzerato.

In che rapporto si pone questo romanzo con il genere della distopia, di cui la letteratura anglo-statunitense ci ha dato nei secoli scorsi molti e celeberrimi esempi? Confrontiamo il brano precedente con quello che segue, tratto da un racconto di Ballard dal titolo Le voci del tempo:

Raggruppate a semicerchio a breve distanza gran parte delle vasche e delle gabbie accatastate l’una sull’altra alla rinfusa. In una di esse un’enorme pianta simile a un polipo era quasi riuscita ad arrampicarsi fuori dal terrario … il suo corpo era esploso in una pozza gelatinosa di mucillagine globulare. In un’altra un gigantesco ragno  rimasto intrappolato nella propria tela penzolava impotente … Tutte le piante e gli animali del laboratorio erano morti.8

Le affinità indubbiamente esistono; entrambi gli scenari sono inquietanti e hanno aspetti apocalittici, ma nel secondo caso, alcune parole chiave, il tono della descrizione e le dimensioni abnormi degli animali, ci fanno individuare subito il genere di appartenenza, così che il lettore viene subito portato dentro un mondo artificiale e futuribile, anche se nel caso di Ballard come di Philip Dick, il genere diventa allegoria. Il racconto in questione risale a un’epoca compresa fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 del secolo scorso e immagina un futuro di dominio della tecnologia, fatto di città futuribili, più o meno abnormi e mostruose, esperimenti pericolosi come quello cui si allude in questo brano.9

Per quanto inquietanti, le opere distopiche, lette a distanza di anni, rivelano tutta l’ambivalenza di chi si sente al tempo stesso affascinato e impaurito dalla società futuribile che descrive, mettendo in atto anche espedienti narrativi che colludono con la realtà descritta. Con La strada non siamo più nella fantascienza e neppure nella distopia per il semplice fatto che non c’è più il futuro e cioè la proiezione temporale verso cui tutte le opere di genere si protendono: uno dei temi sottesi a La strada è proprio come continuare a vivere e questa è una prima risonanza che il romanzo intrattiene con il libro di Ciccarelli, che si pone, fra gli altri, anche questo interrogativo: come vivere da postumi?

Il romanzo è l’esito coerente del percorso del suo autore: tutti gli elementi forti costituivi della sua narrativa e del rigore stilistico vengono tesi al massimo; ma è proprio questo che getta una luce diversa sull’intera opera dallo scrittore. Non nella semplice rivisitazione del mito statunitense e bianco delle origini va cercata la sua forza, ma nel fare della conquista del West la metafora della possibile fine della specie umana. Nel rappresentare questo, tuttavia, McCarthy porta anche alle estreme conseguenze il telos implicito che era contenuto in altre opere che per tutto il secolo scorso hanno ipotizzato, con la loro visionarietà, gli esiti catastrofici che qui vediamo rappresentati; ma quella era fiction e solo fiction. Sarà difficile per tutti (e dunque anche per lui) scrivere opere catastrofiche dopo questo romanzo e proprio nel finale lo scrittore allude al necessario superamento della sua stessa narrativa.  

L’orizzonte delle grandi distopie novecentesche è sempre il futuro (meglio ancora il futuribile), anche quando il tempo narrativo scelto è il passato remoto.

L’arte naturalmente è sempre finzione, ma secondo una nota definizione che mi permetto di parafrasare, c’è differenza fra una finzione che dice la verità e una che invece reitera la finzione stessa con una sequenza d’effetti speciali, il cui unico scopo è quello d’intrattenere. Naturalmente si può obiettare che tracciare una linea netta fra le due finzioni è difficile se non impossibile; tuttavia è possibile stabilire delle analogie, perché penso che ciascuno, intuitivamente, possa comprendere tale differenza, se posto di fronte a  un esempio concreto.10

La finzione minima di cui si serve McCarthy è quella di dare per scontato che la catastrofe sia già avvenuta, senza spiegarne assolutamente i motivi: non vi è nulla nel romanzo, infatti, che ci possa fornire una qualche indicazione al proposito. La perentorietà dell’inizio (le prime due o tre pagine), che forniscono la chiave e danno il tono dell’intero romanzo, sono sufficienti a testimoniarlo. Lo stile di McCarthy ricorda il concetto di straniamento che spinge chi legge a identificarsi con la situazione drammatica nel quale i protagonisti sono coinvolti, piuttosto che con l’eroe, della cui esistenza si sono perse le tracce anche se rientrerà in scena nel finale nei modi che vedremo. L’identificazione è piuttosto con la nuda vita, con la necessità di una cura rivolta alle cose minime di cui è fatta una vita postuma; oppure con una speranza che è rivolta a una gratuità senza limiti, ma anche senza scopi. Kafka, almeno nella lettura che ne dà Walter Benjamin, era arrivato alle medesime conclusioni decenni prima. Per chiarire questo punto rimando alle conclusioni.  

Una secondo elemento, combinato con questo, crea nel lettore, la sensazione di trovarsi dentro la vicenda e non proiettato in chissà quale tempo a venire. Consideriamo per esempio questo passaggio:

La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti. … Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava e cielo. Nel tardo pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve bagnata che sibilava contro la plastica.”11

Il lessico comune, la sobria aggettivazione, la semplicità e brevità dei periodi, talvolta senza alcun verbo, ma semplicemente descrittivi (Mucchi di rifiuti indistinti) danno alla frase maccartiana un forte impatto comunicativo. Se isoliamo ciascuno dei periodi, come se fossero le inquadrature di una lenta sequenza girata in piano medio o americano, possiamo facilmente riconoscere in ciascuna di esse, scenari che abbiamo modo di osservare quotidianamente: è il loro lento accumulo che diviene inquietante perché sedimenta in chi legge un mosaico che assomiglia molto al mondo in cui già viviamo, ma ce lo fa percepire solo un po’ più grigio e uniformato alle sue punte più estreme di dissesto, ma che alla fine ci commuove perché riconosciamo in esso un mondo che stiamo lentamente perdendo e non un futuro indefinito.

Anche i protagonisti che abitano questo mondo, a cominciare dai due più importanti e cioè il padre e il figlio, si trovano immersi in una socialità terminale, dove sono poche le azioni razionali che si possono compiere: incombe la necessità della sopravvivenza insieme a quella della difesa. In questo mondo ridotto all’osso si dispiega la vicenda straziante e tragica del viaggio dei due, fino alla sua conclusione. Il cammino intrapreso porta in direzione della California, cioè del sud e dell’ovest, dove era terminata la conquista e da dove prese inizio anche la narrativa di McCarthy. A differenza del mito e persino dei viaggi verso la California durante la Grande Depressione, non vi è scelta possibile né una vera prospettiva di rinascita: devono andare verso l’Oceano nella speranza che il clima sia più mite, perché dove si trovano ora la sopravvivenza è a termine e per il padre sarà proprio così: quando l’oceano si profila all’orizzonte egli muore e il bambino rimane solo. Sembra la conclusione di tutto, la fine di tutte le fini; invece la sua morte apre uno scenario nuovo.

Un finale aperto

Il finale del romanzo è idealmente diviso in due parti: nella prima viene portato a compimento fino alla dissoluzione la figura dell’eroe nella sua versione cristiana e sincretica, che racchiude in sé anche il precedente greco e classico. Quanto più ci avviciniamo all’epilogo infatti, tanto più il lettore capisce che i due personaggi principali del libro assumono sempre più una dimensione allegorica, pur conservando tratti realistici: sarà sufficiente ricordare che il figlio veglierà la salma del padre morto per tre giorni. L’eroe morto è dunque Gesù Cristo e non il Dio vetero testamentario. Che padre è quello che vediamo in scena? Protegge sì il figlio, ma lo fa diffidando di tutto e di tutti e quindi consegnandolo a un destino di autistica asocialità. Egli non rappresenta un modello alternativo, una legge con cui identificarsi in modo positivo; di fronte del pericolo estremo l’unica cosa che sa fare è indicare al figlio la strada del suicidio, gli consegna sempre la sua pistola e gli insegna a usarla o a farla finita cioè a compiere un sacrificio divenuto nel frattempo del tutto inutile perché non vi è per questa strada alcuna redenzione possibile per l’umanità intera, come nel mito cristiano avviene tramite il sacrificio sulla croce. Tuttavia, proprio ripensando al romanzo dal suo inizio e agli altri, appare sempre più evidente una vistosa assenza: la madre, la donna, senza la quale non esiste la sacra famiglia. In un breve passaggio del romanzo la figura femminile era comparsa, ma in una sorta di teatrino. Davanti alla catastrofe l’uomo e marito della donna avevano reagito in modo diverso: i due si erano lasciati e il bambino aveva seguito il padre nella sua fuga verso il sud ovest.   

Parlare di presenza del femminile nei romanzi di McCarthy, assume un connotato amaramente ironico, trattandosi in sostanza di un’assenza che risponde rigorosamente a una ferrea logica narrativa e non solo. Le donne, nella narrativa di McCarthy, semplicemente non esistono, la società post catastrofe è sia quella del padre vetero testamentario sia quella del figlio che avrebbe dovuto sostituirlo, mentre il bambino che sopravvie al padre morto non è affatto una nuova perpetuazione del ciclo, come vedremo da una battuta successiva. Nei romanzi precedenti di McCarthy tutto questo era accennato per allusioni o filtrato attraverso personaggi femminili irrilevanti o ridotti a mostri androgini. Nell’epilogo de La strada, invece, il femminile compare e si tratta di una donna solare, aperta, seppure tratteggiata in poche righe. Non è sola è insieme a un uomo, entrambi si rivolgono separatamente, al bambino e sembrano accendere un primo lume nelle tenebre in cui è avvolta tutta la vicenda. L’uomo, ferito e armato, rassicura il bambino. La donna si prenderà cura di lui dopo che ha salutato per l’ultima volta il padre morto; lo abbraccerà e gli parlerà di dio, aggiunge il narratore. Il bambino però non si fida e rivolge a entrambi separatamente una domanda perentoria e che chiarisce il perché della comparsa di questi due personaggi:

Ma voi non mangiate la gente? No, noi non mangiamo la gente  rispondono entrambi. 12

Allora il bambino si fida e segue la donna, mentre l’uomo si allontana. La sacra famiglia non esiste più, i due che compaiono alla fine svolgono la stessa funzione degli aiutanti nelle fiabe ma anche nelle opere di Kafka. Alla fine della società del padre e del figlio non c’è alcuna Città di Dio che scende in terra e neppure la ricomposizione della sacra famiglia, ma il cannibalismo, cioè quello stato di natura che due illustri filosofi videro in modo seppure divergente alle origini dell’umanità – Hobbes e Rousseau – come le due facce di una medaglia senza alcun valore e ampiamente contraddetta dagli studi antropologici più recenti. 13

Lei s’allontana con il bambino lui va in armi da un’altra parte e sarà lei a parlare al bambino di Dio, cioè della storia precedente che tuttavia è finita. I tre sopravvivono da postumi e il loro destino non lo conosciamo, ma sappiamo comunque che è un destino postumo rispetto a una storia precedente conclusa, che peraltro ripete coattivamente il solito paradigma patriarcale che ha portato alla catastrofe: l’uomo in armi difende la donna il bambino. Il romanzo però non finisce qui, ma poche righe più avanti eppure assai decisive.


7 Cormac McCarthy, La strada, traduzione di Martina Testa, Einaudi Torino 2007,  pag. 145.

8 Il racconto in questione è contenuto nella raccolta: J:G:Ballard, Tutti i racconti 1956-1962, traduzione di Roldano Romanelli, introduzione di Ballard e postfazione di Antonio Caronia, Collezione Immaginario, Fanucci editore Roma 2003. Pag. 291.

9 Ballard, in ogni caso, è l’autore che più si avvicina a McCarthy, specialmente in  Il mondo sommerso, anche perché si sforza di coniugare una scrittura apocalittica alle teorie scientifiche che si occupano di ambiente. Per esempio, nel testo citato arriva a ipotizzare lo scioglimento delle calotte polari, cioè un fenomeno che fa già parte della nostra attualità, seppure non ancora in dimensioni catastrofiche.

10 Uno, antichissimo, di finzione che dice la verità è quello cui ricorre Omero nell’Odissea, quando Ulisse giunge alla corte di Alcinoo. Con la consueta astuzia, l’eroe rintuzza le indagini del re con risposte che eludono tutte le sue domande, ma proprio per questo generano in Alcinoo sospetto e irritazione. L’ospitalità è sacra, ma egli medita di scardinare le difese di Ulisse e una sera inscena un vero colpo di teatro. All’ennesima cena in onore del suo ospite, il re invita anche Demòdoco, un vecchio cantore cieco (come lo stesso Omero secondo la leggenda) che talvolta intrattiene la corte raccontando le storie dei greci. Ulisse, convinto in questo modo di perpetuare ancor meglio il proprio mimetismo, invita il cantore a raccontare la storia dell’assedio di Troia. Quando si arriva all’inganno del cavallo, però, posto di fronte non alla realtà dei suoi atti, ma alla finzione teatrale della loro messa in scena, Ulisse scoppia in un pianto dirotto e rivela d’essere colui che ha provocato quei lutti. Ecco qui all’opera un mirabile esempio di come la finzione possa avere un valore catartico e quindi di metamorfosi e verità. Infatti, dopo quel pianto Ulisse troverà la via spianata per il ritorno a Itaca: i venti che tante volte gli erano stati ostili lo guideranno verso casa; forse però non si tratta soltanto delle inclemenze del mare, ma delle sue tempeste interiori che finalmente si sono placate

11 Cormac McCarthty, La strada pag. 36

12 Op.cit.pag.216.

13 Mi riferisco in particolare a due libri: L’alba di tutto scritto a quattro mani da David Wengrow e David Graeber e Il debito  gli  ultimi 5000 anni di David Graeber.

OLTRE IL NULLA, VIVERE POSTUMI! CATASTROFE E DESIDERIO IN CORMAC McCARTHY. Prima parte

Premessa

IN MEMORIA DI CORMAC MCCARTHY

La sintassi cinematografica come stile

Nella Trilogia della FrontieraOltre il confine, Cavalli selvaggi, Città della pianura –  McCarthy inizia il suo corpo a corpo con la cinematografia e lo fa rendendo feroce e prosaica l’epopea del West, attaccando dunque la rappresentazione edulcorata fornita dal cinema hollywoodiano, con una parola che descrive fino al dettaglio più crudo, come avviene in questo passaggio tratto da Meridiano di sangue:

A ciascuna di quelle piccole vittime, sette anzi otto, era stato fatto un buco nella mandibola ed erano stati appesi per la gola ai rami spezzati di un mesquite. Fissavano senza occhi il cielo nudo. Calvi e pallidi e gonfi, come larve di un essere inimmaginabile…”. 1

Vi è un personaggio chiave che riassume in sé tutti gli altri della trilogia: quello del giudice, sempre in Meridiano di sangue.

Egli è un uomo che può infarcire i suoi discorsi di citazioni letterarie, addirittura tratte dai Vangeli o dalla Bibbia e che guarda il mondo degli umani dall’alto, come un eroe tragico dell’antichità. In realtà, è un capobanda che raduna intorno a sé, sbandati di ogni genere. Ambientato nella seconda metà dell’800, nella zona di confine fra Usa e Messico, il romanzo si basa su un ampio corredo di documenti ufficiali. Le azioni compiute della banda non servono alcuna causa, sono semplicemente l’espressione di una crudeltà che non ha scopi e non ne vuole avere, se non quello del proprio potere sadico sugli altri e del bottino. La conquista della frontiera diviene qui un puro avanzare e saturare lo spazio, occupare il territorio, distruggerne ogni cultura precedente, a cominciare da quella dei nativi, fondarvi una legge che coincide e s’esaurisce soltanto nella quantità di violenza e di terrore che è in grado di sprigionare 2

Vi è un secondo modo altrettanto importante di rapportarsi al cinema: la scelta stilistica di asciugare il più possibile il linguaggio, depurandolo da ogni effetto speciale per raggiungere un registro anti eroico, ma diversamente epico. Il brano che segue è tratto dal primo dei suoi romanzi, Il buio fuori:

Ormai intorno al carro si accalcavano diverse centinaia di persone, e tutti parlavano in un brusio crescente. Il sole era esattamente sopra di loro. Sembrava appeso lassù in un’abbagliante immobilità, come se si fosse fermato, forse sorpreso di vedere ancora sulla terra quei pupazzi di fango che ci erano stati messi tanto tempo prima. Gli uomini sulla passerella avevano cominciato a sfilare davanti alla porta, qualcuno in punta di piedi, per andare a vedere i resti nel cassone del carro.”3

In questa scena, una prima protagonista è la folla di uomini e di donne che s’avvicina a un carro, sul quale è successo qualcosa; è la situazione tipica che si crea dopo un incidente, oppure sulla scena di un delitto. Il secondo protagonista è il sole. Esso è appeso, abbagliante, immobile, sorpreso. Ognuno di questi aggettivi, anche i due più apparentemente ovvi come il secondo e il terzo, non lo sono affatto se consideriamo l’intera sequenza. L’ultimo, inoltre, accoppiato al primo, fa scattare una dilatazione di senso. Il sole può essere appeso e sorpreso soltanto se diventa metafora e questo si chiarisce meglio nel prosieguo del brano, laddove prende vita una doppia metamorfosi. La prima è quella di cui è oggetto, implicitamente, il sole stesso, la seconda riguarda le centinaia di persone. Questa doppia trasformazione, da sole a dio e da persone a pupazzi di fango, crea un corto circuito. Il sole, scrive McCarthy, era esattamente sopra di loro. Questa ulteriore descrizione chiarisce meglio perché esso è appeso. Chi può vedere in questo modo e da dove si può vedere in questo modo? L’esperienza di essere esattamente sopra gli altri, a meno di non ritenersi dio stesso, presuppone che esistano, le alte torri, i grattacieli e le macchine da presa appese al loro cavalletto. Il sole-dio, in realtà, è dunque un sole-dio-torre-macchina da presa; quest’ultima riprende dall’alto tutta la scena, come avviene in un set cinematografico. La moltitudine che s’avvicina al carro, invece, è fatta di uomini-pupazzi di fango.

L’asimmetria accentua l’ironia, implicita nel designare la specie umana con un’espressione che ci riporta al testo biblico. Se, infatti, natura (il sole) e tecnica (la macchina da presa come espressione moderna della capacità umana di costruire protesi e utensili) possono mutare e mostrarsi sempre in ogni tempo storico con eguale potenza e come sfingi indecifrabili che osservano dall’alto – al pari di dio – le vicende umane, cioè i pupazzi di fango rimangono quelli che sono ed erano. L’unica differenza percepibile fra natura e sviluppo della tecnica (dalle torri alla macchina da presa), è l’immutabilità dei processi che le riguardano, prerogativa quest’ultima che entrambe spartiscono con la divinità.

Cosa vogliono rappresentare queste poche righe così intense e dense? Un dio stanco degli esseri umani o una semplice trasposizione della finzione letteraria del narratore onnisciente ottocentesco nei nuovi abiti di una macchina da presa totalizzante? Fatto sta che questo brano così apparentemente semplice ci svela da subito (siamo all’inizio del suo percorso letterario), uno degli elementi costitutivi della cifra stilistica di Cormac McCarthy: il suo particolare rapporto con l’immagine e con il cinema.

Naturalmente ci sono altri aspetti decisivi, qui già in atto, che il romanziere riprenderà in ogni sua opera: la reciproca indifferenza fra natura e storia, dove la prima è una sfinge (il richiamo a Leopardi è d’obbligo), risplende spesso di una bellezza abbacinante e vive di una vita propria di cui anche gli esseri umani fanno parte, ma – si direbbe – non più in una posizione privilegiata.

Nello stesso romanzo, alcune pagine più avanti abbiamo una seconda modalità stilistica che si richiama al cinema:

Prenditi un sedia, la invitò una donna.

Grazie.

L’altra era presso la stufa, e attizzava il fuoco rivoltando le ceneri grigie e smorte. Non sei sposata? Chiese.

No signora.

…………..

Dov’è tuo figlio?

Come?

Ho detto dov’è tuo figlio.

Non ne ho.

Il bambino, il bambino cantilenò la vecchia.

Non c’è nessun bambino.4

Le peculiari caratteristiche di questo dialogo balzano subito all’occhio: mancano le virgolette che solitamente delimitano un dialogo dall’altro. Le parole delle due donne scorrono in contemporanea alle azioni compiute dalla terza donna che si trova nella stanza. Movimento e parola non possono essere scisse l’una dall’altra, la loro mescolanza e la contemporanea eliminazione di quasi tutti gli accorgimenti più propriamente specifici della scrittura narrativa, alludono ancora una volta al cinema e anche, nel caso specifico in modo più evidente, trattandosi di una scena che avviene in un interno, al teatro rappresentato sul palcoscenico.

Se la scrittura narrativa di McCarthy è fin dalle origini impregnata di teatralità e di suggestioni cinematografiche, corre subito l’obbligo di dire in che modo lo sia, tema assai rilevante dal momento che anche molta narrativa contemporanea, specialmente italiana, s’ispira abbondantemente alla tecnica cinematografica5.

Come abbiamo visto McCarthy inizia il suo percorso ripensando al mito della frontiera, sfidando perciò il cinema statunitense proprio sul genere western, il più hollywoodiano per definizione, ancorato inoltre a quel segmento della storia degli Usa che affonda le sue radici in un mito tipicamente moderno.

In secondo luogo McCarthy accoglie della grammatica e della sintassi del cinema tutto ciò che può rendere ancora più essenziale la scrittura, togliendole ogni orpello non necessario o di gratuito ammiccamento al lettore.

Basta questo per indicare la differenza che separa il suo modo di accostarsi al cinema rispetto alla deriva contemporanea, dove si cerca d’imitarne gli effetti speciali.6 La Trilogia trova in due altre opere un completamento e uno spostamento al tempo stesso. La prima, Sunset limited, è più o meno contemporanea a La strada (mi riferisco alla stesura non alla data di pubblicazione in Italia delle due opere). La seconda, ma in realtà precedente, è Suttrie, del 1979.

Sunset limited è un’opera teatrale che ha come protagonisti un bianco (nichilista) e un nero, che lo ha appena salvato da un tentativo di suicidio sotto il treno Tramonto limitato, traduzione letterale e quanto mai significativa del titolo inglese.

Suttrie, invece, è il nome di un uomo che, dopo avere abbandonato una vita borghese di agi e anche i suoi tormenti religiosi, decide di vivere in riva a un fiume, in una capanna abbandonata. La sua compagnia sono gli animali che abitano il corso d’acqua e i suoi dintorni; non quelli più domestici, bensì i più primitivi: insieme a loro una pletora di sbandati di ogni tipo, compreso il buffo, paradossale e strampalato Harrogate, una figura a metà strada fra animalità selvaggia e umanità, che riecheggia nel nome la parola Arrogance. Nel fiume, nei suoi detriti, in coloro che ne abitano le sponde, sembra riversarsi, come in un grande lavacro, tutta l’epopea americana. Alle origini della narrativa statunitense troviamo infatti un fiume, Il Mississipi quello su cui Hukleberry Finn compie le sue avventure e diventa adulto. Huck Finn è il romanzo di formazione per eccellenza dei coloni bianchi ed è certamente un romanzo solare e aperto, sul futuro positivo, di chi ha un mondo davanti a sé da esplorare. Da questo mondo erano naturalmente esclusi i neri e i nativi. In Suttrie sembra compiersi un destino: il fiume non è più fonte di vitalità ma piuttosto un rifugio e  una discarica.

Sunset limited

Con i romanzi Questo non è un paese per vecchi e successivamente con La strada  McCarthy abbandona il West e compie un balzo temporale di duecento anni. Il primo dei due, tuttavia, non riesce a mio avviso nell’intento perché troppo didascalico: la trasposizione del paradigma della crudeltà dalla conquista dell’ovest all’America contemporanea risulta un po’ forzata, espressione di una tesi troppo precostituita, anche se plausibile da un punto di vista sociale.


1 Cormac McCarthy Meridiano di sangue, traduzione di Einaudi, Torino

2 Con il giudice, lo scrittore crea con lui un personaggio anti eroico, ma individuando una strada radicalmente diversa da quella seguita da larga parte della narrativa novecentesca europea. Quest’ultima, infatti, ha cercato fino all’estenuazione l’irrisione e la parodia: ha sì smitizzato l’eroe, ma ha finito per rinchiudersi nella dimensione di un disperato nichilismo, a volte sarcastico, più spesso semplicemente irridente.

3 Cormac McCarthy, Il buio fuori, traduzione  di Raul Montanari, Einaudi, Torino 1999, pp. 73-4

4 Op. cit.pag.96.

5 Per un lungo periodo di tempo dopo la sua nascita, la settima arte ha saccheggiato la letteratura, facendo di alcuni grandi romanzi, il soggetto ideale per sceneggiature e film. Per alcuni di essi si è trattato di una vera e propria apoteosi: sono diciannove (otto delle quali in Italia), le pellicole che hanno per soggetto I miserabili di Victor Hugo, per non parlare di Guerra e pace, di Anna Karenina, dei Promessi sposi. La narrativa, maggiore o minore che fosse (pensiamo anche a I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, La cittadella ecc. e così via), è stata un serbatoio inestinguibile.  La televisione, quella italiana con la gloriosa tradizione degli sceneggiati, curati da registi di prim’ordine e attori altrettanto prestigiosi, fu in passato uno strumento d’indubbia promozione del gusto letterario, nutrendo una generazione intera e influendo anche sulla vendita dei libri. Era abbastanza normale, poi, per i registi, rivolgersi agli scrittori per le sceneggiature. Tutto questo fino alla fine degli anni ’60. Dal decennio successivo in poi si assiste a un movimento in senso contrario, che raggiunge in tempi recentissimi il suo culmine. È il romanzo a rifarsi sempre più spesso al cinema e sono sempre più rari invece i registi che collaborano con scrittori: le coppie Cerami-Benigni e Handke-Wenders sono eccezioni, quello di Cristina Comencini, scrittrice e regista, un altro caso a sé. Il primo in Italia a scrivere un romanzo con una tecnica molto vicina, forse troppo, alla sceneggiatura, fu Pasolini, con Teorema, nel 1969. Lo stesso Pasolini, con Petrolio, si accingeva ad approfondire quella strada con ben altra consapevolezza, purtroppo interrotta tragicamente dal suo assassinio. Anche il nouveau roman francese, tuttavia, in anni precedenti, si era avvicinato al cinema. L’ècole du regard si poneva, infatti, come una poetica capace d’influenzare sia la narrativa sia la tecnica filmica: Jean-Luc Godard fu al tempo stesso un convinto assertore di quella poetica, ma anche colui che la sviluppò portandola fino all’esasperazione. Anche certe descrizioni estranianti del primo Le Clézio risentono di tali influenze e lo stesso si può dire del Calvino di Palomar.  La narrativa di McCarthy rientra in questo percorso di avvicinamento al cinema, senza per questo ipotizzare un’influenza diretta da parte dell’ècole du regard o altri su di lui, anche perché i segni distintivi che lo rendono diverso sono troppo forti e decisivi.

6 Non parlo dei prodotti più dozzinali e di consumo che poco hanno a che vedere con la scrittura letteraria, mi riferisco, come esempio, a un solo romanzo altrettanto recente perché fra tutti è certamente il più dignitoso e il suo autore uno scrittore fra i migliori della sua generazione: il primo capitolo di Caos calmo di Sandro Veronesi. Il crescendo che lo contraddistingue sembra essere preso di sana pianta dalla sequenza di venti minuti del primo Indiana Jones (non ha alcun’importanza che i temi siano diversi, anzi è un’aggravante.) L’effetto di tale ritmo incalzante sul lettore è quello di togliergli sì il fiato, ma arrivati alla fine, l’insieme dei fatti narrati, la concatenazione degli stessi, assomiglia troppo al cliché del film d’azione e questo toglie tragicità alla morte di Lara, con cui il capitolo si conclude. Ne abbiamo viste a iosa di queste sequenze, ciò che conta è il paradigma. In Indiana Jones, dopo una serie di fughe, ammazzamenti, colpi di scena, acrobazie d’ogni genere, citazioni d’altri film, quando tutti sono finalmente sull’elicottero, accade che un finto serpente ricrei un momento di tensione ulteriore; si tratta, però, di uno scherzo (come se fosse normale scherzare in quel modo dopo una decina d’ammazzamenti e quant’altro), che getta una luce ironicamente retrospettiva su tutto ciò che è stato visto in precedenza. Era tutto uno scherzo, non soltanto quella parte finale, siamo dentro i recinti prestabiliti del genere avventuroso e con quella scena Spielberg ce lo ricorda; infatti, egli non vuole certamente proporci un film tragico. Veronesi, invece, lo vorrebbe, ma la sequenza è talmente sovraccarica di colpi di scena che essa alla fine risulta tragicamente falsa, un escamotage che serve a traghettare il lettore verso il secondo escamotage: la scelta di Paladini, che decide di vivere nella sua automobile parcheggiata davanti alla scuola della figlia Claudia. Da questo secondo escamotage, si approda al terzo, (l’incontro con la donna salvata in mare, con prevedibile scena di sesso in differita.) Nel mezzo si ha la sensazione che il romanzo proceda solo in attesa della scena madre successiva e che gli altri incontri, molti dei quali scontati peraltro, servano a riempire un vuoto.

IL PICARO E IL BURLONE, L’EROE E L’EROS: LA NARRATIVA DI JUAN MANUEL DE PRADA

Introduzione

Juan Manuel De Prada, dopo un periodo di grande effervescenza editoriale e di presenza nella letteratura europea e non solo ispanica è un po’ rientrato nell’oblio. Su alcune sue opere scrissi anni fa una riflessione che uscì sulla rivista Il Cavallo di Cavalcanti: lo ripropongo oggi perché mi sembra quanto mai attuale.

Ripercorrere la narrativa di Juan Manuel De Prada dagli esordi significa addentrarsi in un universo molteplice, anche se – una volta arrivati alla fine – si riconosce la filigrana di uno stile già precocemente maturo. Come prima approssimazione si potrebbe affermare che De Prada è un narratore che crede nella possibilità di raccontare storie. Potrà sembrare banale una dichiarazione del genere ma se si pensa all’evoluzione del genere narrativo in Europa, a partire dal tormentone sulla morte del romanzo, iniziato negli anni ’60 e periodicamente risorgente, tale constatazione non è affatto generica. Raccontare storie è parso a molta critica e anche a molti autori, impossibile; oppure che tale possibilità appartenesse a una letteratura di intrattenimento e di facile consumo, mentre la narrativa alta perseguiva il culto esasperato della cosiddetta bella pagina, oppure si ingorgava nei meandri di una sperimentazione linguistica ingegnosa ma spesso vuota; oppure ancora si rinchiudeva in un freddo cerebralismo. Sembrava che non si potesse più coniugare il gusto della trama, dell’intreccio, del personaggio memorabile, con l’esigenza di una forte letterarietà, ma che le due cose fossero irrimediabilmente scisse, dalla crisi del romanzo ottocentesco in poi; sia per la concorrenza del mezzo cinematografico e televisivo sia per altre e più complesse ragioni. Naturalmente ciò che sto descrivendo è soltanto una parte del processo di trasformazione che ha investito il romanzo e anche il racconto. Juan Manuel De Prada appartiene alla schiera di chi pensa sia ancora possibile raccontare. In questo saggio mi occuperò di tre libri, i cui titoli sono indicati nella traduzione italiana: Fiche, La tempesta (l’ultimo romanzo pubblicato) e Le maschere dell’eroe, il secondo libro in ordine cronologico.

JuanManueldePrada2007

Il tenero burlone

Fiche, rubricato nella librerie italiane, come libro erotico e addirittura pornografico, non poteva trovare collocazione peggiore e stupida disattenzione presso la nostra critica. Il libro consiste di una raccolta di brevissimi e fulminanti racconti, che hanno per oggetto il sesso femminile, ma sono fecondati da un’immaginazione imprevedibile, a volte di impronta surrealista, a volte capace di tenerissima e struggente delicatezza. Bastano poche citazioni per darne un’idea. Scelgo, riproducendone un’ampia parte, il racconto dal titolo La fica della violoncellista, riservandomi un commento più approfondito sull’intero libro in chiusura del saggio.

Ora che le avanguardie hanno definitivamente smesso di dar fastidio, ora che il cubismo è andato a ingrossare le fila delle scuole classiche … a noi nostalgici dell’arte di inizio secolo resta solo la consolazione di assistere a un concerto d’archi; per vedere la violoncellista in simbiosi con il suo strumento, unica vivente immagine cubista rimasta al mondo … Che compenetrazione fra il violoncello e la donna che strappa alle sue corde gemiti, mormorii e grida d’esultanza! Che intreccio di linee rette e curve, che accoppiamento di carne e legno! … Ecco, la violoncellista stringe fra le ginocchia la concavità dello strumento, la superficie di legno incurvato, ondeggiante, che corrisponde alla linea della vita; poi lo afferra per il collo, gli pizzica le corde vocali, gli strofina il petto con l’archetto fino a ferirgli il cuore e a strappargli un si bemolle. Che coppia, il violoncello e la suonatrice! Che intreccio di gambe e braccia, degno di un ritratto di Juan Gris!

Durante l’intervallo vediamo la violoncellista stringere le chiavette del suo uomo di legno, come una donna che torca le orecchie all’amante un po’ tiepido. Nel secondo tempo, dopo la strigliatina, il violoncello sembra meno remissivo … Invano cerchiamo di immaginare la fica della donna, … desiderosi di assistere alla lotta che si svolge dietro al legno tra le viscere del violoncello e quelle della virtuosa … La fica delle violoncelliste, celata da mutande a cremagliera, deve possedere note di recondita musicalità, crome e semicrome, biscrome e semibiscrome, … o forse è in realtà un metronomo che batte il tempo con clitoride, destra sinistra, sinistra destra, allegro ma non troppo … Le fica della violoncellista, durante il diluvio di applausi che le vengono tributati, bacia le corde del suo amante, e ancora una volta l’estetica cubista resuscita; alla faccia di tanti musei a pagamento.” (pag 23).

Venezia, metafora di una soggettività terminale

Con l’ultimo libro uscito in Italia, La Tempesta, Juan Manuel de Prada scrive un’opera meno vistosa del primo romanzo, di cui mi occuperò successivamente. Tecnicamente, il libro si può definire un giallo, con tanto di assassinio iniziale e una serie di peripezie tipiche del genere. Dietro il teatrino, che peraltro De Prada orchestra con maestria, emergono però i tre protagonisti veri di quest’opera: la città di Venezia, il quadro di Giorgione che dà il titolo al romanzo e i falsari dell’arte.

Alejandro Ballesteros è un giovane docente che si reca nella città lagunare per incontrare Gilberto Gabetti, il direttore dell’Accademia, e per studiare uno dei quadri più misteriosi della tradizione pittorica italiana. Arriva d’inverno, Venezia è sommersa dall’acqua alta e dalla neve, è deserta e spettrale come le maschere del suo carnevale: l’umido e il marcio l’avvolgono completamente. È una città molto lontana dall’iconografia turistica! L’albergo che lo ospita non è da meno, con la sua l’insegna luminosa rossa, in sinistro contrasto con il paesaggio imbiancato. Un senso di morte sospesa alberga fin dalle prime pagine e infatti il delitto arriva puntuale non appena Alejandro si è ritirato in camera. Uno sparo, degli uccelli che volano via, un oggetto che tonfa nell’acqua del canale e un uomo riverso nella calle deserta, che il nostro studioso cerca di soccorrere. Il moribondo si chiama Fabio Valenzin ed è un noto falsario. Da quel momento Alejandro si trova coinvolto in un intreccio sempre più inestricabile, la scena si popola di altri personaggi in un crescendo di vicende che confluiranno, per incrociarsi tutte, nelle sale di un palazzo dove si tiene una festa di carnevale. Le donne, come sempre, sono protagoniste di primo piano nei romanzi di De Prada: dall’inquietante proprietaria dell’albergo, assassina del marito ma salvata dall’ispettore di polizia Nicolussi, con il quale ha stretto una perversa complicità, a Chiara; e poi Giovanna Zanon. Il giovane spagnolo si trova coinvolto in una sorta di pericoloso minuetto, al centro del quale ci sono le due donne e altri personaggi maschili docilmente manovrati. E il quadro di Giorgione? La Tempesta sembra destinato a non essere mai raggiunto né visto: fra interrogatori di polizia e colpi di scena, l’incontro con il dipinto sfuma e si confonde con il mistero della sua interpretazione. Quale sia è Chiara a rivelarlo ad Alejandro, prima ancora che lui possa vederlo:

E questa stessa mancanza di catarsi che ti turba tanto la ritroverai nella Tempesta … Anche nel quadro c’è un avvenimento che non avviene, una minaccia che rimane sospesa per aria, un lampo che non scatena la pioggia. Ma i personaggi della Tempesta non si agitano, niente può scuotere la loro indifferenza, niente li commuove. Nella Tempesta, come a Venezia, i fenomeni non si scatenano, la vita pende appesa a un filo sfidando le leggi della fisica, e questa imminenza che non si definisce è causa di apprensione e turbamento.(Pag.83)

Mancanza di catarsi: è l’espressione chiave usata da Chiara, che pronuncia queste parole mentre sta pulendo il pesce che mangeranno insieme la sera e del quale mostra le interiora con una certa perversa esibizione. Il marcio non abbandona mai i personaggi, li avvolge come avvolge tutta la città. Ma chi è poi Chiara? È la figlia di Gabetti; non riesce a distaccarsi da lui e ne è in un certo senso l’ombra, senza che questo le impedisca di avere relazioni che tuttavia la lasciano prigioniera di un complesso paterno del quale non è capace di liberarsi. Chiara conosceva Valenzin e dalle parole del padre si può pensare che fra loro esistesse qualcosa di più di una semplice conoscenza di lavoro; ma ciò che colpisce di più il giovane studioso spagnolo è un altro particolare:

Fabio le aveva insegnato alcuni trucchi che non s’imparano all’Accademia delle Arti. Pag 66.

Al sospetto avanzato da Ballesteros, Gabetti risponde piccato che si tratta di trucchi di restauro, che nulla hanno a che vedere con la sua attività di falsario, ma il dubbio rimane, il labirinto diventa sempre più inestricabile finché non compare Giovanna Zanon, ex moglie separata di Gilberto Gabetti e collezionista d’arte. Il giovane spagnolo è attratto da Chiara, ma è la Zanon che lo invita a casa sua per mostragli un quadro che teme essere un falso; naturalmente è il defunto Valenzin che glielo aveva venduto! Vuole il parere del giovane studioso spagnolo, ma usa la circostanza per mettere in atto una tragicomica scena di seduzione che finisce nel nulla; o meglio in un invito per la grande festa di carnevale che si svolgerà di lì a pochi giorni.

La galleria di personaggi non è ancora al completo; altri falsari, mercanti, guardia spalle, una misteriosa valigia che Valenzin aveva lasciato nell’albergo dove alloggia anche Ballesteros; e altro, fino allo svelamento finale dell’assassino. Ma non è questo, lo ripeto, il contenuto del libro: più scorrono le pagine e più il tema intorno al quale ruota il tutto è la confusione fra autentico e falso e l’impossibilità di tracciare confini netti: è la metafora, a livello estetico, di una decadenza morale inarrestabile.

Il picaro, gli eroi, gli anti eroi e l’eros

Soltanto in Spagna poteva nascere un’opera epica e corale come Le maschere dell’eroe, scritto in una lingua e proveniente da una terra che diede i natali al romanzo moderno con quel grande affresco picaresco che è El Lazarillo de Tormes.

Lo sfondo del romanzo torrenziale di De Prada è quello tragico e grottesco degli anni ’30, che sfoceranno nella guerra che la Repubblica Democratica eletta dal popolo spagnolo condurrà contro la sedizione fascista del generale Francisco Franco; ma è anche l’epoca dell’utopia anarchica che soltanto in Spagna ebbe il seguito che conosciamo e produsse anche (cosa incredibile a dirsi sotto certi aspetti), una cultura di governo e non soltanto quello che tutti si immaginano dell’anarchia: omoni con i baffi, più o meno bombaroli, slanci ideali poco sostenuti da visioni politiche poco razionali, un destino ineluttabile di sconfitte ecc. ecc.

Il romanzo di De Prada è esagerato come gli eventi che fanno da sfondo a tutta la vicenda e ai personaggi che occupano la trama di quest’opera affascinante. In questo sta la sua verità storica, che sintetizza tutti gli elementi di crudeltà, di eroismo, di  meschinità e tradimenti che hanno costellato una guerra civile fra le più spietate, combattute in un secolo che di crudeltà ne ha prodotta in quantità industriali.

Detto questo va subito aggiunto che Le maschere dell’eroe è un romanzo che ha a che fare con la storia ma che non può essere definito romanzo storico. Cominciamo dunque dalla trama in senso stretto.

Il romanzo prende le mosse da una lettera che Pedro Luis de Gálvez invia al Dottor Francisco Garrote Peral, direttore delle carceri. La missiva porta la data del 1908 e il narratore ci avverte che essa può essere pervenuta al direttore soltanto attraverso canali speciali, dal momento che non porta omissis o cancellature censorie. Quella del manoscritto o della lettera ritrovata, è un espediente narrativo molto antico. In tale lettera il prigioniero cerca di giustificare le proprie azioni perorando la propria causa al fine di ottenere uno sconto di pena. Ma chi è Gálvez? È un eroe bohemien, uno sradicato che abita un demi monde culturale e politico di massa. Repubblicano e scrittore combatte la guerra civile e continua a perseguire la sua carriera artistica. Sarà il suo nemico e alter ego Fernando Navales a diventare il custode delle sue opere, condannandole al silenzio. Egli incarna la figura del nichilista, ma i due si somigliano, le gesta dell’uno si travasano in quelle dell’altro.

Il narratore di larga parte del romanzo è proprio Navales, l’alter ego; è grazie alle sue memorie, infatti, che noi lettori veniamo a conoscere la storia.

Due manoscritti ritrovati stanno dunque alla base del romanzo. Si materializza nella narrazione di De Prada la figura eterna del doppio, del sosia, del perturbante, per dirla con il linguaggio di Freud. I due s’inseguono fino alla fine e anche dopo. Pedro Luis Gálvez viene fucilato il 30 aprile del 1940. Lascia una lettera al suo nemico e alter ego e un sonetto per Teresa, che la guardia civil gli strappa proprio mentre sta andando al patibolo. E quanto a Navales:

… morì senza stile, lui che si era tanto vantato di averne, nel più completo oblio; Pedro Luis de Gálvez appartiene ormai all’intatto cielo delle mitologie, cielo che di tanto in tanto abbandona, col permesso di Dio, per scendere all’inferno dove dimora il suo avversario e fargliene di tutti i colori, di qui all’eternità.

Ma adesso basta, o si scade nel moralismo. Pag. 615.

Dell’uno è anonima la vita, dell’altro le opere; solo nella finzione narrativa di De Prada rivivono entrambi.

Le maschere dell’eroe è pieno di figure perturbanti e di riflessioni al vetriolo sull’arte moderna, che diventeranno più pacate e definitive in La tempesta.

Falsari dell’arte, pittori di croste, poetastri, artisti mancati che la buttano in politica e viceversa; una galleria di personaggi grotteschi e, accanto a loro, autori memorabili e protagonisti della scena culturale di quegli anni: Luis Buñuel, Salvador Dalí, uno stralunato Jorge Luis Borges che si aggira vomitando in un bordello di Madrid, García Lorca, Ramón María del Valle Inclán. Ma sono veramente loro oppure sono il risultato di una miscela esplosiva di elementi biografici reali manipolati da un’invenzione sfrenata? E che differenza c’è fra le loro biografie e quelle degli anonimi che vivono gli stessi drammi e le stesse grottesche situazioni? La lingua sarcastica, truce e corrosiva di De Prada non risparmia niente e nessuno, ma è ponendo la sua lente d’ingrandimento sul degrado delle relazioni amorose che l’autore ci dà un’immagine plastica e dantesca degli anni ’30 spagnoli. Tutti i personaggi maschili e femminili sono coinvolti in relazioni sordide, conducono vite allucinate su uno sfondo di crescente violenza, di slanci ideali, di imprese e tradimenti continui. È una girandola continua e sullo scenario del romanzo aleggia una luce fosca, i personaggi non conoscono sosta né riposo; vivono in una sorta di frenetica eternità infernale. Gálvez e Teresa, Novales e Sara e le altre maschere che compaiono, a volte come semplici comparse disegnano tutte insieme un potente affresco, dove il rapporto sessuale degradato diventa una specie di sintesi o di monade metonimica, all’interno della quale si può vedere in piccolo tutto l’universo. Tutti diventano a turno moralisti e scellerati perché vedono sempre gli altri e mai se stessi. E così quando Navales scopre che Sara è in stanza con Ramón con la scusa di doversi preparare a recitare la commedia di lui ecco che l’uomo decide di coglierli sul fatto. Entra nel Torrione dove avvengono gli incontri clandestini e di cui anche lui ha naturalmente la chiave!:

Sara era ancora distesa sul letto, con il camicione sollevato e le calze abbassate…il suo corpo aveva il biancore misero e scialbo delle defunte messe nella bara senza lenzuolo funebre. – Hai ripassato bene la parte? – le domandò Ramón.

Era ridicolo come amante, si preoccupava della propria immagine anche quando finiva di eiaculare. Affrontava il coito senza spogliarsi, come chi si sottopone a una misura igienica per alleviare la prostata. Il fallo gli fuoriusciva dai pantaloni, incongruente come l’abito scuro della domenica…..- Tu credi che Fernando ce la farà pagare?-….- Tu credi che cercherà di distruggere il nostro amore?-

Utilizzava un linguaggio da feuilleton, parlando di una fuga consentita. Sul cassettone del corridoio c’erano due biglietti ferroviari per la tratta Madrid-Irùn-Parigi.: bisogna esser veramente di cattivo gusto e quasi putrefatti per scegliere Parigi come approdo di un adulterio. Uscii in punta di piedi, per non rovinare i loro piani. (Pag.388-89).

Le maschere del narratore

Vorrei concludere il saggio tornando a Fiche, quel libro così particolare e sorprendente, nel quale però si può leggere una delle filigrane che costituiscono la stoffa della narrativa di De Prada. Se il degrado di un’intera società viene visto attraverso la lente metonimica dei rapporti erotici, come abbiamo visto sia ne Le maschere dell’eroe, sia in La tempesta, tornare a questo libro d’esordio sembra quasi di immergersi in una fresca sorgente vitale. In Fiche non si parla dell’eterno femminino, né di una figura angelicata della donna. Il sesso femminile è esposto, la donna di De Prada è tutt’altro che asessuata; ma, – questa la straordinaria forza del libro – non è violata! Mai! E neppure penetrata; mentre nei due romanzi dove il sesso è presente come atto – sempre più abnorme in Le maschere dell’eroe, in modo più misurato e quasi come citazione del precedente in La tempesta – lo è sempre. Come violati nella loro dignità sono sempre anche i personaggi maschili; siano essi grandi della cultura del tempo o semplici comparse. Tutti sono immersi, uomini e donne, in un grottesco precipitare nell’abisso di una trasgressione coatta. C’è invece una grande innocenza in questo primo libro dal titolo irriverente, una limpidezza che si colora di nostalgia; forse il sogno di una cosa o quello di un rapporto d’amore che sembra irrimediabilmente perduto.

E il narratore come si colloca in tutto questo? C’è una spia che De Prada mette del suo secondo romanzo, Le maschere dell’eroe. È una citazione breve, che compare in una pagina che non fa parte del testo, essendo quella dei ringraziamenti dell’autore a tutti coloro che l’hanno aiutato nella stesura del romanzo. È una breve citazione che riporto integralmente e che chiude la pagina in questione. Scrive De Prada:

Come disse Marcel Schwob (dopodiché basta con le citazioni): Il biografo non deve preoccuparsi di risultare veritiero; deve creare, dal caos, dei tratti umani. E ora caro lettore, non capisco cosa aspetti a tuffarti a capofitto in questo caos. Salamanca- Zamora, maggio 1996. (pag.10).

Compaiono in questa breve citazione il nome di un gigante poco conosciuto della narrativa moderna e una parola chiave, Schwob, l’ispiratore di Borges e del Pavese dei Dialoghi con Leucò, le cui Vite immaginarie sono state ritradotte alcuni anni fa dalla casa editrice Azimut. La parola chiave è naturalmente caos. A partire da questa vorrei allora concludere  tracciando un parallelismo. Se nel Lazarillo de Tormès il vitalismo che vi predomina è quello di una società nascente e il personaggio – che vive certamente di espedienti – è  ancora positivo e volto al futuro, il truce vitalismo che alberga in Le maschere dell’eroe è quello di una soggettività e di una società moribonde, che si agitano e si tingono di belletto, come nella smorfia di un agonizzante. I protagonisti del romanzo per me maggiore di De Prada sono proprio figure grottesche, che mi ricordano – se fossero dipinte – i ritratti spettrali di Egon Schiele e di Otto Dix, ma con i corpi deformi e michelangioleschi di Arcimboldo.

Al tempo stesso, se la Venezia del ‘500-600 non era solo la capitale della Repubblica veneta ma dell’intero Occidente e se il suo sfarzoso carnevale era l’immagine della pienezza di una civiltà, la Venezia dei falsari veri e dei pittori falsi, di quadri veri che diventano falsi e viceversa, della festa carnevalesca dove alle stanche orge si mescola la cocaina, appare come lo scenario mortifero e grottesco della dissoluzione di quella pienezza. Il caos si colloca prima del principio ordinatore che ne fa un cosmo; oppure dopo, successivamente alla fase terminale di un cosmo che è divenuto entropico e si scioglie di nuovo nel caos.

MEMORIA E RICORDO

Nel pieno dei processi staliniani degli anni ’30, delle repressioni e internamenti nei Gulag che ne seguirono, alla poetessa Anna Achmatova accadde un giorno di trovarsi  in mezzo a una fila di persone che attendevano il proprio turno davanti a una stazione di polizia, dove si erano recate per chiedere notizie dei congiunti e amici arrestati. La fila triste, i volti bassi dei presenti, l’angoscia che regnava su tutto e tutti trasformava il silenzio in qualcosa d’intollerabile, ma al tempo stesso impediva la parola, azzerava qualsiasi discorso. Poi, alzando lo sguardo da terra, una donna anziana la riconobbe e, in un lampo di speranza e sollievo, si rivolse alla poeta dicendole: “Lei può raccontare tutto questo.”

Sappiamo dell’accaduto dalla testimonianza della Achmatova stessa, dunque, superficialmente, si potrebbe dire che la poetessa ha ottemperato a ciò che l’anonima donna le chiedeva; solo superficialmente, però, poiché credo che questo piccolo e tragico episodio, introduca molto bene la differenza che vi è fra ricordo e memoria. Se scomponiamo la scena nelle sue sequenze, prese isolatamente, vediamo una triste fila di persone, sconosciute le une alle altre, forse in parte sospettose le une delle altre e che dunque non si confidano i loro guai. Anna Achmatova è una di loro, è anche lei anonima, ha le stesse apprensioni degli altri, attende silenziosamente il suo turno. Se connettiamo lo spazio scenico con il tempo possiamo collocare sull’asse delle ascisse la fila anonima delle persone che si succedono nello spazio, mentre possiamo porre sull’asse delle ordinate le scansioni del tempo d’attesa, un tempo anch’esso anonimo che fa solo da sfondo neutro alla tragedia che si sta svolgendo e la cui unità di misura sono gli istanti rappresentati dalle persone che entrano una dopo l’altra dentro la stazione di polizia. Nella seconda sequenza, in primissimo piano, abbiamo due sguardi che s’incrociano per caso: idealmente, lo possiamo rappresentare come il punto in cui le due linee degli assi cartesiani s’incrociano. Uno sguardo s’illumina. L’istante rompe la cattiva continuità temporale, istituendo uno spazio differente; dentro questo perimetro spazio temporale la comunicazione diventa possibile.

Nella terza scena, ancora breve, un altro istante rispetto al monotono scorrere del tempo, la donna non ha riconosciuto un’amica di cui si fida e neppure una persona qualsiasi, bensì la poeta Anna Achmatova. La barriera di diffidenza cade di colpo, la richiesta della donna del popolo è perentoria, ma di quale richiesta si tratta esattamente? Cosa viene chiesto alla poeta: di ricordare forse? No, la richiesta è più complessa e per avvicinarsi al senso che essa racchiude bisogna usare un altro verbo da quello comune, perché ricordare suona troppo generico. Anche l’anonima donna poteva ricordare e c’è da credere che lo abbia fatto, che il segno di quella tragica attesa non l’abbia abbandonata per tutta la vita. Evidentemente, però, la popolana, in modo più o meno cosciente, stava chiedendo altro e per questo si rivolgeva alla Achmatova, non in quanto persona anonima che attendeva come lei e come tutti, in preda al suo personale strazio, bensì alla scrittrice, alla poeta.

Il ricordo può essere privato, ma per diventare universale ha bisogno di una forma; la memoria collettiva non è una testimonianza qualunque da aula di tribunale e probabilmente neppure una serie quantitativamente importante di testimonianze singole, anche se la tendenza contemporanea di costruire una storia memoriale grazie alla ricostruzione personale di eventi storici, da parte di persone non direttamente coinvolte in posizioni di responsabilità diretta, sia un fattore importante di cui tenere conto.

Naturalmente da questo episodio si possono trarre molte altre considerazioni: prima fra tutte che nell’Unione Sovietica staliniana degli anni ’30 gli scrittori godevano di uno statuto di credibilità che oggi si può riscontrare soltanto nei paesi Latino Americani, in India, nei paesi Islamici, e in Estremo Oriente; ma non in Europa o negli Stati Uniti. Forse in Russia.

Torniamo alla Achmatova e alla donna che si rivolse a lei. Non sono in grado di dire in che modo la poeta abbia metabolizzato in senso artistico questo episodio e altri simili: non ne conosco così profondamente l’opera tanto da poterlo dire; sono certo, tuttavia, che, se lei lo ha raccontato, il problema se lo è posto e ha tentato pure di risolverlo, forse senza riuscirci, se ha sentito così fortemente il bisogno di restituirlo a noi in una forma che non è quella che si chiede a un racconto che abbia lo statuto riconoscibile di un’opera artistica, ma quello di una semplice testimonianza.

Alexander Solgenitsin, invece, la tragedia dei Gulag staliniani ha cercato di raccontarla e i suoi romanzi, discutibili anch’essi, talvolta, nella loro resa estetica, sono importanti e appartengono a pieno titolo alla grande letteratura; tanto che la parola Gulag è diventata un simbolo e un’icona del campo di concentramento, affiancando nell´immaginario collettivo il termine precedente, Lager, che godeva, fino agli anni ‘80 del secolo scorso, una predominanza pressoché totale.

Gli scrittori veri inventano sempre parole nuove, che diventano successivamente di tutti. Fu così anche con Primo Levi, la cui testimonianza sui campi di sterminio nazisti è tuttora insuperata, anche perché letterariamente risolta. I suoi romanzi, quale per esempio, Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, oppure  Arcipelago Gulag, Un giornata di Invan Denissovic, del romanziere russo, hanno contribuito a creare una memoria collettiva che è diventata nell’Europa del secondo dopoguerra, senso comune largamente condiviso. Mancano all’appello gli Stati Uniti.

La memoria dei vincitori   

Non esiste una narrativa statunitense che abbia elaborato le tragedie della Seconda Guerra Mondiale e ciò che più l’ha caratterizzata: il lager come immagine sintetica dell’accaduto. Ci sono testimonianze cinematografiche (molte di pregio), che insistono sulla ragione dei vincitori, sulla superiorità delle democrazie occidentali, oppure che indulgono nel culto dell’eroismo e fanno del conflitto bellico lo scenario ideale per film di grande impatto spettacolare: valga per tutti l’esempio de Il giorno più lungo. Oppure propagandano l’immagine dell’americano liberatore. I grandi film sulla Shoah, però, sono tutti europei fino a tempi molto recenti: l’unico statunitense, addirittura hollywoodiano, è Shindler’s list di Spielberg. Se si vuole ricordare un grande romanzo di guerra statunitense bisogna tornare a Addio alle armi di Hemingway e, per il cinema, arrivare fino alla guerra del Vietnam. Tutta l’epopea del West e le allegorie di Cormac McCarthy affrontano il tema bellico e quello della violenza congenita della società americana, ma lo fanno con modalità che prescindono da questo o dall’altro evento storico; infine Scorsese, in Gangs of New York ha affrontato in modo hollywoodiano (sebbene il film sia stato girato a Cinecittà), il nucleo psicologico e sociale dell’imperialismo americano e cioè la necessità del nemico esterno per impedire la dissoluzione della società americana dall’interno.  

Le ragioni che possono spiegare questo atteggiamento sostanzialmente reticente, sono tante: quella apparentemente più semplice è che gli Usa, mai invasi prima dell´11 settembre, da un evento bellico che pioveva davvero sulle loro teste, hanno una percezione molto rarefatta dello sconvolgimento che una guerra provoca nella società civile. Un’altra, fallace, sta nel pensare che il lager fu un problema eminentemente europeo, dimenticando che due milioni di nippo statunitensi furono internati in campi di concentramento negli Usa dopo l’attacco alla base di Pearl Harbour e che, alla fine del conflitto, di centinaia di migliaia di loro non si ebbe più notizia. Una terza potrebbe indicare un riflesso di altro genere, una disattenzione dovuta al fatto che, in fondo, la tragedia della persecuzione ebraica è una storia tutta europea. Penso, tuttavia, che ci sia una ragione preponderante, addirittura enorme e che, se mai, utilizza tutte le altre ragioni al fine di perpetuare nel tempo una gigantesca rimozione: il lancio dell’atomica su Hiroshima e Nakasaki e il trattamento differenziato che la cultura occidentale tutta (anche europea dunque) assegna alle due città giapponesi  rispetto ad Auschwitz, luogo qui inteso in senso riassuntivo e simbolico dell’intera tragedia della Shoah. [1]   

Gli Usa e la Shoah

Se dalla narrativa si passa alla storiografia, la rimozione è altrettanto pesante. Per comprenderlo occorre fare un passo indietro. L’attenzione statunitense nei confronti della Shoah è recente e direttamente proporzionale alla difesa dello stato di Israele, mentre è stata del tutto ignorata nei decenni successivi la Seconda Guerra Mondiale. Durante il maccartismo, per esempio, ogni accenno alla persecuzione degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, era visto con sospetto negli Usa, in quanto l’intelligentia ebraica aveva forti simpatie comuniste e socialiste e nella mentalità paranoica di quegli anni bastava essere semplicemente critici dell’American way of life per essere perseguitati: la vicenda surreale di Chaplin e quella ben più tragica dei coniugi Rosenberg lo sta a testimoniare. Quando fu pubblicato il libro di Annah Arendt, oggi tanto esaltato, e cioè La banalità del male (siamo a metà degli anni ’60, dopo il processo al criminale nazista Eichman), la diffidenza era così forte che ne fu sconsigliata la pubblicazione negli Usa. Tutto questo, nel silenzio totale da parte della comunità ebraica di quel paese e non solo.

Se poi si passa al bombardamento atomico delle città giapponesi nonché alla criminale rappresaglia seguita alla battaglia di Okinawa, che portò al bombardamento di Tokio durante il quale i morti furono persino superiori per numero a quelli immediatamente colpiti dalle bombe nucleari, la rimozione è totale.

Quanto ai campi di internamento statunitensi, il primo film degno di nota sulla tragedia dei nippo statunitensi è della metà degli anni ’60, uno più recente con Richard Geere, affronta di nuovo il tema in modo assai edulcorato, ma non esiste nulla di paragonabile rispetto all’attenzione dedicata ad altri eventi. La storiografia ufficiale giustifica l’atomica, non vi è traccia di revisionismo o almeno di resipiscenza critica per un atto che, sotto ogni aspetto, si configura come un crimine contro l’umanità, neppure giustificato da esigenze belliche, dal momento che il Giappone era allo stremo e non poteva minimamente minacciare le potenze alleate. La logica politica che guidò quella decisione scellerata, lo sanno tutti anche non si può dire, fu quella della vendetta e della rappresaglia da un lato (una sorta di attualizzazione del detto romano guai ai vinti) e costituiva un avvertimento all’Unione Sovietica dall’altro. Finché non ci sarà anche solo simbolicamente, una Norimberga per Hiroshima e Nakasaki, la memoria dell’occidente sarà basata solo su un peloso senso di colpa nei confronti della Shoah e nella rimozione di un altro crimine spaventoso.

L’uso politico della memoria storica appare qui talmente vistoso da risultare grottesco. Se la condanna dei Rosenberg fosse accaduta oggi si può dare per certo che essa sarebbe stata rubricata come una vicenda di antisemitismo, tanto frequente e abusata tale accusa nei conforti di tutti coloro che semplicemente criticano la politica di discriminazione razziale e apartheid da parte dello stato di Israele. D’altro canto, tale atteggiamento corrisponde a una filosofia della storia che si è fatta strada nel corso del ‘900 e che è diventato una sorta di paradigma dopo la tragedia della seconda Guerra Mondiale e cioè la considerazione che lo sconfitto, il vinto, sia per definizione anche un reprobo, concetto che appare all’orizzonte solo nel secolo scorso: dall’avversario al nemico, al Male. Tutto ciò con effetti grotteschi: non appena appare qualcuno all’orizzonte che disturba la politica americana esso diviene immediatamente il nuovo Hitler!

Che rapporto ha, invece, l’Europa con la storia e la memoria della Seconda Guerra Mondiale? Apparentemente la risposta è molto semplice: sono talmente numerose le celebrazioni, le manifestazioni, le reiterate iniziative istituzionali con cui viene ossessivamente ricordata la Shoah, da sembrare, la mia, una domanda inutile. Non lo credo affatto, invece, perché anche nel continente europeo, se si gratta sotto l’apparenza, si scoprono molte crepe in quella che sembra l’icona ben costruita. Prima di tutto va ricordato che anche in Europa, per ragioni diverse rispetto agli Stati Uniti, la memoria collettiva della Shoah è più recente di quanto non si creda. Subito dopo il conflitto gli stessi internati nei campi di concentramento non parlavano volentieri della loro esperienza e lo si può comprendere; ci vuole del tempo per metabolizzare una simile tragedia. Le stesse opere letterarie citate in precedenza non nascono nell’immediatezza, ma successivamente. Lo stesso si può dire per la Germania, dove il processo di elaborazione del passato è stato fatto in una forma che è sconosciuta in altri paesi (per esempio in Italia) che portano le stesse responsabilità politiche, almeno per quanto riguarda i crimini di guerra in altri paesi: mi riferisco all’uso dei gas nelle guerre coloniali del fascismo e alle efferatezze compiute dall’esercito italiano durante l’occupazione della Croazia e del Montenegro.

La memoria come costruzione    

La memoria può essere soltanto costruzione e ricostruzione insieme. Tale processo può essere compiuto sia dagli storici, sia, almeno in teoria, dagli scrittori.

Nel Giulio Cesare di Shakespeare c’e’ un passaggio che ha fatto saltare il buon Freud sulla sedia e forse fu uno dei dati che lo spinse a scrivere (secondo me con un ottimismo eccessivo, se guardiamo a quanto avvenuto successivamente), che gli scrittori e i poeti avevano inventato la psicanalisi prima di lui.

Nella tragedia del grande bardo si accenna al fatto che Cesare, uscendo di casa il mattino del fatidico 15 marzo, inciampi nella soglia. Naturalmente sul piano del dato storico, tutto questo non esiste: nessuna testimonianza, da Sallustio a Tacito ad altri storici romani ci autorizzano a pensare a qualcosa del genere. Sappiamo che secondo la cultura pagana del tempo Cesare aveva avuto le sue premonizioni; sappiamo pure che alcune di esse erano molte precise nel delineare la congiura, ma che abbia inciampato nel gradino uscendo di casa è una pura invenzione, ma la circostanza è talmente vera sul piano psicologico che si può finire per crederla vera anche sul piano storico.

La memoria può essere solo una costruzione che si avvale di apporti diversi e appartenenti a campi diversi che spaziano dall’arte all’antropologia ed è dal loro intreccio che si può arrivare a una affresco degno di nota, mentre una dossologia di eventi che, per il solo fatto di essere posti in una scansione lineare di tempo che procede dal più piccolo al più grande pretendono perciò stesso di essere significativi, finiscono per avere poco senso, come non ne aveva la fila di persone dalla testa bassa in attesa di entrare nella stazione di polizia, con cui questa riflessione è iniziata. Ciò che distingue quella fila da una qualsiasi coda in attesa di entrare in un ufficio postale, oppure di salire su un autobus, è l’istante in cui lo sguardo della popolana rompe la cattiva sequenza spazio-temporale e successivamente, ciò che da quello sguardo e da quella rottura poteva nascerne. La testimonianza di Achmatova, non ci ridà il senso compiuto, neppure il suo ricordo diviene memoria, ma la sua testimonianza illumina la differenze che noi possiamo leggere in altri: oltre ai ricordati già Levi e Solgenitsin, anche altri che ciascuno può inserire in un elenco personale di scrittori che conosce.


[1] L’espressione trattamento differenziato non è mia. La prendo in prestito dal filosofo Costanzo Preve che l’ha usata nel suo libro dedicato alla guerra della Nato alla Serbia .

Dal Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze


 Alla fine è arrivato l’attacco più duro e frontale che questo presidio ha subito dal 9 luglio 2021. Con una mail oggi VENERDI’ alle h 15.55 l’azienda ha comunicato l’arrivo dei camion LUNEDI MATTINA ALLE 8.00 per quello che è, a nostro parere, a tutti gli effetti l’inizio dello svuotamento dello stabilimento. E’ evidentemente una operazione preparata da tempo, una escalation studiata a tavolino, probabilmente su diretto suggerimento di Confindustria e cogliendo l’assist del Governo del “made in Italy”.
Melrose non aveva mai osato tanto. E probabilmente è ancora Melrose che comanda e che viene a completare la delocalizzazione.
Questa forzatura avviene perché l’azienda non ha in mano nulla. Non ha la cassa integrazione approvata dall’Inps, non ha nessun piano industriale, non ha brevetti, non ha consorzi, veri o presunti, non ha accordi commerciali, non ha probabilmente una linea di credito approvata dalle Banche per gli investimenti, non ha credibilità, ha venduto fumo e chiacchiere per dieci mesi, ha disatteso l’accordo quadro e può quindi usare solo la forza della provocazione, in spregio ad un intero territorio.
Abbiamo teso la mano per metterci al lavoro, attraverso i nostri stessi progetti industriali. Il 2 novembre è stato proposto all’azienda di mettere a disposizione lo stabilimento dei progetti industriali, delle attività di soggetti pubblici, privati o delle forme associative e del cooperativismo produttivo del territorio. Il 3 al Mise è stato proposto una governance pubblica. Borgomeo ha rifiutato. Ed ha rifiutato perché probabilmente il suo compito non è portare lavoro, ma svuotare lo stabilimento.
Siamo alla vendita del ferro a rottame. Altro che piano industriale. Le aziende appaltatrici che verranno a fare questa operazione di smantellamento devono sapere di essere state tirate nel mezzo a una vera e propria provocazione di natura sociale.
Che forma ha la dignità lunedì mattina alle 8.00? Pensiamoci bene. #insorgiamo

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Terza parte

Un tentativo di bilancio

L’originalità di questo frammento di storia culturale italiana è indubbia, sia per la durata nel tempo, sia perché è sufficiente una rapida indagine per capire che in nessun altro paese occidentale è esistito qualcosa di paragonabile. A valle dei cicli industriali conclusi è nata in Gran Bretagna e nel nord Europa una disciplina come l’archeologia industriale, che si è diffusa in vario modo anche in altri paesi. Il restauro dei docks di Londra, piuttosto che i villaggi minerari sono esempi straordinari di queste nuove discipline, nonché attrazioni turistiche; ma siamo nell’ambito di una cultura museale, seppure profondamente diversa dal museo tradizionale.9

In sede conclusiva mi pongo due interrogativi in particolare: è esistita un’egemonia della cultura di sinistra nell’Italia del secondo dopoguerra? Il particolare rapporto fra cultura, industria e movimento operaio, può essere considerato un segmento importante della traduzione originale in lingua italiana del compromesso fordista fra capitale e lavoro che ha caratterizzato l’intero mondo occidentale post bellico?10 Anticipo le conclusioni dicendo che, pur nel loro intreccio, fra le due domande vi è una notevole asimmetria. Mentre alla seconda mi sentirei di dare una risposta affermativa, sulla prima occorre innanzi tutto scorporare dall’analisi concreta dei processi concreti, la narrazione propagandistica che è stata alimentata, per opposte ragioni, sia da destra sia da sinistra.

Il rapporto virtuoso fra scienza, cultura industriale, capacità manageriali e cultura tout court fu un fattore determinante nella rinascita post bellica, fino al boom economico. La politica petrolifera di Mattei, l’invenzione del Moplen – il padre della plastica – da parte di Giulio Natta, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 e che fu prodotto dalla Montedison, sono tappe decisive – insieme a quelle già ricordate in precedenza – per affermare che l’intreccio del tutto particolare fra cultura e industria fu un elemento propulsivo della società italiana. A questo aggiungerei la consulenza dell’economista Federico Caffè ai primissimi governi di centro sinistra. Alcuni capitani d’industria come Olivetti e Luraghi e un banchiere come Raffaele Mattioli hanno giocato un ruolo di primaria importanza che va molto oltre le loro funzioni istituzionali e ha costituito un tessuto intermedio, più che un corpo intermedio vero e proprio; piuttosto una trama trasversale fra impresa, istituzioni culturali e politica che ha permesso la crescita di una cultura laica e in molti casi di sinistra, protetta da interventi censori, che pur non mancarono e furono molto gravi. Valga per tutto la fondazione a Milano, per esempio, della casa della Cultura, un baluardo della sinistra non solo milanese, alla cui nascita contribuirono personaggi di spicco del capitalismo italiano, oltre a quelli già ricordati; lo stesso si può dire della casa editrice Einaudi a Torino. Laici e in qualche caso – Mattioli – in odore di massoneria, ma lontano dagli scandali che sarebbero scoppiati decenni dopo, svolsero insieme a un pezzo consistente di sinistra socialista un ruolo terzo – basato sul rispetto dell’autonomia della cultura e sulla diversità – rispetto sia ai democristiani sia ai comunisti: in molti casi, questo mondo intermedio offrì più di una sponda alla crescita di una cultura democratica e fu assai importante nelle trasformazioni del sindacato. Capitalismo illuminato? Sì, ma con dei limiti molto precisi. Gli imprenditori citati, cui possiamo aggiungere anche Mattei, erano prima di tutto una minoranza anomala rispetto a un mondo imprenditoriale acefalo e reazionario, diretto a bacchetta da un altro banchiere – Enrico Cuccia – e tenuto a balia dalla sua creazione – Mediobanca – che suppliva con le sue acrobazie finanziarie alla storica incapacità del capitalismo italiano di ricapitalizzarsi con le proprie forze. In secondo luogo, non erano di certo gli Olivetti a dirigere Confindustria e a trattare con i sindacati: questo compito era lasciato ai mazzieri come Valletta e Costa, nonché alla Celere di Scelba. Tuttavia, i vari Olivetti, Girotti e alcuni dei managers di stato costituirono un cuscinetto che permise una certa flessibilità e fin quando riuscirono ad avere voce in capitolo, poterono far pesare la loro autorevolezza sia in campo economico, sia ancor più in campo culturale, dove nessuno si permetteva di criticare anche le loro scelte più eccentriche, tenuto conto dell’ignoranza congenita di gran parte del ceto imprenditoriale italiano. Quegli uomini, tuttavia, non avevano eredi e quando la crisi del boom economico portò al pettine molti nodi sociali e politici, già nel 1963, le redini furono prese dai settori più reazionari ed eversivi: cominciava a finire quella tradizione anomala, fatta anche di salotti trasversali – per esempio quello di Giulia Maria Crespi a Milano – e iniziava un’altra storia.

Diverso il discorso sulla cosiddetta egemonia della cultura di sinistra, sebbene s’intrecci con la questione del compromesso fordista. Credo ci sia una prima considerazione da fare: intellettuali come i coniugi Steiner e come Elio Vittorini permisero alla stampa del Pci di avvalersi delle menti migliori e dei progetti grafici più avanzati esistenti in quegli anni. Politecnico rimane un’impresa straordinaria – lo sarà Alfabeta in un contesto diverso anni dopo –  e anche Rinascita, la rivista teorica del Pci, era quanto di più moderno si potesse pensare in quegli anni. Se parliamo di egemonia in senso gramsciano possiamo dire che la pubblicistica comunista si avvalse del meglio e così pure altre istituzioni culturali. Tuttavia, ci sono due problemi di cui tenere conto: prima di tutto la stagione dei rapporti idilliaci fra Pci e intellettuali s’incrinò molto presto, almeno con alcuni di loro. In secondo luogo, la cultura del militante medio del Pci, non era sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda di chi dirigeva la politica culturale nel partito. L’egemonia che il Pci cercava di esercitare sugli intellettuali come mondo separato era un mondo a se stante. In buona sostanza, l’intellettuale organico del Pci, quello che si occupava della cultura intesa come lavoro di massa da un lato, ma che al tempo stesso teneva i rapporti con i grandi intellettuali dall’altro, parlava ai colti con un linguaggio e agli incliti con un altro, riproducendo al proprio interno una tradizione curiale tutta italiana. Questa contraddizione fu particolarmente visibile rispetto a tre nuovi aspetti della cultura di massa: il fotoromanzo, il cinema e la canzone. 11

Il fotoromanzo come genere nacque infatti nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ne ricostruisce puntualmente la storia.12 L’autrice ricostruisce le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L’intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l’uscita – nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. L’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche della Dc, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni furono immediate. In questa prima fase la diffusione del fotoromanzo si scontrò con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, per i primi, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe, per i secondi. Cosa accadde, però, nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda, accennando a un dibattito assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente, intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che ebbero un ruolo politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grande panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero. Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma di Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere,  rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affrontavano temi come contraccezione e aborto.

La terza fase riguarda il cinema e i cambiamenti che stavano avvenendo nell’ambito della musica cosiddetta leggera. Come mai gli intellettuali vincenti come Zavattini and company, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi venivano bollati da Aristarco – anch’egli intellettuale di punta del partito –  come pornografi dei sentimenti? 13 A mio giudizio  le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro. La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura profonda della dirigenza comunista era umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante l’omaggio formale alle avanguardie sovietiche, che avevano aperto sia nel cinema sia nella grafica le maggiori e più importanti trasformazioni novecentesche e proprio nella Russia del primo decennio del secolo e poi nei primi anni successivi la Rivoluzione Bolscevica, Il Pci scelse da subito e molto di più gli interventi censori di Stalin e Zadanov, ben rappresentato da Mario Alicata, il cui furore non era infondo diverso da quello dei sovietici. La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente – anche in Gramsci – di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini, cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo. Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista fu molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual’era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrotolavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro.

Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica della propaganda fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni – tutt’altro che banali – e di una letteratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada. Nel mezzo e grazie al cinema, cresceva una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: da quel momento iniziò anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale erano venuto prima, con buona pace del nesso struttura sovrastrutture e riguardava proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa nel contesto del neocapitalismo italiano. Entra in scena anche un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo, cui anche lui aveva dato un contributo all’inizio, riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.

Il combinato disposto fra queste spinte e contro spinte contraddittorie, faceva del mondo comunista una società nella società come avrebbe detto anni dopo Pasolini, ma in un’ottica di arroccamento difensivo. Se parliamo dell’insieme della società italiana, non vi è dubbio che l’egemonia culturale clerico-fascista fosse di gran lunga prevalente ed esercitò un plumbeo dominio fino alla metà degli anni ’60. Basti pensare ai processi che subì Pasolini, alla canea reazionaria che travolse Fausto Coppi, a Braibanti, ai casi continui di censura, al sequestro di film e romanzi, alla censura televisiva nei confronti di Dario Fo e Franca Rame. Tale egemonia cominciò a essere messa in discussione non tanto dalla critica comunista, ma dai processi di modernizzazione innescati dal boom economico e dall’irruzione della sociologia statunitense negli atenei italiani. Tale processo non fu affatto compreso dal Pci. Non bisogna infatti dimenticare che i grandi consiglieri politici del partito non erano più gli Steiner e i Vittorini, non erano gli economisti, ma piuttosto esponenti importanti del mondo cattolico come Franco Rodano, oppure uomini come Ambrogio Donini, che guardavano prima di tutto al mondo cattolico, da atei, ma anche ostili alla cultura laica e socialista più progressista; prima di tutto in materia di sessualità e famiglia. I primi movimenti di massa anticapitalistici durante quegli anni, furono certamente tenuti a battesimo anche dal Pci – si pensi al luglio del 1960 – ma furono le riviste eretiche del marxismo italiano, nate da costole socialiste e comuniste, fu l’opera di intellettuali come Fortini, Beccalli, Panzieri, Bellocchio, Morandi, Pirelli, infine il Concilio Vaticano Secondo, a creare quello strano crogiolo, frutto dell’eterogenesi dei fini, che sarebbe esploso nel triennio 1967-69 e che spazzò via per un decennio l’egemonia clerico-fascista.11 Fu una parentesi felice, ma mise anche in evidenza che se egemonia vi fu, essa non venne prevalentemente dalla cultura del Pci, ma da una sinistra più vasta, operaista e antiautoritaria, o dalla teologia della liberazione. Il Pci cercò di cavalcare i movimenti, poi fu costretto a inseguire, come su tutta la materia riguardante i diritti civili, poi a cercare di egemonizzare o reprimere. Le trame eversive criminali, le stragi e la scelta sciagurata della lotta armata posero fine alla parentesi più felice della storia italiana recente e travolsero anche il Pci.


9 Insieme all’archeologia industriale è nata, in particolare in alcuni paesi del nord Europa come Danimarca e Olanda, l’idea del turismo antropologico, cioè rivolto al passato. Ci sono molte agenzie che se ne occupano in quei paesi. Si tratta di trascorrere un periodo di vacanza in villaggi che sono stati ricostruiti in base agli studi etnografici. Si sceglie il periodo storico nel quale si vuole viaggiare e ci si ritrova a vivere nelle condizioni di cinque o diecimila anni fa.  Nel nord Europa questi villaggi sono usati anche per fini didattici.

10 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

11 Questa parte del saggio dedicata al cinema, al fotoromanzo e alle canzoni, è la rielaborazione di un testo già pubblicato sulla rivista online Overleft, nell’ambito di una dibattito della redazione cui parteciparono anche altri.

12 Il fotoromanzo174 pag., Euro 12.00 – Edizioni il Mulino (L’identità italiana n.22) ISBN.

13 A questo proposito mi riferisco all’espressione usata da Adriano Voltolin nel suo intervento su Oveleft.

11 Il compromesso fordista ha prima di tutto un contenuto geopolitico ed economico che qui non viene preso in considerazione, ma almeno qualche accenno è necessario. Sostanzialmente, si tratta delle politiche keynesiane – anche se la formula va presa con le pinze – fondate sul piano Marshall, lanciato per non ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima Guerra Mondiale con la pace di Versailles. Non più soltanto l’imposizione leonina alla Germania di riparare i danni di guerra con il conseguente sequestro dell’economia tedesca, ma il varo di un programma di aiuti basato sull’espansione della spesa pubblica, l’intervento dello stato in economia secondo il modello del new deal rooseveltiano, i consumi di massa e un welfare a geometria variabile a seconda dei diversi paesi. La declinazione, comune a tutti gli stati europei, fu il riconoscimento della libertà sindacale, il ripristino del diritto di sciopero e ovviamente la libertà di organizzazione dei partiti politici. Nello scenario italiano il patto costituzionale e le sue conseguenze politiche furono la cornice entro la quale possiamo collocare altri due elementi: il varo del piano Ina-casa del governo Fanfani, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il piano del lavoro sottoscritto da Di Vittorio. 

ARTI E LETTERE NEL ‘900 ITALIANO:  FRA RIVOLUZIONE E INDUSTRIA. Seconda parte

Il secondo dopoguerra

La caratteristica più originale dalla fine degli anni ’40 fino agli anni ’70 è il doppio intreccio che lega artisti, letterati, architetti e designers alla cultura di sinistra e in alcuni casi al Partito comunista italiano da un lato e al mondo dell’industria dall’altro. Elio Vittorini, Albe e Lica Steiner, Franco Fortini, Gian Giacomo Feltrinelli. Su quest’ultimo la pubblicistica è talmente vasta che è superfluo aggiungervi qualcosa. I due esponenti più originali, sia per la loro storia personale, sia per i contributi che hanno dato, sia per la loro stessa relazione amicale sono Raniero Panzieri e Giovanni Pirelli. Il secondo, un piccolo – ma non minore – Engels italiano, rifiutò il ruolo naturale che gli sarebbe spettato in quanto figlio maggiore di una storica famiglia d’imprenditori, lasciando al fratello Leopoldo le redini dell’azienda, con cui tuttavia mantenne un rapporto fino al 1948. Quanto a Panzieri, il suo ruolo nella nascita dell’operaismo italiano è più che nota: meno nota e assai rilevante la vicenda di Giovanni Pirelli, che verrà ripresa anche nelle conclusioni. 3

Albe Steiner iniziò il suo percorso artistico approfondendo la conoscenza sia del Costruttivismo sovietico (El Lisitzkij), sia del Bauhaus, sia degli astrattisti. La sua prima mostra grafica fu del 1940, alla VII triennale di Milano. Nel 1939 si avvicina al PCI e insieme alla moglie Lica  conosce Di Benedetto e Vittorini. Durante la guerra partecipa attivamente alla Resistenza nelle file del battaglione Valdossola e perde il fratello Mino, deportato a Mauthausen. Dopo la Liberazione entra come grafico nella redazione del Politecnico diretto da Vittorini. Le sue scelte grafiche innovative, che si richiamano alle avanguardie russe post rivoluzionarie per approdare persino al fumetto, costituiscono gli elementi fondanti del suo percorso artistico. Sempre con Vittorini, Steiner realizzerà per la Einaudi Politecnico biblioteca, una collana di undici titoli editi fra il 1946 e il 1949.4

La storia di Adriano Olivetti e dell’azienda omonima è troppo nota per riassumerla qui, se non per l’aspetto che riguarda il rapporto fra industria e cultura.5 Dagli anni ’40 fino agli anni ’80, poeti, letterati e scrittori di rilievo lavorarono alla Olivetti ricoprendo ruoli diversi, anche di grande responsabilità. Tra gli altri Giudici, Volponi, Sinisgalli, Pampaloni e Fortini. Quest’ultimo entrò nella società nel 1947, dove operò fino al 1960. Si occupava delle pubblicazioni aziendali, delle campagne pubblicitarie e dei nomi dei prodotti (tra questi, si ricordano Lexikon, Tetractys e Lettera 22). L’utopia di Adriano Olivetti consisteva nell’integrazione fra la formazione tecnico-scientifica e quella umanistica in ogni ambiente, azienda compresa.

Coerente con questo proposito, la selezione del personale prevedeva che per ogni nuovo tecnico o ingegnere entrante si assumesse anche una persona di formazione economico-legale e una di formazione umanistica. Gli scrittori che operarono in Olivetti non furono un semplice fiore all’occhiello della direzione aziendale, ma erano ritenuti organici allo sviluppo aziendale, in particolare in settori critici come pubblicità e comunicazione, le relazioni con il personale, i servizi sociali.

Giuseppe Luraghi fu l’ultimo di questa schiera di intellettuali prestati all’azienda, ma attenti alla cultura e con una visione umanistica del loro ruolo. Dirigente d’industria finirà la sua carriera di manager all’Alfa sud, dopo aver diretto la Necchi e la Mondadori. Coltivava al tempo stesso la passione letteraria, sia come scrittore di romanzi (Due milanesi alle piramidi 1966) e come saggista (Le macchine della libertà del  ’67, Milano, dal quattrino al milione nel ’68  e Capi si diventa del ’74.Un capitolo a parte è la sua passione per la poesia spagnola che si tradusse anche in un sodalizio con il poeta comunista Rafael Alberti. Fra i due corse anche un intenso carteggio dal 1949 al ’75.   

Un discorso a sé va fatto invece per Bruno Munari e ne riassumerò la vicenda prevalentemente in nota, visto che la sua figura si distacca anche dal punto di vista qui scelto e cioè la relazione che lega gli intellettuali citati non solo al mondo dell’industria ma a quello della sinistra. Munari è un raro esempio di artista che è riuscito a passare indenne – in un certo senso invisibile – dalle tragedie del ‘900, interpretando in momenti diversi un ruolo di artista, manager, intellettuale a tutto campo – tanto da essere definito una figura leonardesca –  che con la sua opera ha attraversato il regime Fascista e poi il dopoguerra sempre relativamente estraneo alle vicende del momento storico, ma sempre presente con le sue multiformi e mutanti creazioni.6 A lui, in ogni caso, andrebbe dedicato uno studio ben più ampio di questa nota. Come conclusione provvisoria direi che la sua esperienza segna un passaggio senza soluzione di continuità fra modernità e post modernità. La sua ironia e la sua – direi programmatica – assenza di astrazioni teoriche ne fanno però anche un convitato di pietra della seconda metà del ‘900, capace di indicarne silenziosamente i limiti. I suoi fossili del 2000, aldilà della loro comicità, sono un monumento al dissolversi delle forme e della tecnologia e diventano perciò una metafora dell’inconsistenza del consumismo tecnologico e dello stesso post modernismo: dei nulla rispetto alla permanenza millenaria delle statue dell’isola di Pasqua, della stele di Rosetta e delle Piramidi.

Infine, fra le multiformi esperienze che hanno contraddistinto la letteratura dei quegli anni, un posto importante lo occupano i romanzi operai: sia scritti da lavoratori, sia quelli che hanno il lavoro e spesso la fabbrica come centro di propulsore della narrazione. Oppure le inchieste sul lavoro in fabbrica, a metà strada fra saggistica e giornalismo. Legata a questa esperienza è anche la nascita della rivista Abiti-Lavoro, quaderni di scrittura operaia, fondata da Giovanni Garancini e Sandro Sardella (1983-1993). I romanzi operai costituiscono un fenomeno che riguarda prevalentemente il secondo dopoguerra: i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Calvino, Testori, Tonon, Bianciardi, Ottieri, Bilenchi e Volponi.7 Il giudizio critico sulle loro opere esula dagli intenti di questo studio e peraltro i contributi citati nella nota ne danno un quadro più che esauriente.

Quanto alla rivista, la sua veste grafica è volutamente minimalista, abiti-lavoro è una voce compresa nella busta paga operaia e, in questo senso, la sua fondazione s’iscrivere pienamente nel solco dell’arte povera. Uno dei suoi animatori più prestigiosi fu Ferruccio Brugnaro, poeta e operaio alla Montefibre di Porto Marghera, ma la maggioranza delle scritture pubblicate sulla rivista proveniva da uomini e donne che lavoravano nella fabbriche. Essa non fu importante solo per la poesia ma anche per la narrativa operaia, nel duplice senso indicato prima. Nel numero uno, per esempio, l’articolo di Paolo Rossi intitolato la Nuova letteratura operaia fra eversione integrazione, è una rassegna dei romanzi di Bernari, Pratolini, Ottieri, Volponi e Balestrini. Nell’arco di dieci anni Abiti-lavoro ha tenuto a battesimo poete e critiche come Carmela Fratantonio, Mariella Bettarini e Maria Teresa Mandalari; tanto che nell’editoriale del numero 4 e con un certo orgoglio, si sottolinea la volontà della redazione di allontanarsi da un’impronta maschilista. Mandalari è anche l’autrice del solo saggio che si occupi della scrittura operaia a livello europeo e precisamente, nel suo caso alla Germania, con il libro: Poesia operaia tedesca del ‘900  www.dimanoinmano.it/…/poesia-operaia-tedesca-del-900. Lo sguardo internazionale diventa, nel corso del decennio, uno dei tratti salienti della rivista. Nel quinto e nel nono numero l’inserto su Sabra e Chatila, poi la testimonianza di Jean Genet e Piero Del Giudice, costituiscono un momento alto di cultura critica.

L’ultima esperienza di questa rassegna riguarda Antonio Caronia, l’ennesima figura anomala nel panorama della sinistra italiana. Si laurea in matematica e svolge un’intensa attività politica dal ’64 al ’67, prima nel Psi e poi nella Quarta Internazionale, dove dirige per due anni la rivista Bandiera Rossa. Tuttavia, la singolarità della sua esperienza è legata all’interesse per la fantascienza. Aderisce  al collettivo milanese Un’ambigua utopia, che si ispira a un romanzo di Ursula Le Guin I reietti dell’altro pianeta. Le Guin è una delle autrici di fantascienza più originali del panorama mondiale e Caronia ne favorisce la conoscenza in Italia.8


3 Giovanni Pirelli fu un comandante partigiano e nell’immediato dopoguerra curò con Piero Malvezzi la prima edizione delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945. Tornato a Milano nel maggio 1946, s’iscrisse al Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), senza abbandonare la posizione all’interno dell’azienda di famiglia. Sostenne finanziariamente il settimanale giovanile Pattuglia e il quotidiano l’Avanti! Successivamente contribuì alla ricostruzione delle istituzioni culturali milanesi, sostenendo le attività della libreria Einaudi e grazie a tale impegno conobbe Elio Vittorini, con il quale strinse una grande amicizia. Negli stessi anni partecipò alla fondazione della Casa della cultura e del Piccolo Teatro. Il 1948 fu un primo anno di svolta nella sua vita. Attaccato dalla destra, decise di compiere il passo decisivo: lasciare famiglia e azienda per trasferirsi a Napoli, dove iniziò la collaborazione con l’Istituto italiano di studi storici, sotto la direzione di Federico Chabod. Lasciata Napoli nel ’49 continuò a occuparsi di storiografia con Gianni Bosio e divenne redattore della rivista Movimento operaio. La sua cultura umanistica e la passione letteraria lo indirizzarono alla scrittura di libri per ragazzi, racconti e romanzi. Quando Bosio nel 1953, rilanciò l’attività delle edizioni Avanti!, Pirelli pubblicò nella collana Il Gallo il racconto Giovannino e Pulcerosa (1954). L’esordio narrativo, in realtà, era già avvenuto nel 1952, con la pubblicazione del racconto L’altro elemento nella collana I gettoni di Einaudi. Nel 1950, peraltro, Piero Malvezzi lo aveva coinvolto nella riedizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (Torino 1952), cui seguirono le Lettere di condannati a morte della Resistenza europea (Torino 1954). I volumi ebbero immediato successo, molte ristampe e traduzioni. Tornò alla narrativa con La malattia del comandante Gracco, pubblicato da Einaudi nel 1958 nella raccolta L’entusiasta. Nel racconto biografico, narra l’esperienza della malattia che lo colpì durante la guerra partigiana. Nel frattempo  era maturata anche la passione per la cinematografia: nel 1953 con Malvezzi lavorò alla sceneggiatura di un cortometraggio tratto dalle Lettere italiane, con regia di Fausto Fornari, che vinse il premio come miglior cortometraggio a soggetto alla XIV Mostra del cinema di Venezia. Nel 1955 realizzò, sempre con Malvezzi, l’adattamento teatrale delle Lettere europee, Europa incontro all’alba, per la regia di Vito Pandolfi. Firmò inoltre la sceneggiatura di due documentari a carattere storico-politico diretti da Nelo Risi: Il delitto Matteotti (1956) e I fratelli Rosselli (1959). A Roma, dove si era trasferito nel 1950, aveva sposato nel 1953 la pittrice Marinella Marinelli, dalla quale ebbe due figli, Francesco (1953) e Pietro (1954). Gli anni romani furono anche quelli della vicinanza a Raniero Panzieri. Il rapporto fra i due fu una grande amicizia, basata su una piena sintonia politica. Entrambi aderirono alla corrente morandiana del PSI e dopo il 1955 diressero la sezione cultura, poi curarono la raccolta degli scritti di Rodolfo Morandi. Alla fine degli anni Cinquanta avvenne una seconda svolta nella sua vita. Come molti intellettuali e militanti di matrice resistenziale, sposò la causa dell’Algeria contro la dominazione francese, fornendo sostegno al Fronte di liberazione nazionale (FLN) algerino sia dal punto di vista logistico e finanziario sia editoriale, con le raccolte di documenti Racconti di bambini d’Algeria e Lettere della Rivoluzione algerina, pubblicate in Italia da Einaudi rispettivamente nel 1962 e nel 1963 e in Francia, negli stessi anni, da Maspero. Nel 1961 avvenne l’incontro decisivo con Franz Fanon a Tunisi. Il pensiero anticoloniale dello psichiatra antillese influenzò in modo determinante il successivo percorso di intellettuale impegnato politicamente. Pirelli ne divenne il principale divulgatore e sostenitore in Italia: nel 1963 curò per Einaudi l’edizione italiana di L’an V de la révolution algérienne (Sociologia della rivoluzione algerina), di cui aveva discusso personalmente con Fanon. Sempre nel 1963 fondò a Milano il Centro di documentazione Frantz Fanon, con lo scopo di raccogliere e fornire informazioni sui Paesi del Terzo Mondo: in pochi anni il centro costituì una ricca biblioteca e diventò uno dei punti nevralgici del sostegno ai movimenti anticoloniali in Italia. L’incontro con Fanon, ma anche le riflessioni che condivideva con Panzieri e Bosio, fecero maturare in tutti e tre la decisione  di lasciare il PSI (erano gli anni dei primi governi di centro-sinistra), senza tuttavia aderire al PSIUP. Dopo la morte di Panzieri (1964), Pirelli curò, insieme a Dario Lanzardo, un’antologia di suoi scritti: La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere (1956-1960), pubblicata dalle edizioni Lampugnani Nigri (Milano 1973).  Chiuso nel 1967, il centro Frantz Fanon avrebbe poi riaperto nel 1970 con il nome di Centro di ricerca sui modi di produzione (CRMP). Sulla scia dell’incontro con Fanon si sviluppò il suo intenso impegno a favore dei movimenti di liberazione. Grazie a Giovanni Arrighi, Pirelli compì numerosi viaggi, in Africa centrorientale (1964), negli Stati Uniti (1966), a Cuba (1968); infine in Cina nel 1970. Iniziò così l’ultimo segmento di una vita cui non mancò mai l’impegno e il coraggio del nuovo. Si avvicinò alle riviste e ai gruppi della nascente nuova sinistra, in particolare ai Quaderni rossi e ai Quaderni piacentini. Insieme a Bosio dette vita anche a un nuovo progetto editoriale: le edizioni del Gallo e partecipò alle attività dell’Istituto Ernesto De Martino (nato nel 1966) e del Nuovo canzoniere italiano, favorendone l’apertura internazionale. Dopo la morte di Bosio (1971) assunse personalmente la responsabilità delle edizioni del Gallo. Alla ricerca di nuovi strumenti di espressione per il suo impegno politico, selezionò i testi per A floresta é jovem e cheja de vida di Luigi Nono, opera dedicata al FLN vietnamita ed eseguita per la prima volta al teatro La Fenice di Venezia nel settembre 1964: l’opera era il risultato parziale di un lavoro teatrale più ampio sul tema dell’antimperialismo, al quale Pirelli lavorò con Nono per quasi cinque anni. Anche l’attività letteraria continuò in parallelo all’impegno politico. Nel 1962 aveva pubblicato da Einaudi la raccolta per ragazzi Storia della balena Jona e altri racconti, riedita nel 1972 da Fabbri con il titolo Giovannino e i suoi fratelli e una nuova prefazione in forma di interessante Autoritratto. Nel 1965, sempre per Einaudi, aveva pubblicato il romanzo di fabbrica A proposito di una macchina, sua ultima opera letteraria. Il suo archivio contiene tuttavia molti inediti, tra cui la bozza di un romanzo a carattere autobiografico dedicato alle vicende di una famiglia di industriali milanesi, I Bonora. Morì il 3 aprile 1973 a Sampierdarena per le ustioni riportate in un incidente stradale.

4 Dopo una parentesi messicana dal 1946 al 1948, in Messico, Albe e Lica Steiner tornano a Milano dove iniziano ad insegnare al Convitto Scuola della Rinascita. Come grafico, lui lavora per le riviste Domus, Metron ed Edilizia moderna, per alcune delle più importanti case editrici italiane (Feltrinelli, Einaudi, Zanichelli), per molti dei giornali e settimanali italiani di sinistra e per aziende come la Pirelli e la Olivetti. Nel frattempo e sempre negli anni cinquanta è docente dell’Umanitaria che rimane una delle imprese educative più importanti del dopoguerra. Oltre agli incarichi universitari, nel 1963 apre a Reggio Emilia il primo magazzino a libero servizio e disegna quello che diventerà il logo della Coop. Collabora con enti e istituzioni culturali come la Rai, il Piccolo Teatro, La Triennale di Milano, il Teatro popolare italiano, Italia ’61, la Biennale di Venezia. Progetta insieme all’architetto Lodovico di Belgioioso il primo Museo al Deportato politico e razziale, a Carpi. Il Museo, tuttora aperto, è stato inaugurato nel 1973. Il sodalizio sentimentale e politico con la moglie Lica non venne mai meno, ma è pur vero che ciascuno di loro aveva una propria autonomia artistica e culturale. Durante il soggiorno in Messico, per esempio, Lica ebbe modo di lavorare con Hannes Mayer, ex direttore del Bauhaus, al volume Construyamos escuelas. Sempre in Messico partecipò alla campagna di alfabetizzazione dei peones insieme a Diego Rivera e Siqueiros. Nel 1947 nacque la secondogenita Anna. Al rientro in Italia, contribuì alla fondazione del Convitto Scuola della Rinascita di Milano dove iniziò a occuparsi di didattica, sia come docente, sia come coordinatrice dei corsi di grafica. Nel 1957 curò per l’Unità la Pagina della Donna, prima esperienza del genere di un grande quotidiano nazionale. Nel 1964 fu lei a ricevere l’incarico di recuperare documenti, materiali fotografici e storici sui campi di concentramento politici e razziali per la costituzione del Museo di Carpi. La promozione e il riconoscimento della grafica e del designer sul piano tecnico, professionale e politico, sarà un impegno costante della coniugi Steiner durante tutta la loro vita e continuerà ad esserlo per Lica dopo il 1974, anno dell’improvvisa scomparsa di Albe. Rimasta vedova, continuò a dirigere lo studio di grafica e a insegnare fino agli anni novanta presso la Scuola del Libro dell’Umanitaria a Milano. Con le figlie e con il genero Franco Origoni curò la raccolta degli scritti di Albe e istituì nel 1979 l’associazione Albe Steiner per la comunicazione visiva, allo scopo di ordinare le opere del marito e proprie, e divulgarne la conoscenza attraverso mostre e pubblicazioni. Tutto il materiale raccolto confluì nell’Archivio Albe e Lica Steiner, che nel 1998 viene dichiarato di notevole interesse storico dal Ministero per i Beni culturali. Nel 2003, insieme alle figlie, decise di donarlo al Politecnico di Milano. Morì nel 2008 a Milano; è sepolta con Albe a Mergozzo. Le scritte incise sulla comune lapide dicono: Albe Steiner, partigiano; Lica Covo Steiner, partigiana.

5 Anche sulla fine di Olivetti sono sorti sospetti che fanno pensare alla sua morte come un possibile anello in più che va ad aggiungersi alla triste vicenda dei cosiddetti misteri italiani. Anche di questo aspetto non ci si occupa in questa sede. Del resto la pubblicistica su questo come su altri casi è sterminata e facilmente reperibile su carta stampata e anche in rete. Per apprezzare meglio la sua opera è utile invece considerare il concetto di Impresa integrale, che riecheggia in qualche misura anche l’utopia dei Crespi. Qui di seguito il link di un sito appropriato www.attivismo.info/adriano-olivetti. L’utopia di Olivetti finisce con lui, le narrazione successive che legano il suo nome a managers come Marisa Bellisario o Carlo De Benedetti hanno a che vedere solo con aspetti propagandistici che atro.

6 Bruno Munari è stato uno dei massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica novecentesche. Anche tale definizione, tuttavia, risulta un po’ stretta se si tiene conto dei contributi fondamentali che, a partire dai campi già citati, finivano per ramificare e produrre effetti che si propagavano a macchia d’olio: è il caso per esempio del tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco.  Nato a Milano passò l’infanzia e l’adolescenza a Badia Polesine. Tornò in città nel 1925 per lavorare in alcuni studi professionali di grafica. Nel ’27 inizia il suo sodalizio con Marinetti e i futuristi  e nel 1930 realizzò la macchina aerea. Nel ’33 proseguì la ricerca di opere d’arte in movimento, ma iniziò anche a distanziarsi dal futurismo militante e le sue macchine inutili possono essere considerate come un primo esempio di patafisica e anche una caricatura dell’esaltazione macchinale futurista. Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni nella storia dell’arte, quasi coeva, benché precedente, all’ambiente nero che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano. Nel 1948, insieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet, Giuliano Mazzon e Atanasio Soldati, fondò il Movimento Arte Concreta. Insieme a Lucio Fontana dominò la scena milanese degli anni cinquanta-sessanta; sono gli anni del boom economico, in cui nacque anche la figura dell’artista operatore-visivo che diventava consulente aziendale, come era accaduto anche per la fabbrica integrale di Olivetti. Munari è considerato uno dei protagonisti dell’arte programmata e cinetica, Nel 1951 presenta le macchine aritmiche in cui il movimento ripetitivo viene interrotto in modo causale e umoristico. Sempre degli anni cinquanta sono i libri illeggibili in cui il racconto è puramente visivo. Nel ‘55 crea il museo immaginario delle isole Eolie dove nascono le ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari, composizioni astratte al limite tra antropologia, humour e fantasia. Poi le sculture da viaggio, che sono una rivisitazione rivoluzionaria del concetto di scultura, non più monumentale ma come un bagaglio al seguito e a disposizione dei nuovi nomadi del mondo globalizzato di oggi. Nel ’59  crea i fossili del 2000 che con vena umoristica fanno riflettere sull’obsolescenza della tecnologia moderna. Negli anni sessanta diventano sempre più frequenti i viaggi in Giappone. La scoperta di quella cultura e in particolare per lo zen, lo porta su nuove strade. Nel ’65, a Tokyo progetta una fontana a 5 gocce che cadono in modo casuale in punti prefissati, generando una intersezione di onde, i cui suoni, raccolti da microfoni posti sott’acqua, vengono riproposti amplificati nella piazza che ospita l’installazione. Verso la fine degli anni ’60 si dedica alle sperimentazioni cinematografiche con i film i colori della luce (musiche di Luciano Berio, tempo nel temposcacco mattosulle scale mobili (1963-64). Infatti, insieme a Marcello Piccardo e ai suoi cinque figli a Cardina, sulla collina di Monteolimpino a Como, tra il 1962 e il 1972 ha realizzato pellicole cinematografiche d’avanguardia. Da questa esperienza nasce la Cineteca di Monteolimpino – Centro Internazionale del film di ricerca. Munari è tumulato nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano.

7 I siti e la bibliografia indicata qui di seguito sono ricavati da una ricerca in rete da fonti diverse e offorno un quadro esauriente della narrativa industriale. Giuseppe Iadanza, L’esperienza meridionalistica di Ottieri con Appendice sulla questione meridionale, Bulzoni, Roma 1976. Per testimonianze su Adriano Olivetti e sul movimento “Comunità” si rinvia alla sezione Bibliografia. ^ Per un completo profilo critico di questi due autori (segnalati qui a titolo esemplificativo, per la particolare attenzione rivolta alla tematica industriale), Cfr., per Ottieri: Giacinto Spagnoletti, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974, pp. 1603-1624; per Volponi: Enzo Siciliano, Op. cit., pp1589-1601. ^Donnarumma all’assalto, dopo critiche e riserve, fu pubblicato da Bompiani nel 1959 col pieno benestare di Adriano Olivetti.  Giorgio Bàrberi Squarotti, Volponi, Paolo, in Grande dizionario enciclopedico, prima Appendice (1964), Torino, UTET, 1965,, p. 1028. ^Giorgio Bàrberi Squarotti, op. cit., ivi. Giacinto SpagnolettiOttiero Ottieri, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974. Enzo SicilianoPaolo Volponi, in Letteratura italiana – I Contemporanei, volume sesto, Milano, Marzorati, 1974. Giuseppe IadanzaL’esperienza meridionalistica di Ottieri, Bulzoni, Roma 1976. Primo LeviLa chiave a stella, Einaudi, Torino 1979. Geno PampaloniAdriano Olivetti: un’idea di democrazia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1968 Elisabetta Chicco Vitzizzai (a cura di), Scrittori e industria, Paravia, Torino 1982. Francesca Giuntella e Angelo Zucconi (a cura di), Fabbrica, comunità, democrazia: testimonianze su Adriano Olivetti e il movimento Comunità, Fondazione Olivetti, Roma 1984. Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Giuffrè, Milano 2001. Giorgio Bigetti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Bari 2013. Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni Sessanta del Novecento, Giuffrè, Milano 2001. Giorgio Bigetti e Giuseppe Lupo (a cura di), Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, Laterza, Bari 2013. Lucio Mastronardi con la trilogia di vigevano (il calzolaio,il meridionale e il maestro di vigevano) Infine di Vincenzo Baraldi Condizione operaia e rappresentazione del lavoro www.uni3pinerolo.it/wp-content/uploads/2014/09/Vincenzo-Baraldi.. 10

8 Dalla metà degli anni ’80 collabora a riviste come Linus, Corto Maltese, Millepiani, Linea d’Ombra e con il quotidiano Il Manifesto. Continua la sua attività in ambito fantascientifico fondando la Viortual Isaac Asimo’v Science Foction Magazine Virus Mutaitons, Cyberzone. Collabora inoltre alla stesura di testi per MediaMente, trasmissione televisiva dedicata al mondo delle nuove tecnologie, prodotta da Rai Educational. Nel 2007 partecipa al Film Festival Visionaria, proiettando sotto il titolo di Città immateriali vari cortometraggi realizzati dalle accademie milanesi Accademia di Brera  e NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a cui segue un convegno collegato con il nuovo cyber fenomeno Second Life, sul quale si svolgeva il festival in forma virtuale. È stato per diversi anni docente di Comunicazione all’Accademia di Brera. Ha partecipato in prima persona alla Scuola di media design & arti multimediali della Nuova accademia di belle arti di Milano, NABA, con la titolarità della cattedra in estetica dei media al diploma triennale omonimo e della cattedra di culture digitali alla laurea di specializzazione in film & new media. Muore a Milano  nel 2013.

IN DIFESA DI ISMENE. Terza parte

Terza parte: Sofocle fra Ananke e pietas

Abbiamo parlato molto fin qui dei personaggi, ma ancora troppo poco del loro creatore: occorre farlo tenendo conto della trilogia, cioè dell’intero ciclo della vicenda, che inizia con Laio e termina con la morte di Antigone. Sofocle è il drammaturgo di mezzo della grande triade che comprende anche Eschilo ed Euripide ma dei tre è forse quello più vicino a una concezione dell’essere umano greco del tutto dominato dal destino, ancor più di Eschilo. Più vicino, tuttavia, non vuole dire che anche in lui non vi siano delle rotture interne nel corso della sua opera e che sono anche il segno delle trasformazioni che stavano avvedendo nella società greca del tempo. Emerge nelle sue opere, un movimento pendolare: da un lato Ananke, il destino; dall’altro un andare verso una forma di pietas che apre uno spazio di libertà all’essere umano. Edipo Re sta a un estremo di tale oscillazione, Edipo a Colono sta sull’altro lato del pendolo: Antigone nel mezzo. Per ritornare a Sofocle, tuttavia, occorre anche un po’ dimenticare Freud. Vi è poco o nulla in Edipo Re che autorizzi l’interpretazione freudiana del medesimo, solo una mezza battuta di Giocasta che va tuttavia posta nel contesto della cultura greca.11 Gli inglesi hanno un’espressione che a me piace molto: hopeful monster. La traduzione italiana più corrente, è mostro fortunato, ma io ne preferisco una seconda: mostro di successo. Ecco, l’interpretazione freudiana della tragedia Edipo Re di Sofocle è un mostro di successo. Non voglio con questo sminuire Freud, se qualche psicoanalista intenderà le cose in questo modo mi dispiace; le sole osservazioni cliniche sui casi che trattava erano e sono più che sufficienti a delineare il complesso che lega – nella famiglia borghese del suo tempo in modo assai stringente, nella nostra un po’ meno – i figli ai propri genitori, senza alcun bisogno di ricorrere alla tragedia sofoclea. Freud ha spalancato una porta su un continente immenso da esplorare e per questo gli saremo sempre grati, tanto grati che a oltre cento anni dalla fondazione della psicoanalisi possiamo liberare Sofocle dall’abbraccio di Freud, ma continuare a seguirli entrambi sulle loro diverse strade: il mostro di successo può essere messo in letargo. Il protagonista assoluto di Edipo Re è Ananke, tutti i personaggi a cominciare da Edipo medesimo, sono stritolati da un meccanismo impersonale governato dal Destino e non dall’inconscio e il terribile fascino di quest’opera sta proprio nella perfezione di questa macchina che funziona a orologeria, tanto da diventare ipnotica anche per il lettore e lo spettatore. Essa funziona così bene che si dimenticano facilmente le numerose incongruenze del testo e anche se sappiamo come va a finire si ha sempre voglia di andare fino in fondo perché non si riesce a credervi che possa andare davvero così. Gli esseri umani in Edipo Re non possono scegliere se non le inezie, il libero arbitrio è un concetto inesistente, la psiche come la intendiamo oggi pure e di questa assenza e della presenza totalizzante di Ananke, Sofocle dà la rappresentazione più potente che sia stata scritta, almeno nella storia della drammaturgia occidentale. Non manca neppure in questa tragedia la stoltezza degli esseri umani ma essa svolge un ruolo minore che non in Antigone. Sono talmente piccoli gli umani in Edipo re, che non possono essere neppure troppo stolti, sono semplicemente travolti e infatti non vi è alcun accenno di pietas nel testo: essa è tutta affidata alla catarsi, cioè al rivivere insieme la vicenda nella dimensione pubblica e religiosa del teatro greco, mentre in altre tragedie – anche di Sofocle – la pietas è visibile anche nel testo, come per esempio proprio in Edipo a Colono. In Antigone, Sofocle sta sostanzialmente dalla parte del coro, non può dare del tutto ragione ad alcuno dei due e su questo concordo con Zagrebelsky. È questo il modo in cui prende le distanze da quella assolutezza del destino che invece è così forte in Edipo Re. Se la materia è politica, essa appartiene all’umano ed è soggetta a una discrezionalità, cui non è estranea la parola libertà. Infatti, persino una donna, la può trasgredire, pur essendo esclusa dal governo della città. L’oscillazione ci riporta all’impossibilità di una scelta, ma essa è tutta umana, gli dei sono sullo sfondo e non più al centro. La tragedia Antigone è prima di tutto governata dall’incapacità di fronteggiare una situazione inedita da parte di Creonte e da una ribellione – del tutto legittima – ma che finisce per rafforzare i suoi comportamenti più dissennati. Sofocle sa che la ribellione di Antigone è destinata a fallire e si tiene a una certa distanza, ma di certo tanto meno sposa la causa di Creonte, che fallirà a sua volta. La grandezza del testo sta ancora una volta nella drammatica oscillazione. In Antigone il dubbio è sovrano, ma Sofocle non può essere del tutto dalla parte della principessa, perché anche in lei alberga una buona dose di arroganza e di hybris, che Sofocle di certo non può sposare.12 La soluzione allora sarà un’altra: mettere Creonte di fronte alla sua hybris.

Creonte e Tiresia

Quando Tiresia si presenta da Creonte tutto è già avvenuto o quasi. E cosa gli dice? Da un lato gli fa un discorso pieno di buon senso, che ancora di più fa risaltare la circostanza che forse tutta la vicenda è dominata da una serie di atti sconsiderati, alcuni dei quali pure maldestri, che hanno suscitato una reazione a catena che nessuno riesce più a fermare. Come mai ci riesce Tiresia quando è troppo tardi? Se ci pensiamo un momento, tutto questo è paradossale. Creonte non era l’inflessibile esecutore della legge? Non era l’uomo della legge fredda, per citare Zagrebelsky, contrapposto ad Antigone che seguirebbe invece, secondo le diverse interpretazioni che abbiamo visto, la legge degli dei, quella del sangue o dell’Ade, gli usi e le tradizioni? E perché allora quest’uomo di legge tutto d’un pezzo collassa di colpo di fronte alle parole di un indovino, di un veggente, cioè di un personaggio che fa da tramite proprio con il mondo degli dei o con quello del sottosuolo? Non era Antigone a contatto con quel mondo? Di colpo, davanti a Tiresia, Creonte non è più lui e in una rapidissima sequenza di pentimenti e di sgomenti, cerca maldestramente di salvare Antigone quando è ormai troppo tardi; ma specialmente, ciò che emerge è che fin dall’inizio non è stato in grado di prevedere le conseguenze del suo gesto, proprio perché governato dal panico e da una formazione reattiva. Distruggendo i suoi legami famigliari è lui a innescare una reazione a catena che porterà alla morte di Emone, poi a quella di sua madre Euridice, nonché sposa di Creonte. Il re, alla fine, rimane con la sua legge fredda e niente altro. Essa infatti non può ignorare del tutto usi, costumi e tradizioni, ma specialmente non può legiferare su ciò che appartiene al mondo che sta aldilà: Creonte ha preteso di legiferare sul mondo degli dei! Questo è il contenuto saliente del discorso di Tiresia, che ha in sé anche un piccolo escamotage retorico che permette a Sofocle di scegliere Antigone come eroina, creando però una asimmetria fra i due destini, in parte comuni. In sostanza, ma solo in ultima analisi, Sofocle assegna la priorità alle leggi non scritte.

Il discorso di Antigone

Quando Antigone si avvia verso la morte, pronuncia il suo discorso più sereno, nonostante il dolore. Ha perso molta della sua hybris, non vi è più traccia di arroganza, ma specialmente dismette la parte reattiva di sé, che infondo colludeva con quella di Creonte. Ciò che dice permette di cogliere la sua azione in tutta la sua complessità e di capire che non sono arbitrarie le diverse interpretazioni del suo comportamento che si sono succedute nei secoli, perché in questo brano ci sono tutte le possibilità. Ciò che tuttavia aggiunge in questo canto finale e che prima non emerge con questa pregnanza, sta forse in questa parte del lungo monologo, in cui si rivolge direttamente a Polinice e ai cittadini di Tebe e non più a Creonte:

…. E anche ora Polinice, per avere coperto il tuo corpo questa sorte ottengo. Eppure io ti resi onore giustamente, per chi ha senno. Infatti mai se fossi divenuta madre di figli, né se fosse stato il cadavere di mio marito a corrompersi, io mi sarei assunta questo ufficio contro il volere dei cittadini. E in forza di quale principio lo affermo? Morto il marito ne avrei avuto un altro; da un altro uomo avrei avuto un figlio, se quello mi fosse mancato; ma ora che mio padre e mia madre sono infondo all’Ade non è mai più possibile che mi nasca un fratello. Eppure poiché secondo questa legge ti ho prontamente onorato, è sembrato a Creonte che questa fosse una colpa…13

Nessuno può ridarmi un fratello, dunque se io non fossi intervenuta – ed ero la sola a poterlo fare – Polinice sarebbe stato condannato in eterno a non trovare requie nel mondo dei morti. Non bisogna dimenticare un’altra battuta che si trova in modo esplicito nell’Aiace, ma che aleggia anche qui più volte e un po’ in tutte le tragedie sofoclee. La cito a memoria: è maggiore il tempo che trascorrerò nell’Ade che non quello che trascorrerò qui. Dunque aveva ragione Hegel a sostenere che, in ultima analisi, in Antigone prevale la legge del sangue, non quella degli dei, anche se pure in lui vi è un accenno all’interpretazione cristiana; ma tale legge non può essere asfitticamente intesa solo come un attaccamento alle tradizioni. Il fratello, la sorella, sono un legame diverso perché per l’altro o l’altra della coppia fraterna, la perdita è irreversibile per chi non ha più i genitori e dunque la responsabilità nei confronti del congiunto è massima. Dunque, l’interpretazione hegeliana sembra resistere anche alle suggestive ipotesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. O forse non del tutto. 

Il ritorno di Ismene

Non ci siamo dimenticati di Ismene. Cosa pensa di lei il suo autore? Non c’è un giudizio diretto in Sofocle. Nella prima parte della tragedia, nei colloqui con la sorella, Ismene dice cose di buon senso che, se da un lato ne rivelano la limitatezza, dall’altro fanno emergere l’incapacità di ascolto da parte di Antigone, che ha già deciso tutto e non si è rivolta alla sorella per dialogare con lei ma solo per saggiare la sua eventuale complicità nell’impresa che sta per compiere. La tensione drammatica dei loro colloqui fa emergere in modo netto la differenza di caratteri, ma infondo è proprio questo che Sofocle si proponeva di fare e niente di più. La mossa decisiva è un’altra: toglierla dalla grande storia nel momento cruciale della tragedia, ma subito dopo quella sequenza di battute in cui è lei a cercare di dare all’intera vicenda un finale diverso. Il silenzio e la zona d’ombra nella quale viene relegata e dove anche il suo destino diventa irrilevante, è dunque il silenzio di chi non è e non può essere nella storia. Sofocle non poteva andare oltre ciò e neppure la comunità che gli aveva commissionato la tragedia, ma noi possiamo farlo e domandarci se c’è qualcosa nell’essere fuori dalla storia di Ismene che oggi può parlarci, senza per questo rovesciare le parti. L’inaudito che è sotto gli occhi di tutti – come la Lettera rubata di Poe – non sarà allora proprio che le donne sono escluse dalla polis, dal governo della città? Ismene sceglie di non attraversare quella soglia, anche nel momento in cui si autoaccusa insieme alla sorella di un atto che non ha commesso. Antigone se ne stupisce, ma solo perché non l’ha mai ascoltata. La ragione di quel suo gesto, infatti, non sta in una tardiva complicità eroica con la sorella, ma deriva da una tragica constatazione che era emersa con chiarezza nei loro dialoghi. Quando nelle prime battute del testo Antigone le chiede se sia a conoscenza dell’editto di Creonte e della nuova disgrazia che si è abbattuta su di loro, Ismene così risponde:

Nessuna nuova, né trista né lieta,

   dei nostri amici, Antigone, mi giunse,

   da quando entrambe noi di due fratelli

   orbe restammo, in un sol giorno uccisi

   con reciproca mano. E poi che lungi

   la scorsa notte andò l’argivo esercito,

   io null’altro mi so: né piú felice

   né sventurata piú di pria mi reputo.  

Che male maggiore ci può essere oltre le disgrazie già accadute? Ismene se lo chiede e lo domanda alla sorella; lo ribadirà quando capirà cosa intende fare Antigone. Quando si auto accusa, dunque, lo fa perché – coerente con quando ha detto fin dall’inizio – la sua vita senza i fratelli e ora anche senza Antigone condannata a morte, non ha più alcun senso. Ismene, in sostanza, si sottrae al modello eroico ed è il solo personaggio a farlo. Emone, una volta compreso che la sua tattica di ammansire il padre fallisce, si toglie la vita e lo stesso farà Euridice sua madre e sposa di Creonte quando saprà del suicidio del figlio. Anche loro rimangono aggrappati al modello eroico, seppure come eroi minori. Antigone, in quanto donna che si batte in un contesto dove non può andare con le proprie forze oltre di esso, rimane una figura grandiosa dentro una società patriarcale, che quel ruolo riserva alle donne. Tuttavia, proprio l’interpretazione hegeliana della tragedia sofoclea, richiama la necessità di un passo ulteriore. Se la posizione di entrambi i due protagonisti maggiori è legittima, come Hegel riconosce, ciò equivale a dire che c’è un’anomalia di fondo nella legge. Come si può dire a qualcuno sei nella polis da qui fin qui, ma da lì in poi ne sei fuori? Sofocle e la comunità tebana non erano in grado di risolvere quella anomalia, ma la grandezza dell’arte di Sofocle vi accenna. Hegel avrebbe potuto farlo, visto che ci va vicino, ma poi si tira indietro. Le costituzioni hanno fatto un ulteriore passo in avanti, ma neppure quelle hanno risolto il problema. Forse allora la vera novità odierna è che il silenzio di Ismene è stato rotto. Ismene è tornata, anche perché forse non è mai morta, neppure nel paradossale finale della tragedia! Di lei non sappiamo più nulla, dopo che Creonte ha dato l’ordine di riportare le due donne legate nella reggia e non c’è un’esplicita condanna che la riguardi: possiamo anche pensare che si sia tolta la vita come ha minacciato di fare, ma anche no, perché il testo non afferma nulla in proposito e forse con un ultimo magistrale colpo d’ala, Sofocle la colloca in una specie di limbo.14

Ismene è tornata; ma non più come versione al femminile dell’Io ipertrofico degli eroi, bensì come donna comune che prende la parola collettivamente, dunque immagine di un possibile noi in un mondo che non è mai stato suo. Karola Rakete e Greta Thunberg, molto più che Antigoni, sono questo noi, che potrebbe anche liberare i maschi (se sapranno ascoltarle) dalla schiavitù della sottomissione al fantasma del padre primitivo, che abbia o meno le sembianze di un dio personale o di un rivoluzionario di professione.


11 La battuta cui mi riferisco è la seguente: E che cosa dovrebbe temere un uomo in balia del caso, senza chiara previsione di  nulla?Meglio vivere alla ventura, come si può. Tu non temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria madre; ma chi non dà nessun valore a queste cose, vive più facilmente. Ho scelto la traduzione di Cantarella, op.cit. pag.109.

12 L’arroganza di Antigone è più visibile nella prima parte della tragedia, nei colloqui con Ismene, di cui però non mi sono occupato in questo scritto perché non così rilevante rispetto alle tesi centrali che si volevano prendere in considerazione. 

13 Ho scelto la traduzione di Cantarella, op. cit. pag 319.

14 Rileggendo il finale mi sono chiesto più volte cosa mai avrebbero potuto dirsi Creonte e Ismene ritrovandosi faccia a faccia nella reggia qualche giorno dopo.

IN DIFESA DI ISMENE. Seconda parte

Gli anziani di Tebe

La prendono alla lontana i vecchi saggi, perché in un primo loro intervento c’è una bellissima descrizione naturalistica di un’alba a Tebe. Siamo immersi nella natura fisica, la luce, il sole, la terra. La descrizione è lunga quanto basta per pensare che Sofocle volesse indirizzare l’attenzione di chi assisteva allo spettacolo e di chi legge proprio sulla natura fisica. Improvvisamente però lo scenario muta e il coro racconta come la guerra si sia abbattuta sulla comunità e ne ricostruisce le diverse fasi fino alla fine. L’intento è quello di creare emotivamente una contrapposizione fra la natura solare e il comportamento umano? Lasciamo la domanda in sospeso. Questa parte, che si potrebbe definire descrittiva e narrativa, si conclude con l’entrata in scena di Creonte e il corifeo si domanda perché mai il re abbia indetto un’assemblea pubblica. Questo particolare è assai importante perché ci rivela indirettamente due cose: che gli anziani non sanno ciò che Creonte dirà nella pubblica piazza e tanto meno sanno ciò che accadrà subito dopo e cioè che appena udito il contenuto dell’editto che impedisce la sepoltura di Polinice, una delle guardie si presenterà per annunciare che qualcuno lo ha fatto, ma non sanno chi sia. Antigone era venuta a conoscenza delle intenzioni di Creonte per prima, ma per vie traverse, vivendo nella reggia e lo aveva rivelato solo alla sorella Ismene. Quando si conclude il dialogo fra il re e la guardia, con l’ingiunzione del primo a portare al più presto il colpevole, pena la sua punizione esemplare, ecco che gli anziani parlano di nuovo e siamo così arrivati al famoso e controverso primo stasimo. Eravamo partiti dalla natura, poi era seguita la descrizione della guerra. Ora il tono improvvisamente cambia: entra in scena anthropos e altrettanto improvvisamente dai prodigi della natura si passa a quelli di anthropos. La parola ha molti usi e la traduzione uomo inteso come maschio si sovrappone l’altra come umanità e dunque comprendente anche le donne. Che significato ha in questo contesto è chiaro: è il soggetto maschile anche perché le imprese che vengono ricordate sono tutte maschili. Ma la domanda forse più importante è un’altra: che senso ha questo discorso subito dopo avere udito l’editto di Creonte e avere saputo che qualcuno ha sepolto Polinice? Vediamo il testo nella sua prima parte.

Molti si dànno prodigi, e niuno

   meraviglioso piú dell’uomo.

   Sino di là dal canuto mare,

   col tempestoso Noto, procede

   l’uomo, valica l’estuare

   dei flutti, e il mugghio; e la piú antica

   degli Dei, l’immortale Terra,

   l’infaticata, col giro spossa,

   anno per anno, degli aratri,

   col travaglio d’equina prole.

                                       Antistrofe prima

   E degli augelli le stirpi liete

   cinge di reti, ne fa preda,

   e le tribú di selvagge fiere,

   e le marine stirpi del ponto

Oltre ogni umana credenza, il genio

   dell’arti inventore possiede;

   ed ora si volge a tristizia,

   ed ora a virtú.

   Se onora le leggi

   dei padri, e degl’Inferi

   il giuro, la patria egli esalta.4

L’essere umano maschile porta nel mondo una forma diversa di meraviglia, che si manifesta in diversi modi: la capacità di navigare, di arare la terra e di trasformarla, in una parola la tecnologia. Nell’antistrofe emerge l’altra e cioè la capacità di legiferare, di stabilire delle regole di convivenza sociale. Poiché donne e meteci erano esclusi dalla polis è dunque sensato pensare che il coro si riferisca qui alla sola comunità maschile che legifera per tutti. Nella chiusa, che riporto qui sotto di seguito, avviene però un salto logico improvviso e il discorso non può essere rapportato facilmente alla tecnica, intesa in questo caso come atto giuridico, per esprimerci in un linguaggio moderno. A dire il vero, un accenno vagamente sinistro, che anticipa la conclusione qui di seguito, c’era anche nell’ultima parte del brano precedente, laddove in modo del tutto gratuito e inopinato si diceva ed ora si volge a tristizia ed ora a virtù. A chi si riferiscono questi versi: alla natura profonda di anthropos oppure alla tecnologia che può essere buona o cattiva? Il tutto è ancora più complicato dalla diversità delle traduzioni perché in quella di Cantarella e di Tonelli non si parla di tristizia e di virtù, ma addiritturadi bene e di male, come si è visto.5 Veniamo allora agli ultimi versi:

Ma patria non ha chi per colmo

d’audacia s’appiglia a tristizia.

Vicino all’ara mia

mai non s’annidi l’uom che cosí adopera,

e mai concorde al mio pensier non sia.6

L’oscurità consiste in un doppio movimento e anche in un repentino cambio di registro linguistico. Da entusiastico nell’ammirare i prodigi di anthropos, il tono diventa di colpo dolente, austero e preoccupato, nei primi due versi. Infine, severo, allontana dall’ara domestica chi si adopera in quel modo. Quale modo? E cosa significa quell’appellarsi alla tristizia o al male? La parola indica un legame con i due versi ricordati in precedenza, ma questo non risolve il mistero. A chi si rivolge il coro e con lui Sofocle? Ad anthropos in modo generale e generico, o a qualcuno di preciso e cioè a colui che ha trasgredito l’editto (il coro come Creonte non sa ancora che è una donna e non un uomo ad avere sepolto Polinice), oppure a Polinice medesimo che ha preso le armi contro la propria comunità? Proviamo a rispondere alle domande attenendoci al testo e alle differenti traduzioni. L’atteggiamento prima riflessivo e poi dolente del coro è causato di certo dal discorso di Creonte, ma non mi convince del tutto che si riferisca alla tecnica. Il coro si domanda come sia possibile che anthropos, fattore di molte meraviglie (o tremendità), si volga a volte verso il bene a volte verso il male: s’interroga cioè sulla natura umana e non sulla tecnica o sulla tecnologia. Siamo noi a farlo, anche se penso che vi sia in questo passaggio un tratto di irriducibile oscurità, come suggerisce anche Montani. Alla fine, il verso finale va inteso a mio avviso in questo senso: colui (e non vi è dubbio che pensino a un soggetto maschile), che per colmo d’audacia s’appiglia a tristizia (o al male) vicino all’ara mia mai non sia. Il coro si riferisce probabilmente a Polinice che, per colmo d’audacia – anche di arroganza e di hybris? – ha rivolto le proprie armi contro la comunità e lo bandisce persino dall’ara domestica e mai non sia il mio pensiero come il suo. La traduzione di Tonelli inclina decisamente in questa direzione: Ma è fuori dalla città, inizia la sua parte finale, mentre Del Corno è più sfumato. Il coro sembra qui accettare l’idea di Creonte, estrema di certo per tutti e cioè che Polinice sia indegno anche della semplice devozione domestica, cioè le famose leggi del sangue, la legge calda per dirla con Zagrebelsky. La scena però non si conclude qui perché subito dopo la guardia trascina Antigone al cospetto di tutti e il coro a quella vista rimane sgomento.

(Entra la guardia sospingendo Antigone)

A questo prodigio straordinario rimango perplesso/Come negare, conoscendola, /che questa è la giovane Antigone?7

Nessuno si aspettava che fosse una donna ad avere trasgredito l’editto e lo sgomento del coro è ben più grande di quello di Creonte medesimo! Quest’ultimo, posto di fronte a un fatto del tutto inatteso, appare subito dominato da una formazione reattiva più che da un’identificazione inflessibile con la legge. Se mai c’era un modo di farlo ragionare era proprio quello di condizionarlo senza mettersi in concorrenza con lui. La battuta chiave di tutto il suo gran parlare, in questa prima fase, è questa rivolta ad Antigone:

E allora se devi amare, va sotterra e ama quelli di là; a me finché vivo non comanderà una donna.8

Tutto il busillis sta lì, anche perché ripeterà in modi simili e anche più rozzi lo stesso concetto in altre battute successive. Vien persino da pensare che se fosse stato un uomo a seppellire Polinice, Creonte avrebbe potuto ragionarci, ma è una donna – Antigone – e non bisogna dimenticare mai che le donne sono escluse dalla polis e che per giunta Antigone è pure una meteca!9

Il discorso di Emone

Rossana Rossanda vede nel discorso di Emone il germe di una soluzione politica diversa e dunque possibile anche in quel contesto: indirettamente dunque l’intervento di Rossanda rifiuta l’idea che fosse presente uno stato d’eccezione. Riporto le parti essenziali del discorso, saltando l’inizio dove Emone con grande circospezione cerca di avvicinarsi in punta di piedi alle questioni salienti, che vengono poi introdotte così: 

Padre,… La tua presenza, sbigottiti rende

   i cittadini, sí che non ti dicono

   mai ciò che udire non ti piace: invece

   io tutto posso udir, quanto nell’ombra

   dicendo van: che la città commisera

   questa fanciulla, immacolata piú

   d’ogni altra donna, e che compiuta ha l’opera

   la piú nobile, e in cambio ne riceve

   la piú misera morte. Essa il fratello

   che nel suo sangue cadde, non lasciò

   che dai cani voraci e dagli uccelli

   fosse distrutto: non è dunque degna

   d’esser coperta d’oro? – Ecco le voci

che, basse, oscure, vanno attorno. Ora, io,

Or tu, nell’animo

   non accoglier quest’unico pensiero,

   che ciò che dici tu, quello sia giusto,

   e poi null’altro. Chi d’avere crede

   senno egli solo, ed anima e parola

   come niun altri, se lo cerchi dentro,

   vuoto lo trovi. A un uomo, e sia pur saggio,

   non è disdoro molte cose apprendere,

   e non esser cosí rigido. Vedi

presso i torrenti impetuosi, gli alberi

   che si flettono, intatti i rami serbano:

   quelli che invece fan contrasto, svelti

   dalle radici piombano. E cosí,

   chi su la nave troppo tese tiene

   sempre le scotte, e mai non le rallenta,

   naufraga infine, e naviga sui banchi

   capovolti. Su via, l’ira tua frena,

   e muta il tuo parer. Ché, se a me giovane

   dare un consiglio è lecito, io ti dico

   che per un uomo, il meglio è certo nascere

   pien di saggezza; ma tal sorte è rara;

   e bello è pur da chi ben dice apprendere10

I contenuti del discorso di Emone sono certamente condivisibili e saggi: non ascoltare solo te stesso, ascolta quello che ormai tutti dicono a Tebe e cioè che Antigone sta solo seppellendo un fratello morto: di che cosa può essere ritenuta colpevole? I contenuti di un discorso, tuttavia, in politica, sono solo una parte di ciò che è essenziale, perché in politica la forma è quasi sempre sostanza. La politica o è pubblica o non è e il discorso di Emone, accettabile nei suoi contenuti, non è tuttavia un discorso pubblico. Lo capiamo da un altro passaggio nel quale sarà proprio Ismene ad avere un ruolo importante. Quando anche lei viene trascinata dalle guardie davanti a Creonte e si auto accusa come Antigone di un atto che tuttavia non ha commesso, sarà proprio lei a compiere un ultimo tentativo, disperato ma non privo di una sua logica, per cercare di dare alla storia un altro finale. Si rivolge al re come padre: 

Ismene:

   La sposa di tuo figlio ucciderai?

Creonte:

   Altri solchi ci sono, e arar si possono.

Ismene:

   Ma non com’era questa a quello adatta!

Creonte:

   Pei figli miei detesto tristi femmine!

Antigone:

   Come, diletto Emón, t’offende il padre!11 L’ultima battuta di Antigone può avere solo un significato e cioè che Emone è presente a quel drammatico colloquio e in quel contesto tace! Dunque, quello di Emone è il discorso di un consigliere del Re, dunque dietro le quinte del potere, seppure rispettabile nei contenuti. Tuttavia riconosco che a questa mia interpretazione si può opporre  che il personale è politico e visto che ci siamo chiesti se vi sia o meno uno stato d’eccezione, allo stesso titolo possiamo attualizzare il discorso di Emone in una chiave che il femminismo ci ha insegnato a leggere. Tuttavia continua a non convincermi del tutto l’ipotesi formulata da Rossanda e cioè che anche in quel contesto sarebbe stata possibile una soluzione politica diversa: la possiamo intravedere noi perché il discorso di Emone ci appare senz’altro molto vicino a una sensibilità che sentiamo nostra, più di altri discorsi ed è quindi legittimo interpretarlo in tal senso. Tuttavia non credo fosse possibile allora una soluzione. Ancora una volta è il testo sofocleo a stupirci per la sua profondità e ambivalenza, ma il silenzio di Emone durante la pubblica assemblea esprime un’impotenza reale che non dipende da lui e non è imputabile a una mancanza di carattere e a una forma di vigliaccheria. Il modo con cui comunque affronta il padre nel brano ricordato sopra dice che il coraggio non gli mancava. Neppure lui, tuttavia, poteva, se non a prezzo della propria vita, prendere una posizione forte rispetto a una questione politica da cui le donne sono escluse: se si dimentica questo si rischia di non comprendere i comportamenti di tutti, focalizzando troppo l’attenzione sui due protagonisti principali, che è anche un po’ il limite dell’interpretazione hegeliana della tragedia. Nonostante la scelta del modello eroico, infatti, ridurre il testo alla tenzone fra Antigone e Creonte oscura il fatto che in questa tragedia i protagonisti sono molti e che gli altri non sono semplici marionette nelle mani del Destino, ma si avvicinano a una tipologia umana più complessa. Quanto a Ismene, dopo avere compiuto il suo tentativo estremo di cambiare il finale della storia, esce di scena e ricade nella sua opacità. Però, anche Antigone rimane sola, in un contesto che non le appartiene, ma nel quale si trova prigioniera come lo è Creonte per ragioni opposte alle sue. Gli altri stanno tutti nel mezzo.


4 La traduzione di cui sopra è del celebre grecista dei primo del ‘900 Ettore Romagnoli.  Nei punti essenziali e controversi dello stasimo citerò poi le altre due. La differenza, molto rilevante, in questa prima parte è che in entrambe le traduzioni di Cantarella e Tonelli si usano i termini bene e male e non tristizia e virtù.

5Rispetto al passaggio più controverso ecco come traduce Raffaele Cantarella: …./Possedendo di là di ogni speranza,/l’inventiva dell’arte che è saggezza,/talora muove verso il male, talora verso il bene… In  Sofocle, Edipo re, Edipo a Colono, Antigone A cura di Dario del Corno, traduzione di Raffaele Cantarella, Biblioteca Arnoldo Mondadori editore, Milano 1982, pag. 283. Tonelli, non si discosta da quest’ultima traducendo e inclina ora al male ora al bene. Sofocle, Le tragedie. A cura e traduzione di Angelo Tonelli, Marsilio, Venezia 2004. Pag. 187. Tuttavia è importante notare come Del Corno e Tonelli traducono l’inizio dello stasimo, particolare niente affatto neutro. Del Corno traduce: Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo. Tonelli traduce: Molte sono le cose tremende, ma nulla è più tremendo dell’uomo. Intorno a questo stasimo si giocano molte diverse interpretazioni e quella di Romagnoli, che si scosta di molto rispetto alle due più recenti, va comunque considerata anch’essa, per ribadire che la traduzione di questo passaggio rimarrà alla fine, assai controversa e in parte anche misteriosa. Quanto alla traduzione di Tonelli, secondo me filologicamente più accurata, bisogna considerare che il meraviglioso e il tremendo non sono una coppia ossimoro per la lingua greca antica e un concetto analogo è stato ripreso da John Ruskin  a proposito del sublime e del numinoso, che hanno un aspetto che è al tempo stesso meraviglioso e orrido e inquietante quando non terribile; qualcosa di simile possiamo ritrovarlo anche nel concetto di perturbante in Freud. Io penso che Tonelli abbia dunque rispettato profondamente – con quella traduzione – un’ambivalenza che è in Sofocle e che scorre come un filo rosso lungo tutta la tragedia di Antigone.

6 Anche questa prima traduzione è di Romagnoli. Le altre due. Del Corno: … ma senza patria è colui/ che per temerità si congiunge al male:/non abiti il mio focolare/né pensi come come/chi agisce così. Tonelli: Ma è fuori dalla città/chi frequenta il male/per compiacere la sua audacia temeraria./Stia lontano dal mio focolare,/stia lontano dalla mia amicizia,/colui che agisce in questo modo!/

7 La traduzione che ho scelto in questo caso è quella di Cantarella, Op. cit. pag. 283. La traduzione di Tonelli, tuttavia, non si discosta da questa.

8 Op.cit. pag. 293.

9 Per tutte queste ragioni non mi convincono alcune rappresentazioni, o meglio attualizzazioni moderne, che attribuiscono a Creonte una forza che in realtà egli non ha e che Sofocle non gli attribuisce, dal momento che, quando verrà posto di fronte alla realtà dei suoi atti, collasserà su se stesso in un istante, prima di tutto perché non è stato in grado di valutare le conseguenze del suo editto e della sua ostinazione. Creonte è un uomo che, posto di fronte a una decisione difficile e a un comportamento inatteso, perde la testa perché non è in grado di governarli né dal punto di vista emotivo e neppure politico: esibisce allora un surplus d’inflessibilità perché è preso dal panico e deve mostrarsi forte a tutti i costi: è un meccanismo psicologico noto.

10 Ho scelto in questo caso la traduzione di Romagnoli essendo i contenuti del discorso chiari e senza ambivalenze di sorta.

11 Ivi.

IN DIFESA DI ISMENE. Prima parte

Il testo che segue fu pubblicato sulla rivista online Overleft nel 2019, nella sezione Dopo il Diluvio.

Prima parte: La sorella opaca.

L’esaltazione di Antigone non mi ha mai convinto del tutto. Il personaggio è certamente fra i più affascinanti inventati dall’arte di Sofocle ed è, come tutti quelli classici, poliedrico, perché ritorna in scena più volte, in contesti, tragedie e narrazioni diverse. Antigone, in Edipo a Colono, per esempio, è un personaggio assai diverso e altrettanto grande, rispetto a quello più celebrato nella tragedia che porta il suo nome. Probabilmente, gioca a favore del testo sofocleo una maestria compositiva che tocca in Antigone (come in Edipo re) i suoi livelli più eccelsi: Hegel la definì, cito a memoria, la tragedia perfetta; mentre in Edipo a Colono la materia si diluisce di più.

Insieme a lei, nella tragedia eponima, c’è una seconda protagonista femminile – Ismene – la sorella opaca come è stata definita, per contrapporla all’eroina. La mia lettura testuale non tende tanto a smitizzare Antigone, se mai a insinuare qualche dubbio; ma, specialmente, si propone di tornare a riflettere su alcune interpretazioni classiche e su altre più recenti. Molto di più cercherò, in tale contesto, di rivalutare Ismene, almeno in parte, dall’opacità; pur senza pretendere di rovesciare i ruoli. Nel Pantheon dei grandi personaggi delle tragedie greche e dei miti, Ismene rimarrà alla fine una figura minore, ma forse oggi siamo in grado di capire meglio i motivi per cui non poteva uscire da quel ruolo, ma senza farla ricadere in un’indistinta natura femminile, come viene di solito interpretata. C’è tuttavia una difficoltà in più da considerare prima di entrare nel merito delle questioni poste. Le interpretazioni della tragedia e del personaggio non si possono più da tempo distaccare dal testo medesimo. Antigone è come la Divina Commedia e Amleto: sono opere ormai inseparabili dai loro esegeti, dalle note a margine, dai commentari, dai numerosi testi teatrali che portano il suo nome. Questo però rischia anche di essere un limite: tornare al testo originale nudo e proporsi una sorta di sospensione del giudizio è un’operazione che a volte bisogna tornare a fare, senza avere la pretesa di aggirare o ignorare quanto si è sedimentato nei commenti secolari, ma neppure soggiacere a una sorta di ipse dixit involontario; piuttosto, andando di nuovo a cercare nella fonte originaria se per caso qualcosa non sia sfuggito. Penso che tale atteggiamento sia ancor più necessario quando ci si trova davanti a nuove letture. Proprio da quattro recenti interventi, infatti, cominceremo: la lectio magistralis tenuta nel 2015 da Gustavo Zagrebelsky, l’introduzione di Pietro Montani a un seminario che si tenne anni fa presso la Sapienza di Roma, introduzione che Montani ha ampliato e riscritto nel 2017: un saggio di Elena Porciani di cui riporto un breve ma decisivo passaggio.1 Questi tre interventi si possono a mio giudizio anche far dialogare fra di loro e uno dei miei intenti sarà proprio questo; naturalmente la responsabilità nel farlo è tutta mia. Infine, un intervento di Rossana Rossanda.

La comunità.

Cominciamo da Zagrebelsky perché all’inizio della conferenza egli si pone un problema di contesto, domandandosi cioè cosa chiedesse la comunità a Sofocle nel momento in cui gli fu commissionata la tragedia.2 Seguendo il suo ragionamento intorno alle trasformazioni che stavano avvenendo nella società greca del tempo, un passaggio delicato da una società fondata sui clan famigliari, a una diversa forma che sfocerà compiutamente nella città stato, il costituzionalista lo definisce come il passaggio da una legge calda a una legge fredda. La prima, basata sugli usi e le tradizioni rispetto alle quali, specialmente in un ambito famigliare o di clan, non c’è alcuna necessità – per esempio – che regole o leggi siano scritte, è la legge calda, mentre per la seconda e ancor più nella polis, la scrittura diventa necessaria, come pure una certa freddezza e imparzialità della decisione. Creonte si trova a governare questo passaggio difficile. Continuando nel suo ragionamento, Zagreblesky insiste sulla delicatezza del momento, evidente per esempio, nelle continue oscillazioni del coro: schierato all’inizio dalla parte di Creonte, la posizione muta fino a saltare dalla parte opposta. Montani, nel suo saggio, accoglie l’orizzonte proposto da Zagreblesky, ma radicalizzando il discorso del costituzionalista, si chiede se ci sia di mezzo la questione della tecnica, riferendosi al famoso primo stasimo della tragedia in cui parlano i vecchi tebani. Montani giunge così a domandarsi se il dilemma posto da Sofocle s’avvicini al nostro concetto di stato d’eccezione, cioè una situazione che pone tutti di fronte a qualcosa d’imprevisto, oppure talmente al limite della consapevolezza giuridica di una comunità, da non poter essere governato dalla tecnica corrente. Zagrebelsky tira le fila di questo ragionamento che a me pare sostanzialmente simile a quello di Montani, nel finale della sua lectio, distinguendo la legge dal diritto e sostenendo che Antigone non si pone tanto (o non solo) dalla parte della tradizione, degli usi e costumi e delle leggi del sangue, o addirittura degli dei, secondo i più comuni e secolari canoni interpretativi, ma dalla parte del diritto e della fonte di ogni diritto. Zagreblesky conclude dicendo che tale problema sarà risolto migliaia di anni dopo con le costituzioni, che non sono una legge, né tanto meno una legge ordinaria, ma il patto fondante di una comunità, patto che sostituisce l’alternativa fra usi e consuetudini da un lato e legge fredda, cioè quel doppio vincolo da cui sia Creonte sia Antigone non furono in grado di sottrarsi. Anche in questa riflessione di Elena Porciani, ritroviamo un ragionamento sostanzialmente analogo a quello sostenuto da Montani e Zagrebelsky – sebbene esso nasca da considerazioni diverse – su un punto importante e cioè che Antigone non può essere chiusa dentro il recinto delle interpretazioni più canoniche:

… Antigone, che viene a consistere nel fatto che «la posizione spostata [del personaggio] è precisamente quella da cui la contestazione di questo ordine che si può chiamare ‘patriarcale’ è possibile» (ivi, p. 42), anche quando sia ostacolata dalla «difficoltà, anzi l’impossibilità di dire, di articolare la rivendicazione» (ibidem). Ecco quindi che per capire in che senso «Antigone mette i piedi là dove una donna non deve porli» (ivi, p. 57) è necessario uno spostamento là dove diventi possibile esprimere ciò che nel qui ed ora non lo è ancora: Antigone «cerca di dire una legge che non ha ancora un contenuto, perché non si tratta di un ritorno alla legge del sangue e della natura» (ivi, p. 98), dato che alla themis si è sottratta….3

Il fascino e anche l’acume di ricostruzioni come queste, permette di fare un passo avanti o a lato delle interpretazioni che si sono sedimentate nella storia e quindi di costringerci fare i conti con una novità. Tuttavia, c’è qualcosa in esse che mi lascia perplesso. Fino a che punto è possibile attualizzare un testo, facendo ricorso addirittura a un concetto come quello di stato d’eccezione, teorizzato da Karl Schmitt negli anni ’30 del 1900, ripreso da Agamben in Italia, su cui in definitiva si discute da così poco tempo anche nella contemporaneità? Non si rischia così di mettere sulle spalle di Antigone una nuova interpretazione, forse più congrua di altre o almeno più vicina a noi per la sua comprensibilità, ma alla fine arbitraria e che rischia di diventare un dialogo fra interpretazioni e non un dialogo fra un’interpretazione e il testo? Tuttavia riconosco a Zagrebelky, a Montani e a Porciani un merito indiscutibile e cioè che proprio la loro analisi porta a dire che non c’era una vera possibilità di scelta in quel contesto e che dunque in un certo senso la questione non era risolvibile e per questo tragica nel senso etimologico del termine: probabilmente Sofocle volle mettere in scena proprio tale impossibilità. A questa visione, tuttavia, si oppone Rossana Rossanda, con la sua riflessione su Emone, perché attribuisce al discorso del figlio di Creonte il ruolo di una moderna accezione del discorso politico e dunque possibile anche in quel contesto.

Come verificare tali nuove ipotesi, tutte suggestive?

Sulla soglia della polis.

Antigone sceglie di varcare una soglia, superando il divieto che esclude le donne dal governo della città e così facendo assume il ruolo sacrificale di vittima del potere: indica una possibile via d’uscita, oppure è lei medesima prigioniera delle stesse logiche di quel potere? La risposta di molta letteratura, femminista e non, la vede interna ai meccanismi vigenti, specialmente laddove il suo ricorso alla legge degli dei (non è Giove cha ha scritto questo editto), non solo non scalfisce il potere di Creonte, ma non ripristina neppure una legge divina perché tutta la vicenda è politica, ha a che fare con la legge e la polis. Creonte, infatti, si perderà di suo e non grazie alla ribellione di Antigone e sui modi in cui si perderà ritorneremo più avanti. Tuttavia, mi sembra riduttivo fermarsi alla semplice constatazione che Antigone è interna ai meccanismi del potere: mi sembra un modo di giudicarla con il senno di poi. Forse c’è una lettura possibile più generosa nei suoi confronti, come quella di Elena Porciani e anche di Martha Nussbaum che vedremo più avanti; senza farne naturalmente un femminista ante litteram – che non è – ma neppure avallare la visione cristiana, addirittura prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Il testo è molto più ambivalente e fermarsi a quella battuta – non è Giove che ha scritto l’editto – è troppo poco, anche perché in altri passaggi della tragedia dirà altro da questo, altrettanto e forse più importante. Le stesse interpretazioni canoniche del comportamento di Antigone lo dimostrato. Ne richiamo le più note a partire da quella formulata da Hegel: Antigone s’ispira alle leggi del sangue e a quelle dell’Ade. Hegel, infatti, sostiene che il comportamento suo e quello di Creonte sono entrambi legittimi; anzi, leggendo il capitolo della Fenomenologia dello spirito in cui alle donne viene assegnato il governo del domestico, è quasi naturale arrivare alla conclusione che infondo era lei a essere legittimata a governare in quella circostanza perché nella divisione sessuale dei doveri e dei diritti, le leggi del sangue e dell’Ade sono prerogativa femminile e non maschile per cui in un certo senso Creonte non aveva giurisdizione sulla materia, neppure per dire che Polinice andava sepolto. Lo fa notare molto sottilmente anche Nussbuam in un altro modo. Dal momento che il modello scelto da Sofocle per i due protagonisti è quello eroico, ci sarà pure una ragione per cui la tragedia s’intitola Antigone e non Creonte! Nel linguaggio di Sofocle lei è l’eroina, non la vittima! Per iniziare a mettere alla prova le diverse ipotesi, partiamo dal coro e cioè dalla voce collettiva che sembra dare plausibilità alle tesi di Zagrebelsky, Montani e Porciani. La continua oscillazione, che è poi la stessa di Sofocle, fa pensare che ci troviamo davvero di fronte a un caso inedito ed estremo, che si potrebbe dunque paragonare allo stato d’eccezione o comunque a qualcosa che era difficile da affrontare in quel contesto. Ammettiamo allora che il coro dica questo. Abbiamo superato un ostacolo ma ne troviamo subito un altro: Qual è questo evento inedito e inaudito? Qual è lo stato di eccezione, in che cosa si estrinseca? Lo dice il coro questo? Oppure, qualcun altro lo dice? Nel tentare di rispondere a questi interrogativi entriamo subito in una zona d’ombra perché ci troviamo a corto di citazioni possibili, però qualche ipotesi la possiamo fare. Possiamo andare per tentativi e constatare prima di tutto che non può essere la sepoltura in sé il problema. Anche Creonte sa che l’inumazione dei defunti fa parte delle cosiddette leggi non scritte, dal momento che il rinvenimento della loro origine ci porta indietro nel tempo fino a raggiungere una cattiva infinità, senza peraltro trovare l’origine medesima. Creonte non ha emesso un editto per bandire la sepoltura dei corpi, ma solo quello di Polinice: lo stato d’eccezione dunque è lui, ma il motivo non lo abbiamo ancora trovato. Domandarsi perché lo ha fatto è la stessa cosa che chiedersi dunque quale sia lo stato di eccezione? Sì, perché l’editto è di certo un atto estremo anche per Creonte. Rimane una sola ipotesi e cioè che il primus, l’inedito e inaudito, fosse proprio la guerra civile: che Sofocle e la comunità avessero voluto – con quella tragedia – rappresentare una sorta di paradigma, la prima guerra civile della storia occidentale, un inedito, nel senso che mentre la guerra è del tutto e sempre legittima nel mondo antico e anche per gran parte del nostro (non dimentichiamolo), ma lo è sempre nei confronti di altri, in quel caso essa stava dentro la comunità. È questo lo stato d’eccezione? L’ipotesi è suggestiva ma se così fosse sarebbe la rappresentazione di un evento avvenuto in tempi arcaici, anzi del tutto mitologici, dal momento che Erodoto, quasi contemporaneo di Sofocle, avrebbe scritto in quegli stessi anni che le guerre sono tutte civili. Forse, per fare un passo avanti, dobbiamo interrogare ancora una volta il coro.


1 La lectio di Zagrebleskj è disponibile per intero su youtube. Del  professor Pietro Montani suggerisco il libro Antigone e la filosofia Donzelli editore.  Per quanto riguarda il convegno tenutosi alla sapienza e alle due prefazioni del 2012 e poi 2017, esse sono disponibili in formato pdf in rete.

2 La ritualità del teatro greco, la sua natura religiosa e le altre valenze simboliche sono ricostruite in modo assai puntuale in diverse prefazioni ai testi. Ne cito soltanto due e cioè le edizioni cui mi sono prevalentemente riferito in questo studio.  Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone con testo a fronte, traduzione di Raffaele Cantarella, a cura di Dario Del Corno, Biblioteca Arnoldo Mondadori, Milano 1982. Sofocle le tragedie, traduzione e cura di Angelo Tonelli, Grandi classici tascabili, Marsilio Venezia 2004. Per alcuni frammenti mi sono avvalso anche delle traduzioni di un celebre grecista del primo novecento: Ettore Romagnoli.

3 Elena Porciani, Nostra sorella Antigone In Il primo amore . Nella citazione di cui sopra Porciani cita anche alcuni giudizi di Duroux e di altre, con le quali anche lei concorda. Il saggio di Porciani è assai ampio e complesso e contiene riflessioni che vanno oltre l’orizzonte di questo mio saggio ed è scritto anche per rispondere a Rossana Rossanda su Emone. Tuttavia mi sembrava importante il passaggio citato perché anche in esso ci si discosta dalle interpretazioni più canoniche.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Terza parte

Favole moderne e lestofanti

Nel pieno degli anni ’90, si diffuse una vera e propria frenesia matematica, riguardante gli studi economici ma non solo. L’intento era quello di calcolare i guadagni a lungo termine che si potevano conseguire a partire da una semplice opzione o prodotto finanziario.9 Era tutto un fiorire d’equazioni, finché quel lavorìo fu finalmente coronato da successo e ottenne il massimo dei riconoscimenti con l’attribuzione del premio Nobel per l’economia agli esimi professori Robert Merton e Myron Scholes. I due avevano trovato l’equazione matrice, la madre di tutti i prodotti cosiddetti derivati, grazie alla quale promettevano la crescita indefinita di ricchezza, una cornucopia senza limiti. Fedeli alle loro convinzioni e corroborati dal prestigioso riconoscimento, i due – moderna versione in chiave ‘scientifica’ de il gatto e la volpe – decisero di dar vita al Fondo d’investimento Long term capital management (LTCM). Dopo un anno d’applicazione della famosa equazione, il Fondo totalizzò un buco di bilancio di 3,5 miliardi di dollari! Inutile domandarsi se ai due sia stato almeno tolto l’emolumento conseguito con il Nobel. Ciò non fu possibile perché fra i clientes di tale memorabile impresa finanziaria vi erano molte e importanti istituzioni europee e statunitensi, fra cui, secondo quanto denunciato da Loretta Napoleoni: “… l’Ufficio Italiano Cambi e la Banca d’Italia.” 10

Per evitare l’effetto domino, coprire lo scandalo e nascondere la figuraccia, la Federal Reserve statunitense fu costretta a salvare il fondo immettendo denaro fresco nelle sue esauste casse. Ciò che colpisce in tutto questo, come afferma la stessa Napoleoni nel suo bel libro, è la leggerezza di chi affida i proprio soldi a simili venditori di bufale. Lo stesso, peraltro, era già accaduto con un truffatore vero e proprio, il famigerato Madoff, condannato recentemente dalla giustizia statunitense a un numero esorbitante d’anni di carcere. In questo secondo caso, poi, tale mal riposta fiducia assume davvero toni grotteschi perché la truffa architettata dal finanziare è vecchia come il mondo: si tratta, infatti, del sistema cosiddetto Ponzi, una catena di Sant’Antonio grazie alla quale si promettono rendimenti favolosi a breve termine che vengono pagati con i soldi dei nuovi sottoscrittori e giocando sulla differenza di tempi di rimborso. Naturalmente, è sufficiente una competenza da ragioniere per calcolare in quanto tempo il sistema crolla su se stesso. Come si possa cadere in una trappola come questa è difficile davvero da comprendere! 

Forse la risposta sta nel denaro in sé, nei sentimenti ambivalenti che suscita, dal senso di colpa che colpisce coloro che lo maneggiano; forse in alcuni straricchi c’è persino un’inconscia pulsione a liberarsene. Fra i colpiti dalla truffa di Madoff e dal fallimento del fondo dei due esimi premi Nobel, infatti, ci sono molti attori di Hollywood; Steven Spielberg ha perso gran parte dei suo patrimonio e così molti altri. È la maledizione del denaro, quel mix di razionale e irrazionale che si porta appresso. Tuttavia qui non abbiamo a che fare solo con gli ingenui protagonisti delle favole e neppure con straricchi sbadati, ma con istituzioni che governano la vita di tutti. Si può concordare con Loretta Napoleoni quando afferma che i due premi Nobel “Merton e Scholes sono i re Mida degli anni ’90, ma che non sono delinquenti  come Madoff…” 11

Tuttavia c’è da domandarsi cosa ne è degli altri che hanno creduto così facilmente ai due pifferai magici, a cominciare dall’Accademia di Svezia. Nel caso della giuria del premio Nobel è davvero difficile esprimersi, mentre nel caso di prestigiose banche e istituzioni internazionali occorre una riflessione più approfondita.

Se si esclude di avere a che fare con dei cretini, allora la spiegazione va cercata ancora una volta nel meccanismo profondo che governa la finanza e nei comportamenti che induce. Se la logica, infatti, è quella dell’accumulo a breve termine e i manager vengono remunerati, non in base a un progetto che duri nel tempo, ma soltanto in ragione della velocità di accumulo degli utili, ogni programmazione a lungo termine viene meno. Ciò che conta è ottenere il massimo nel più breve tempo possibile, quello che avviene dopo non conta nulla. Se un manager riesce a convincere un numero sufficientemente grande di sottoscrittori e la sua raccolta di soldi in un anno è ingente, verrà remunerato per quello e non per le conseguenze a medio e lungo termine dei suoi investimenti. Questa logica da Prendi i soldi e scappa diviene nel tempo la sola che ispira tutti i comportamenti, generando quindi un sistema e una prassi volta al fallimento: ma nel breve tempo in cui il gioco funziona qualcuno che si è arricchito c’è stato eccome! A cominciare naturalmente dai manager in questione, mai tanto remunerati negli scorsi anni e mai così falliti! Questa spiega anche il continuo passaggio di amministratori delegati e altre figure simili da un settore all’altro e da un’azienda all’altra. Proprio perché sanno che a medio e lungo termine i loro castelli di carta crollano, l’importante è saltare da una banca all’altra, da una finanziaria all’altra, costantemente in bilico su zattere improvvisate dentro un fiume in piena. L’importante è stare in piedi in qualche modo finché dura.       

E veniamo infine a Pound e al suo Canto XLV, detto anche dell’Usura. Trattandosi di un testo poetico non lunghissimo, ma di grande portata e valore letterario, preferisco citarlo integralmente in lingua e nella mia traduzione.

With usura hath no man a house of good stone

Each block cut smooth and well fitting

that design might cover their face,

with usura

hath no man a painted paradise on his church wall harpes et luthes

or where virgin receiveth message

and halo projects from incision,

with usura

seeth no man Gonzaga his heirs and his concubines no picture is made to endure nor to live with but it is made to sell and sell quickly

with usura sin against nature,

is thy bread ever more of stale rags

is thy bread dry as paper,

with no mountain wheat, no strong flour

with usura the line grows thick

with usura is no clear demarcation

and no man can find site for his dwelling.

Stone cutter is kept from his stone

weaver is kept from his loom

WITH USURA

wool comes not to market

sheep bringeth no gain with usura

Usura is a murrain, usura

blunteth the needle in the maid’s hand

and stoppeth the spinner’s cunning.

Pietro Lombardo

came not by usura

Duccio came not by usura

nor Pier della Francesca; Zuan Bellin not by usura nor was “La Calunnia” painted.

Came not by usura Angelico; came not Ambrogio Praedis, Came no church of cut stone signed: Adamo me fecit.

Not by usura St Trophime

Not by usura Saint Hilaire,

Usura rusteth the chisel

It rusteth the craft and the craftsman

It gnaweth the thread in the loom

None learneth to weave gold in her pattern; Azure hath a canker by usura; cramoisi is unbroiled Emerald findeth no Memling

Usura slayeth the child in the womb

It stayeth the young man’s courting

It hath brought palsey to bed, lyeth

between the young bride and her bridegroom

CONTRA NATURAM

They have brought whores for Eleusis

Corpses are set to banquet

at behest of usura. 12

Ciò che colpisce nel testo poundiano sono l’approccio realistico e la competenza che dimostra anche sul piano strettamente economico.13

Il secondo aspetto che balza all’occhio è l’arditezza dei correlativi oggettivi, il ruolo che la figura retorica della similitudine vi svolge, la quasi completa rinuncia alla metafora, il dispiegarsi di un procedimento che ci porta all’allegoria attraverso un percorso differente rispetto a quello cui siamo normalmente abituati.

Pound riesce a distillare, in questo testo, il meglio che la poesia anglo-americana ha saputo fare suo in modo originale, a partire da una delle tante lezioni di Baudelaire: portare ciò che sembra impoetico nel cuore della poesia e del suo linguaggio, rinnovandoli entrambi profondamente. È un procedimento che viene ancora più da lontano, dai Metafisici del ‘600, da John Donne in particolare, seppure senza il suo wit. Allora erano le scoperte geografiche a entrare nel linguaggio poetico, insieme alla riscoperta dell’autonomia dell’eros e del corpo femminile.

Nel caso di Pound è addirittura l’economia a divenire oggetto di poesia: quanto di più prosaico e lontano da essa, secondo i canoni correnti!

Incatenando fra loro una serie di similitudini memorabili, Pound rompe anche questo tabù, entra nel vivo di un territorio fino a quel momento estraneo al dettato poetico, lo muta per il solo fatto d’entrarvi. Proviamo allora a ripercorrere questo testo.

L’inizio perentorio stabilisce subito una similitudine che diventerà ricorrente in tutto il canto, concretizzandosi di volta in volta in esempi diversi: in essa l’usura si contrappone alla pietra e alla casa, la dimora dell’essere umano, l’ubi consistam di cui tutti hanno bisogno e senza il quale non esiste vita sociale, né individuale. Pound non usa il termine finanza e preferisce quello medioevale d’usura (peraltro tornato assai di moda). Un altro modo di sottolineare tale ritorno allo scenario medioevale è l’uso che egli fa dell’arcaismo linguistico: termini come hath, thou, seeth e altri, non appartengono più all’inglese moderno, ma si riferiscono a un mondo linguistico e culturale in cui l’usura, cioè la finanziarizzazione selvaggia dell’economia non era ancora penetrata o stava per penetrare. Tuttavia non è difficile rapportare tutti gli esempi che fa al mondo contemporaneo: la volatilità e l’evanescenza del denaro e la pietra, la casa solida e il dominio astratto e malefico della quantità numerica. La finanza si contrappone alla vita reale, alla solidità della costruzione, è accumulo di ricchezza nominale e di miseria morale e materiale. Egli scrive come parlerebbe un oracolo, il tono è solenne, il verso lungo ha un incedere maestoso, l’iterazione della parola usura e l’improvviso irrompere di versi brevi e martellanti quasi a tempo di improvvisazione jazzistica e addirittura di rap, sfocia nell’invettiva, addirittura nella maledizione. Eppure quanta concretezza, realismo e competenza! Quando Pound scrive che con l’usura la lana non giunge al mercato, lo sciocco potrà imputargli un peccato d’ingenuità, l’economista potrà fargli notare che la lana non arriva più al mercato grezza ma già lavorata e che il poeta parla di un mondo che non esiste più ecc. ecc. Quanto di più falso!, e lo vediamo proprio nella realtà odierna, così come nel ’29. Le merci giacciono inerti nei mercati, la crescita esponenziale della ricchezza finanziaria si dissolve, i valori nominali crollano dopo che si erano gonfiati in modo abnorme: si giunge così al paradosso di avere contemporaneamente un eccesso di denaro inutile e un eccesso di merci invendute.

Però i versi di Pound non sono un trattato d’economia, sono concreti come un’analisi scientifica ma suonano sinistri. Un alone di sventura aleggia intorno al testo, anche per l’uso sapientemente voluto della parola italiana, che ha un suono lugubre e sinistro, accentuato dalla ripetizione. Perché? Che cosa evoca Pound? Tocchiamo qui la capacità peculiare della poesia di nominare qualcosa di semplicissimo e risaputo, ma di farlo in modo nuovo e scegliendo situazioni emblematiche. Se isolassimo il semplice contenuto di pensiero sotteso a tali versi ci accorgeremmo che il loro nucleo può risultare persino banale se fosse detto in senso puramente letterale. Esso suona infatti così: tutto ciò che di solido e di bello l’umanità ha prodotto non dipende dal denaro, ma dal lavoro, dal poiein, dal fare. È il faber contrapposto alla potenza astratta e impersonale del dominio quantitativo, il cui unico scopo è l’accumulo: è la hybris moderna, attitudine faustiana e demoniaca che non ha neppure bisogno del patto con il diavolo, dal momento che esso è intrinseco al meccanismo economico capitalistico dominante. Se vi è l’uno non vi è l’altro, solo che la poesia non nomina astrattamente tale incompatibilità, ma l’incarna concretamente in un’elencazione emblematica. ‘Se hai l’usura non avrai più Piero della Francesca, se vuoi l’usura non avrai più la casa’ e se pensiamo allo scandalo dei cosiddetti sub prime, cioè dei mutui che hanno mangiato proprio le case ai poveretti che li avevano sottoscritti, ancora una volta siamo sorpresi dalla concretezza. Tuttavia anche gli esempi non sono scelti a caso. Pound nomina Piero della Francesca, non Michelangelo, perché il periodo rinascimentale è già inquinato dall’usura e dal nascente capitalismo. Il pensiero di Pound è poeticamente rigorosissimo, non fa sconti a nessuno! Non lasciamoci travisare dal suo personale credo ideologico, ma guardiamo al dettato poetico. L’esemplarità dei correlativi oggettivi crea intorno all’usura un senso di tragedia incombente, ma mette noi lettori di fronte a qualcosa che, nei suoi sviluppi successivi, conosciamo fin troppo bene. Con l’usura finisce il ‘saper fare’, (la sequenza in cui l’ago si ottunde nelle mani della ragazza, il telaio arrugginisce ecc.) che a lungo andare provoca dissesti e tragedie! Colpisce, per la sua forza sinistra, anche l’immagine dell’usura che giace nel letto fra lo sposo e la sposa o che impedisce al giovane il corteggiamento. Parole d’altri tempi? No, dei nostri! Come possono i giovani uscire di casa e farsi una vita propria e avere dei figli se non hanno un lavoro e un reddito? Come è possibile consumare e ridare fiato all’economia (come viene richiesto quotidianamente dalla propaganda mediatica, ma anche ripetuto da illustri ministri dell’economia) quando il lavoro è sempre più precario? È la quadratura del cerchio! Se una persona qualunque, in altri contesti, facesse affermazioni così palesemente contraddittorie, finiremmo per dubitare delle sue facoltà mentali o penseremmo di trovarci di fronte a quel tipico loop o corto circuito che la teoria psicanalitica indica con il termine di ingiunzione paradossale: ma a parlare in questo modo sono i gestori dell’economia mondiale, molti dei quali hanno creduto a suo tempo alla formula magica dell’Eldorado!

Per tornare a Pound, ancora una volta sorprende l’attualità di questi versi che ci arrivano tuttavia, carichi di una sventura che rimanda ai flagelli biblici e alle catastrofi naturali.

Pound tuttavia insiste molto anche sull’opera artistica, la sua elencazione precisa ci offre un panorama di assenze crescenti d’opere d’arte, il rinsecchirsi di una capacità autoriale con cui ci troviamo a fare i conti oggi. Non c’è forse un nesso fra l’avvento della società narcisista e dello spettacolo e la crescita esponenziale e globale (peraltro inevitabile in un sistema capitalistico), dell’economia finanziaria (Pound direbbe usuraia)? La pletora di libri perlopiù invenduti e comunque non letti, il consumismo culturale acefalo, l’invadenza televisiva, non sono forse la sovrastruttura dell’economia di carta e nominale? Oppure il contrario. Sono gli apparati della comunicazione di massa e della spettacolarizzazione di tutto che, veicolando una filosofia ottimistica e criminale, favoriscono l’abbandonarsi senza alcuna capacità critica ai meccanismi acefali della finanza?

Una favola moderna come Le avventure di Pinocchio può essere molto utile per comprendere alcuni tratti della realtà attuale. 

Il libro è talmente noto che mi soffermerò soltanto sul ruolo che vi svolgono in essa il paese dei balocchi e l’omino di burro, che rappresentano molto bene a mio avviso, la profondità dei fenomeni contemporanei di alienazione.

Nella favola di Collodi il paese dei balocchi riassume sinteticamente tutte le cadute precedenti di Pinocchio, anche se proprio da quell’ultima avventura disastrosa inizia la sua emancipazione dalle pulsioni negative che lo hanno governato fino a quel momento e che trasformeranno finalmente il burattino in un ragazzo. Il paese dei balocchi assomiglia superficialmente a un parco dei divertimenti; solo che non si tratta di una parentesi bensì della vita intera. Il suo gestore occulto, l’omino di burro, non appare quasi mai in scena ma si manifesta attraverso l’organizzazione di questa strana società e tramite gli effetti che tale organizzazione sociale produce sui suoi abitanti. Ciò che l’omino di burro promette è la felicità permanente, il divertimento e lo spettacolo senza soluzione di continuità, la spensieratezza indefinita: il paese dei balocchi è in buona sostanza un paradiso artificiale, creato appositamente per una popolazione di pueri eterni. Infatti i suoi abitanti sono tutti ragazzi dagli otto ai quattordici anni, cioè adolescenti e preadolescenti maschi. Si tratta dunque di un mondo senza padri e senza madri, un’orda primitiva di fratellini, orizzontale e acefala; dove la verticalità è rappresentata soltanto dai gestori occulti del sistema di relazioni esterne, un vero e proprio potere impersonale che si manifesta attraverso figure ridicole e meschine. Letto dopo tutto quello che sappiamo dei meccanismi di manipolazione di massa questa parte del libro di Collodi è davvero stupefacente. In essa Lorenzini mette in scena una società istupidita e bambina, preda di ogni potere, dove domina lo spettacolo continuo, il gioco che non finisce mai. Le analogie con gli apparati propagandistici e con l’invasiva presenza totalizzante della televisione mi sembrano quanto mai appropriati; è sufficiente seguire per un giorno intero la miriade di giochi televisivi dove, con la semplice risposta a domande idiote, oppure grazie al semplice caso, si possono vincere somme di denaro spropositate. Il vecchio Lascia o raddoppia fa persino tenerezza se confrontato a questi programmi!

Quando Pinocchio esce dalla città dei balocchi non è più un burattino ma entra nella vita organica come animale: è un asino, ma per la prima volta è costretto a sentire su di sé il dolore della propria condizione e la fatica che si fa a sopportarlo. Credo che qualcosa di simile alla condizione asininina attende la società occidentale, una volta raggiunto il fondo di questo tunnell!

Favola, pseudo scienza, pressione mediatica segnano oggi il ritorno della più completa irrazionalità nel governo dell’economia. Non sono gli scrittori a dirlo ma i responsabili delle banche. Intervistato recentemente, il direttore generale dell’Ubs (Unione banche svizzere), ha dovuto riconoscere che il colosso elvetico non è in grado di dire quanti titoli cosiddetti tossici sono finiti nel suo portafoglio clienti perché per seguire il percorso di un titolo e seguirne tutti i passaggi di mano e le transazioni occorrerebbe un lavoro di mesi. Infine, l’episodio tragicomico dei due esimi premi Nobel, sfata una volta per tutte  la sciocchezza che i capitalisti sono i più indicati a gestire il capitalismo e che anche per questo le forze alternative non sarebbero in grado di accedere al governo. Se istituzioni come quelle citate in precedenza hanno potuto credere così facilmente a una formula magica viene semplicemente da ridere!

Le favole, quelle vere naturalmente!, possono invece suggerirci qualcosa di più e di meglio. Esse contengono sempre una morale molto chiara: il delirio di onnipotenza dei loro protagonisti viene sempre punito severamente da una legge superiore. Tale punizione, modernamente intesa, non può che incarnarsi in una regola sociale che nasca al di fuori della sfera economica e che le imponga, anche con la forza, un limite che non può che essere deciso da una comunità di soggetti organizzati intorno a un progetto di società.

Vorrei concludere questo saggio con un’ultima fiaba, raccolta dai Fratelli Grimm: Il pifferaio magico. Essa non ha a che fare direttamente con il denaro e la ricchezza, bensì con la rottura del patto sociale, che è tuttavia una delle conseguenze primarie delle crisi strutturali del sistema capitalistico. 

La storia è nota, ma serve ripercorrerne alcuni passaggi essenziali per comprendere bene perché ci riguarda, ma anche per ricordare che si tratta di una fiaba le cui fonti orali risalgono al 1300 e dunque a tempi a noi abbastanza prossimi.

La città di Hamelin è infestata dai topi. Naturalmente l’animale è  simbolicamente  assai ambivalente e perturbante: perché i topi ci assomigliano molto, più di quanto non siamo disposti a credere. Non dimentichiamo, poi, che il topo fu portatore della pestilenza, una sventura di proporzioni bibliche che funestò l’Europa durante tutto il ‘300.

Il borgomastro di Hamelin non è in grado di risolvere il problema, ci vuole la cooperazione d’altre competenze e pensa di trovarle nel pifferaio magico. Questi concorda il compenso e con la musica suadente del suo piffero attrae a sé i topi e li trascina nel fiume Wesen, dove annegano. La città è libera ma, proprio quando sembra tutti finito per il meglio, accade qualcosa che a prima vista sembra del tutto irrazionale: la comunità di Hamelin e il suo borgomastro si rifiutano di riconoscere al pifferaio il compenso pattuito e questi allora trascina tutti i bambini della comunità dietro il suo piffero fino al fiume, o, secondo altre versioni, dentro una grotta dove li imprigiona.

Ci sono diverse versioni sulla conclusione della fiaba. Fra quelle meno tragiche ne scelgo una per i suoi richiami biblici. Secondo tale versione solo un bambino riesce a sfuggire alla sorte che lo attende perché è zoppo e non riesce a tenere il ritmo impresso dal pifferaio alla musica: rimanendo indietro egli vede dove vanno a finire gli altri bambini e riesce a fuggire. L’imperfezione fisica del bambino ricorda l’episodio del sogno di Giacobbe e della lotta con l’angelo. Al mattino Giacobbe si sveglia diverso da come s’era addormentato e si ritrova zoppo come il bambino della fiaba, cioè consapevole. Quanto al bambino, egli non segue le seduzioni della musica, a differenza degli altri che non si pongono alcun interrogativo, pur sapendo benissimo la fine che hanno fatto i topi. Ciò che colpisce, però, sono l’assenza e l’irresponsabilità degli adulti della città, che sembrano prima illogici nel negare il compenso al pifferaio e poi impotenti di fronte alla sua magia. Forse però si tratta di ripensare in altro modo tutta la favola.

Quando la comunità ricorre al pìfferaio lo fa perché è in preda al panico, i topi sono ovunque, e sono il sintomo di un maleficio che si è già diffuso e che la comunità non ha saputo prevenire. E i topi non sono forse, con la loro organizzazione sociale pericolosamente vicina a quella umana, i più adatti a prestarsi come causa piuttosto che come effetto? La comunità di Hamelin si affida così al pifferaio magico, che bene incarna la figura del demagogo politico che si sostituisce ai poteri costituiti e ‘libera’ la città; ma a un prezzo altissimo. La natura del compenso, infatti, non viene esplicitamente indicata.

Se si unificano tutte le versioni della fiaba e le si riportano al comune denominatore, la morale è sempre la stessa: una comunità incapace di governarsi mette il proprio destino nelle mani di una forza ambivalente e distruttiva e che esige un tributo impossibile da pagare perché si tratta semplicemente della distruzione della comunità stessa: sia che si tratti dei topi (o degli ebrei – che i nazisti consideravano cimici e cioè piccoli topi, come ci ricorda Canetti nel caso della Germania nazista), sia che si tratti dei propri figli. Il demagogo non libera dai topi perché non erano loro il problema a Hamelin come da nessuna altra parte e se si dissolve il legame sociale prima si comincia con lo sterminare i ‘topi’ (nell’Italia delle leggi razziali contemporanee non sono più gli ebrei ma gli islamici, gli zingari, gli albanesi; i rumeni a seconda delle opportunità del momento).

Qual è il nesso fra la dissoluzione del legame sociale, allegoricamente rappresentato nella fiaba del Pifferaio magico, e il denaro? O se si preferisce l’economia? Ci soccorre ancora Canetti. L’invasione dei topi (o delle bibliche cavallette) è una sorta d’inflazione, speculare a quella della moneta e incarna benissimo quell’immagine così pregnante dello scrittore viennese, quando egli afferma che quanto più i milioni salgono nel valore nominale, tanto più gli esseri umani che li possiedono sentono di non valere nulla. I topi rappresentano benissimo quest’immagine di un’umanità numericamente enorme  ma che ‘non vale nulla’: perciò fanno così tanta paura e per questo hanno buon gioco i demagoghi a fare leva su questa paura.

L’inflazione catastrofica o le crisi strutturali ricorrenti del modo di produzione capitalistico, tuttavia, non sono maledizioni bibliche, ma conseguenze assolutamente certe del suo modo di funzionare. La rottura del vincolo sociale si ripete nel tempo costantemente, generando ogni volta le condizioni che favoriscono il ricorso al pifferaio magico di turno. Torniamo allora a quest’ultimo per vederne più da vicino la natura.

La prima  caratteristica che colpisce è la sua apparente innocuità. Anzi, la sua immagine si presenta come qualcosa di positivo in sé: rappresenta la musica, la più pura delle arti insieme alla poesia di cui è coeva alle origini. Il pifferaio è un artista? In apparenza sì, ma solo nella declinazione di un’arte che è puro spettacolo e pura seduzione: la sua musica produce un consenso acritico, tanto che topi e umani possono seguirlo indifferentemente. La sua musica è un altro paradiso artificiale che aliena dalla realtà e se la comunità si affida a lui per governare, essa non ha futuro e infatti la sua musica non porta alla morte gli adulti bensì i bambini, cioè il futuro della comunità. 

Il pifferaio, dunque, è anche il simbolo di una funzione degradata dell’arte: invece di rappresentare criticamente ciò che più manca alla comunità di Hamelin, (per dirla con Jung) e darle la consapevolezza necessaria, egli si serve delle paure dei cittadini di Hamelin per speculare su di esse, esigendo un tributo che alla fine segna la morte della comunità stessa. Ricordiamoci allora dei versi straordinari e immortali di Pound: ‘ se c’è l’usura non ci può essere Piero della Francesca’ Il suo era anche un modo di segnalare il pericolo di una prostituzione delle arti e dell’artista e il loro asservimento all’ideologia del puro intrattenimento o dello spettacolo, come avrebbe denunciato decenni dopo Guy Debord: le arti come una sorta di ‘pifferaio di massa’ e di aulete dell’ideologia massmediatica dominante.

L’artista e anche l’intellettuale degni di questo nome potrebbero, nella realtà odierna, avere come modello di riferimento, invece, il bambino zoppo della fiaba, che nella versione meno tragica riesce poi a salvare in qualche modo anche gli altri e a ridare un futuro alla comunità di Hamelin: oppure il modello altrettanto classico della favola del re nudo, nella quale il protagonista è ancora una volta un bambino. Entrambi i protagonisti di quelle due fiabe compiono un gesto, infondo, molto semplice: resistono al canto delle sirene, all’omologazione di massa, a quel pensiero unico che ha fagocitato e colonizzato gran parte dell’immaginario e trasformato anche il tempo libero in tempo coatto. 

BIBLIOGRAFIA.

  1. Elias Canetti: Massa e potere, traduzione di Furio Jesi, Adelphi, Milano 2002.
  2. Sigmund Freud: Psicologia delle masse e analisi dell’io. In Opere di Sigmund Freud, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80
  3. Sigmund Freud: Il poeta e la fantasia. In Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1976-80.
  4. Fratelli Grimm: Fiabe, Collana I Millenni, Einaudi, Torino 1978.
  5. Carl Gustave Jung: Saggi sulla poesia e sull’arte, Bollati Boringhieri, Torino 1980.
  6. Carl Gustav Jung: La psicologia analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica. In: Carl Gustav Jung: Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, prefazione di Giovanni Jervis, traduzione di Arrigo Vita e Giovanni Bollea, Einaudi Torino, 1959.
  7. Karl Marx: Il capitale, a cura di Eugenio Sbardella, Avanzini e Torraca editori, Roma 1966.
  8. Karl Marx: Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), a cura di Giorgio Backhaus, Einaudi, Torino 1976.
  9. Arthur Miller: L’orologio americano. (solo su Internet, non disponibile nella traduzione italiana).
  10. Loretta Napoleoni: La morsa, Chiare Lettere, Roma 2008.
  11. Ezra Pound:  Cantos, Canto  XLV, Garzanti Milano, 1964.
  12. Ezra Pound: L’abc dell’economia , introduzione di Giorgio Lunghini, prefazione di  Mary Pound de Rachewiltz. Universale Bollati Boringhieri, Torino 1994.
  13. W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano 1978.
  14. Emil Zola: L’argent, (il denaro), traduzione di  Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, Newton Compton, Milano.

9 La furia matematica del decennio andava ben oltre i limiti dell’economia: qualcuno, sull’onda dell’entusiasmo per le teorie di René Thom (l’autore della Teoria delle catastrofi), parlava della possibilità di trovare l’equazione di Dio.

10 Loretta Napoleoni, La morsa, Chiare lettere, Roma 2008

11 Op. cit. Ivi.

12 Ezra Pound, Cantos, XLV,1964. /Con l’usura non si ha per l’uomo casa di pietra buona/dove ogni isolato sia squadrato finemente e adatto/e il design possa dare ricovero al volto,/Con l’usura/non c’è un paradiso dipinto sui portali della chiesa/né arpe o liuti/o luogo dove la vergine riceva il messaggio/e si proietti l’aureola dall’incisione/Con l’usura/non c’é nessun Gonzaga, suoi eredi e concubine/nessun dipinto è fatto per durare e per convivere/ma per essere venduto e venduto in fretta/Con l’usura peccato contro natura,/il tuo pane ancora di più diventa avanzo rancido/secco come carta/niente grano di montagna niente buona farina/con l’usura il limite intorbidisce/con l’usura non vi è confine certo /e nessuno trova dove costruire la propria dimora/il tagliatore di pietre è alienato dalla sua pietra/il tessitore lo è dal suo telaio/Con l’usura la lana non giunge al mercato/le pecore non recano guadagno/L’usura è pestilenza./con l’usura/si ottunde l’ago nelle mani della ragazza/si arresta la delicata macchina filatrice/Pietro Lombardo/non venne dall’usura/Duccio non venne dall’usura/e così Piero Della Francesca; Zuan Bellin non dall’usura/né fu dipinta La calunnia./Beato Angelico non venne dall’usura, Né Ambrogio Praedis,/nessuna chiesa di pietra siglata: Adamo me fecit/Non dall’usura St Trophine/non dall’usura Saint Hilaire/l’usura arrugginisce il cesello/arrugginisce l’arte e l’artigiano/corrode il filo nel telaio/Nessuno imparò a filare l’oro nel suo modello/l’azzurro ha un cancro con l’usura/il cremisi non si accende/lo smeraldo non trovò Memling/L’usura assassina il bimbo nel grembo/trattiene il giovane dal corteggiamento/ha portato la paralisi nel letto/si sdraia fra il giovane sposo e la sua sposa// CONTRA NATURAM/hanno portato le puttane per Eleusi/cadaveri preparati per il banchetto/agli ordini dell’usura…… (traduzione mia).

13 Negli anni ’30 Pound scrisse in effetti una raccolta di saggi di carattere economico che sono oggi rieditati in Italia da Bollati Boringhieri, sotto il titolo L’A B C dell’economia con una nota critica di Giorgio Lunghini.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Seconda parte

Inflazione e panico di massa

Tutto quanto abbiamo visto finora ha a che fare con un rapporto individuale e personale col denaro. Le fiabe nascono dal profondo della storia; anzi, fioriscono su quella linea di demarcazione impalpabile che la separa dalla preistoria; a quel tempo  il segno grafico pittorico e la trasmissione orale erano i mezzi d’espressione e la scrittura non esisteva ancora. Le fiabe selezionano archetipi, sono il distillato scritto, cioè la traccia, d’esperienze millenarie di cui si è persa l’origine. La fiaba è il segno lasciato da un’arcaica esplorazione del sé, la quest che ciascun individuo dovrebbe intraprendere per divenire adulto. Rispetto al denaro, è il contesto a essere mutato: il rapporto fra l’individuo e l’economia non è più personale, ma mediato dalle leggi economiche, l’organizzazione della società ne dipende strettamente (oggi quanto mai!). L’individuo singolo non è libero rispetto alle leggi dell’economia, ma si trova invischiato in una serie di rapporti di cui non è responsabile in quanto li trova preesistenti a sé come dati di fatto che egli, in quanto individuo, non può arbitrariamente modificare. Nelle fiabe, d’altro canto, è raramente all’opera una psicologia di massa, il protagonista è quasi sempre un eroe solitario che può al massimo avvalersi di aiutanti che cooperano alla riuscita d’imprese memorabili. Questo, come abbiamo visto, non significa che esse non contengano un insegnamento prezioso anche per noi; anzi, ci aiutano a svelare il sostrato profondo delle nostre azioni, che si agita sotto la sovrastruttura di procedure razionali. Tuttavia i fenomeni di massa rimangono quasi sempre fuori dall’orizzonte della fiaba, seppure con alcune vistose eccezioni, che tuttavia sono storicamente più vicine a noi. È così per Il pifferaio magico e per Le avventure di Pinocchio, che sono una miniera ricchissima di riferimenti al sociale.

Nel capitolo intitolato Inflazione e massa, sempre in Massa e potere, alle pag. 218-224, Elias Canetti analizza puntualmente un fenomeno tipicamente moderno come l’inflazione catastrofica che colpì la Germania degli anni ‘30 e che fu una delle cause dell’ascesa del Partito Nazista. Scrive Canetti:

Un’inflazione è un avvenimento di massa nel più particolare e preciso significato della parola. L’influenza disorientante che essa esercita sulla popolazione di tutto il paese non è affatto limitata al momento stesso dell’inflazione… gli sconvolgimenti che essa produce sono di natura così profonda che si preferisce tacerli e dimenticarli. Forse si teme anche di attribuire al denaro, il cui valore viene artificiosamente   stabilito dagli uomini, le facoltà di dar vita a una massa, facoltà che vanno molto oltre la loro destinazione e hanno in sé qualcosa di assurdo e d’infinitamente umiliante.

È importante procedere oltre in questa direzione e dire qualcosa sulle qualità psicologiche del denaro stesso.”

I simboli sono, per lo scrittore viennese, mezzi di riconoscimento fondamentali che fanno della massa un’entità sociale dotata di comportamenti propri che vanno oltre la sommatoria delle personalità dei singoli componenti la massa stessa e superano il meccanismo di proiezione e delega a un capo, inteso come padre simbolico; si direbbe che, per Canetti, la massa incorpori un plusvalore di comportamenti che ne fa un’entità a se stante, autonoma. Con parole diverse e naturalmente con intenti diversi, anche le considerazioni di Marx e specialmente di Lenin sulle masse, hanno qualcosa di analogo, nel senso che, pur agendo sul piano politico e quindi sovrastrutturale, la mobilitazione di massa può diventare una forza materiale a tutti gli effetti.5

La particolarità del denaro, però, sta proprio nella sua irriducibile unitarietà, caratteristica quest’ultima, che sta agli antipodi rispetto alla massa: la singola banconota e la singola moneta sono individui atomizzati, la somma di denaro è una somma di entità individuali e ci sono molti proverbi a ricordarcelo. La fusione che si crea in una massa, rispetto al denaro, non può superare del tutto questa barriera. Canetti fa degli esempi molto concreti:

“… Ogni moneta è nettamente delimitata e ha un proprio peso… Si tende a considerare la moneta come una persona afferrabile. La mano che si chiude su di essa, la tocca tutta, in tutti i suoi spigoli e in tutte le superfici piane… In un punto la moneta è superiore alla creatura vivente: la sua consistenza metallica, la sua durezza, le assicurano una durata «eterna»; essa non è distruttibile – tranne che dal fuoco. La moneta non cresce secondo la propria grandezza; essa è in accordo con il proprio conio e dunque deve restare ciò che è; non può divenire diversa… Il  mucchio di monete è chiamato tesoro fin dai tempi più antichi e presso la maggior parte dei popoli… non c’è dubbio che per alcuni uomini, i quali vivono esclusivamente per il loro denaro, il tesoro prenda il posto della massa umana. Molte storie di avari solitari vengono qui a proposito; essi sono la sopravvivenza mitica del drago delle fiabe, il quale vive soltanto per custodire, controllare, curare un tesoro. Si potrebbe obiettare che queste considerazioni sulla moneta e sul tesoro, non sono più attuali per gli uomini moderni; che dappertutto si usa la carta moneta; che i ricchi conservano il loro tesoro nelle banche nella forma più invisibile e più astratta. Ma l’importanza della copertura aurea per una buona valuta,… dimostrano che il tesoro non ha affatto perduto la sua antica importanza.”

Si potrebbe ulteriormente obiettare, rispetto al tempo in cui il libro fu scritto, che con la fine degli accordi di Bretton Woods, anche la copertura aurea non esiste più. È vero, naturalmente, ma questo fatto non risolve il problema del perché il dollaro sostituì l’oro; anzi, tale scelta ha contribuito non poco a generare nuove e pericolose illusioni. Tale decisione, infatti, ricacciava nell’astratto il problema senza risolverlo, perché il valore non sta nel segno numerico stampato sulla banconota, ma nella relazione fra quel valore e la produzione di beni e servizi; rompere la parità con l’oro significava solo occultare l’ultimo anello che legava l’economia di carta e nominale a quella reale. L’illusione di un valore non ancorato ad alcunché di concreto è un sintomo di alienazione, simile a quello di cui fu vittima l’esercito di Pompeo; oppure riflette l’atteggiamento degli ingenui e illusi protagonisti delle fiabe, che peraltro vengono sempre puniti da una legge più grande di loro. Le uniche differenze, fra la nostra povera epoca e quella di Pompeo, stanno nel fatto che il comandante in capo si mostrò un bel gradino al di sopra dei suoi ufficiali e dei suoi soldati, mentre da noi oggi sono i responsabili dell’economia e della politica mondiale a comportarsi come loro!

La differenza fra le favole della tradizione e quelle moderne, in tema di denaro e ricchezza, sta nel fatto che le seconde si ammantano di un linguaggio ‘scientifico’.

Credo sia necessario allora, seppure nel contesto di un saggio che si occupa di letteratura, soffermarci ancora un momento sulla questione della parità aurea, perché nelle sue pieghe è facile rintracciare il sostrato favolistico.

Gli accordi di Bretton Woods, sanciti nel 1948 nella cittadina statunitense omonima, stabilivano che fra riserve monetarie e quantità d’oro posseduta dalle banche centrali degli stati dovesse esserci un rapporto stabilito, seppure variabile fra Stati Uniti e stati esteri: i secondi potevano convertire le loro riserve monetarie in oro al prezzo di 35 dollari l’oncia, gli Usa a un prezzo inferiore. A questo si aggiunga che le riserve monetarie potevano eccedere la copertura aurea per un massimo di un terzo del valore in oro posseduto. In sostanza tale meccanismo impediva agli stati di dichiarare riserve fasulle, cioè semplicemente nominali. L’economista statunitense Ron Paul, in un saggio facilmente reperibile nei siti che si occupano di economia, ricostruisce molto bene cosa sia avvenuto con la fine degli accordi:

Il sistema post-Bretton Woods è stato responsabile per la globalizzazione dell’inflazione e dei mercati, e per la nascita della gigantesca bolla del dollaro mondiale. Quella bolla sta per esplodere, e stiamo vedendo cosa significa pagare le conseguenze per troppi errori economici fatti in precedenza. Ironicamente, negli ultimi 35 anni noi abbiamo beneficiato di questo sistema profondamente distorto. Poiché il mondo accettava dollari come se fossero oro, dovevamo semplicemente falsificare altri dollari, spendere oltre oceano (incoraggiando in maniera indiretta anche il trasferimento del nostro lavoro all’estero) e goderci una prosperità immeritata. Coloro che prendevano i nostri dollari, e ci davano in cambio dei servizi, non vedevano l’ora di poter tornare a prestare quei dollari a noi. Questo ci ha permesso di esportare la nostra inflazione e ritardare le conseguenze che ora stiamo iniziando a vedere. Ma non era comunque destinato a durare, e ora ci tocca pagare il conto. Il nostro debito estero deve essere pagato o liquidato. Gli altri debiti sono maturati proprio ora che il mondo è diventato più riluttante ad accettare dollari. La conseguenza di quella decisione è un’inflazione dei prezzi nel nostro paese, questo è ciò a cui stiamo assistendo oggi. L’inflazione all’estero è addirittura più alta che da noi, come conseguenza della volontà delle banche centrali estere di monetizzare il nostro debito… Questa bolla è diversa e più grande delle altre per un altro motivo. Le banche centrali del mondo si accordano segretamente per centralizzare la pianificazione dell’economia mondiale. Io sono convinto che degli accordi fra le banche centrali, per monetizzare il debito americano negli ultimi 15 anni, siano esistiti, per quanto in forma segreta e fuori dalla portata delle orecchie di chiunque, specialmente del parlamento americano, che non se ne preoccupa o semplicemente non capisce. Ora che il nostro “regalo” si esaurisce, i nostri problemi peggiorano. Le banche centrali e i diversi governi sono molto potenti, ma prima o poi i mercati si saturano, e quando la gente si ritrova in mano il sacco di dollari senza valore comincia a spendere in un’economia di tipo emotivo, scatenando la febbre inflazionaria. Questa volta – poiché abbiamo a che fare con così tanti dollari e così tante nazioni – la Fed è riuscita a “cartolarizzare” ogni crisi in arrivo, negli ultimi 15 anni, specialmente sotto la presidenza di Alan Greenspan alla Federal Reserve, che ha permesso alla bolla di diventare la più grande di tutta la storia. Militarismo all’estero, elargizione di sussidi statali, e 83 biliardi [trillion] di impegni in titoli stanno tutti per venire a termine.

L’analisi di Ron, pur imprecisa in alcuni dettagli di non poco conto, ci ripropone uno schema che si era già rivelato rovinoso nella Germania di Weimar, quando lo stato tedesco, a fronte della mancanza di liquidità, pensò di risolvere il problema stampando nuovi marchi in continuazione. Così facendo non fece altro che alimentare una catastrofica inflazione perché la moneta in circolazione non può eccedere di troppo il volume degli scambi reali di cui il denaro funge da mediatore e la necessità di sostituire le banconote usurate e non più valide. Nel periodo successivo la rescissione degli accordi di Bretton Woods è accaduta la stessa cosa. La corsa ad accaparrarsi dollari come riserva (quello che Ron chiama, con una formula ambigua, falsificare i dollari), non significa altro che la banca centrale statunitense ne stampava in continuazione per alimentare il circuito delle riserve degli altri stati e del proprio debito pubblico. Servono dollari? Eccoli stampati! Non siamo lontani dalla favola dell’asino che cacava monete, se a farlo – invece che un animale magico – è la zecca di stato!

Torniamo all’inflazione e lasciamo di nuovo la parola a Canetti, domandandoci con lui: “Cosa accade in un’inflazione?” La risposta è la seguente:

Improvvisamene l’unità di denaro perde tutta la sua personalità, e si trasforma in una massa crescente di unità; queste ultime hanno sempre meno valore quanto più grande è la massa. Si hanno d’improvviso in mano i milioni che si sarebbero posseduti volentieri; ma essi non sono più tali, conservano semplicemente il nome… E come è possibile contare fino a qualsiasi cifra, così il denaro può svalutarsi fino al più infimo grado… L’identificazione fra il singolo individuo e il suo marco è così confermata. Il marco ha perduto la sua solidità e il suo limite… ha sempre meno valore. L’uomo che vi aveva riposto la sua fiducia non può fare a meno di sentire come proprio il suo svilimento.”

Il senso di vergogna e svilimento, però, non appartiene soltanto agli individui, presi uno per uno: è la massa stessa a perdere le sue caratteristiche peculiari.

Nell’inflazione sopravviene anche un fenomeno… estremamente pericoloso, dinanzi al quale deve indietreggiare chiunque possieda una qualche responsabilità pubblica e possa prevederlo: una duplice svalutazione che proviene da una duplice equiparazione. L’individuo si sente svalutato perché l’unità su cui contava e dalla quale era egualmente considerato perde valore. La massa si sente svalutata perché il milione è svalutato… Quando i milioni salgono al cielo, un intero popolo – che consiste di milioni – non vale più nulla. Tale fenomeno spinge insieme uomini i cui interessi materiali altrimenti divergerebbero largamente. Il salariato ne è colpito come chi vive di rendita. Dall’oggi al domani si può perdere moltissimo o tutto ciò che era al sicuro in banca.”

A questo si aggiunga un altro particolare, potente sul piano simbolico. Il denaro circola, la circolazione monetaria per assonanza anche linguistica rimanda alla circolazione sanguigna. L’analogia appare evidente anche in molte espressioni idiomatiche: di chi ha molto speso per qualcosa, specialmente quando è costretto a farlo per necessità, si dice che si è svenato. L’inflazione è un’emorragia di massa e perciò genera un panico di massa: su di esso fecero leva i nazisti per conquistare il potere nel 1933.

Usura e capitale

Le rappresentazioni moderne più potenti del denaro, della psicologia di chi lo maneggia, degli effetti che le leggi economiche hanno sulla società e sugli individui, le troviamo in alcuni grandi romanzi dell’’800 e del ‘900. L’argent di Emile Zola è una delle opere più efficaci della narrativa di quegli anni. La poetica dello scrittore francese implicava un atteggiamento di ricerca sociale da parte del romanziere, qualcosa di più della verosimiglianza manzoniana (anche se Manzoni stesso con la storia della Colonna infame non è lontano da Zola), ma una vera e propria immersione in altre forme di conoscenza, l’utilizzo dello strumento dell’inchiesta, la costruzione del personaggio e del suo habitat in modo oggettivo. Per Zola la narrativa non può essere pura fiction, oppure semplice svolgimento di una trama con i suoi intrecci, ma deve essere rappresentazione che si avvale di una vasta documentazione extra diegetica. Egli è uno degli inventori del romanzo-saggio, che costituisce un canone importante della tradizione europea e annovera fra gli altri anche il Flaubert di Bouvard e Pecuchete che avrà il suo massimo esponente in Musil, agli inizi del ‘900. Non è questa la sede per mettere in evidenza le grandi differenze fra loro, ma solo di registrare un atteggiamento e un modo di concepire il romanzo.

Il protagonista de L’argent (Il denaro) è un giocatore di borsa, ma si potrebbe anche dire che la vera protagonista è proprio la Borsa in sé, con i suoi riti, la genia del tutto particolare di coloro che le girano intorno, la sua capacità di attrarre le vite e di fagocitarle dentro un meccanismo che diventa totalizzante. Fin dalle prime pagine del romanzo ciò che colpisce è proprio tale aspetto. Tutte le vite dei personaggi e quasi tutta la loro vita personale gravita intorno al palazzo della Borsa, il brulichio della grande città tentacolare s’intensifica e s’addensa intorno al palazzo delle transazioni.

Pubblicato nel 1891, L’argent è  il diciottesimo e ultimo libro della serie Rougon-Macquart. Il motore narrativo che governa lo svolgimento della trama è quello della speculazione finanziaria e degli scandali che ne derivano. L’eroe negativo è Aristide Saccard  – lo stesso de La curée (La caccia) -, fratello del ministro Eugène Rougon, che aveva ammassato una fortuna colossale con affari poco leciti. Dopo una sequela di rovesci, deve ripartire da zero, ma la sua ambizione è rimasta intatta; cambia il proprio nome precedente per rifarsi una verginità anche personale e ricomincia daccapo. La nuova svolta, che prelude alla sua effimera rinascita, è annunciata da una lettera proveniente da Costantinopoli:

La lettera del banchiere russo di Costantinopoli, che Sigismonde aveva tradotto, era un’inattesa risposta favorevole; la grande impresa vagheggiata poteva iniziare da Parigi.” 6

La grande impresa si chiamerà Banca Universale e sarà destinata a finanziare progetti in Medio Oriente: siamo sempre lì, verrebbe da dire!

Saccard vende la sua proprietà lussuosa del parco Monceau allo scopo di regolare i suoi creditori, quindi affitta due piani di un palazzo dove insedia la sede della banca.

Aristide entra in contatto con vecchie conoscenze fra cui la principessa d’Orviedo,          che tuttavia rifiuta di partecipare ai disegni dello speculatore. Allora egli rivolge le sue attenzioni a Jacques Hamelin, giovane ingegnere e a Caroline, sua sorella. Dopo un accordo siglato tra Jacques ed Aristide, l’ingegnere raggiunge Costantinopoli per ottenere concessioni, mentre l’uomo d’affari cerca d’inserirsi nell’entourage di alcuni uomini molto ricchi del milieu finanziario parigino. Nel frattempo Saccard seduce e possiede bestialmente Caroline.

La truffa è architettata per attirare piccoli e medi risparmiatori, ai quali si promettono guadagni facili e rapidi. I comunicati stampa, gli articoli e le voci sapientemente calibrate fanno volare i titoli della società e Saccard si trova di nuovo al vertice della gloria. Tale potenza borsistica, tuttavia, è costruita sulla sabbia: a questo si aggiunga il fatto che Saccard si è attirato l’inimicizia del banchiere Gundermann. Un giorno del 1869, col concorso di amici speculatori, dopo avere verificato che le casse della banca Universale sono a secco, quest’ultimo decide di lanciare un ultimo attacco borsistico ribassista vendendo le azioni della Banca universale che possiede e quelle che non possiede (vendita allo scoperto).

Il titolo crolla e Saccard reagisce facendo quello che tutti gli speculatori fanno in tali circostanze, sebbene non serva a nulla: acquista lui stesso i propri titoli per farli risalire di prezzo, ma in questo modo dà fondo a tutte le sue risorse finanziarie e si ritrova sul lastrico. Trascina nella sua caduta tutti i risparmiatori che gli avevano dato fiducia. Denunciato per frode viene condannato a cinque anni di prigione, ma riesce a lasciare la Francia e fuggire nei Paesi Bassi.

Nello scrivere questo romanzo, Zola si è ispirato agli scandali finanziari che non mancavano alla sua epoca. Al momento in cui scrive Il denaro è in pieno sviluppo quello di Panama, ma lo scrittore s’ispirò anche all’affaire dell’Unione generale (1881-1882), il cui protagonista fu il banchiere cattolico e legittimista Eugène Bontoux, la cui società fu rovinata dalla speculazione di un Rothschild. Bontoux  fu condannato proprio a cinque anni di prigione nel 1883, come accade al protagonista del romanzo di Zola. Si pensa che il personaggio di Saccard gli sarebbe stato anche ispirato dallo speculatore e industriale Hector de Sastres, che fu amico e protetto del ministro Jacques Louis Randon.

Lasciamo per il momento Zola e rivolgiamoci a un testo a noi vicinissimo.

L’orologio americano di Arthur Miller, dramma in due atti, scritto nel 1982 e ispirato da Hard Times di Teckel, è una riflessione a distanza di pochi decenni sulla crisi del ’29, ma essendo così contemporaneo, sorprende appunto per il ripetersi di situazioni analoghe. Miller analizza il meccanismo economico legato al trust, ovvero alla fiducia, piede d’argilla su cui si poggia l’intera economia; curiosamente, fra l’altro, la parola inglese significa anche cartello industriale, monopolio! Il tema principale dell’opera è la fine del sogno americano; tema che si ripropone oggi, dopo il fallimento di Chrysler e General Motors e gli scandali che hanno coinvolto le banche. È una satira sull’immaterialità del denaro, sulla spietatezza delle regole dell’economia. Tuttavia, il dramma non si limita a questo, ma prende in considerazione i rapporti sociali, su cui impattano le tragedie dell’economia. Alla lucida analisi dei legami familiari che caratterizzano la civiltà, si contrappone quella sul materialismo sfrenato che porta alla barbarie. Le origini della crisi del ’29 sono per Miller da ricercare in primo luogo in una generalizzata crisi morale che si riflette successivamente sulla sfera politica e infine su quella economica. La Prima Guerra Mondiale  viene analizzata come uno strumento capitalistico di riequilibrio del mercato:

Il mercato non rappresenta altro che uno stato d’animo.

La sovrapproduzione accompagnata da una scarsità di moneta fa sì che i magazzini siano pieni di merci che la gente, non avendo soldi, non può comprare. Il crollo dei prezzi diventa il sintomo della frattura del ciclo produttivo causato principalmente dalla gestione irrazionale del sistema creditizio da parte delle banche. La fiducia cessa e il crollo del sistema del trust porta a una svalutazione dei titoli azionari, al fallimento delle aziende, alla disoccupazione; senza stipendi non circola moneta e il sistema è destinato alla paralisi. Gli interessi sul credito sono per Miller il grande nemico. I grandi capitali non investiti che creano interessi da capogiro sono di per sé un atto economicamente immorale e vengono utilizzati dalle banche per speculazioni selvagge su oro, petrolio, costruzioni edilizie. I profitti gonfiati della borsa poi sono il germe del crollo di Wall Street. La Prima Guerra Mondiale fu il tragico tentativo di azzerare i debiti e crediti per creare una tabula rasa su cui ricostruire l’economia. Miller contrappone l’etica del valore all’etica del denaro e vede nella folla dei disoccupati, nei negozi vuoti, nella gente buttata in strada con materassi pentole e tegami, la conseguenza ovvia di tutti gli errori economici commessi. Il boom degli anni ‘20 fu, nella sua visione, una gigantesca truffa organizzata dagli straricchi per moltiplicare i loro capitali rapinando la gente. Gli avidi affaristi senza scrupoli portarono al crollo dei mercati perché, secondo Miller, ne avevano utilizzato le leggi al di là dell’etica del progresso comune e perseguendo unicamente l’arricchimento personale. In Miller l’etica protestante della ricchezza, come segno della grazia divina e della predestinazione alla salvezza, si contrappone all’etica ebraica, che  egli vede come Quoelet, segnata da un pessimismo di fondo che conserva connotazioni negative nella ricchezza come frutto di ingiustizia e idolatria. Due forze antitetiche si contrappongono: il capitalismo e il socialismo, la destra e la sinistra. La prima è una corrente di pensiero di stampo protestante e la seconda di stampo ebraico. L’etica ebraica vede nel denaro un bene/male per la sopravvivenza della comunità, la quantificazione di un concetto astratto che incarna tutti gli idoli, che sono adorati pur non esistendo. In questo, Miller riecheggia anche il contenuto dei saggi economici scritti da Ezra Pound nel 1933. L’etica protestante, base del sistema democratico americano, esalta invece della comunità  l’individuo, la libertà; Dio, in tale contesto, è visto come grazia e non come giudice.

Se la libertà, tuttavia, non è bilanciata dalla giustizia sociale ben presto qualsiasi economia crolla.

Il titolo del dramma si riferisce al tempo e al grido silenzioso delle folle disperate,

fino a quando sopporteremo tutto questo?

La pièce si conclude con questa domanda, che rimane tuttavia senza risposta: è Robertson, il personaggio alter ego di Miller stesso a porla, ma il sipario si chiude, perché per Robertson/Miller la stupidità umana è senza limite; se gli chiedono se furono Roosevelt e il New Deal a salvare l’America, egli scuote il capo e ricorda che fu la fede degli Americani nel futuro a salvarli.

Il sostrato sociale e le problematiche del dramma di Miller sono simili a quelli di Zola e si ripropongono oggi negli stessi termini, solo con effetti ulteriormente ingigantiti. Anche l’analisi di Miller è in piena consonanza con quella di Zola, solo che l’uso di strumenti d’analisi che si possono definire marxiani è in lui molto più parziale e meno consapevole che non nel naturalista francese. Quest’ultimo, pur non sposando completamente il pensiero di Marx, ne era tuttavia un profondo conoscitore, tanto che nel romanzo L’argent, un altro protagonista – Sigismonde – rappresenta molto bene i valori e gli atteggiamenti di un marxista. Nell’opera egli è il contrappunto morale della torva figura di Saccard, anche se la sua stessa vita gravita intorno alla Borsa, seppure per ragioni opposte: il suo appartamento, infatti, non è lontano dall’edificio. Nei dialoghi con Saccard, Sigismonde presenta il punto di vista dell’economia collettivista e formula previsioni di crolli finanziari futuri che rivelano una grande perspicacia. Saccard e Sigismonde rappresentano ancora due mondi che, pur contrapponendosi, possono ancora capirsi perché in quel capitalismo, il rapporto fra finanza e produzione era ancora visibile rispetto a oggi. Del resto è proprio Sigismonde a tradurre la lettera del banchiere russo per Saccard e il loro dialogo testimonia questa vicinanza discorde fra loro:

Il collettivismo è la trasformazione dei capitali privati, che speculano sulle lotte della concorrenza, in un capitale sociale unitario, sfruttato dal lavoro di tutti…”

“Oh!”, lo interruppe Saccard, “Questo cambierebbe moltissimo le abitudini di un bel po’ di gente!…” Saccard i sentiva sempre più a disagio. Se quel ragazzo che sognava ad occhi aperti, avesse detto il vero? Se avesse presentito l’avvenire? Gli argomenti che portava a sostegno delle sue teorie sembravano molto chiari e sensati. “Bah!,” mormorò per tranquillizzarsi, “Non sono cose che accadranno l’anno prossimo.” 7

Lo sguardo del marxista Sigismonde è proiettato al futuro, Saccard vive alla giornata anche se è ancora in grado di leggere le ragioni dell’altro.

Il naturalismo di Zola, tuttavia, è ben più deterministico e diverso dal modo di procedere di Marx, anche da un punto di vista metodologico; per di più lo scrittore francese ignora la dialettica hegeliana. Tuttavia, nel rappresentare  le conseguenze sociali della deriva finanziaria e nella messa a fuoco dei personaggi, Zola dimostra di avere una conoscenza realistica delle leggi economiche capitalistiche.

Miller è lontano da tutto questo, anche se si può dire che entrambi (seppure per ragioni diverse), condividano una visione pessimistica del futuro. Zola è pessimista per definizione, in quanto iper determinista nello stabilire nessi fra storia individuale, soma (in questo senso è addirittura lombrosiano), e comportamento sociale. Ecco per esempio come descrive una protagonista del romanzo:

Fu interrotto dall’arrivo di una donna enorme, Madame Méchian , ben nota agli habitué della Borsa, una di quelle miserabili e frenetiche giocatrici, che cacciano le grasse mani in ogni sorta di losche attività. La sua faccia da luna piena, gonfia e rossa, con i piccoli occhi azzurri, il naso perduto  nel traboccare delle guance, la minuscola bocca da cui usciva un’infantile vocina flautata, sembrava straripare dal vecchio cappello viola, …. e il seno gigantesco e il ventre idropico, facevano tendere fino a scoppiare il vestito di popeline verde, sbiadito e macchiato di fango.8

La figura sordida di Madame Méchian non ammette sfumature: essa è senza scampo e redenzione possibile, quasi un automa che non può agire diversamente da come fa.

Miller è pessimista per una forma di scetticismo naturale, corretto talvolta da slanci profondamente naive. L’orologio americano si conclude con un completo disastro, il sipario cala su una totale mancanza di risposte. Miller fa dire a Robertson che fu la fede degli americani nel futuro a salvare gli Usa; ma è una fede posticcia che nel testo teatrale non esiste e compare soltanto nel finale come escamotage. Del resto, attribuire alla semplice fede nel futuro la fuoriuscita dalla crisi è quanto meno risibile e anche ingenuo. Furono la Seconda Guerra Mondiale e i successivi piani di ricostruzione come il Marshall a permettere la ripresa su larga scala dell’economia capitalistica e se è vero che a un’opera d’arte non si chiede normalmente la coerenza è pur vero che il dramma di Miller si pone come realistico, in presa diretta con la realtà e non come un testo visionario.

Da esso traspare tutta l’ingenuità e il limite del pragmatismo statunitense, incapace di comprendere le leggi dello sviluppo capitalistico e infatti non è un caso che l’attuale crisi mondiale giri intorno agli stessi problemi denunciati da Miller. È questo in definitiva, il pregio maggiore di quest’opera che, non bisogna dimenticarlo, fu scritta nel 1980 e non a ridosso della grande Depressione! Miller aveva coltivato di nuovo il sogno americano dopo il disastro del ‘29, aveva combattuto il maccartismo ed è stato un militante assiduo del Partito Democratico: ma con questo dramma sembra però chiudere definitivamente i conti con tale illusione. A pochi decenni di distanza accadono le stesse cose e per gli stessi motivi: la coazione a ripetere è la spia di tale incapacità a capire. Sono cambiati soltanto le dimensioni degli effetti che la crisi provoca su un piano planetario, per il resto si tratta di un film gia visto che si ripete stancamente dalla prima crisi ‘globale’ alla borsa di Amsterdam nel lontano 1672! Saprà la cultura statunitense reagire in modo diverso dal passato? Dall’attenzione che oggi le opere di Marx hanno negli Usa si direbbe che sta nascendo una generazione di studiosi e di movimenti che affrontano in modo diverso dal passato la crisi in corso; si tratta di lavori in corso ancora sotterranei ma importanti.


5 Sui simboli di massa anche Wilhelm Reich  ha scritto pagine importanti, proprio riferendosi al nazismo: in particolare, al significato simbolico della croce uncinata e a quello delle coreografie, elaborate dall’architetto Walter Speer, che accompagnavano le manifestazioni di massa del Partito Nazista. In W. Reich Psicologia di massa del fascismo, Feltrinelli, Milano.https://psicologiadimassadelfascismo.wordpress.com/2015/08/27/svastika/

6 Èmile Zola: L’argent, (il denaro), Newton Compton, traduzione di Luisa Collodi; introduzione di Attilio Lolini, p. 70.

7 Op. cit. p. 45.

8 Op. cit. p. 32.

IL CESELLO ARRUGGINITO. Prima parte

Il denaro nelle rappresentazioni letterarie.

Introduzione

Il testo che ripubblico in questo blog, fa parte di un libro collettivo intitolato L’ideologia del denaro, tra psicoanalisi, letteratura e antropologia, a cura di Adriano Voltolin, edito da Bruno Mondadori. Il lavoro nacque all’interno del percorso di studio della Società di Psicoanalisi Critica. Il volume contiene saggi che affrontano la tematica del denaro da diversi punti di vista. Quello che spettava a me, come ambito di mia competenza era la presenza del denaro nella letteratura, un tema vastissimo e che tuttavia, non potevo affrontare senza entrare un poco nel merito dello specifico economico, anche perché uno dei testi da me presi in considerazione e cioè Il canto dell’Usura di Ezra Pound è sorprendente proprio per la capacità del poeta di rendere poetica una materia che sembra rifuggirne. Anche per questa ragione lo ripropongo nella rubrica Critica del pensiero unico e non in quelle più legate alla letteratura in senso stretto.

Del testo originale non ho cambiato nulla perché mi sembra quanto mai attuale. Tuttavia, all’inizio della premessa, esso contiene una rapida frase sul nesso fra baratto ed economia monetaria, che non mi sento più di sottoscrivere in quella forma sbrigativa. Mi sono convinto di ciò dopo avere letto due libri recentissimi che, facendo riferimento ad altrettante ricerche antropologiche sul campo, non ancora disponibili quando questo saggio fu scritto, hanno messo in discussione diversi luoghi comuni intorno alle questioni economiche, fra cui proprio la questione assai annosa del baratto. I due libri in questione sono L’alba di tutto di David Graeber e David  Wengrow (di cui in questo blog si trova già una breve presentazione)  e Il debito gli  ultimi 5000 anni di David Graeber. Infine, data la lunghezza del saggio, l’ho diviso in tre parti, lasciando l’ampia bibliografia alla fine della terza parte.         

Prima parte.

Premessa

Del denaro, della sua penuria o abbondanza, si parla e si scrive da sempre; soltanto la guerra e l’amore occupano uno spazio più ampio in letteratura. Dal momento in cui la circolazione monetaria sostituì il baratto, quanto d’arcano la contraddistingue ha occupato le menti e i cuori e fatto scorrere le penne sulla carta. La letteratura in materia è sterminata e occuparsi di tale argomento richiede prima di tutto, che si delimitino i binari entro i quali condurre un’esplorazione qualsiasi.

Mi sono ispirato a due diversi ordini di necessità: il primo è l’aderenza ai tempi in cui viviamo. La crisi capitalistica mondiale rende di bruciante attualità i discorsi sul denaro: se ne parla ovunque come mai di recente era accaduto, l’economia entra nelle case e nella vita quotidiana di tutti, sconvolge ordini sociali e famigliari; tutto questo pone un’esigenza di concretezza. Il primo criterio, dunque, è proprio quello di partire da ciò che la nuda e cruda realtà ci mette davanti agli occhi. Non è stato difficile trovare tre testi che sembrano scritti per questo. Il primo è di Èmile Zola, s’intitola L’argent (Il denaro) e fa parte del monumentale ciclo Rougon-Macquart, che consta di diciotto romanzi. Il titolo perentorio non necessita di molte note aggiuntive. Con gli altri due testi ci avviciniamo ai nostri tempi poiché si tratta di opere scritte  contemporaneamente o successivamente lo sconvolgimento provocato dalla Grande Depressione degli anni ’30, successiva alla crisi strutturale del 1929: Il Canto XLV, detto anche dell’Usura, dai Cantos di Ezra Pound e L’orologio americano di Arthur Miller, del 1982.

Questa la realtà; tuttavia, intorno denaro sono sempre fiorite le favole e anche oggi non si smette di raccontarle e di crederle. Del resto non c’è da stupirsi perché se è vero che di esso si scrive e si parla da sempre, è altrettanto vero che per millenni lo si è considerato esclusivamente in termini morali, oppure favolosi. Solo recentemente il denaro è stato oggetto d’indagine scientifica; precisamente dalla metà del Settecento in poi, quando l’economia smise di essere una questione di destino, di vacche grasse e magre, di maledizioni bibliche e successive cornucopie, per avviarsi verso la propria autonomia come scienza, seppure umana.

Uno sfondo arcano, tuttavia, permane e scriverne non può prescinderne. Intorno al denaro fioriscono le leggende, le mistificazioni interessate, si affollano gli imbonitori, proliferano le truffe, le illusioni e le depressioni; lo stesso gioco d’azzardo, che aumenta in modo esponenziale proprio nei momenti di maggiore crisi economica, sta a dimostrarlo. Bisogna tenerne conto e cercare d’interrogarsi sulla necessità di questa permanenza nella psicologia profonda degli individui e delle masse. Per farlo ho attinto all’immenso serbatoio delle fiabe, privilegiando alcuni tratti che in esse si ripetono, a qualche aneddoto e per ciò che riguarda tempi a noi più vicini ho scelto alcune pagine illuminanti tratte da Massa e Potere di Elias Canetti.

Nel pieno degli anni ’90 mi capitò di seguire un’inchiesta televisiva sulla nascente new economy, che allora nessuno chiamava ancora così. Il protagonista era un finanziere di rango che operava per una delle tante società che allora nascevano come funghi; uno di quei veri e propri guru della nostra epoca, che le definizioni giornalistiche indicano come gnomi della finanza. Si cominciava con una panoramica sui suoi appartamenti: case bellissime e senza pacchianerie, da vero signore. Seduto su un divano, però, il nostro moderno principe rivelava di lavorare, da sei anni a quella parte, per un numero variabile dalle 12 alle 16 ore al giorno (esattamente come il fruttivendolo sotto casa mia, che non chiude mai, nemmeno la mattina di Natale). Allo sgomento dell’intervistatrice egli rispondeva sorridendo che avrebbe continuato per altri due anni per poi ritirarsi e godersi finalmente la vita. L’inchiesta proseguiva e, dopo alcuni minuti dedicati ad altri protagonisti dell’economia globale, la macchina da presa inquadrava di nuovo il nostro personaggio. La rapidità della sequenza faceva pensare al telespettatore che si ritornasse al momento dell’intervista appena ascoltata; invece non era così. La giornalista, con grande abilità, aveva montato due spezzoni diversi, fra i quali la distanza temporale era di circa due anni. Alla reiterata domanda sul proprio futuro l’uomo, la seconda volta, rispondeva di non essere sicuro di ritirarsi.

Non bisogna essere il dottor Freud per capire che nel 99% dei casi questi uomini non se n’andranno mai perché il meccanismo della dipendenza agisce su di loro in forme ancor più forti, perché inconsce e nutrite dal senso di colpa. I guadagni sono talmente ingenti da creare dipendenza dalla società che permette loro di conseguirli; lasciare il campo avrebbe il sapore dell’ingratitudine, nonostante possano essere scaricati in qualsiasi momento dai loro datori di lavoro. A questo si aggiunga un altro fattore: i guadagni provenienti dalla speculazione, dai marchingegni dell’ingegneria finanziaria fino all’insider trading, largamente praticato nonostante le foglie di fico della legge, per la loro mole consistente e arbitrarietà, spingono a credere che l’accumulo di denaro si auto alimenti: quando con una semplice movimentazione di capitali, essi si raddoppiano in pochi giorni, come è accaduto per alcuni anni prima del crollo, lo scarico d’adrenalina permette di superare momentaneamente la fatica.

Questi uomini sono costretti a rimandare tutto al dopo e quello che colpiva sempre più in quell’intervista era la solitudine del protagonista, l’impossibilità d’avere rapporti stabili. Come i rapinatori di banca o i giocatori di professione essi non possono smettere, anche se sognano continuamente di farlo. L’abile giornalista fingeva di credergli e preparava molto bene le sue trappole; s’era messa nella posizione di quei personaggi femminili dei noir americani degli anni ’60, in cui il protagonista maschile dice alla bella di turno frasi del tipo: ‘faccio l’ultimo colpo e poi andiamo alle Bahamas, a Tahiti, alle isole Salomone’ ecc. ecc. La conclusione di quelle storie portava i loro protagonisti dritti dritti in un monolocale a Sing Sing, l’esito più probabile nel caso del finanziere è la consumazione rapida di ogni esperienza vitale, oppure una lunga terapia analitica; spesso entrambe le cose.

Come si possa reggere una vita del genere è facile da immaginare e tutti ne sono a conoscenza, salvo poi stracciarsi le vesti contro il narcotraffico.

Ebbene, uomini del genere, così manifestamente incapaci di capire quali conseguenze ha su loro stessi la vita che fanno, possono decidere di spostare capitali enormi da una parte all’altra del globo, chiudere e aprire società, realizzare ricchezze immense in pochi giorni o far fallire in due settimane un intero stato. Tuttavia può accadere anche il contrario: che a causa di un investimento sbagliato o del puro caso – come accadde qualche anno fa a un giovane guru inglese che aveva comprato alcune aziende giapponesi una settimana prima del terremoto di Kioto che le avrebbe rase al suolo – possano trovarsi senza nulla nel giro di una settimana.

Per ritrovare un analogo manifestarsi di tale alternanza fra disperazione ed euforia, senso di onnipotenza e annichilimento di ogni prospettiva, bisogna ricorrere alle  fiabe: una particolarmente famosa è quella dell’asino che cacava monete.

Asini che cacano monete, pesciolini d’oro e … altre bestie.

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti dei Fratelli Grimm è un testo assai complesso, la cui analisi richiederebbe un saggio intero. Riassumo la parte della vicenda che riguarda il tema del denaro.1 Il primo di tre fratelli, allontanati da casa dal padre, riceve in dono un asino magico che a comando caca monete d’oro. Naturalmente l’uomo pensa di avere risolto tutti i suoi problemi; non solo, ma diviene prodigo in modo del tutto sconsiderato, non curandosi minimamente di proteggere il prezioso segreto di cui beneficia, con il risultato che si fa rubare l’animale dall’oste presso il quale si era fermato per cenare. L’asino verrà, alla fine della fiaba, riconquistato dal fratello minore, grazie all’astuzia e alla capacità di non affidarsi semplicemente alla fortuna. Il primo dei due, infatti, ha una fiducia cieca nelle potenzialità delle facoltà magiche dell’asino, pensa che la fatica di vivere sia del tutto scomparsa, si specchia come un narciso nell’onnipotenza apparente che lo rende cieco rispetto all’inganno dell’oste. La dinamica della fiaba riflette molto bene le alterne fortune del gioco, compreso quello di borsa. Chi si affida solo alla buona sorte incappa fatalmente anche in quella cattiva, senza mezze misure: può avere tutto come può perdere tutto in un solo attimo.

Le fiabe più interessanti rispetto al tema che qui si tratta sono, tuttavia, quelle che hanno a che fare con l’avidità e la ricchezza. Sono molte e si trovano in tutte le culture: una particolarmente bella è Il pesciolino d’oro, di cui Pushkin ci ha lasciato una mirabile versione in prosa. Altre, di cui esistono diverse versioni, rappresentano molto bene le conseguenze dell’avidità. Una per tutte è quella intitolata Il pescatore e sua moglie.

Un uomo entra in possesso di un talismano magico che gli permette di esaudire ogni desiderio. Lo dice alla moglie e lei comincia ad avanzare richieste sempre più smodate, finché non chiede di diventare come dio: quando il desiderio viene formulato, la magia scompare e i due si ritrovano nella condizione di partenza.

Questa tipologia di fiabe rappresenta molto bene le conseguenze della ricerca spasmodica del godimento (che è cosa ben diversa dal desiderio e dalla sua realizzazione), ma anche l’impossibilità di sottrarsi a tale pulsione, una volta che si sia imboccata quella strada. La psicologia del nostro gnomo della finanza non è diversa da quella della moglie del pescatore!

Per concludere scelgo un’altra fiaba, ancora dei Fratelli Grimm, intitolata La giubba verde del diavolo, per i suoi echi faustiani. Eccone l’inizio:

C’erano una volta tre fratelli che allontanavano sempre il più piccolo di loro; quando vollero andarsene per il mondo, gli dissero: -Non abbiamo bisogno di te, vattene da solo-. Così lo abbandonarono ed egli dovette procedere solo; giunse in una gran brughiera ed era molto affamato. Nella brughiera c’era un cerchio di alberi: vi si sedette sotto e si mise a piangere. D’un tratto udì un rumore e, quando si guardò attorno, vide venire il diavolo con una giubba verde e un piede di cavallo. – Che cos’hai, perché‚ piangi?- disse. Allora egli gli confidò la sua pena e disse: – I miei fratelli mi hanno scacciato -. Disse il diavolo: – Voglio aiutarti: indossa questa giubba verde, ha delle tasche che sono sempre piene di denaro; puoi prenderne fin che vuoi. In compenso però voglio che per sette anni tu non ti lavi, non ti pettini non‚ preghi. Se muori in questi sette anni, sei mio; ma se rimani in vita, sarai libero e ricco fino alla fine dei tuoi giorni-.

Il protagonista segue puntualmente le indicazioni del diavolo, ma dopo un po’ di tempo tutti lo evitano a causa del suo aspetto orribile e dell’odore che emana. Per farsi accettare, allora, l’uomo compie atti di generosità continui. Di peregrinazione in peregrinazione, una sera, in un’osteria, sente piangere un uomo:

“… Il giovane gli domandò che cosa mai lo affliggesse tanto, e il vecchio disse che non aveva più soldi; era in debito con l’oste che l’avrebbe trattenuto finché‚ non avesse pagato. Allora il giovane dalla giubba verde disse: – Se è tutto qui, di denaro io ne ho a sufficienza: pagherò per voi -. E liberò l’uomo dai suoi debiti. Il vecchio aveva tre belle figlie e gli disse di scegliersene una in moglie come ricompensa. Ma quando giunsero a casa e la maggiore lo vide, si mise a gridare all’idea di sposare un essere così orrendo, che non aveva più aspetto umano e sembrava un orso. Anche la seconda fuggì via e preferì andarsene per il mondo. La terza invece disse: – Caro babbo, se gli avete promesso una sposa, ed egli vi ha aiutato nel momento del bisogno, vi ubbidirò -. Allora il giovane dalla giubba verde si tolse dal dito un anello, lo spezzò, ne diede metà alla fanciulla e tenne per s‚ l’altra; e nella prima scrisse il proprio nome, nell’altra il nome di lei, pregandola di serbare con cura la metà dell’anello. Rimase ancora un po’ di tempo con lei, e infine disse: – Ora debbo prender congedo, rimarrò lontano per tre anni, siimi fedele in questo periodo di tempo; quando tornerò celebreremo le nostre nozze. Se invece non torno sei libera, perché‚ io sarò morto, ma tu prega Dio che mi tenga in vita -. In quei tre anni le due sorelle maggiori della sposa si fecero beffe di lei e le dicevano che avrebbe avuto un orso per marito al posto di un uomo normale.”

L’uomo prosegue nel suo viaggio, comperando regali per la futura moglie e compiendo altri atti di generosità. Allora Dio s’impietosisce di lui e gli permette di arrivare indenne alla fine dei sette anni. Il giovane s’incontra con il diavolo e gli restituisce la giubba verde:

“… Poi se ne andò a casa, si ripulì per bene e si mise in cammino per recarsi dalla sua sposa. Quando giunse al portone d’ingresso, incontrò il padre; lo salutò e disse di essere lo sposo, ma quello non lo riconobbe e non voleva credergli. Allora egli salì dalla sposa, ma anch’ella non voleva credergli. Infine egli le domandò se avesse ancora la metà dell’anello. Ella rispose di sì e andò a prenderla; anch’egli prese la sua, l’accostò all’altra e si vide che le due parti combaciavano perfettamente: egli non poteva che essere il suo sposo E quand’ella vide che era un bell’uomo, si rallegrò, lo amò e celebrarono il matrimonio. Le due sorelle, invece, erano così furiose di aver perso quella fortuna, che lo stesso giorno del matrimonio l’una si annegò, mentre l’altra si impiccò. La sera, bussarono alla porta e si sentì un brontolio; quando lo sposo andò ad aprire, ecco il diavolo in giubba verde, che disse – Vedi, adesso ho due anime in cambio della tua! – “

La morale di questa fiaba è molto sottile. Non c’è atto di bontà che possa fare tornare i conti se si stabilisce un patto demoniaco con il denaro; neppure dio può farlo. Non ha alcuna importanza che le due sorelle siano rappresentate come cattive, perché questo accade in ogni fiaba. In questo caso, la novità è che c’è sempre un prezzo da pagare, anche quando a pagarlo è un malvagio! Tale prezzo può essere occulto, o altrove come nel caso dei meccanismi finanziari. Chi consegue ingenti guadagni speculativi non vede dove si è verificato il danno che fa da contrappeso al saldo positivo delle movimentazioni dei capitali che gestisce: non lo vede, ma il danno – da qualche parte – c’è sempre!

Queste fiabe tuttavia, ci suggeriscono anche altre considerazioni: prima di tutto che l’associazione fra escrementi, monete e diavolo è antichissima e nasce ben prima che Martin Lutero definisse il denaro sterco del demonio.2

Un altro esempio di comportamenti causati dall’avidità ci proviene dall’antichità e viene ripreso da Elias Canetti in Massa e potere, in un breve paragrafo alle pag. 107 e 108, intitolato Il tesoro.3 Si tratta di un aneddoto ricordato da Plutarco in La vita di Pompeo.

Durante una spedizione in Africa la flotta di Pompeo giunse nei pressi di Cartagine;  alcuni soldati s’imbatterono casualmente in un tesoro che li rese ricchi. Non appena la notizia si sparse fra i militari delle altre legioni, si diffuse la voce che i cartaginesi avevano nascosto ricchezze immense un po’ dappertutto e sotto terra. In preda a un delirio crescente l’esercito romano si sbandò, tutti si misero a scavare, le dimensioni del tesoro crescevano quanto meno se ne trovava traccia. Pompeo, prima preoccupato, decise poi di non intervenire per nulla. Osservava divertito e in disparte quanto stava avvenendo. Dopo qualche giorno il tutto si sgonfiò: improvvisamente ciò che sembrava solido, svanì di colpo. Il tesoro semplicemente non esisteva, la diceria si era auto alimentata e con la stessa rapidità si era sgonfiata di colpo come una bolla di sapone (o come la bolla finanziaria).4

Questo atteggiamento psicologico intorno al denaro o al tesoro, è ancora una volta lo stesso del giocatore d’azzardo, di cui sono note euforie e depressioni, strettamente dipendenti dall’alternanza casuale di vincite e perdite, di cui è del tutto in balìa. Più che non l’ovvia citazione de Il giocatore sono interessanti le interviste e le riflessioni di Tommaso Landolfi e di sua moglie Idolina in materia.


1 Tutte le citazioni riguardanti le Fiabe dei Grimm sono tratte dall’edizione Einaudi.

2 La maledizione del denaro colpisce sempre chi ne parla e ne scrive e dunque colpirà anche me! Il denaro è un’ascia bipenne senza manico per cui chi la impugna infligge a se stesso gli stessi danni che infligge agli altri. Il povero Martin Lutero, quando definì il denaro sterco del demonio aveva in mente, come tutti sanno il Papa di Roma e il commercio delle indulgenze. Non poteva sapere, in quel momento, che soltanto pochi decenni dopo l’etica protestante sarebbe stata la migliore culla per il nascente capitalismo

3 Tutte le citazioni dall’opera Massa e potere di Elias Canetti si riferiscono alla pubblicazione da parte della casa editrice Adelphi, per la traduzione di Furio Jesi, Milano Luglio 2002, undicesima edizione.

4 Varrà la pena di notare di sfuggita, che l’invenzione del tesoro legata a vicende guerresche o marinare, è un archetipo che viene riciclato anche ai nostri tempi: si pensi alle spedizioni alla ricerca d’improbabili tesori in navi affondate, come nel caso del Titanic e dell’Andrea Doria. La narrazione mitica, così vivida nelle parole di Plutarco, lo è altrettanto anche nella nostra realtà.

IL RITORNO/THE RETURN

Il poemetto Il ritorno fu pubblicato sul numero 9 della rivista Smerilliana nel 2008. Della redazione, insieme al direttore Enrico D’Angelo, facevano parte anche Mariella De Santis,  Alessandro Centinaro e Antonio Tricomi, ma anche Anthony Robbins collaborava già con la rivista. Ci eravamo appena conosciuti e non osai chiedergli subito se se la sentiva di tradurre il mio testo in inglese. Glielo chiesi anni dopo, quando la nostra confidenza era assai maggiore, ma la possibilità di pubblicare subito la traduzione non c’era. Anthony rispose subito affermativamente e si mise al lavoro: in brevissimo tempo la traduzione arrivò e ne ammirai subito la sapienza. In fondo, l’inglese è la mia seconda lingua per cui posso dirlo con qualche cognizione di causa. Lo pubblico ora, nel suo ricordo e in quello delle nostre discussioni sui poeti che amavamo, primo fra tutti Wallace Stevens.  

Anthony Robbins alla Triennale

        

I.

Giunsi dopo di lei alla deriva

l’oscuro già l’aveva avvolta

e quando vidi il gorgo che s’apriva

e mulinando si chiudeva

mi arrestai sgomento …

Due leggi si affrontavano feroci

due belve tatuate nella carne …

Sentivo su di me occhi segreti

e le tenebre appena alzate in volo

confondevano la scena, il mare

un sipario disteso e la platea

un cielo ed il tumulto sotto

una belva rappresa.

Quando fui pronto me li vidi accanto.

Erano in tre e il primo disse:

solo a me dovrai rispondere

va’ dunque e sii veloce,

dimentica il tuo canto

prima che il freddo ti travolga e il peso.

Così parlò il secondo:

non il tempo dovrai temere

ma la luce degli occhi

tieni lo sguardo fisso al filo.

Toccò parlare al terzo:

né il tempo né lo sguardo

ti sono nemici ma il doppio

che ognuno rode in proporzione

e l’una fiamma all’altra paga il prezzo.

Ma già non ascoltavo e più vicino

al punto dove il gorgo mi attirava

vidi l’acqua oscillare

e l’orizzonte splendere come un

diadema di pupille fisse.

Mi gettai deciso fra le urla e i flash …

Fui lesto ad afferrare il filo,

cadevo a piombo e giunsi in fretta.

II.

Il luogo era assopito nei miasmi

e un novembre eterno lo copriva,

un tonfo sordo ed isomorfo,

il vento il fiato di una iena

unico rosso un accecante faro,

l’orribile parvenza della luce.

S’agitavano le ombre nel crogiolo,

il torchio di umidi sottili

tutte le impregnava e verso il fondo

inesorabile le trascinava.

Soltanto il filo riluceva

divorava la strada verso l’alto

verso l’alto e la luce vera …

guardando dove il gioco parallelo

si trasforma in mani congiunte

vedevo la scintilla, n’ero certo

il tremito di un numero periodico,

la fragile candela dire vieni,

qui c’è una casa, un fuoco acceso …

Scendevo ancora e ad ogni balzo

usciva l’orrore dai suoi viluppi

e dalla nebbia livide le forme

e un suono d’ovatta basso e denso,

un roco fuoco di voci rapprese.

Vidi la cagna che l’aveva uccisa

con il silenzio e la mano che di lei

fu l’arma, aggrovigliata al volto

disocchiato di un amante vile …

Raggiunsi un punto vuoto

il vero fondo, là dove figure

sempre più dense e impantanate

sprofondavano e l’occhio

che le seguiva stralunava

i suoni dentro il gorgo rallentando

così che ciò che udivo e vedevo

si univa nell’impasto di ogni senso

fino al gradino ultimo del gelo.

III.

Quando tutto si calmò mi ritrovai

rivolto verso l’alto e sentivo

dietro di me scuotersi il filo

così che l’onda era per me oro

d’intimità con lei e piombo.

Mantenevo costante il movimento

ma il freddo induriva la mia pelle

più avanzavo più divenivo ghiaccio.

Risuonarono le parole del primo

e mi affrettai ma non so come

mi sembrava di essere fermo

e allora alzai gli occhi e in lontananza

vidi la scintilla, il tremolio e

fu il conforto. Ma l’attimo si spense,

alzai di nuovo gli occhi di chi implora …

………………………………………………….…….

Non è vero ciò che dissero di me

chi di noi dispone secondo legge

e muta i corpi di chi scende

e disordina ogni direzione

fece quello … Me la trovai davanti

che andava nell’opposta via,

lei la tanto amata, già divenuta

grotta di sé, parola di granito.

IV.

Balzai nell’aria come un urlo perso

e caddi come un mimo disossato.

Quando toccai la dura terra

vidi il mio strumento abbandonato

che girava già di mano in mano

e il canto un suono dissipato

correva tra le folle della spiaggia

avvelenava i figli e rimbalzava

come un eco distorto di quell’oro.

Ero solo con il mio fiato …

E vidi il quarto, il signore

dell’enigma e dell’oblio incidere

nel cerchio dove tutto è prima

che scritto il segno del silenzio

perché un altro immemore riscriva.

I.

I came well after her to the edge

the dark had already swallowed her

and when I saw the whirlpool opening

and swirling close on itself

I stopped in horror…

Two savage laws confronted each other

two beasts tattooed in the flesh…

I felt I was watched by secret eyes

and the dark just risen in flight

confused the scene, the sea

a flat curtain and the sky

its theatre, and the tumult below

a clotted wild animal.

When I was ready I saw them close by me.

Three of them, and the first said:

Only to me will you have to answer

go then and be rapid

forget your song

or the cold or your weight will whelm you.

Thus spake the second:

Not of time shall you have fear

but the light of their eyes,

keep yours fixed on the clue.

The third spake in turn:

Nor time nor their eyes

are enemies, but your double:

each wears down the other in equal measure

and each flame pays the price to the other.

But now I had ceased heeding and nearer

to where the whirlpool drew me

I saw the water dancing

and the horizon shining like a

diadem of fixed pupils.

I threw myself straight between the howls and

the lights, quickly seized the clue

fell like lead and landed straight.

II.

Sunk in miasmas the place slumbered

and endless November lay over it,

a dull isomorphous thud was

the wind like a hyena’s hot breath,

only the red of a blinding beacon

the horrible illusion of light.

The shades writhed in their melting-pot,

the press of subtle liquids

impregnated all of them and

resistless dragged them to the bottom.

Only the clue glimmered

devouring the way up

the way out to the light of day…

looking where the parallels

change to joined palms

I saw the spark, I was sure of it

the tremor of a recurring number,

the feeble taper saying come,

here there’s a home, a fire lit…

Further I descended and at each bound

the horror loomed out of its drapes

and from the livid mist the forms

and a muffled sound, thick and low,

the hoarse rasp of clotted voices.

I saw the she-hound that had killed her

with silence and the hand that was its

weapon, entangled with the eyeless

visage of a repulsive lover…

I reached an empty space, which was

the real bottom, there where figures

ever thicker, ever more steeped in mud

sank deeper, and the eye that

followed them gaped wide,

the sounds in the gorge dying down,

so that what I heard and saw

was mixed in a soup of all my senses

down to the last dread step of ice.

III.

When it all died down I found myself

looking upward and I felt

the clue quivering at my back

so that to me the wave was the gold

of intimacy with her and also lead.

I kept moving constantly

but the chill hardened my skin

and the further I went the more I froze.

The words of the first returned to me

and I hastened on, but I know not why

I felt immobile, stock-still

and so I raised my eyes and far away

saw the spark, the trembling and

this brought me solace. But the moment died

and again I raised my eyes in supplication…

……………………………………………………………….

There’s no truth in what they said of me:

he who disposes of us according to law

and changes the bodies of those who descend

and confuses all directions, he it was

who did this…I found her before me

moving the opposite way,

her the much loved, already become

a cavern of herself, a granite word

IV.

I leapt in the air like a lost shout

and fell like a boneless mime.

When I touched the hard earth

I saw my abandoned instrument

already passing from hand to hand,

and the song was a melting sound

running around the beached crowds

poisoning its sons and returning

as a twisted echo of the lyre’s gold.

Alone I was with my sole breath…

And I saw the fourth one, the lord

of the enigma and forgetfulness,

trace in the sand where all – before

being written – is the sound of silence

so that another forgetting writes again.

UN PO’ DI STORIA CON SOTTOFONDO DI CANZONI

Seguendo una trasmissione di Rai storia dedicata al ‘900, a partire dagli anni ’20, mi ha particolarmente attirato la colonna sonora, fatta di canzoni dell’epoca, di canti fascisti, di altri brani musicali provenienti dagli Stati Uniti, perlopiù swing. Tale sottofondo musicale mi era noto ma mi ha spinto, il giorno dopo, a una maggiore curiosità e quindi ho trascorso la mattinata ascoltando compilation di canzoni degli anni coincidenti con il ventennio fascista; non i canti del regime ma solo le canzoni. Le conoscevo tutte, direi al 90%, molte avrei persino potuto cantarle, tanto le ricordavo bene e la circostanza può apparire strana, visto che sono nato nel 1947. In realtà non c’è nessun mistero, la ragione la conosco benissimo, anche se mi ha colpito la persistenza così forte del ricordo. Mio padre, un artigiano intagliatore del legno, lavorava in casa e aveva sempre la radio accesa come un sottofondo che accompagna ancora oggi la mia vita. Da alunno delle elementari, fui costretto a una lunghissima assenza da scuola a causa di una nefrite e posso dire che, insieme ai fumetti e alla dedizione di mia madre quando tornava dal lavoro, fu proprio la radio di mio padre e le sue poche parole ad aiutarmi a venirne fuori. Non avevamo il grammofono e il primo giradischi lo ebbi quando frequentavo già le superiori; dal ’56 – se non ricordo male – arrivò la televisione in casa mia, ma io la potevo vedere poco. Quelle canzoni, in sostanza, potevo averle ascoltate solo alla radio e si sono impresse nella mia memoria, tanto da rimanerci fino a oggi. Il risvolto sociale, che mi appare evidente, è che esse erano il marchio di una continuità nazional popolare fra l’Italia fascista e quella repubblicana, fino agli anni ‘60. Quando ci fu la cesura? Se m’identifico con il bambino di allora, fu senz’altro Nel blu dipinto di blu (1958) anche perché, oltre che al mito che ne seguì, quella canzone è per me uno scampolo assai particolare del mio vissuto. A cantarla a Sanremo, insieme a Modugno c’era Johnny Dorelli, nome d’arte e figlio di Giovanni Guidi, in arte Nino D’Aurelio, tenore nato e vivente a Meda, provincia di Milano, dove ero nato e vivevo pure io. Nino D’Aurelio, emigrato negli Usa e poi tornato al paese, era uno dei fiori all’occhiello di Meda. Lo si vedeva normalmente in giro in paese e nei bar; ora il figlio balzava alla notorietà e lo superava. Il tragico si mise di mezzo perché Nino morì pochi giorni dopo la fine del festival e il suo funerale fu un evento che portò a Meda insieme a Dorelli, cantanti e relativi codazzi. Il paese si fermò al passaggio del feretro in un silenzio totale. L’immagine di un paese intero bloccato dal funerale di un tenore, seguito da molti altri cantanti e con aspetti di evidente curiosità da parte del pubblico, che nulla aveva a che fare con il lutto, suscitò una predica furente del parroco la domenica (me lo dissero mia madre e mio padre che l’avevano ascoltata, io già allora mi tenevo a una certa distanza di sicurezza dalle cerimonie religiose sebbene fossi molto giovane, per cui andavo alla messa delle undici che durava poco e non era cantata). La cosa sorprendente però fu un’altra e cioè che persino a una persona discretamente bigotta come mia madre, quella predica non piacque per nulla: il festival di Sanremo aveva sconfitto il parroco e nonostante il mio anticlericalismo, non saprei davvero dire se fu un bene o un male.

Tuttavia l’identificazione con il ragazzino di allora porta ad alcune incongruenze. Come prima di Toni Dallara è del ‘57 e fu anch’esso un testo di rottura assai importante, forse il primo e del ’58 è pure Eri piccola così di Buscaglione, il più anomalo di tutti, ma che certamente rompeva con il gusto precedente. Tua di Jula de Palma è del ’59 e suscitò un mare di polemiche a causa dell’interpretazione particolarmente sensuale, tanto che la rai tv non la mandò più in onda. Anche Tintarella di luna è del’59, mentre Il tuo bacio è come un rock è del ’60.

Questi ricordi e la constatazione di alcune imprecisioni mi hanno sospinto verso altre curiosità e così ho deciso di ascoltare anche una compilation di canzoni degli anni ’50 e ’60. Il quadro si è ulteriormente modificato in due direzioni, una della quali mi ha sorpreso. Insieme alle ragioni di continuità fra le due Italie, s’è fatta strada una seconda convinzione e cioè che le canzoni del ventennio le ricordavo molto di più perché erano più belle, banalmente per questo. Della compilation degli anni ’50 e primi anni ’60 ricordavo altrettanto bene solo quelle già citate, o altre, che avevano segnato una rottura nel gusto e nell’orchestrazione, mentre molte altre erano di una tale svagata pochezza che me n’ero dimenticato, pur avendole certamente ascoltate anch’esse alla radio di mio padre. Alcune, poche, continuavano senza rotture il cliché del ventennio, ma in modo sempre più impoverito oppure con effetti sempre più stranianti, per esempio nell’impostazione della voce da parte dei cantanti.

Le canzoni non sono affatto un genere sociologicamente minore di altri; anzi, alimentando l’immaginario collettivo e quotidiano, sono ed erano allora – insieme ai fumetti e agli incipienti fotoromanzi – la cultura popolare per eccellenza. I fumetti, però, ci portavano fuori dal nostro mondo a differenza di quelli precedenti (almeno ricordando quello che mi dicevano mia madre e mio padre), e precisamente verso la lontana America; per il fotoromanzo ero troppo giovane e poi era solo per donne, impensabile che a un maschio in quegli anni venisse in mente di andarlo a scoprire. Rimanevano le canzoni e quel mondo stava in bilico fra il ventennio precedente e un rovesciamento che si concluse proprio con Buscaglione, i cantautori genovesi, Gaber e Jannacci, a metà degli anni ’60. Da quel momento cominciò davvero un’altra storia. https://digilander.libero.it/AcomeChiSaiTu/saggi_borgna.html

ANNIE ERNAUX

DA GLI ANNI:

Tutte le immagini scompariranno.

Il volto di Simone Signoret sulla locandina di Therèse Raquin.

… Altri modi di pensare, parlare, scrivere, lavorare, esistere: credevamo di non avere niente da perdere a provare tutto.

Il 1968 era il primo anno del mondo.

… E noi, sul limitare di quegli anni Ottanta in cui saremmo diventati dei quarantenni, nella soddisfazione stanca di una tradizione rispettata, percorrendo i volti della tavola che in controluce sembravano neri, eravamo presi furtivamente da un senso di estraneità nel ripetere un rito di cui adesso eravamo il perno  centrale tra due generazioni. Una vertigine dell’immutabile, come se nella società non fosse cambiato nulla …

… Con un posto fisso, i nuovi nuclei famigliari aprivano un conto in banca … Da un giorno all’altro eravamo diventati gli adulti ai quali i genitori potevano finalmente trasmettere, senza sollevare moti di protesta, le loro conoscenze sugli aspetti pratici della vita, …

… Il corpo, di cui il jogging, la ginnastica tonificante  e l’aerobica assicuravano la forma e l’acqua Evian e gli yogurt la purezza interiore, continuava la propria ascesa.  

… (Le donne più giovani sognavamo di legarsi a un uomo, le ultracinquantenni che già ne avevano avuto uno non ne volevano un altro).

… I figli, soprattutto i maschi, lasciavano con fatica la famigia, il frigo pieno, la biancheria lavata, il rumore di fondo delle cose dell’infanzia. Facevano l’amore con candore nella camera vicino alla nostra. Si assestavano all’interno di una lunga giovinezza, il mondo non li stava aspettando …

Di tutte le paure repertoriate, quella dell’Aids era la più forte … Proprio nell’epoca in cui era imperativo godere in tutti i modi, la libertà sessuale tornava ad essere impraticabile … C’erano tanti disoccupati in Francia, quanti sieropositivi in tutto il mondo …

Arrivarono le elezioni presidenziali, non ci avrebbero stravolto la vita, …. Mitterand aveva logorato la speranza …

In televisione, il mondo della merce, degli spot pubblicitari e quello dei discorsi politici coesistevano senza incontrarsi. Nell’uno regnavano la facilità e l’invito al piacere, negli altri i sacrifici, le costrizioni, le formule via via più minacciose “la globalizzazion del commercio” “la necessità di modernizzaersi”.

E non invecchiavamo. Nessuna delle cose che avevemo attorno, durava abbastanza per diventare vecchia, sostituita in fretta e furia dal modello più recente. La memoria non aveva il tempo di associare gli oggetti a delle fasi dell’esistenza.

…. La ricerca del tempo perduto passava dal web.

La donna delle foto del massacro di Hocine, Algeria, che somigliava a una pietà.

Il sole accecante sui muri di San Michele visto all’ombra delle Fondamenta nuova.

Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo più.

DIARIO ARGENTINO: SECONDA PARTE

IL MONDO VISTO DA QUI.

Un libro scritto da Augusto Zamora, nicaraguense che fu ambasciatore in Spagna e che insegna diritto all’Università di Madrid, mi ha costretto a tornare alla geopolitica. Il titolo dell’opera è Politica e geopolitica per ribelli irriverenti e scettici. Si potrebbe pensare, scorrendo la sua biografia, che il suo sia uno sguardo molto europeo e invece il libro è interessante proprio per la diversità dai nostri saggi di geopolitica, che si leggono sempre meno volentieri. Inoltre, e non è poco, specialmente nella prima parte più riflessiva e teorica, il suo linguaggio ironico riesce a rendere leggera una materia di per sé piuttosto pesante. Vista dall’altra parte dell’oceano, la sua geopolitica è prima di tutto un rovesciamento del mondo in senso proprio, visto che l’analisi parte addirittura dalla cartografia, assai poco neutrale: è la prima volta grazie a lui che mi ritrovo a pensarlo. Siamo così abituati a un’immagine del mondo che una semplice proposta di capovolgimento del globo risulta divertente, estraniante, ma piena di sollecitazioni nuove. I concetti di nord e sud, di est e ovest ne escono modificati da questa semplice mossa, che tuttavia chiama in causa un secondo fattore, il prefisso geo che precede la parola politica e che riacquista tutta la sua importanza, insieme allo spazio fisico. L’analisi di Zamora parte dalla geografia e dal concetto di isola e continente isola, che si sta affermando anche da noi come linea di riflessione e paradigma. Isole e continenti isole sono l’Inghilterra, il Giappone, gli Usa. Naturalmente il fattore geografico da solo non determina la potenze e le direttrici di una politica (le isole del Tonga non sono diventate una potenza mondiale), ma mentre l’acqua separa, la terra unisce: l’Europa in questo senso è solo continentale e a rischio d’invasione da sempre (anche le invasioni interne) perché la terra le favorisce, mentre il mare le scoraggia. Inoltre l’Europa non ha il fattore unificante della lingua che invece ha il continente latino-americano, un continente isola anch’esso come il grande moloch del nord. Da questo approccio l’Europa ne esce subito ridimensionata e si capisce assai in fretta che Zamora non scommetterebbe molto sulla sua durata come entità bizzarramente unitaria e la ragione mi sembra dalla sua parte, anche se poi i modi istituzionali o pseudo istituzionali per arrivare a questo possono essere diversi. Una volta delineato in questo modo lo spazio geopolitico mondiale, Zamora sorprende una seconda volta quando cambia discorso affrontando il discorso economico. Lo fa a partire dalla filosofia di Adam Smith, un approccio che mi convinceva da prima e che mi convince ancor più leggendo il suo libro. Proprio dalla filosofia occorre partire per distinguere bene gli elementi economici da quelli puramente ideologici e politici. La rilettura di Smith da parte di Zamora è particolarmente interessante perché il sostrato filosofo che sostiene il discorso economico porta a una forma ideologica anglo-americana originale: una sintesi, le cui radici, per Zamora, risalgono alla teologia medioevale e all’Apocalisse di Giovanni.

Molta geopolitica europea ha sempre l’antipatica tendenza a essere scritta in modo da guardare sempre dal di fuori, con il distacco salottiero dell’accademia. Zamora offre strumenti e nel fare questo è talvolta pedante e didascalico, specialmente nella seconda parte del libro quando dedica alcune rapide riflessioni su tutti gli scenari geopolitici aperti, corredando il tutto con dati e non solo con interpretazioni.

Il suo affondo politico nei riguardi dell’impero statunitense o statunitense-anglo se si preferisce, comincia da questa affermazione:  

Gli Stati Uniti d’America sono il solo stato in guerra permanente dalle sue origini.

Questa frase lapidaria s’impone nella sua veridicità storica, conosciuta anche da noi, ma non vissuta nello stesso modo. Come tutte le cose troppo evidenti, essa sfugge alla vista, ma la ricognizione storica è facile. Zamora indica proprio nello stato di guerra permanente la ragione di una debolezza intrinseca e di una decadenza che è quasi inscritta anche nei momenti alti della politica statunitense. Il suo sguardo sulla Seconda Guerra Mondiale diventa così cruciale, marcando una differenza rispetto al nostro sguardo. Per i latinoamericani essa non fu mondiale: lo era per noi che ci consideriamo il centro del mondo, non per loro anche se ci furono truppe di quei paesi che combatterono in Europa. Per noi rimane sempre sullo sfondo il fatto che gli Usa furono prima di tutto i liberatori dal nazismo: per Zamora la Seconda Guerra Mondiale è una delle tante guerre combattute dagli Usa per consolidare il proprio dominio mondiale. Da questo derivano due sensazioni nette leggendo il suo libro: che i latino americani del continente sud americano non hanno alcun timore reverenziale nei confronti degli Usa (i messicani ne sono prigionieri aldilà delle loro intenzioni) anche se ne sono dominati per ragioni che conosciamo e che il libro di Zamora si muove in uno scenario che definirei post imperiale nel vedere la loro crisi in modo assai più lucido che non da noi. In un certo senso per Zamora noi siamo già in un contesto multipolare in cui gli Usa hanno perso la loro egemonia e le convulsioni della loro politica ne risultano assai più chiare, prima di tutto perché Zamora non si lascia impigliare come noi, nella falsa scelta fra le diverse alternative che di volta in volta si contendono il potere negli Usa.

Classe media e terratenientes

Sulla classe media argentina c’è davvero tanto da dire a cominciare da come si è formata. Uno fra i primi presidenti amati e odiati, è un po’ la chiave di tutto. Sarmiento, letterato, massone e illuminista, impresse una svolta alla vita pubblica argentina fondando alcune istituzioni e abitudini che hanno resistito fino ad oggi: l’investimento convinto e lungimirante nella cultura, l’istruzione gratuita e per tutti fino all’università, che gratuita lo è ancora oggi e addirittura per chi viene anche dall’estero! Si capisce anche da questo perché gli argentini suscitano l’invidia degli altri popoli latino americani, che tuttavia poi trovano proprio in Buenos Aires, opportunità che nella loro terra d’origine non avrebbero. La cultura, da Sarmiento in poi, è un patrimonio inestimabile della società argentina e basta vedere il numero delle librerie di quartiere per rendersene conto: sono sempre piene e non falliscono come da noi. Sarmiento era un uomo di destra e di certo non pensava all’istruzione in termini democratici, la pensava per gli europei che erano emigrati lì, non certo per gli autoctoni, ma ebbe un grande vantaggio rispetto agli altri leader sudamericani. In Argentina l’elemento indio è per lo più assente sia perché non ce n’erano molti a differenza di Ecuador, Perù e Bolivia, Paraguay e Venezuela, per cui i pochi al nord e al confine con il Brasile furono eliminati o fuggirono; anche l’elemento nero e africano, massicciamente presente in Colombia è qui assente. Sarmiento era classista ma si trovò ad operare in una realtà che assomigliava alla Spagna europea piuttosto che a un paese latino americano: l’elemento italiano sarebbe venuto dopo a turbare un po’ gli equilibri, ma sarebbe stato presto assorbito. Per una sorta di eterogenesi dei fini, la politica culturale di Sarmiento sarebbe risultata nel tempo progressista per tutta l’America latina. Un merito però gli va di certo riconosciuto e cioè l’accesso all’istruzione alle donne fin dalla fine dell’800 in una misura sconosciuta altrove e nonostante il suo personale machismo. Gli argentini però non lo amano molto, tutti, peronisti e antiperonisti e non è facile capire perché. In sostanza però, grazie a lui, è cresciuta una classe media non necessariamente ricca ma molto colta fin dalle origini: una classe media urbana, che paradossalmente, pur con i grandi meriti intellettuali che ha, non sembra avere influito più di tanto sulla grande politica. Arriviamo con questo al punto forse nodale di tutta la faccenda. Nessuno degli interlocutori incontrati fino ad ora ha minimamente accennato ai terratenientes, eppure sono proprio loro il vero potere occulto argentino, anche se non è del tutto chiara la natura della proprietà: sono solo latifondi o altro? Il mistero si chiarirà un  po’ meglio quando Eva e di visiteremo finalmente una grande proprietà vinicola, ma prima di arrivarci bisogna fare un giro al largo ed entrare prima nella terra argentina per eccellenza e cioè la Pampa. Ci si rende conto, allora, che Buenos Aires è un mondo a sé, seppure non nello stesso modo per cui lo sono Londra per l’Inghilterra o Parigi per la Francia. Buenos Aires è profondamente argentina e basta leggere Borges per rendersene conto; ma per conoscere davvero il paese bisogna uscire da Buenos Aires e poi ritornarci. Tandil, 160.000 abitanti ai piedi della Sierra omonima, è a circa 300 chilometri da Buenos Aires, anche se capire ben dove finisce Buenos Aires è meno facile che dirlo. Più o meno è a una distanza che separa Milano da una località a caso compresa fra Bologna e Firenze. Fra la capitale e la cittadina di Tandil ci sono solo due o tre paesi degni di nota: Las Flores e il centro più importante di Ayacucho. Il resto sono rimessaggi di auto, capannoni e pompe di benzina, empori dove si riforniscono di sementi o strumenti di lavoro i terratenientes, gauchos e altri impiegati nelle grandi proprietà, che si spostano con gli elicotteri personali per cui non li vedi mai. Pampa vuol dire grandi campi, anzi enormi, di cui non si vede la fine. In alcuni casi si vedono gli steccati che dividono una proprietà terriera dall’altra, in qualche caso ci sono i nomi dei terratenientes. Si vedono solo animali e tanto meno si vedono le ville padronali collocate al centro delle proprietà, invisibili dalla strada. Sono proprietà enormi. In lontananza si vedono gruppi di alberi sotto i quali ci sono probabilmente anche le ville. Gli animali sono allevati a brado e questo lo si può constatare con la vista: il secondo dato che appare evidente al solo sguardo è che la popolazione animale in Argentina è superiore a quella degli umani: l’Argentina è poco popolata, è terra di spazi enormi, su 32 milioni di abitanti 13 vivono nella grande Buenos Aires.

Tornando a Buenos Aires e riprendendo in mano un libro di orientamento marxista leninista sulla guerriglia argentina degli anni ’70 mi sorprende leggere che viene data ai terratenientes una scarsa importanza nelle loro analisi se non per dire che costituiscono una borghesia compradora che è però interna alla finanza globale e cioè un modo di dire tutto per non dire nulla. Mi domando come sia possibile pensare a una trasformazione dell’Argentina senza tenere conto di grandi proprietari terrieri. Ne ricavo la sensazione che proprio loro sono una sorta di tabù su cui è difficile indagare. Tuttavia la domanda chiave è forse un’altra: perché in Argentina non esiste un movimento contadino come i Sem terra brasiliani, per esempio? Forse è la struttura della proprietà terriera il vero problema? Lo capiamo meglio proprio durante la visita all’azienda agricola Trapiche, vicino a Mar del Plata. Si tratta di un’azienda enorme con tanto di vigilantes all’ingresso, ma una volta dentro e durante  il giro con la guida si capisce subito che non si stratta di un’azienda unica, ma di un consorzio di aziende diverse sotto l’egida di una sola sigla. Si comincia così a capire che, pur avendo delle dimensioni enormi e da latifondo, in realtà le grandi proprietà agricole non sono veri latifondi, ma hanno una struttura proprietaria più complessa che spiega pure perché non esiste un proletariato agricolo in grado di costituire una massa critica. I vecchi proprietari hanno scelto con una certa intelligenza di dividere le proprietà, un po’ lasciandole in eredità ai diversi figli, un po’ assorbendo quelle piccole. In sostanza il regime latifondista è corretto dalla presenza al suo interno di una stratificazione di forme proprietarie minori che vengono governate dal terratiniente di turno, ma lasciate vivere. Questo crea di fatto una differenziazione di classe all’interno del regine proprietario latifondista: poi ci sono i gauchos, gli enologi, gli agronomi, gli amministratori e tutte le professioni necessarie a far vivere la proprietà, comprese le guide e i commessi addetti alla vendita diretta dei prodotti. Non è difficile capire che si tratterà di lavoratori e lavoratrici mediamente meglio pagati di chi svolge altre professioni e in mancanza di una struttura industriale degna di questo nome, si capisce meglio il motivo per cui   gli scontri politici in Argentina – a parte i momenti di particolare crisi che fanno muovere i militari – sono sempre delle risse interne a diversi settori delle classi medie: peronisti e macristi sono entrambi subalterni alle dinamiche internazionali e quanto alla divisione cosiddetta fra peronisti di destra e di sinistra si tratta di settori diversi della stessa classe media in lotta fra loro per raggiungere le posizioni socialmente più elevate, ma  dentro una medesima logica: tutto qui. Alle favelas non ci pensa proprio nessuno e da quanto ho letto non ci pensava nessuno anche negli anni ’70. Cristina Kirchner a dire il vero cercò di spingersi oltre il compromesso silente che governa l’Argentina da decenni, imponendo una tassazione ragionevole alle grandi proprietà e cercando di intaccare il loro potere di interdizione. Pur approfittando del momento favorevole seguito alla crisi del 2000, si trovò di fronte a un dilemma: appoggiare in modo radicale i movimenti delle fabricas tomadas e cercare un’alleanza con classe operaia, coinvolgendo i settori più emarginati delle favelas, o far marcia indietro nel timore di un colpo di stato militare: scelse la seconda strada ma, nonostante questo, il tentativo non le fu mai perdonato e tutti i processi farsa e persino il recente attentato contro di lei lo dimostrano.    

25 SETTEMBRE 2022

Sono finite le caselle

della scheda elettorale, è tempo

di cambiarla e mentre colmo il poco

spazio che dal Comune mi separa

l’apro e la guardo: era il duemila

quando intonsa e all’alba di un millennio

si apriva come un libro bianco,

gli spazi di cittadinanza

ben squadrati.

                      Li ho visti svanire

uno ad uno così che il tutto pieno

è solo una sequenza

di timbri e vuoti a perdere.

Con la nuova fra le mani,

che mi accompagnerà fino alla fine,

il ritorno è uno spazio troppo lungo,

il tempo una clessidra che va a ritroso…

Maschio guerriero, maschio protettore: il paradosso mortale dentro il patriarcato

Paolo Rabissi

Odisseo e Tiresia

Il testo è stato pubblicato nel libro La psicoanalisi e la sua causa al tempo del non ascolto, a cura di Eva Gerace per le edizioni Città del sole di Reggio Calabria.

Per me uomo bianco, educato all’eterosessualità, non è poi così semplice e intuitivo l’uso della parola ‘femminicidio’. Perché il femminicidio non è il semplice omicidio di una donna, si presenta dentro una casistica articolatissima in cui a commettere violenza è ora il padre, ora il fratello, ora il conoscente anche se più frequentemente l’uccisione di una donna avviene per mano del partner abbandonato, per un altro/a ma anche no.

Non è nemmeno semplice l’uso della parola sessismo. Perché devo distinguere tra misoginia, antifemminismo e sciovinismo maschile, che, per quanto odiosi, sono componenti indiscutibili del sessismo ma meno gravi delle forme estreme di manifestazione come il femminicidio e anche la mercificazione del corpo e dell’immagine femminile che, per la sua carica razzista di fondo, del femminicidio è supporto.

Le cose cominciano ad essere più chiare quando risalendo al patriarcato, che è organizzato sulla subordinazione del femminile al maschile, ti rendi conto che il sessismo è l’insieme di idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi ecc., che perpetuano e legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, per usare le parole di Annamaria Rivera (La bella, la Bestia e l’Umano, Ediesse, 2010).


Ma infine s’impara anche che, acquisizione felice di più recenti studi antropologici, è diventato possibile storicizzare la nascita del patriarcato. Voglio dire che di fronte alla disperante nozione che affonda quella nascita nella notte dei millenni, oggi siamo in grado di datarla con una certa sicurezza a circa tre, quattro mila anni fa, che fanno in tutto solo trenta, quaranta secoli, che in fondo non è gran che: siamo in definitiva eredi di una quarantina di generazioni di Sapientes e non è più così difficile pensare che il patriarcato come è nato possa anche morire. Nel senso che intanto non solo sappiamo cosa non vogliamo ma anche quali radici abbiamo da estirpare, che poi facendo ciò si possa anche finire molto verosimilmente col togliere molta aggressività e subliminale capacità di condizionare le genti all’organizzazione capitalistica del mondo, neoliberismo incluso, non può che consolarci.


Si dice a ragione allora insistentemente: il femminicidio è soprattutto un problema di uomini e sono costoro a doversene fare carico pubblicamente. E viene aggiunto subito che riguarda tutti gli uomini, non solo alcuni uomini, che è l’aspetto più difficile da sbrogliare. Perché c’è da superare la tentazione diffusa di addebitare il femminicidio a colpi di follia esplosi in un uomo, magari apparentemente mite e innocuo: del quale solo dopo perlopiù si viene a sapere che esercitava violenze continue e di vario tipo che accumulatesi a un certo punto esplodono.


A monte dunque di questi casi, mitezza apparente ma violenza più o meno nascosta, sembrerebbe che ci sia un tipo di uomo che non ha comunque inibizioni a usare la violenza, né di educazione né di scelta volontaria. Anche se occorrerebbe aggiungere che evidentemente non gli provengono, oggi in particolare, sufficienti inibizioni nemmeno dalla scuola, dalle istituzioni, dalla politica che, nei periodi di crisi come quello che viviamo, dovrebbero far argine nella testa dei ‘violenti’.

Coloro che invece fanno argine per scelta volontaria e che non hanno mai “toccato una donna con un dito” e che dichiarano con fermezza che mai lo farebbero, sembra debbano essere automaticamente esclusi dalla categoria sospetta, il che appare a prima vista anche legittimo.

Tuttavia in questo modo da una parte la violenza viene anch’essa naturalizzata (come avviene dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna), assunta quasi a codice genetico che solo il lungo lavoro della civiltà dei costumi può modificare sottraendo l’umano alla sua ferina barbarie, mentre sappiamo che violenti si può diventare per mille ragioni. Dall’altra la mancata storicizzazione dei comportamenti cui la violenza induce, impedisce di ragionare sulle forme di violenza diverse da quelle fisiche, quelle per intenderci che all’interno della relazione impongono di fatto alla donna il rispetto dei ruoli tradizionali (la cura della casa, del cibo, dei figli, ecc.), dei suoi ‘doveri’ di madre, moglie ecc., sottraendole libertà e parità nelle scelte (in una infinita serie di varianti dovuta a condizione sociale e cultura).

Questo è forse il territorio meno esplorato perché è il più complesso, dato che oggetto dell’analisi non può essere più soltanto il maschio che si sente depositario naturale di una serie di privilegi ma la relazione stessa, soprattutto quella familiare, nella quale anche la donna, pur partendo sempre da una condizione di inferiorità, è costretta ad accettare una serie di compromessi appena compatibili con la sua soggettività nonostante ne avverta il fondo di limitazione e compressione. Si tratta di quelle infinitesimali violenze che non arriveranno mai alla ribalta di un giornale e che nessuno andrà mai a rintracciare, anche quando dal litigio tra coniugi o conviventi si dovesse passare alle mani e dalle mani al coltello. (Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà – Bollati Boringhieri 2011).

Che si tratti di violenza omicida o di quella silenziosa nel quotidiano, il nostro presente è segnato irrimediabilmente dal venir meno dei secolari privilegi dell’uomo, il che fa terribilmente comodo al neocapitalismo, soprattutto nostrano, che sollecita romanticamente il maschio in crisi al recupero di posizioni mettendo a produzione le sue passioni (basta dare un’occhiata agli spot pubblicitari). In ogni caso la violenza snuda il marchio del dominio dell’uomo sulla donna, che di individuo in individuo si caratterizza in una scala infinita di forme che la relegano nell’inferiorità fisica intellettiva e morale, che aprono la strada a umiliazione, schiavitù, de-umanizzazione, fino alla reificazione nell’oggetto sessuale di cui il maschio, che se ne sente proprietario, può decidere quando vuole la vita o la morte.

Quis fuit horrendos primus qui protulit enses ? Chi afferrò per primo le armi per la guerra? Quando al liceo negli anni cinquanta traducevamo Tibullo e Virgilio, (due specialisti nell’ipostatizzare un paradiso agreste e pastorale senza guerra del quale dopo un secolo di guerre civili non potevano che sentire la mancanza) non potevamo immaginare che cinquant’anni dopo accanto a quella domanda avremmo dovuto farne altre.

Quale frase d’amore fra due teneri amanti risuonò mai per prima dentro gli orrori della guerra: Ti proteggerò io oppure Proteggimi?

In ogni caso in quel momento la divisione dei ruoli era già cosa fatta. E non è che per se stessa non fosse cosa buona. Anche se ormai del bisogno della donna di essere protetta e accudita durante la gravidanza e il parto abbiamo conoscenza che è una costruzione culturale (non sappiamo forse che certe contadine partorivano sulla terra nuda mentre la lavoravano?), tuttavia sappiamo che ogni divisione del lavoro ha vantaggi per ogni membro di una comunità. Il problema è che poi su quella divisione di ruoli tra uomo e donna si venne incistando un sistema gerarchico di poteri che vogliono dominio da una parte e sottomissione dall’altra e che quei ruoli si sono fissati dentro una rete sempre più fitta di doveri e obblighi ‘definitivamente’, al punto che essi hanno finito con l’essere percepiti come ‘naturali’.

Quando è nato il mio primogenito agli inizi degli anni settanta, mio padre, lui che aveva scelto di fare l’artista rompendo con la famiglia patriarcale, e che la famiglia disastrata che fu costretto da quelle stesse regole patriarcali a mettere su, l’aveva appunto subita, si ricordò improvvisamente dei ‘naturali’ ruoli nei quali era stato educato e suggerì a mia moglie (già femminista) di lasciare la scuola per dedicarsi al figlio e alla casa (e a me suppongo).

Quante/i della mia generazione, che hanno steso tenere relazioni d’amore nell’epoca della contestazione antiautoritaria, sono sfuggite/i a questa codificazione di ruoli? La disponibilità a proteggere e ad essere protette, la disponibilità ad una divisione aggiornata tra l’uno e l’altra dei compiti di cura, almeno nelle coppie che hanno resistito, ha finito spesso (ma non sempre, e non così raramente come sostengono certe femministe che parlano di ‘perle rare’ dimenticando tra l’altro che in Italia sono spesso stati uomini a introdurre certi temi del femminismo), a causa dell’organizzazione sociale del lavoro che richiede tempi sempre più cogenti per la produzione e la riproduzione a discapito della relazione che ne viene soffocata, col costringere ad accettare quanto di più collaudato e comodo arrivava dalla tradizione di quei ruoli. Intendo la contrattazione tra tempi dei doveri comuni e tempi del piacere per sé. Nella quale la donna, spinta all’analisi dall’insorgenza femminista, si trovò a scoprire di godere di pochissima libertà rispetto all’uomo, di essere cioè imbrigliata in una dinamica di dominio tutta a favore dell’uomo: verso la quale non si sentiva più disponibile né tanto né poco, dimodoché anche l’uomo ha dovuto rimettere in discussione la propria identità e rileggerla storicamente. La follia da sola non spiega perché la violenza omicida si accanisca sulla donna, ma scardinare la mentalità da guerrieri dominanti che si è radicata dentro di noi in un percorso millenario non è né sarà compito facile.

Il potere che derivò un tempo al signore della guerra per essere tornato vincitore si riflette sin dentro la propria casa come estensione di dominio, nel senso che essa storicamente diventa la ‘patria’ da difendere sempre e che per la sua sicurezza deve funzionare secondo le regole che il signore ha esperito vincenti in battaglia: gerarchizzazione, obbedienza, disciplina e fedeltà. La donna ora riceve dalle mani del neo patriarca l’investitura di esecutrice fedele e disponibile di compiti ‘privati (sesso compreso)’, importanti quanto i ‘pubblici’ di sua competenza e di fatto interamente dipendenti dalle sue decisioni.

DIARIO ARGENTINO: PRIMA PARTE

5 aprile

Non ero più abituato alle frontiere: quando mi risveglio mentre l’aereo è già sopra l’aeroporto di Buenos Aires, Eva mi porge la scheda da compilare. Un attimo di smarrimento, erano anni che non capitava. Scrivo diligentemente il numero di passaporto e rispondo alle poche domande ovvie e spesso un po’ sciocche, ma di certo come per entrare negli Stati Uniti dove ti chiedono se sei comunista e appartieni a organizzazioni terroristiche. Tutto è andato via liscio, a parte la coda, ma tutto sommato leggera anche quella. La mancanza di una vera frontiera sarebbe la sola ragione che ancora mi tiene aggrappato al progetto dell’Europa comune. Troppo poco, ormai, anche perché quell’Europa ha smarrito del tutto il peraltro tenue entusiasmo dei suoi inizi. Per tutti gli altri, infine, i nostri confini sono diventati spazi di morte e di soprusi. Qui la frontiera c’è, ma l’Argentina è pur sempre un luogo in cui l’italianità è parte costituente dell’identità nazionale: “Benvenuto professore” mi accoglie in perfetto italiano l’agente che controlla il passaporto.

Buenos Aires

Se si guarda alle persone che circolano per le strade di Alto Palermo, Belgrano o Recoleta, sembra di essere in una città europea e non latino americana. La stessa sensazione la si prova osservando i palazzi: l’architettura di quelli più antichi è in stile Tudor (retaggio della dominazione inglese) o neoclassico, in quelli più moderni prevale l’influenza della Bauhaus e a Porto Madero il ponte di Calatrava ne ricorda un altro che si trova a Berlino. Berlinese è pure la presenza della vegetazione all’interno del tessuto urbano in una misura assai notevole. Non solo parchi grandissimi, ma alberi in tutte le strade: a Buenos Aires si è sempre all’ombra, la città è pur sempre nel mezzo della Pampa. Le dimensioni sono più grandi di quelle berlinesi, gli alberi possono arrivare anche fino all’ottavo piano delle case, le grandi Avenidas sono larghissime, la 9 de Julio è addirittura a dodici carreggiate. Se ci si allontana un po’ dal quartiere e si va verso la periferia ecco un’architettura che si può definire coloniale, ma le piccole case a un piano richiamano pure lo stile della villetta inglese con tanto di piccolo giardino; ancor più fuori le favelas s’intravedono solo dai mezzi di trasporto.

Il confronto con la cultura europea è certo uno dei tratti dell’Argentina e anche uno dei motivi di risentimento da parte delle altri paesi latino americani; infine manca un vero elemento indigeno autoctono (molti indios sono immigrati dai paesi limitrofi) e manca quasi del tutto l’influenza africana che è tanta parte, per esempio, di Brasile e Colombia. Tornando alla cultura in senso lato l’elemento francese predomina in molti campi a cominciare dalla psicoanalisi, la cultura italiana è largamente presente negli stili di vita e nella letteratura, mentre la finanza è ispanica o statunitense. Esiste però qualche elemento che sia inconfondibilmente argentino? Bisogna arrivarci pian piano per scoprirlo, passo dopo passo.

Siamo invitati fuori città in una zona periferica ricchissima di verde dove si trova un country, cioè un luogo attrezzato con piscina, giochi per bambini, uno spazio abitativo con venti posti letto e un quincho, cioè un locale all’aperto con una tettoia, un’ampia tavolata e un grande griglia dove si cucina l’asado. Ci accompagna in auto una coppia di giovani amici di Eva. Uscire da Buenos Aires non è come dire, ma a un certo punto arriviamo all’autostrada.

Es la Panamericana mi dice il giovane alla guida:

?Y donde vas? chiedo a mia volta.

Se puede llegar hasta a la Alaska.

La frase mi lascia senza fiato: l’idea di un’autostrada che arrivi fino all’estremo nord degli Usa, mi fa capire che siamo davvero in un altro spazio geografico. Sommando i vari pezzi di autostrade anche da noi si può arrivare fino a Kiruna e al circolo polare artico, ma a nessun europeo verrebbe in mente di dire – trovandosi in auto sulla Brennero Monaco di Baviera – che quella strada porta in Finlandia: basterebbe questo per dire che la frontiera come entità psicologica, e barriera interna esiste eccome, anche se formalmente le frontiere europee non esistono più. La frase del nostro accompagnatore invece, mi ha dischiuso un mondo, di cui avrei poi trovato conferme più volte. Geograficamente e in senso fisico c’è un sentimento diffuso d’appartenenza alle due Americhe, ovunque ci si trovi: poi esistono i nazionalismi, i contrasti con gli Usa, ma terra e natura sono comuni e non hanno confini. Le Americhe sono continenti di grandi spazi e popolazione umana rarefatta rispetto agli standard europei: la stessa sensazione l’avrei provata un anno dopo anche in Colombia.   

Il country è stato affittato da una giovane coppia con figlia di nome Amanda che compie un anno proprio quel giorno. Quando arriviamo mi sembra davvero di essere a Berlino: costruirsi la casa di campagna lungo i rami della Spree o dell’Havel è una consuetudine cui i berlinesi tengono molto. Sono luoghi rustici dove vanno a trascorrere il fine settimana. Ciò che colpisce qui sono ancora una volta le dimensioni di questo spazio. Piove e finiamo presto sotto il quincho, dove il padrone di casa Mattia, padre di Amanda e marito di Laura, sta già preparando un enorme asado; nell’attesa si fa una picada – quello che noi diremmo spuntino, oppure stuzzichini: affettati di varie genere formaggi e insalate in stile italiano a parte il salamin de Tandil e quello di Santa Fe. Sono di origine piemontese ed è l’anziano padre di Mattia  a raccontare la storia della famiglia, emigrata in Argentina a fine ottocento. Ci fu un’emigrazione italiana dal nord che riguarda un po’ tutti e che forse è meno conosciuta: liguri  e piemontesi, lombardi e veneti. La festa, i volti delle persone, il gusto semplice di una convivialità intorno al mangiare insieme sono molto italiani, tuttavia tenendo conto che le persone che vedo qui fanno parte di una classe media delle professioni, mi colpisce il tono informale, anche un po’ spartano: il quincho stesso richiama qualcosa del mondo dei rancheros, dove infondo tutti devono mettere le mani nella terra. I modi sono semplici, non hanno nulla della raffinatezza troppo esibita di un pranzo borghese di città: infine, per preparare un asado bisogna sudare e rimboccarsi le maniche. Il vino è argentino, le combinazioni sono strane, viene dalla zona di Mendoza, la regione del vino per eccellenza. Un tipo di Malbec – la marca più prestigiosa – vinse lo scorso anno un premio mondiale della vinificazioni; perché stupirsene peraltro? Il vino è una tradizione sia italiana sia spagnola, anche se quello che bevo non sempre mi convince. Ci sono molti bambini piccoli, qualche neonato e a occuparsene sono sia le giovani madri sia i padri con naturalezza, una naturalezza che ricorda anche le nostre giovani generazioni. Torneremo a Buenos Aires in auto con una giovane donna con figlio ancora in fase di allattamento: si è fatta i suoi 50 chilometri da sola, con il bambino nel seggiolino posteriore e senza grandi patemi d’animo nonostante i pianti.

Dove sta allora l’identità argentina? Esiste? Durante il pomeriggio si aprono alcune finestre: la prima è legata a un incontro. Mi avvicina un giovane uomo biondissimo, che potrebbe venire addirittura dal profondo nord europeo e invece è di origine italiana e si è avvicinato a me per questo. Comincia a raccontarmi la storia della sua famiglia, passo dopo passo capisco che si sta commuovendo. Faccio poche domande e ascolto: non è solo la sua storia, quella che prende vita nella sue parole e nel suo ricordo è una vera e proprio epopea dell’emigrazione, ma anche una forma del tutto particolare di identità. Ogni argentino potrebbe raccontare storie simili, anche Eva mi ha parlato più volte delle sue due famiglie i Gerace e i Gemelli, che si inseguono fra Calabria e Argentina, in un gioco di rimandi continui. Un paese dove l’emigrazione è identità di narrazioni, diverse ma tutte con qualche particolare che le accomuna. Forse in un certo senso avrei dovuto saperlo anche prima, tuttavia l’impatto con tale realtà è molto forte e segna un’identità nomade, sempre alla ricerca di radici, perché in tutte quelle storie c’è sempre anche qualcosa che manca: una zia con cui si era partiti insieme e che poi si è persa, un altro che improvvisamente ritorna. Si dice che l’Argentina sia il luogo dove è più facile mimetizzarsi e scomparire e forse è proprio così. Poi, insieme a tutto questo ci sono anche la hyerba mate, il tango e il calcio.

I desaparecidos, l’Argentina e noi

In Plaza de Mayo ci arriviamo il terzo giorno di permanenza: ci sono lavori di ampliamento e restauro un po’ ovunque e questo la rende un luogo estraniante, quasi anonimo in mezzo a ponteggi, gru, scavi: solo dalle fotografie è possibile apprezzare la fisonomia originale di questo luogo storico per le iniziative coraggiose e vincenti delle Madres de plaza de Mayo: sullo sfondo l’uno di fronte all’altro il Cabildo e la Casa Rosada, i simboli del potere e dell’indipendenza del paese insieme alla bandiera.  Il luogo non suscita particolari emozioni a differenza di altri due spazi che visitiamo il giorno successivo: la ex Esma e il Parque de la Memoria. Esma fu una caserma e un luogo di tortura: molti desaparecidos sono passati da qui per essere poi uccisi in diversi modi. Ora è la sede di un centro culturale intitolato a Heraldo Conti, giornalista e scrittore arrestato e scomparso a sua volta. Le iniziative che si tengono al Conti sono diverse e denotano tutte una grande ricchezza, in particolare i festival e la proposta cinematografica.

Il Parque de la memoria, invece, è uno spazio molto grande e aperto, a ridosso della città universitaria. L’iscrizione che si legge all’ingresso suona così: Parque de la memoria por las victimas del terrorismo de estado. Tale titolazione mi sorprende: che i famigliari delle vittime siano riusciti a imporre una dizione così esplicita e la formula terrorismo di stato, dovrebbe essere motivo di orgoglio per tutti gli argentini e anche per tutti noi: nella sua semplicità è un discorso sulla verità di quanto accaduto, quello che manca in Italia sulle stragi di stato che hanno costellato la vita sociale e politica italiana da Portella della Ginestra fino a quelle del 1992-3. I monumenti che contiene il Parque sono austeri e molto semplici: il museo, alcune sculture all’aperto e una serie di muri che si affacciano da uno spazio erboso leggermente rialzato, sul Rio de La Plata, in uno dei suoi punti più larghi, tanto che non si vede la riva opposta. Su di essi sono scritti i nomi degli assassinati e dei desaparecidos durante la dittatura militare (1976-1982), ma il tragico elenco comincia da prima perché gli squadroni della morte erano attivi anche nel periodo immediatamente precedente il colpo di stato. Sulla punta estrema del complesso monumentale e a ridosso della riva si può vedere, nelle acque del fiume il monumento al bambino desaparecido. Entriamo nel Museo, dove insieme alla memoria degli scomparsi c’è una sezione video dove dei bambini scampati all’eccidio si rivolgono ai loro genitori o fratelli, oppure amici e amiche desaparecidos con lettere che leggono con una dignità e un’asciuttezza di toni incredibili. È un programma che fa parte di una strategia di ricostruzione della propria personalità e di metabolizzazione del dolore proprio attraverso l’uso attivo della parola e della memoria. Proprio l’assenza di retorica fa risaltare ancora di più la forza della parola e del dolore, i loro volti, che non cedono alla tentazione della commozione, moltiplicano la nostra. Usciamo e ci dirigiamo verso i muri e la solare collina verdissima che li ospita. Sono cognomi italiani e ispanici, ebraici e in qualche caso tedeschi: c’è un mondo intero e ci sono tutte le età. Fra loro ho contato anche otto Romano e quattro Roman: non avevo mai pensato che il mio cognome potesse trovarsi fra quelle vittime.

La visita ai due musei mi ha riproposto una domanda che mi sono fatto più volte e in momenti diversi: perché non capimmo, nel 1976, che quanto stava accadendo in Argentina era la stessa cosa che era accaduta in Cile nel 1973? Perché non ci furono manifestazioni, appelli, scontri, come ci furono in occasione del colpo di stato cileno? Perché tanta cecità, che si sciolse solo sul lungo tempo e solo grazie alle coraggiose iniziative delle Madres de Plaza de Mayo? Provo a rispondere portandomi dietro un vissuto di dolore che rende ancor più urgente la domanda. La sconfitta cilena fu vissuta inconsciamente come un cambiamento di fase che ci lasciò senza fiato. Da un lato suonava come la riconferma che fosse impossibile, per le forze operaie e rivoluzionarie, raggiungere il potere politico in libere elezioni e questo ci poneva di fronte a un dilemma che si sarebbe risolto in modo drammatico nel giro di poco tempo. C’era però anche dell’altro. Durante la guerra del Vietnam, avevamo sentito e intuito che le nostre manifestazioni in Europa e negli Usa erano state un fattore decisivo nella vittoria dei vietnamiti. Di fronte al colpo di stato in Cile misuravamo invece che tutta la solidarietà che avevamo espresso anche prima in forme simboliche e concrete, non era stata in grado di influire prima e tanto meno a colpo di stato avvenuto. Era una duplice sconfitta, là e qui. Quello che era successo in Cile aveva il marchio di una chiarezza che tutti percepivano: capitalismo e democrazia sono incompatibili. Lo sapevamo e lo dicevamo negli slogan e ora lo toccavamo con mano. Oggi sappiamo dalla desecretazione di molti documenti che la preoccupazione di Nixon e di tutta la Trilateral era che l’esempio cileno potesse influenzare la scena politica italiana. In sostanza, gli avvenimenti cileni crearono una miscela di frustrazione e ripiegamento, da un lato, di fuga verso la lotta armata dall’altro. Tutto questo però non basta ancora. Che ci fosse uno scontro in Argentina fra gruppi armati lo sapevamo, i dubbi sulla lotta armata riguardavano la sua fattibilità in occidente: perché dunque non ci si mosse, rispetto a uno scenario che rimaneva diverso dal nostro e in cui l’esempio cubano era ancora vivo? Forse un’altra causa fu che l’immagine che avevamo delle forze guerrigliere argentine (PRT, ERP, Montoneros) era per noi più opaca di quanto non fosse stato lo schieramento cileno; poi c’era il problema del peronismo, che confonde assai anche gli argentini e che tanto più confondeva e confonde noi. Campora fu vissuto in Italia come un uomo potenzialmente di sinistra e forse la stessa cosa avvenne in Argentina. Infine, a ridosso del 1976, il movimento del ’77, caso unico in tutta Europa per ampiezza e creatività, ci riportò alle nostre questioni interne. Il ’77 fu diverso dal ’68 per molte cose, una su tutte: non ebbe uno sguardo internazionalista, un elemento invece essenziale nel ’68. Il ’77 fu un fenomeno che richiudeva il nostro discorso in una dimensione tutta italiana. L’America latina e non solo, diventavano improvvisamente lontane, anche se erano passati soltanto quattro anni. Quando l’Argentina emerse dolorosamente nel 1982 dalla dittatura, da noi c’era stato il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Nell’’80 la marcia del 40.000 della Fiat aveva chiuso un ciclo di lotte che era iniziato nel 1962. Eravamo in un altro mondo e quando cominciavamo ad apprendere di desaparecidos e altro, da noi era tutto finito. Il femminismo, inoltre, aveva infranto molti tabù, ma anche demolito convinzioni che avevano alimentato la sinistra extra parlamentare. L’Argentina fu presa nel mezzo, in un momento di cerniera fra due fasi che erano in realtà due continenti che si stavano separando: cominciava a finire il ‘900 e l’Argentina fu una delle faglie su cui questo terremoto, ebbe gli effetti più devastanti, mentre da noi cominciavano anni di riflusso, di riflessioni, di ripiegamenti non tutti negativi. L’89 pose fine al socialismo reale e per molti fu il segnale definitivo di una libera uscita che avrebbe portato per esempio il maggior partito comunista dell’occidente, quello italiano, a correre a vele spiegate verso l’americanismo e il neoliberismo.

Da tutto questo cominciammo a riemergere nel 1994 quando, sull’onda della rivolta zapatista in Messico, ci ritrovammo a Madrid, molto bastonati e un po’ nuovi, a un incontro internazionale dal titolo Il cerchio dei popoli. Nel ’96 sarei ritornato insieme a mio figlio in Messico presso le comunità zapatiste e ci ritrovammo per la prima volta insieme alle organizzazione che più tardi si sarebbero definite con la sigla LGBT. L’aria che si respirava a Madrid, poi nel Chiapas era fresca e un po’ ingenua:  non c’era più il soggetto rivoluzionario ma c’erano molti soggetti. Si ricominciava davvero daccapo ed era veramente così: ma questa è un’altra storia da raccontare.  

IL CAPITALE UMANO: Un film di Paolo Virzì

Premessa

La lettura di un libro recentissimo Una vita da liberata oltre l’Apocalisse capitalista di Paolo Ciccarelli, pubblicato da Derive Approdi, mi ha ricordato il film di Paolo Virzì di qualche anno fa. Ciccarelli, nel libro, usa l’espressione capitale umano per indicare il degrado non solo linguistico che l’espressione rivela e cui se ne possono aggiungere altre. Nel film possiamo vedere i prodromi di quella che sempre Ciccarelli definisce come Apocalisse capitalista.   https://deriveapprodi.com/libro/una-vita-liberata/

LO STILE

Il capitale umano di Paolo Virzì, elogiato generalmente dalla critica, a parte la gazzarra scatenata dalla Lega nord, che non rientra nei canoni del giudizio  estetico ma solo in quelli della sotto cultura politica dell’Italia di oggi, non è durato al lungo nelle sale e mi auguro che qualche cinema lo rimetta in programmazione.

L’importanza del film di Virzì sta prima di tutto proprio nel suo valore estetico e nel linguaggio cinematografico che usa, cosa di cui non sempre vale la pena di occuparsi, perché le novità in questo campo sono poche. A questo aggiungerei che il regista livornese, con quest’opera, fuoriesce dai canoni consunti della commedia all’italiana, sebbene ne mantenga qualche traccia in alcuni frammenti del film, per approdare a un’opera più matura e originale che dimostra anche la sua capacità di cambiare e sperimentare. 

Il soggetto è tratto da un romanzo dal titolo omonimo scritto da Stephen Amidon e ambientato nel Connecticut, il cuore dell’America wasp, che Virzì trasferisce liberamente in un nord Italia che spazia dalla Brianza al varesotto; un ambientazione immaginaria dal punto dei vista dei nomi inventati dei paesi, ma in realtà riconoscibilissima anche da un punto di vita paesaggistico. Le colline innevate dove si trovano le ville dei protagonisti ricordano assai paesaggi analoghi della Lombardia a nord di Milano e a ridosso dei confini svizzeri. La sala cinematografica che la signora Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi) ha la velleità di ristrutturare per farne un centro di cultura e arti, potrebbe essere collocata nel centro di Varese.

Il motore da cui prende avvio la narrazione è semplice: un incidente automobilistico, un uomo in bicicletta, investito di notte mentre se ne sta tornando a casa dopo il lavoro: sarà lui il capitale umano di cui stabilire un prezzo.

L’espediente della trama noire si sposa con la strategia compositiva e narrativa di Virzì. Dalla sequenza dell’incidente si passa al giorno dopo e a quelli successivi, quando entrano in scena i personaggi più importanti del film. Appartengono a due famiglie, ma, nel prosieguo della narrazione, tale nucleo centrale si espande a un cerchio più allargato di persone.

Lo spettatore non capisce subito perché la scelta cade su di loro, lo comprenderà strada facendo. Le vite dei protagonisti s’intrecciano istante dopo istante, come dentro un inesorabile gorgo, che farà emergere lentamente, fra le molte altre cose, anche la responsabilità di chi ha provocato l’incidente. Virzì dedica a ciascuno dei personaggi principali altrettante lunghe sequenze, accompagnandoli nella loro vita di tutti i giorni. Tuttavia, il regista livornese non si serve della modalità tipica dei film a episodi (per esempio America oggi di Altman). La tecnica è quella di riproporre, all’interno di ciascuna sequenza dedicata al personaggio in oggetto, alcune scene identiche, ma riprese da inquadrature diverse, che corrispondono ai movimenti diversi dei personaggi, approdando così a una oggettiva e coerente messa in scena che rispetta in modo rigoroso le unità di luogo, tempo e azione. Farò un solo esempio concreto.

Un momento importante del film è quando tutti i personaggi principali confluiscono in una cena sociale alla fine della quale c’è la cerimonia di premiazione di alcuni studenti. Nella sequenza dedicata al primo di loro, un uomo, lo vediamo arrivare sul luogo contemporaneamente a una donna che vi giunge in auto; lei si ferma e scoppia in un pianto dirotto, rimanendo all’interno dell’abitacolo. La macchina da presa riprende l’uomo che, non visto da lei, sbircia all’interno dell’auto, perplesso. Lo spettatore è sorpreso quanto lui perché non sa ancora il motivo del pianto, lo comprenderà solo seguendo la sequenza dedicata alla protagonista femminile. Quando, alla fine di essa, lei giunge alla cerimonia, la macchina da presa, posta all’interno dell’abitacolo, inquadra lei che guida, finché non posteggia e comincia a piangere. Sempre dall’interno dell’auto lo spettatore vede l’uomo che sbircia attraverso il finestrino mentre passa di fianco al veicolo. La scena è la stessa di prima, ma ripresa da due angoli di visuale diversi, che non sono però scelti in base alla soggettività del protagonista – la memoria soggettiva non gioca alcun ruolo nel film – ma mettono al centro la situazione in cui il personaggio si trova coinvolto. Le ragioni del pianto della signora sono assai concrete, ma riportano a un meccanismo quasi impersonale che governa la sua vita così come le altre. Alla fine, lo spettatore arriverà a comporre da solo il mosaico, o l’affresco. La cinepresa di Virzì si muove come un narratore onnisciente, ma lo spazio-tempo in cui si svolgono le vite dei protagonisti mette in evidenza come la relatività delle loro diverse azioni arrivi a disegnare una sintesi che sfugge però a ciascuno di loro preso singolarmente.

Gli antecedenti del film di Virzì si trovano in Kubrick, il primo, forse, a usare una tecnica analoga nel suo secondo film, un noir dal titolo classico Rapina a mano armata. In tempi più recenti lo hanno riproposto l’indimenticabile Yol di Serif Gören e Yilmaz Güney, ma specialmente Before the Rain del macedone Mancevski, infine Underground di Emir Kusturica. Non a caso si tratta di film sulla guerra civile nella ex Jugoslavia, oppure intorno a situazioni sociali drammatiche come nella pellicola del regista turco. Moderne tragedie che il cinema ha saputo spesso raccontare meglio della narrativa. Chi sono i personaggi del film di Virzì?

IL PROFONDO NORD.

Dino Ossola, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, è un uomo cinico, incapace di amare, ignorante e invidioso. L’ex moglie Roberta Morelli, interpretata da Valeria Golino, lo ha lasciato  e cerca in qualche modo di occuparsi della loro figlia Serena –  interpretata da Matilde Gioli – a differenza di Dino, che non capisce nulla delle inquietudini della ragazza, ma pensa solo a usarla come grimaldello per entrare nelle simpatie di Giovanni Bernaschi, interpretato da Fabrizio Gifuni: infatti, la ragazza ha una relazione con il figlio di lui e di Carla Bernaschi, Massimiliano, interpretato da Guglielmo Pinelli. Ossola ha un’agenzia immobiliare i cui affari sono modesti: riuscire a entrare con il proprio capitale nel fondo d’investimento di Giovanni Bernaschi sarebbe per lui il tanto agognato salto di qualità, l’ingresso nel grande giro della finanza, al quale si può accedere solo da una certa cifra in su, che nel caso specifico sono 600.000 euro. Le promesse di guadagni sono peraltro miracolistiche. Ossola è un parvenu senz’arte né parte, un aspirante arricchito; a differenza dell’altro, uno squalo della finanza, un uomo senza scrupoli, che ovviamente sotto sotto disprezza l’immobiliarista.

La moglie di Bernaschi vive nell’ombra del marito e gode di tutti i privilegi in quanto  sua ospite in una gabbia dorata, dalla quale improvvisamente sente il bisogno – del tutto velleitario – di uscire: l’occasione è il salvataggio di un cinema teatro, un bene pubblico che sta andando a pezzi e che lei vuole contribuire a ristrutturare con i soldi del marito. Mette in piedi un gruppo abbastanza male assortito di personaggi che dovrebbero garantire un profilo culturale alla programmazione, ma tutto andrà in fumo perché Giovanni, con lo stesso cinismo con cui aveva promesso i soldi alla moglie per darle un contentino, revoca la promessa quando le cose sembreranno andar male.

I figli delle due famiglie, Serena e Massimiliano, sono ragazzi nevrotici e sbandati: vittime? Certamente sì, ma anche complici, Massimiliano specialmente, che gode anche lui dei benefici della gabbia dorata, dalla quale non riesce a uscire ribellandosi, se non nel modo tipico di tutti i ribelli senza causa e cioè con gli eccessi cosiddetti trasgressivi: l’alcol, i Suv, tutto quell’armamentario consumistico utile a riempire un abissale horror vacui. Serena, introversa e gentile, è certamente più consapevole di lui e alla fine, sarà uno dei personaggi più positivi del film, ma in modo molto relativo perché pure lei ha un rapporto del tutto distorto con la legalità, non sa distinguere fra verità e menzogna, seppure a fin di bene. Il suo rapporto con Massimiliano è senza sbocco, vuole allontanarsi da lui ma ricade sempre nella trappola del ricatto sentimentale e del senso di colpa: pretende di salvarlo dalle sue trasgressioni e infatti, sarà proprio a causa di una notte brava in cui Massimiliano si sente male, che la sua vicenda s’intreccerà fatalmente con quella della vittima dell’incidente.

Ciò che salva Serena in qualche modo è la presenza della madre, che, pur con tutti i limiti ambientali del caso, riuscirà in alcuni momenti decisivi a esserle vicina. È la sua presenza a dare alla ragazza la forza di guardare al di fuori del proprio ambiente e d’incontrare Luca Ambrosini, interpretato da Giovanni Anzaldo. Luca è un altro ribelle senza causa, ma anche senza soldi e lavoro, o meglio con lavori precari e qualche precedente con la legge. Condivide con il rampollo della famiglia Bernaschi tutte le finte trasgressioni della sua generazione di nevrotici conformisti: aspetto da punk, musica rock, un pizzico di cultura da centro sociale, la tossicodipendenza. Serena lo sa, ma il loro rapporto è paradossalmente più sano perché lei non cerca di salvarlo, ma solo di stargli vicino: il loro è un amore fra due disperati, ma non disperato come l’altro.

L’intreccio di vite e situazioni precipita quando Giovanni Bernaschi dice a Dino Ossola che il fondo non sta andando affatto bene e che lui rischia di perdere l’intero investimento di 600.000 euro. Dino cerca di convincerlo a farsi restituire il capitale, ovviamente senza sortire effetto alcuno, né muovere alcun sentimento nell’altro. Su un piano parallelo a questa vicenda si svolge l’altra e cioè le indagini sull’incidente, che si stringono sempre di più intorno a quello che si presume il colpevole e cioè Massimiliano, il figlio dei Bernaschi. Gli indizi a suo carico sono molto gravi, tanto gravi da convincere anche i genitori che così è. Giovanni, venuto a conoscenza della cosa, non si preoccupa affatto del figlio, verso il quale ha parole di disprezzo, ma solo dello scandalo e dei fastidi che ne possono sortire; ma il colpo di scena è dietro l’angolo. Non è lui il responsabile dell’incidente ed è proprio Dino Ossola che lo viene a sapere casualmente: soltanto lui può scagionare il ragazzo raccontando alla polizia quello che sa e questo naturalmente diventa un’arma di ricatto nelle sue mani. La famiglia Bernaschi accetta, anche se il prezzo monetario da pagare  Ossola è alto, ma non più di tanto perché si saprà alla fine che il fondo d’investimento si è ripreso alla grande, grazie a speculazioni ardite.

Non è Giovanni Bernaschi che si presenta all’appuntamento per la transazione finale con Dino Ossola; alla bisogna si presta sua moglie Carla e l’appuntamento avviene proprio in quel cinema diroccato che lei avrebbe voluto ristrutturare. L’umiliazione delle sue aspirazioni velleitarie non è però finita perché tutta la scena fa pensare subito che oltre al prezzo in denaro ce ne sia un altro da pagare, una prestazione sessuale, una richiesta che anche lei si aspetta. È uno dei momenti più drammatici del film, che Virzì risolve a mio avviso in un modo magistrale; ma non dirò nulla su questo come sul colpevole dell’incidente, per non togliere il piacere di scoprirlo a chi il film non lo ha ancora visto. 

Vale la pena di considerare a questo punto la straordinaria interpretazione di tutti gli attori e le attrici di questo film, anche gli esordienti o quasi. Uno dei meriti maggiori della cinematografia italiana non solo contemporanea è proprio questa: potersi avvalere di una recitazione che viene spesso dal teatro come nel caso di Gifuni e Bentivoglio, ma anche di un linguaggio che non è fatto di effetti speciali, ma che si affida alla bravura.

TRE FINALI

Il film di Virzì offre al pubblico tre diversi finali, uno tragico che ha anche a che fare con la spiegazione del titolo, un secondo soltanto drammatico, il terzo più ottimista. Un dramma dunque, quello del regista livornese, che mantiene però, anche nel momento della speranza, un tono amaro e dolente.

Il secondo dei finali avviene durante un grande ricevimento che si svolge a casa dei Bernaschi. Il fondo di investimento è risalito, tutti i clientes di Giovanni, che lo avrebbero volentieri buttato a mare in caso di fallimento, sono di nuovo tutti radunati intorno a lui a ossequiarlo. Si sono salvati anche loro- al prezzo dello sfascio di un intero paese –  e si godono felici il pericolo scampato. È in questo contesto che Carla Bernaschi pronuncia, rivolta al marito che peraltro non se ne cura, una frase che suona al tempo stesso come la verità su ciò che abbiamo visto, ma che dal suo punto di vista, è una pietra tombale messa sulle proprie aspirazioni di donna. Il catering del ricevimento non è molto originale ma dice Carla: avresti potuto dar loro anche cibo per cani e sarebbero venuti lo stesso.

Nel terzo dei finali, la macchina da presa inquadra Luca e Serena, sorridenti e silenziosi, l’uno di fronte all’altra: è il solo squarcio di futuro che s’intravede alla fine del gorgo. È un futuro da disperati anche il loro, ma ha un percorso possibile di riscatto davanti: sono loro due e nell’ombra la madre di Serena, la piccola catarsi che Virzì ci lascia.

Due parole, infine, sui motivi che hanno fatto imbestialire i leghisti all’uscita del film. I personaggi in questione, se visti dal loro lato meno tragico, sono stati presi in giro più volte dai cosiddetti film panettone e da tutto il ciarpame della cosiddetta commedia all’italiana nelle sue forme più degradate. Tali film non hanno mai indignato i leghisti, che anzi ridono a crepapelle di quelle avventure. Qual è la differenza allora? Un conto è rappresentare le macchiette nord italiche, come hanno fatto Renato Pozzetto, Massimo Boldi e altri, un conto è togliere loro la maschera e mostrarne il volto cinico e ferino, razzista e ignorante.  

IL CINEMA ITALIANO CONTEMPORANEO.

Fra le critiche pubblicate sulla carta stampata in occasione dell’Oscar al film di Sorrentino, è emersa qui e là l’idea che il premio fosse stato dato anche per omaggiare la tradizione cinematografica italiana. I meriti ci sono tutti, la settima arte è certamente, fra  quelle contemporanee nostrane, insieme al teatro, di livello buono e talvolta eccellente, a differenza di una letteratura spesso stereotipata ed esangue. La produzione cinematografica non risente di scosse generazionali e propone insieme a grandi vecchi come I Fratelli Taviani, Bertolucci e Marco Bellocchio, un generazione di mezzo assai importante, con Moretti, Salvatores, Tornatore e Amelio, Agosti, Avati; poi i molti giovani  fra cui Sorrentino, che è pur sempre il regista di Le conseguenze dell’amore e Il Divo, prove ben più convincenti dell’ultima premiata; ma anche Garrone, Comencini, Rubino, Ozpetek e altri: e ovviamente Virzì.

Il cinema italiano è assai premiato in tutte le rassegne più importante: da Berlino a Cannes a Venezia, mentre un discorso a parte va secondo me riservato all’Oscar.

Il cinema d’autore più premiato negli ultimi vent’anni in tutti i più importanti festival, tranne che negli Usa, è quello proveniente dalle cinematografie dei paesi extra occidentali, con l’esclusione dell’India, ma per scelta propria, perché gli indiani, che hanno la cinematografia industriale più grande del mondo dopo Hollywood, hanno deciso per il momenti di puntare sul mercato interno. Oppure provengono da nazioni occidentali, ma periferiche, con l’eccezione dell’Italia.

Dal greco Anghelopoulos al cinese Yan Gi Mou, all’iraniano Kiarostami, dai turchi Serif Gören e Ylmaz Günev, al montenegrino Manchevski, dal serbo Kusturica al finlandese Kaurismaki e georgiano Ioseliani, l’australiana Jane Campion, sono questi i grandi protagonisti. Uniche eccezioni, il britannico Ken Loach e gli italiani, appunto e forse qualcun altro che avrò dimenticato.

Gli statunitensi occupano il campo del prodotto industriale e lo esportano in tutto il mondo imponendo il doppiaggio nelle lingue dei paesi ospitanti mentre rifiutano il doppiaggio in inglese delle pellicole straniere. Il cinema d’autore statunitense non gode dei favori di Hollywood, tanto che Martin Scorsese, per fare un esempio, ha girato Gangs of New York a Cinecittà e non solo per un problema di costi, ma perché il soggetto del film era ritenuto troppo anti americano e quanto a Woody Allen, poi, il suo rifiuto di Hollywood è notorio.

Quando si tratta dell’Oscar, gli americani tendono a premiare i film che si sposano meglio con la fascia medio alta del loro prodotto industriale (Spielberg è un autore fondamentale per capire questo), oppure perché incarnano i loro miti e immaginari più amati e in questo l’Italia fa la parte del leone. Non è un caso che fra tutti gli autori citati in precedenza, solo l’australiana Jane Campion con Lezioni di piano (migliore sceneggiatura),  e Kusturica, che ebbe una nomina, si sono avvicinati l’Oscar.

Nel caso specifico de La grande bellezza, cosa c’era di meglio di una Roma bellissima, di un po’ di folklore mediterraneo e di decadenza imperiale, visti da lontano? Pochi altri film sono stati più ad hoc di questo per il pubblico americano. A parte Fellini e Antonioni che sono ben altro, anche i film di Benigni e Salvatores avevano altre valenze.

Mediterraneo, però, non è il miglior film di Salvatores, ma incarnava anch’esso molto bene l’immaginario che l’establishment culturale statunitense vuole veicolare dell’Italia, mentre La vita è bella fu premiato perché il tema della Shoah è nevralgico, senza dimenticare che Train de vie, che affronta le stesse problematiche, gli è a mio avviso superiore.

Tuttavia, lo splendido Cesare deve morire dei Taviani l’Oscar non lo ha visto neppure da lontano, così come Nanni Moretti; vedremo se il prossimo anno Il capitale umano sarà per gli americani degno di uno sguardo.

BORGES

Premessa

Una prima versione di questo saggio si trova anche nella rivista A-verare, diretta da Eva Gerace.

Impossibile evitarlo se si vuole parlare di Argentina e di Buenos Aires e non solo da un punto di vista letterario. A una prima ricognizione superficiale, Borges esprime in un modo diverso rispetto a Ernesto Sabato, l’immobilità argentina e il suo mistero. Sabato ha espresso tutto ciò in un capitolo fondamentale del suo gran romanzo Sopra eroi e tombe. Il capitolo s’intitola I Ciechi. Borges esprime la medesima sensazione usando la metafora del labirinto.

Il narratore

La definizione che Borges dà della tradizione e dei modi in cui un argentino può viverla e servirsene, trova in Finzioni una rappresentazione particolarmente coerente. Lo scrittore sostiene che un argentino, non avendo una tradizione propria (ma vedremo anche come in parte si contraddirà lui stesso su questo punto), può avvalersi di tutte le tradizioni, a patto però che sappia trovare un punto di vista non canonico e canonizzato all’interno di quelle diverse tradizioni. A furia di cercare un punto di vista spiazzante, però, diventa in alcuni casi ripetitivo, tranne in quei racconti in cui non si affida solo alla ingegnosità delle concatenazioni: capolavori come Il giardino dei sentieri che si biforcano I due teologi, La lotteria di Babilonia, La casa di Asteriore, I due re e il labirinto, o Biografia di Taddeo Isidoro Cruz, L’Aleph, appartengono a quella raccolta ideale di opere del secolo scorso che avranno davanti a sé una lunga vita. In altri il gioco dell’ingegnosità finisce per diventare manieristico. C’è poi un racconto su cui occorre soffermarsi a lungo e non solo per ragioni strettamente letterarie e stilistiche: Deutsches requiem.

Il racconto non si discosta dai cliché borgesiani: un misterioso narratore racconta la storia della sua vita la notte prima di essere fucilato. Comprendiamo subito che si tratta di un nazista, tuttavia, prima di arrivare al momento in cui egli stesso lo rivela, il narratore ci fa conoscere i suoi antenati e costruisce una genealogia del tutto inventata da Borges, che gioca abilmente come sempre, mescolando dati di realtà con invenzioni, nomi che sembrano veri ma che poi  trovano solo parziali riscontri perché le date di nascita e morte risultano false. Questo il gioco. Deutsches requiem è un canto funebre, ma il titolo è spiazzante. Requiem tedesco, come se fosse la nazione stessa, attraverso le parole del protagonista, Otto Dietrich zur Linde, a pronunciare il proprio requiem; ma l’espressione significa pure che si tratta sì di un requiem dalle caratteristiche tedesche. Infine il titolo è anche quello del requiem di Brahmas e quindi con tale scelta Borges costruisce una genealogia ancor più complessa.  Seguendo passo dopo passo la storia personale del protagonista e narratore, non troviamo in realtà nulla di veramente eclatante. Si è iscritto al partito nel 1929, ha creduto che il  nazismo fosse una ribellione morale, ha creduto alla propaganda sul cosiddetto uomo nuovo, nonostante disprezzasse i suoi camerati, ha seguito tutto il cursus honorum, compresa una ferita poco eroica; finché non è stato nominato vicedirettore di un campo di concentramento ed è probabilmente questa la ragione della sua condanna a morte. Otto è dunque un funzionario medio, uno di quegli uomini che Annah Arendt avrebbe posto nella categoria della banalità del male. Tuttavia, nel crescendo che Borges abilmente imprime al testo, Otto Ditriech zur Linde assume una statura diversa, non da uomo medio, ma da agente di un destino storico: è dunque una personificazione di Hitler? No, il gioco è più sottile. Il salto di qualità inizia a compiersi dal momento in cui egli smette di parlare dei suoi antenati ed entra perentoriamente in scena: “Sono nato a Marienburg nel 1908.” Poi ci parla dei suoi interessi per la musica e la metafisica e comincia a disseminare il suo racconto di alcuni grandi nomi che hanno concorso alla sua formazione: Brahms, Shakespeare e specialmente Schopenhauer, un filosofo che torna spesso anche negli scritti di Borges. Otto prende su di sé un lembo dello scrittore, o – al contrario – è Borges a identificarsi con lui, con un sorriso sarcastico e sinistro quando gli fa dire: “Sappia, chi indugia meravigliato, …. davanti a un qualunque luogo dell’opera di quei beati, che anch’io, l’abominevole, vi indugiai.”

Chi parla è il narratore oppure è Borges stesso? Fatto sta che il ritratto di Otto assume aspetti molteplici e sinistri. Due altri nomi sono alle porte: il primo è scontato (anche per gli equivoci che si porta dietro), e si tratta di Nietsche, il secondo un po’ meno: Spengler e subito dopo Goethe, ma in modo ellittico, come vedremo. Alla fine di questo percorso di formazione Otto, all’età di 21 anni, entra nel partito nazista. Appartiene dunque a quella generazione giovane che più ha creduto, che ha vissuto la fase della irresistibile ascesa del movimento dopo la crisi del ’29.  La descrizione dei primi anni nel partito è opaca, finché nel ’39 viene ferito in modo causale e questo gli costa l’amputazione di una gamba. In ospedale legge ancora Schopenhauer, Parerga und paralipomena e accoglie la teoria della predestinazione (“… tutti i fatti che possono accadere a un uomo dall’istante della sua nascita a quello della sua morte, sono stati preordinati da lui…”), tanto cara infondo anche a Borges, così che Otto viene ad assumere sempre di più le fattezze di alter ego dello scrittore, ma anche i tratti di un’entità funesta e oscura. Otto si domanda che cosa gli ha fatto scegliere le pallottole che l’hanno ferito e quella mutilazione. Crede di trovare la risposta in uno strano discorso che per ora lasciamo in sospeso perché sarà meglio chiarito più avanti, ma le cui conseguenze sono decisive, perché è proprio alla fine di questo percorso di individuazione di sé che Otto viene nominato vice direttore del campo di concentramento: siamo nel 1941. In esso incontra un ebreo, un poeta dal nome fin troppo ovvio – David Jerusalem – tanto ovvio da sospettare che si tratti dell’ennesima invenzione di Borges. È così, ma come sempre il gioco di specchi e la macchina che travolge il lettore con la stessa logica con cui Otto dirige il campo di concentramento, richiede un passaggio ulteriore. In una nota, Borges ci avverte che nel campo di Tarnovitz, in effetti, venivano radunati e torturati molti artisti, per cui non si può escludere che in mezzo a loro ci fosse anche un David Jesusalem e che il suo nome sia stato cancellato e non trovato negli elenchi. Otto si sofferma su di lui parlandoci delle sue opere come se niente fosse, ma il suo vero intento è quello di cancellare dentro di sé qualsiasi forma di connivenza con un sentimento come la pietà. Riuscirà così a spingere Jerusalem al suicidio. Alla fine, quando questo si compie, Otto si domanda se David abbia compreso che “lo distruggevo perché … avevo capito che si era trasformato nel simbolo di una detestata zona della mia anima. Agonizzai con lui, morii con lui, in qualche modo mi sono perduto con lui; perciò fui implacabile.”

Il racconto di Borges si muove come un dispositivo a orologeria che riflette nel suo  andamento il funzionamento del campo di concentramento. A ogni dente del meccanismo che fa girare ruota dell’ingranaggio corrisponde un avanzamento del crimine ma anche della consapevolezza; finché si giunge all’epilogo, il Terzo Reich che muore. La narrazione subisce una nuova svolta che sembra in prima istanza imprevedibile, ma che lo sarà di meno quando, arrivati alla fine, saremo di nuovo costretti a ripercorre l’intero racconto dall’inizio: come sempre Borges ci ha portati dentro un labirinto, che è fatto a sua volta di molti labirinti. Improvvisamente, Otto avverte un sapore misterioso e terribile di felicità, anche se sa benissimo che la sconfitta del Reich sarà la causa della sua morte. In una escalation di grande efficacia, egli cerca nella sua coscienza le ragioni di questa felicità, ma le vive come tentazioni e questo mi ricorda un altro grande testo della seconda metà del ‘900: Assassinio nella cattedrale di Eliot. In quell’opera, l’Arcivescovo Beckett, prima di prendere la decisone che gli costerà il martirio, si domanda se nel suo atteggiamento ci sia per caso un residuo di rispetto umano; per esempio, se oltre l’amore per la verità e per il suo Dio, ci sia anche la vanità di chi cerca la gloria. Un sentimento analogo spinge ora Otto a domandarsi se nella sua improvvisa felicità ci sia qualcosa di umano troppo umano. Il primo dubbio e più ovvio è di sentirsi colpevole e quindi meritevole di una punizione che presto arriverà: è il senso di colpa cristiano. Otto va oltre: forse semplicemente è contento che la guerra stia finendo perché è stanco e prova un sentimento volgarmente umano di debolezza. Va oltre anche questo e arriva alla terza motivazione, la più elevata di tutte, ma pur sempre una tentazione: è contento della sconfitta perché è accaduta e bestemmiare contro un fatto reale è come bestemmiare contro l’universo, mentre invece di fronte a ciò che accade bisogna solo chiedersi perché e quale anello nella catena della predestinazione esso rappresenta. Otto scarta anche quella ipotesi e afferma subito dopo di avere individuato in altro la causa della sua felicità. Prende le cose da una certa distanza e cioè da una diceria – probabilmente inventata – che classifica gli uomini secondo categorie antagoniste e irriducibili entrambe destinate a seguire nei secoli la loro strada: “… gli esseri umani sono aristotelici o platonici …” La Germania incarna una delle catene di questi destini, la seconda la scopriremo dopo, anche se a pensarci bene, essa è già evidente; ma seguiamo la prima. Troviamo così che Arminio, il vincitore di Varo, non sospettava di essere il precursore di un impero germanico, ma lo fu; Lutero, traduttore della Bibbia, non sospettava che con la sua Riforma stava forgiando un popolo che avrebbe distrutto la Bibbia, ma lo fece. Fino a Hitler; ma anche a lui, Otto zur Linde, che una pallottola poco eroica tolse dalla guerra, cioè dal combattimento che porta alla gloria e che lo aveva portato a servire la causa da direttore di un campo di concentramento, diventando come “… un mago che tesse un labirinto ed è costretto a errarvi fino alla fine dei suoi giorni, o a David che giudica uno conosciuto e lo condanna a morte e poi ode la rivelazione: Tu sei quell’uomo.”

Otto è dunque il narratore segreto, colui che dice la verità su una Germania di cui Hitler è solo l’ultimo anello di una delle due catene destinali? E qual è la seconda catena? Il finale del racconto, nella sua parte più ovvia, lo dice, ma è nulla rispetto alla forza dell’invettiva e della visione terribile che pronuncia: “… Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto. Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora ne siamo le vittime. Che importa che l’Inghilterra sia il martello e noi l’incudine? Quel che importa è che domini la violenza, non la servile viltà cristiana. Se la vittoria e l’ingiustizia e la felicità non sono la Germania, siano per altri popoli. Che il cielo esista, anche se il nostro luogo è l’inferno.” Ma il cielo evocato da Otto non è quello dei cristiani ma il luogo in cui domina la violenza, l’epoca implacabile che sorgerà dalle rovine e l’inferno è solo per la Germania, ma quel cielo sarà per tutti.

Il racconto però non è finito. Fin qui il narratore ci ha raccontato la sua verità dei fatti, ma lui chi è? Le ultime quattro righe del racconto suggeriscono qualche ipotesi, ma lo sappiamo bene: da labirinto non si esce facilmente.

“Guardo il mio volto nello specchio per sapere chi sono, per sapere come mi comporterò fra qualche ora, quando mi troverò di fronte alla fine. La mia carne può avere paura; io no.”

Otto è un Cristo rovesciato, più che un Anticristo. Se, per il mito cristiano, Gesù di Nazareth si sacrifica sulla croce per salvare l’umanità intera, Otto si sacrifica per dannarla tutta e potrebbe persino pronunciare davanti al plotone d’esecuzione la fatica frase “tutto si è compiuto.” Otto ghigna ai suoi fucilatori dicendo loro che ha vinto perché ha imposto loro, per distruggere la Germania, di usare la stessa implacabilità e ferocia che ormai li ha infettati e che segnerà il destino delle epoche future: pensando all’oggi più di un brivido viene.

Dicevo in precedenza che i labirinti sono a loro volta fatti di altri labirinti, tanto più in questo racconto, costruito secondo la logica di un campo di concentramento, in cui di volta in volta, un elemento elide l’altro togliendolo di mezzo, finché alla fine non rimane nulla e nessuno, soltanto la morte, oppure il ritornare su se stesso del labirinto. E Borges dov’è finito in tutto questo? Possiamo dare diverse risposte e pensare che la frase che attribuisce a Otto quando afferma che ha spinto Jerusalaem al suicidio morendo con lui, siano riferite anche a se stesso, ma forse ripercorrendo un altro labirinto dentro quello più grande e che potrebbe essere definito anche un sottotesto o uno dei molti sottotesti di questo racconto, potremo trovare qualche risposta in più e anche riprendere qualche questione lasciata in sospeso.

Il sottotesto è la nomenclatura che costella il racconto ai suoi bordi e di cui ci siamo già un poco occupati. Anche questa non è una novità assoluta: in Borges le citazioni e la comparsa di nomi veri e inventati è costante, sia nei racconti sia nei saggi e svolge quasi sempre una funzione che non è solo stilistica, cioè il modo con cui Borges cattura l’interesse del lettore, ma anche di vera e propria narrazione altra. Alcuni di questi nomi li abbiamo già visti, altri non ancora, ma è proprio ritornando a essi a cose fatte, che alcuni di loro più di altri acquistano un significato importante. Dei primi tre e cioè Brahms, Shakespeare e Shoperhauer solo il terzo merita qualche riflessione in più. Borges delinea una cornice di appartenenze che sono anche sue, ma che hanno un peso diverso: il Bardo fa parte di un Pantheon che nessuno scrittore può ignorare, il filosofo e quel filosofo, no.

Se c’è un’antinomia nella filosofia tedesca di quegli anni è proprio quella fra Shopenhauer ed Hegel, sia perché erano contemporanei e docenti nella medesima università, sia perché la loro alterità ne fa idealmente i rappresentanti delle due catene destinali che Borges metterà in bocca al suo personaggio; e non vi è dubbio da che parte si collochi lo scrittore argentino. Dunque con questo primo nome egli allude a un pensiero e a una tradizione che sono anche sue e che si precisa meglio non tanto con il nome di Nietsche, che nel contesto mi sembra un depistaggio, ma con quello di Spengler che viene subito dopo e che è la premessa di una digressione che continua anche in una nota: abbiamo lasciato in sospeso proprio questo passaggio. Dopo avere citato il filosofo della storia e scrittore, Otto cambia discorso e riferendosi a un autore del diciottesimo secolo che si comprenderà essere Goethe, afferma che “… nessuno vuol essere debitore dei suoi contemporanei; io, per liberarmi di un’influenza che sentivo opprimente, scrissi un articolo intitolato Abrechnung mit Spengler…” Spengler era un autore molto celebrato e discusso in tutta Europa agli inizi del ‘900 e poi relativamente dimenticato. Borges lo resuscita e lo mette al centro del racconto, ma l’anomalia sta nel titolo dell’articolo scritto che attribuisce a Otto e il cui significato è fare i conti con Spengler o addirittura resa dei conti con Spengler. Il libro più famoso di quest’ultimo è Il tramonto dell’Occidente, al centro del quale c’è un concezione della storia che applica alle civiltà la stessa dinamica che appartiene ai corpi umani: nascono, invecchiano, muoiono. Spengler ritiene tuttavia che sia anche possibile individuare i segni che indicano lo stato in cui si trova una civiltà e per quanto riguarda l’Occidente, l’ultima delle civiltà che prende in considerazione, essa sarebbe ormai destinata all’estinzione, visto che secondo lui, fin dal diciannovesimo secolo, si affida ormai a modelli culturali che per Spengler sono già morti. Qualcosa di analogo trova in poesia anche nell’opera di William Butler Yeats. Sono tutti autori che fanno parte di un Pantheon ideale di Borges, ma poiché quelle di Spengler non sono metafore ma una concezione della storia, ecco che il suo libro può essere inteso in un senso destinale e dunque assai prossimo alle concezioni di Shopenhauer. Rimane da capire perché il probabile alter ego di Borges e cioè Otto Dietrich zur Linde voglia una resa dei conti con Spengler: in che senso lo dice? Borges risponde a modo suo e cioè disseminando di indizi la scena del crimine e obbligando il lettore a improvvisarsi detective. Spengler aveva definito quella occidentale una società faustiana, riferendosi evidentemente a Goethe, solo che per Otto-Borges “… il monumento in cui appaiono più chiari i tratti che l’autore (Spengler) definisce faustiani, non è il composito dramma di Goethe, ma … il De rerum natura …”

La perfida nota che Borges inserisce a questo punto del testo, chiude il  cerchio e chiarisce. La resa dei conti con Spengler consiste in questo. Goethe è ancora il prototipo di una comprensione ecumenica e dunque cristiana, mentre l’uomo veramente faustiano è quello di Lucrezio, che scopre il mondo solo nel momento in cui si è liberato di tutti gli dei; ma il compimento destinale dell’uomo faustiano è quello di trascinare nella sua morte il mondo intero. Il filosofo della storia Spengler andava dunque portato alle estreme conseguenze, cosa che Spengler uomo non seppe fare perché, nazista della prima ora, si tirò poi indietro, a differenza di Otto Dietrich zur Linde.  E Borges? In quest’ultima frase ho rotto di nuovo il legame fra lui e il suo alter ego e mi sono domandato se lo scrittore argentino sia andato o no fino in fondo oppure abbia trovato il modo di uscire dal proprio labirinto. Credo di avere trovato la risposta che consentirà anche a me – finalmente – di uscire dal labirinto, in un saggio di Borges dal titolo Emmanuel Swedenborg, ma anche in una presa di posizione chiara in cui lo scrittore dichiarava di essersi sempre augurato la sconfitta di Hitler e del nazismo. Il pretesto per scrivere del filosofo svedese glielo fornisce Voltaire, che esalta Carlo XII come uno degli uomini più eccezionali della storia. Borges obietta che non lui, ma un suo illustre suddito merita un giudizio di eccezionalità e costui è proprio Swedenborg.

Il ritratto che Borges ne fa è assai interessante e del resto che si tratti di una figura eccezionale è del tutto vero in questo caso. Lo si potrebbe definire il Leonardo da Vinci del nord Europa, sia per la vastità degli interessi sia per il tipo di cultura olistico-rinascimentale che nel 1600 e tanto più nel 1700 era già tramontato nell’Europa occidentale e meridionale. Forse proprio per questo da noi è poco conosciuto, perché fuori tempo. Swedenborg appartiene a quella schiera di umanisti che in Italia e in Europa si chiamano Pico della Mirandola, Leonardo, Marsilio Ficino, Paracelso. Sono tutti grandi figure di eruditi che mantenevano però una concezione olistica del pensiero e del mondo e che spesso si trovavano sul crinale fra scienza, magia ed esoterismo, fra chimica e alchimia, a parte Leonardo, il più moderno fra loro. Sono tutti uomini travolti e superati dalla rivoluzione scientifica e dalla grande sistematizzazione di Cartesio, che li ha relegati in un tempo anteriore, ma anche in un filone della cultura europea che di solito si raccoglie nella definizione di irrazionalismo, della cui congruenza o meno non intendo qui occuparmi. Nel nord Europa, la loro influenza durò più a lungo, ma non bisogna dimenticare neppure che il più grande scienziato della prima modernità e cioè Newton, fu per molti anni sullo stesso crinale. L’uomo che con i suoi calcoli, le sue parabole, la legge della gravitazione universale contribuiva a demolire definitivamente l’universo tolemaico, l’uomo che giocava in borsa, era lo stesso che per lunghi anni si dedicò ad esperimenti  alchemici e che vagheggiava una riforma religiosa che non aveva le sue radici in quella protestante ma in una visone esoterica del cristianesimo. Di questo retaggio umanistico-rinascimentale Swedenborg fu certo l’esponente più importante e inaugurò un filone di pensiero europeo minoritario ma sempre presente, che avrebbe avuto in William Blake e i suoi Libri profetici il suo ultimo e più importante esponente. E cosa c’entra allora Borges con tutto questo e per quale ragione sceglie proprio Swedenborg ripercorrendo le tappe della sua formazione e della sua opera in Svezia e poi a Londra e un po’ dappertutto in Europa? Più leggevo il saggio e più mi rendevo conto che forse parlare di lui era un modo traslato per parlare di sé. Fino che punto regge un’eventuale identificazione di Borges con Swedenborg e fino a che punto può costituire un altro nome di quel pantheon ideale di Borges che comprende la nomenclatura che abbiamo visto nel racconto Deutsches Requiem? Swedenborg di quella nomenclatura fa parte anche se Borges non lo cita nel racconto, ma il panegirico che ne fa nel saggio ci aiuta a capire meglio i suoi riferimenti.  I punti di contatto ci sono eccome anche se lo scrittore argentino non ha mai avuto l’ambizione del riformatore religioso; ma se pensiamo agli aspetti pre moderni in lui, al suo enciclopedismo erudito, alla vastità dei suoi interessi e anche a un certo stile personale aristocratico, Borges assomiglia assai di più a un umanista europeo, anche se i suoi riferimenti filosofici sembrano andare in una direzione diversa. Trascurando momentaneamente questo aspetto, i lati umanistici nella sua opera e nel suo stile ci sono eccome e del resto. Borges, pur essendo venuto in contatto con l’avanguardia europea negli anni ruggenti (era a Parigi e a Madrid negli anni ’20 e ’30), se ne allontanò subito ritornando in Argentina. Il suo circolo e non solo lui, pur continuando a guardare all’Europa e specialmente alla Francia, era ben determinato a fondare in Argentina una tradizione autoctona, a cominciare dalla madrina di Borges e del gruppo che si radunò intorno a lui e cioè Victoria Ocampo, fondatrice della rivista Sur e mecenate, oltre che grande intellettuale del suo tempo. Borges, all’interno del gruppo era di certo il più pre moderno e dunque una certa identificazione con Swedenborg è realistica e forse almeno in lui c’era l’ambizione di fondarla sul serio una tradizione argentina e questo poteva essere fatto solo abbandonando l’avanguardia europea: la parodia e la dissacrazione sono utili dove una tradizione c’è già stata e non dove deve invece formarsi. Esiste però un legame fra questo modello umanistico e il racconto? Esso va visto a mio avviso nella convinzione latente in Borges che il destino dell’Occidente non coinvolgesse l’America latina e l’Argentina in particolare. C’è infatti un’ultima battuta di Otto Dietrich zur Linde di cui non ci siamo ancora occupati e cioè quando nel finale afferma: “… che importa se l’Inghilterra è il martello e noi l’incudine…” Borges mette sulle labbra di Otto una frase vistosamente parziale che sicuramente è più sua che non del suo personaggio. Nonostante il ruolo che l’Inghilterra ebbe nella prima  parte della Seconda Guerra Mondiale, Borges fa finta di non sapere che senza il contributo di Stati Uniti e specialmente dell’Unione Sovietica con il suoi 70 milioni di morti, la guerra sarebbe durata ancora a lungo e non è neppure detto che i nazisti l’avrebbero persa! Nel binomio Inghilterra Germania Borges vede consumarsi una tragedia da cui spera di salvare l’America Latina e di salvarsi lui stesso, conservando di quel mondo solo alcuni riferimenti filosofici: Swedenborg come modello di umanista, Hume e Berkeley come filosofi e cioè lo scetticismo assoluto dell’empirismo britannico. Questo è il sogno che Borges attribuisce ai suoi dei, al centro del quale mette se stesso come via di mezzo fra un aristocratico inglese del 1700 e un anarchico di destra di primo ‘900, un po’ gaucho. Quel sogno, tuttavia, aveva al suo centro il buco nero di un colossale rimozione: gli Stati Uniti d’America e i troppi esuli fuggiti dall’Europa, vittime dei peggiori cattivi maestri. I guai cominciarono negli anni ’60 e ancor più ’70. Fino a quel tempo, infatti, l’eccentricità del continente latino americano e il suo decentramento rispetto alla tragedie immani del ‘900 europeo, lo avevano preservato e poco importa se qualche reggimento di quei paesi si era schierato con questo o quell’altro esercito dei vecchi colonizzatori. L’America Latina restava ai margini della grande storia, in una specie di limbo, fatto anche di eccellenze. Tutto questo cominciò a finire con Peron ma ancor più con la rivoluzione cubana del 1959. Borges se ne accorse eccome e per questo fu violentemente antiperonista più che anti castrista, ma il limbo era destinato per forza di cose a finire e l’intera America Latina sarebbe stata trascinata al centro dello scontro fra est ed ovest. Finiva la sua eccentricità e con essa finiva il sogno aristocratico di Borges e cominciarono anche certe sue dichiarazioni che possono essere lette in tanti modi, ma prima di tutto e aldilà del loro contenuto direttamente politico, proprio come un sentimento struggente di perdita, la nostalgia irriducibile per un sogno svanito nel nulla.         

HANNAH ARENDT: SULLA VIOLENZA

“L’ apocalittica” partita a scacchi fra le superpotenze, cioè fra coloro che si muovono sul piano più elevato della nostra civiltà, si gioca secondo la regola per cui “se uno dei due ‘vince’ è la fine per entrambi”; è un gioco che non somiglia a nessuno dei giochi di guerra che lo hanno preceduto. Il suo scopo “razionale” è la deterrenza, non la vittoria, e la corsa agli armamenti, che non è più una preparazione alla guerra, può essere giustificata soltanto in base alla tesi che un potenziale deterrente sempre maggiore è la garanzia di pace.

Alla domanda se e come saremo mai in grado di districarci dall’ovvia insania di questa posizione, non c’è risposta.”

KANT

Premessa

Il 5 dicembre 1783, in risposta a una domanda – Che cosa è l’illuminismo – Kant scriveva una lunga riflessione, di cui riporterò qui di seguito solo alcune parti. Piuttosto che citare altri brani più esplicitamente contro la guerra, scritti dal filosofo e peraltro richiamati spesso in questi giorni, mi sembra che il suo discorso sull’illuminismo – sul movimento illuminista in quanto tale ci sarebbero molte altre cose da dire e non tutte positive – sia ancora più importante riguardo a un aspetto vistoso della situazione attuale: l’ingiunzione a non pensare e a bollare qualsiasi ragionamento critico come sospetto di collusione a quello che il pensiero dominante elegge come nemico del momento. Nella parte finale dello stralcio, Kant nomina alcune delle categorie che ai suoi tempi, si facevano portavoce dell’ingiunzione a non pensare. Alcune di esse sono sorprendentemente attuali, altre – nel mondo rovesciato in cui viviamo – sembrano meno attuali se pensiamo per esempio a Bergoglio o a certi articoli su riviste economiche; altre, infine, mancano come per esempio i giornalisti dediti al Karaoke imposto dai loro padroni piuttosto che alla ricerca delle  notizie.  


L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenzasenza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude!Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo.Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall’altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E’ così comodo essere minorenni!E’ dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova …  A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!)

LA SCUOLA CATTOLICA DI EDOARDO ALBINATI: TERZA PARTE

Cronaca del delitto del Circeo

In alcune interviste, Albinati ha corretto leggermente il tiro rispetto allo spunto iniziale del suo libro, dichiarando che in realtà a spingerlo a intraprendere quest’avventura narrativa, era stato il secondo delitto compiuto da Angelo Izzo, molti anni dopo il primo. Le ragioni le spiega lui stesso. Avendo avuto per compagni di scuola gli autori del delitto del Circeo e altri più o meno legati allo stesso ambiente, Albinati afferma che un sentimento legittimo di rimozione aveva lasciato nel fondo della sua memoria la vicenda, ma che al riproporsi anni dopo di un secondo delitto altrettanto efferato, tacere (prima di tutto a se stesso), non era più possibile: l’etica e la necessità di una scrittura si capiscono anche da questo e allora vorrei dire subito che il romanzo di Albinati è profondamente etico e anti moralista. Nella quarta di copertina, infatti, sta scritta una frase lapidaria e cioè che il problema riguardante la verità è se dirla o non dirla e la verità secolarmente negata che è al centro di questo romanzo, è proprio la trasversalità della violenza maschile sulle donne, la sua impermeabilità ai cambiamenti, persino a quelli della lunga durata per dirla con Braudel. Qui sta una delle novità del romanzo che, ricostruendo l’educazione al maschile, va a mettere in discussione un luogo comune e cioè che, sebbene non tutti stuprino, l’infezione del linguaggio e degli stereotipi maschili è comune anche a chi non arriva alla violenza pura e semplice. Sulla necessità di questa presa di coscienza etica ritorneremo in sede conclusiva.   

Per ritornare al delitto in senso stretto Albinati sceglie la via maestra del romanzo saggio: cita i documenti ufficiali, persino la cronaca giornalistica. Il capitolo in questione è il decimo. Consiglio di leggerlo attentamente quel capitolo perché io stesso pensavo di ricordarmi tutto e invece la nuda narrazione oggettiva di Albinati svela, a distanza di anni, uno degli aspetti più sorprendenti del delitto: la casualità delle azioni dei protagonisti, l’interscambiabilità fra l’uno e l’altro di loro e dei ruoli, la mancanza di una vera premeditazione e al contempo l’automatismo dei gesti, scissi da una narrazione immaginaria, folle e lucida al tempo stesso, da parte di Angelo Izzo. Ci sono almeno altre due donne che avrebbero potuto essere vittime dei tre e che hanno schivato quella fine solo per puro caso, così come ci sono almeno altri due o tre uomini che potevano essere al posto di altri due o sommarsi a essi; il solo protagonista non intercambiabile è Angelo Izzo.

Il mix di serialità, casualità, automatismo, che rimanda a un film come Arancia Meccanica, fanno di quel delitto qualcosa di nuovo.

Apro una parentesi personale. Ho avuto per anni una frequentazione di Roma non occasionale, tanto da poter dire che in essa ci ho vissuto, ho amicizie durature e importanti come quelle che ho a Milano. C’è un’espressione che ho sentito usare più volte da amici e amiche romane a proposito del delitto del Circeo e che mi è ritornata in mente proprio leggendo il romanzo di Albinati: fu la perdita della nostra innocenza. La medesima espressione molti milanesi della mia generazione la usarono per definire il sentimento di sgomento dopo la strage di Piazza Fontana. Cosa può giustificare l’uso di un’espressione così forte per due crimini apparentemente così diversi? Perché hanno in realtà molti tratti in comune, non tanto per una superficiale appartenenza politica dei soggetti in questione, fra l’altro assai labile,10 ma per ragioni assai più profonde e che soltanto pochi anni prima sarebbero state invisibili per la coscienza collettiva.

Sebbene la rottura fra il nascente femminismo e i movimenti nati nel 1968, ha una possibile data ufficiale nel 6 dicembre del 1975 11 ed è quindi successiva al delitto del Circeo, ciò che il femminismo aveva iniziato a significare era visibile ben da prima, la pregnanza di uno slogan come il personale è politico non poteva essere elusa (se mai rimosso allora come oggi dalla coscienza di molti uomini) e dunque il delitto del Circeo non poteva essere derubricato, come sarebbe accaduto soltanto una decina d’anni prima e forse meno, come un delitto qualunque, un episodio estremo come ce ne sono stati tanti prima e dopo di esso.

Dirò di più: forse, solo dieci anni prima un delitto di tale efferatezza nelle sue modalità non sarebbe stato neppure possibile per le menti stesse dei suoi autori. In esso, infatti, si concentra una vendetta che è al tempo stesso di classe e di genere, (Donatella Colasanti e Rosaria Lopez erano due giovani donne proletarie) tanto efferata da far pensare a una punizione e a una reazione, non semplicemente a un atto di stupro come da millenni ne esistono. Riflettendo allora sul Törless di Musil, che peraltro Albinati cita espressamente in un capitolo del suo romanzo, ho pensato che non è tanto quel romanzo a lambire come riferimento letterario quello di Albinati, ma che – al contrario – è quest’ultimo romanzo a permetterci di allargare il campo delle interpretazioni possibili e delle valenze del romanzo di Musil medesimo. L’iniziazione al maschile, nel Törless, era dettata da regole che sconfinavano nella violenza pura e nel sadismo; ma per molta critica l’opera era lo squarcio di una società che manifestava gli scricchiolii sinistri e che anticipavano, come certe pitture di Egon Schiele o di Otto Dix, l’avvento del nazismo. Ho sempre diffidato di queste interpretazioni fondate sul senno di poi, ma rileggere oggi il romanzo di Musil, alla luce di quello di Albinati, suggerisce che anche quell’opera rivela aspetti che la critica non ha affatto colto, o solo in parte, e cioè nel senso di vedere solo nella cultura nazista incipiente i germi di una violenza che sarebbe esplosa come un fattore puramente irrazionale nel cuore della civile Europa del ‘900, ma da cui la gran parte della cultura europea era infondo estranea.

Gli atti di sadismo compiuti nei confronti di Basini, hanno invec una radice esplicita nel suo essere effeminato, cioè un non maschio. La sua omosessualità è quindi una colpa che va punita, aldilà dell’occasione che provoca gli atti di sadismo, culminati nello stupro ripetuto, di cui Basini diventa oggetto. Il furto che egli ha commesso e che i suoi compagni d’arme conoscono, è l’occasione che fa scattare un ricatto cui Basini è predestinato più di altri proprio a causa della su omosessualità. La mancata denuncia alle autorità superiori del furto medesimo, che sarebbe costata l’espulsione del ragazzo, è parte integrante dell’educazione militare e forse non lo era di meno anche nei collegi religiosi, dove il rispetto della regola formale entra sempre in contraddizione con una regola maggiore che sovrasta l’istituzione e cioè che la titolarità dei cosiddetti valori che l’ispirano è di ogni singolo e non solo dell’autorità; tanto che molti dei cosiddetti abusi vengono incentivati dall’autorità stessa. Chi ha fatto il militare sa bene che una buona dose di bullismo è sollecitata dagli ufficiali e basta ricordare Full metal jacket di Stanley Kubrik. Proprio la vicenda di Basini e il suo stupro ripetuto in quanto ritenuto non maschio dai suoi aguzzini, ci fa capire qual è l’oggetto primario sul quale si esercita la sopraffazione: le donne.

Gli anni ’70.

Affermavo, all’inizio, che il romanzo di Albinati è anche sugli anni ’70, prima di tutto a Roma, anche se le sue osservazioni allargano la visuale e offrono spunti di riflessione che riguardano un contesto più vasto. Nel farlo, lo scrittore torna a porre una questione: che cosa è il fascismo in rapporto alla cultura borghese che lui conosce? Egli smonta prima di tutto la facile narrazione che gli autori del delitto del Circeo fossero dei pariolini: se mai erano dei pariolini acquisiti, ma appartenenti a un milieu più anonimo, più consono all’origine sociale di molti di loro – Angelo Izzo per tutti – e con l’eccezione di Andrea Ghira, il solo appartenente a una famiglia alto borghese. La precisazione è importante perché gli autori del delitto del Circeo appartengono piuttosto alla dissoluzione di un ceto e di una cultura borghesi, piuttosto che rappresentarne una versione alta o almeno saldamente egemone. In realtà, il milieu reale è una sotto cultura piccolo borghese, che disprezza prima di tutto la complessità dei problemi e il cui odio represso s’intreccia con il rancore di classe e di genere della parte più retriva di un ceto e di una popolazione maschile intaccate entrambe, sia dall’insubordinazione operaia al nord, sia dalla ventata libertaria e anti autoritaria dei movimenti nati alla fine degli anni ’60. Una crisi dentro la quale i ceti colpiti, ma anche gli individui, coltiveranno la propria rivincita in varie forme: dalle violenze fasciste con le complicità statali e internazionali della stagione stragista, a un più lento processo di coagulo che oggi – per esempio – si esprime nel leghismo e nella reazione del cattolicesimo più retrivo che vede in Bergoglio addirittura  un nemico da abbattere.  

Quale immagine degli anni ’70 ci restituisce il romanzo? Per chi ha vissuto quegli anni prevalentemente a Milano e nel Nord, la prima sensazione che l’affresco di Albinati suggerisce è l’assenza della classe operaia nel contesto romano: le due sole proletarie presenti nel suo libro sono le vittime del Circeo. Tale constatazione mi rimanda a una serata del festival dell’Unità di Milano del 1975, anno quanto mai fatidico, dove Pasolini tenne un memorabile intervento: memorabile nel duplice senso dei contenuti di quel discorso e perché fu forse l’ultimo grande suo intervento pubblico prima della tragica morte. Lo scrittore disse molte cose durante quella serata, fra queste ricordò – come aveva già fatto altre volte – la sua difficoltà nel comprendere la cultura operaia e cosa essa rappresentasse. In realtà, se si pensa all’intensa rubrica di corrispondenza che tenne per oltre un anno sulla rivista Vie nuove, dialogando in particolare con i minatori toscani, non si deve credergli del tutto, ma aveva ragione su un punto capitale e cioè che la presenza operaia, troppo esigua nella realtà romana, faceva sì che fra certe istanze politiche rivoluzionarie – fasulle – di quegli anni e il potere inteso come istituzioni e apparati, non ci fosse niente in mezzo. A Milano e nel nord, invece, il monolite operaio costituiva immediatamente un termometro per capire se una certa azione, un’idea di sciopero, una manifestazione, una certa forma di lotta che usciva dai termini della legalità, passava o non passava. Non mi riferisco al plauso o al consenso di partiti e sindacati, perché le lotte di quegli anni travalicavano assai i confini che il Pci e la Cgil intendevano costruire loro intorno; parlo proprio della presenza operaia, del suo peso specifico in ogni momento e su ogni questione della vita sociale, a cominciare dai funerali dei morti per mano fascista del 12 dicembre. Lo stesso si può dire dei momenti più significativi e tragici sia della stagione stragista sia di quella successiva (mai dimenticarlo che venne dopo), in cui una parte del movimento scelse sciaguratamente la lotta armata. La seconda immagine – strettamente legata alla prima – che il romanzo mi rimanda, è la paradossale lontananza del potere, la sua indeterminatezza. In quelli che definirei due capitoli metafora, Albinati riesce a rappresentare tutto questo in modo assai efficace. Nel primo si descrive un episodio che sembra piuttosto il mimo di un’azione reale, sebbene ricalchi – purtroppo – fatti accaduti. Due attentatori su una motocicletta presidiano il quartiere: solo che i due sono armati di una pistola ad acqua, in uno scenario che oscilla fra l’onirico e lo sberleffo, che ricorda molto di più la stilizzazione dei balletti di West side story piuttosto che la lotta politica. Gli attori di quelle azioni sembrano muoversi dentro un vuoto penumatico in cui esistono solo loro, su un territorio che si contendono con altri di un colore diverso. La scena dei due con pistola ad acqua finisce in modo tragicomico, mentre lontano dal quartiere di Roma dove il tutto si svolge e cioè dentro i Palazzi del potere costituito – che non vediamo – si muovevano le fila che tiravano entrambe le schiere come burattini, da un polo all’altro dentro la dinamica della narrazione tossica degli opposti estremismi. In primo piano rimane solo quel milieu ambientale appartenente alla medesima classe sociale e cultura in decomposizione, perché infondo entrambe le schiere che si affrontano – almeno nel contesto romano – sembrano provenire dallo stesso tessuto sociale. A lettura ultimata ci si domanda: era solo una questione romana? Lo sguardo decentrato e grottesco di Albinati è certamente estremo, sarebbe facile obiettare che anche a Roma c’era dell’altro, che le forze democratiche e sindacali che alimentavano una dialettica diversa e che riequilibravano le punte più estreme di quello scontro esistevano anche lì; ma stiamo parlando di un romanzo e non di una riflessione saggistica e sono proprio gli sguardi estremi – a volte – a mettere in luce aspetti che altrimenti non si vedrebbero. La scelta felice, da un punto di vista narrativo, di armare i suoi due improvvisati terroristi di una pistola ad acqua e le reazioni che tuttavia la loro azione suscita nelle due improvvisate vittime, diventa così la metafora di una lotta armata che fu al tempo stesso tragica e insulsa, del tutto fuori dalla storia, condannata prima di tutto alla sua tragica irrilevanza e dalle conseguenze devastanti sul piano sociale e politico.


10 Certamente il milieu dei tre assassini del Circeo è di tipo fascista, ma essi non erano dei militanti in specifiche organizzazioni o gruppi. Anni dopo, Angelo Izzo sarà interrogato in merito alla strage di Bologna e altri eventi, ma solo perché aveva ricevuto (o millantato di avere ricevuto), confidenze da altri detenuti durante la carcerazione.    

11 Mi riferisco all’assemblea in cui ci fu una vera e propria rissa fra uomini del servizio d’ordine di Lotta Continua e donne della stessa organizzazione.

SU LA SCUOLA CATTOLICA DI EDOARDO ALBINATI: SECONDA PARTE

L’identità maschile, lo stereotipo e la violenza

La scuola cattolica ci parla di una tragedia moderna che ha le sue radici in un passato mai superato, quello che Lea Melandri, citando il titolo di un suo libro, definisce L’infamia originaria.3 Se mai c’è da chiedersi se ci sia una possibile catarsi alla fine del romanzo se Albinati sia riuscito a raggiungerla. Per introdurre  la tematica centrale del romanzo, parto dal capitolo quinto, dove il Narratore affronta il mito della virilità maschile in crisi, messa in discussione da cambiamenti di costume che si erano affacciati già a metà degli anni ’60: i capelloni, per esempio, un primo passo verso la femminilizzazione del maschile che proseguirà negli anni successivi.

Tale processo, che avvenne prima di tutto nel costume, influirà su tutti i comportamenti sociali, ma susciterà anche processi reattivi che riguarderanno sia la cultura di destra sia quella di sinistra. Pasolini non amava i capelli lunghi, ma specialmente non li amava la cultura comunista profonda del Pci che rispetto a tali cambiamenti di costume si troverà spesso in difficoltà quando i movimenti di quegli anni e poi il femminismo porteranno in primo piano nel dibattito politico la riforma del diritto di famiglia e la contestazione dell’assolutezza della patria potestà, il divorzio, l’autodeterminazione sul proprio corpo, l’interruzione della gravidanza. Proprio rispetto all’identità maschile in crisi il romanzo di Albinati pone diverse domande in modo a volte più drammatico in altre più leggero, interrogandosi prima di tutto rispetto all’oggetto emblema di tale identità, cioè il pene:   

È infatti l’identità sessuale maschile a risultare goffamente sovrabbondante piuttosto che quella femminile manchevole. Il pene non è qualcosa di cui le donne sono mutilate, ma che gli uomini si ritrovano in più, e che li accompagnerà tutta la vita, come un saprofita, un inquilino niente affatto segreto che si comporta in modo stravagante vivendo un’esistenza parassitari e parallela a quella del suo vero ospite.

La contro teoria letteraria di Albinati, rispetto a una vulgata freudiana che andrebbe a dir poco ridimensionata e messa in relazione con quanto Freud stesso dirà e scriverà nell’ultima parte della sua vita a proposito del godimento femminile e altro, non si limita a sottolineare alcuni aspetti ridicoli della mitologia intorno al pene, ma ne ricorda la fisiologia stravagante di cui gli uomini sono ben coscienti ma di cui non amano parlare. Proprio il discuterne, invece e in modo esplicito, è uno dei meriti del romanzo di Albinati, che diventa ancor più crudo nel brano che segue:

Il cazzo è duro finché, dopo il rapporto sessuale, si ammoscia. In verità lo era anche prima del rapporto… ma quello che colpisce è sempre il dopo, come la domanda su cosa ci sarà dopo al morte spaventa sempre di più di quella su cosa ci fosse prima della vita. Comunque lo si metta il sesso è svigorente. …. Tutto ciò ha un’evidenza plastica: con l’amore da rigido e robusto, il corpo si fa languido tenero, rilasciato, molle, come appunto quello di una donna.

Il sesso sarebbe allora nient’altro che una trappola tesa dalla donna all’uomo per svilirlo. … Insieme all’attrazione, i maschi provano sempre un vago terrore o ripugnanza per l’intimità, temono quella con le femmine e di desiderarla nei confronti di altri maschi, una pulsione scandalosa che va repressa. Pag 153.

In questo passaggio, lo scrittore sovrappone un dato tanto ovvio da apparire ridicolo – che il pene è normalmente non eretto e non solo dopo il coito – collegandolo alla paura della morte con un accostamento che è al tempo stesso irritante quanto altrettanto ovvio, perché è proprio questo il nesso occulto ma non troppo che si cela dietro le paure e i miti. Albinati crea un corto circuito che va al cuore del problema: la paura della fragilità che, come vedremo nei passaggi successivi, fa scattare la molla della violenza:   

Anche se non lo confesseranno mai, i maschi hanno una paura atavica del sesso, del contatto con l’altro sesso; il timore originario che ne hanno è almeno pari alla curiosità e al desiderio. 164… Eppure l’invidia verso il femminile resta fortissima, e non si trova modo di porvi rimedio. L’unica è ricorrere a una brutale compensazione… E una legge già vista: quando l’angelo di Dio si prende l’anima allora il diavolo s’impadronirà del corpo. Siccome è sempre la donna a dare inizio, l’uomo per ripicca si usurpa il diritto di porre fine, ponendosi così all’estremità opposta della vita, dove gli antichi immaginavano vegliassero comunque divinità femminili. Pag 166. https://maschileplurale.it/

Questa è anche la ragione per cui spesso i maschi giovani cercavano in una donna esperta (a volte semplicemente immaginandolo), un’iniziazione sessuale che altrimenti li impaurisce. È così nel capitolo ottavo del libro dove entra in scena il personaggio della signora Arbus. Bella e affascinante quarantenne, seduttiva quanto basta e consapevole di esserlo – ma forse soltanto nell’immaginazione dell’alter ego di Albinati – incarna nel romanzo un archetipo che ancora in quegli anni poteva conservare una funzione che oggi sembra sfumata perché, con l’emancipazione femminile diffusa, è diventata troppo reale e possibile per essere solo immaginata. Più che non il complesso edipico era proprio la rassicurazione che una figura simile poteva rappresentare, in cui si annidava la ragione profonda del fascino: era pur sempre il modo immaginario di ricongiungersi alla madre, da un lato, ma dall’altro la possibilità di essere iniziati al sesso da una donna adulta, di sicura esperienza, ma anche protettiva, capace di affrontare eventuale defaillances. Prevaleva l’edipo, oppure l’altra prerogativa, affidata in tempi ancora anteriori alle visite ai bordelli?    

Il cerchio si chiude quando dallo stereotipo linguistico alla violenza il passo diventa più breve di quanto non si pensi. Del resto, se andiamo ai primordi della filosofia greca, è facile constatare come l’invidia del femminile e di ciò che, secondo una narrazione in buona parte fantasmatica, esso rappresenta, si trovano nelle parole di Platone, ma anche in una certa mitologia ed esaltazione astratta del femminile, che è il rovescio della medaglia di una reale squalificazione nel mondo reale, come vedremo meglio in altre parti del romanzo.   

Pag 313. È dunque con lo stupro che ci si libera di colpo di questa ipoteca. Il rapporto forzato ha tutte altre finalità, ….  quello che ci si assicura usando violenza a una donna di sicuro esorbita dal piano sessuale, avrà forse una porzione minima in comune con un rapporto consenziente, il resto deve essere diverso, specifico, connesso piuttosto all’esercizio della forza in quanto tale, sottomissione della volontà altrui alla propria, all’umiliazione di chi la subisce, insomma il piacere specifico che deriva dal potere.

La violenza ha un rapporto assai labile con il soddisfacimento sessuale perché il suo punto nevralgico sta nella volontà di sopraffazione, nell’esercizio di un potere di sottomissione.

Il delitto del Circeo fu tutto questo e lo fu in modo emblematico perché i tempi erano già cambiati: perciò esso divenne lo specchio nel quale era possibile vedere la questione della violenza sulle donne nella sua profondità storica e antropologia e al tempo stesso sulla superficie dei tempi. Che nesso c’è fra il terminale estremo, la violenza pura e semplice nelle sue forme più efferate e la trama di stereotipi linguistici e non che la precedono? Un passaggio assai efficace Albinati lo dedica alla fraternità che il senso comune ascrive facilmente dalla parte dei cosiddetti valori:

Peraltro, nell’affermare il principio della fraternità ci si è scordati di notare la sua origine di alleanza difensiva e offensiva, cioè, fondamentalmente, di distinzione fra un “noi “ e un “loro”. La fraternità universale è un ossimoro o un’astrazione … nel mondo reale di fraternità ce ne sono molte e in permanente conflitto fra loro, dato che sono sorte proprio per questo; per difendere i propri fratelli. Non per niente il sentimento di fraternità, poeti e scrittori ci hanno insegnato che nasce perlopiù in stato di guerra, al fronte, in trincea … tra le fazioni maschili che si combattono a sangue (poniamo gli hooligans a seguito delle squadre di calcio), passa comunque cento volte più somiglianza che differenza. E infatti spesso ci si riconosce reciprocamente … quando muore un ultra quelli delle altre squadre gli rendono onore. Il vero scarto è fra una banda di uomini e di donne, più ancora accentuata quella fra una banda di uomini e una donna. Pag. 771.

Un modo assai noto del mondo maschile di contenere le pulsioni più violente e disordinate sono gli sport e la palestra. Il Narratore ne frequenta una insieme ad Arbus. L’incontro con l’istruttore è emblematico. L’uomo, alle prese con un manipolo di giovani maschi da istruire, esordisce in questo modo:

L’uomo è una bestia, la donna un’opera d’arte.  Pag. 215.

L’ars retorica contenuta in questa sentenza è ben nota: l’esaltazione astratta e iperbolica del femminile è presente in tutta la letteratura occidentale fin dai primordi, tanto da essere a sua volta uno stereotipo che allontana, piuttosto che avvicinare, la donna. Porre qualcuno o qualcosa su un piedestallo così elevato significa infatti, prima di tutto, distanziare l’oggetto da sé e farlo diventare una sorta di idolo: niente altro che un’operazione di difesa, cui segue quasi spontaneamente il desiderio di volerlo abbattere, come prima o poi accade con tutti gl’idoli. L’idolatria del femminile è uno degli ingredienti che nutrono la misoginia e una rappresentazione particolarmente drammatica di questa ambivalenza, ma forse sarebbe meglio dire corto circuito, si trova nella poesia di Baudelaire. Drammatica perché, pur appartenendo alla tradizione misogina, il poeta demolisce prima di tutto la falsità del linguaggio della courtoisie rivelandone il suo rovescio.

Nel romanzo di Albinati l’ironia leggera svolge la stessa funzione, ma i tempi sono cambiati, ci vuole poco a mettere alla berlina una falsità ormai conclamata e infatti, in fin dei conti, è un istruttore di palestra a farsi portavoce di una forma ideologica cui non crede più nessuno. Tuttavia, all’ars retorica dell’esaltazione astratta del femminile ha fatto sempre da contrappeso, anche in letteratura, il suo opposto reale:

Un uomo può disporre del corpo femminile in quattro modi: pagando le donne per le loro prestazioni, visionando la loro immagine nuda o abbigliata in  foto e filmati, seducendole, sequestrandole. Tra queste quattro modalità che sembrano in alternativa fra loro, ci sono in realtà sottili legami …. Pag. 805….quando viene ritrovato il cadavere di un uomo, quasi sempre è vestito, quando ne viene ritrovato uno di donna , il più delle volte è nudo. … pag. 807.  


3 L’infamia originaria (1977), è uno dei primi e dei più importanti testi teorici del femminismo italiano. Il lavoro di Lea Melandri, che nasce dall’esperienza della rivista L’Erba Voglio, è una critica che investe al tempo stesso l’ordine economico e quello sessuale che, “si implicano e si sostengono reciprocamente”.

L’educazione alla guerra in un passaggio del romanzo La scuola cattolica di Edoardo Albinati

La violenza è nel mito e nella storia. A grattare sotto la crosta degli insegnamenti che ricevevamo usciva tutta un’altra versione, un’altra religione, una morale rovesciata. Bastava andare un dito sotto o qualche pagina più in là, tra gli episodi meno raccontati, … come quando Achille sgozza un po’ di prigionieri troiani, per celebrare il funerale di Patroclo. E già, li sgozza! Mentre quelli avevano le mani legate dietro la schiena. È roba che si insegna a scuola … a ragazzini di tredici e quattordici anni, come esempi di eroismo, modelli da imitare, voglio dire sì Achille il grande Achille, un mito, un eroe! Non un criminale nazista!…4


4 Op.cit pp. 403-4

RIFLESSIONI INTORNO AL ROMANZO DI EDOARDO ALBINATI LA SCUOLA CATTOLICA. PRIMA PARTE

Premessa

Una prima versione di questo intervento è stata letta al seminario organizzato dalla Società di Psicoanalisi Critica sul tema della menzogna nella clinica analitica. Alla relazione seguì un dibattito con Edoardo Albinati, poi le domande del pubblico. Il video dell’incontro si trova nel sito della SPC. La versione pubblicata una prima volta sulla A.Verare, è molto più ampia della relazione poiché le valenze del romanzo di Albinati sono molteplici e rileggendolo in alcune parti mi sono reso conto che vi erano aspetti del libro che erano rimasti in ombra.  Data la lunghezza della riflessione ho pensato di riproporla per parti.  

Il romanzo nel contesto della tradizione italiana.

La scuola cattolica è un caso unico nella storia recente della narrativa contemporanea italiana, sia per l’ampiezza inusuale del romanzo, sia per il modo in cui lo scrittore padroneggia, all’interno dello stesso testo, i vettori del romanzo storico, la tradizione del romanzo saggio, con punte – specialmente nel finale – da romanzo filosofico. Sono elementi che appartengono a tradizioni illustri, italiane ed europee, ma che raramente si trovano plasmati in una singola opera.

     Anche le voci narranti sono diverse e s’integrano dando vita a una polifonia cui partecipano i personaggi stessi, che entrano, escono e ritornano in scena con l’esattezza dei tempi teatrali, dando vita a un sottotesto di narrazioni laterali, mai marginali.

     Definirlo un affresco mi è parso naturale e come in tutti gli affreschi, i fili delle diverse vicende s’intrecciano in nodi assai complessi. Ci sono gli anni ’70 in Italia e prima di tutto a Roma, c’è la vita da collegio in un prestigioso istituto cattolico che sta a Roma come il Gonzaga sta a Milano, c’è un repertorio di film e di suggestioni a cavallo di più generazioni, ci sono le caratteristiche di un’educazione borghese e tante altre cose ancora. Tuttavia, il filo che conferisce unità e unicità a tale affresco e che giustifica l’uso della parola medesima, è che a narrare il nucleo centrale dell’opera e cioè l’iniziazione di un giovane maschio italiano al linguaggio, alla cultura e alla vita, è un uomo che la racconta dall’interno, partendo cioè dalla propria esperienza con impietosa severità e drammaticità, ma che in alcuni casi scivolano in situazioni grottesche e persino comiche; sulle compresenza di questi elementi in apparenza dissonanti, si gioca un altro degli aspetti qualitativi di quest’opera originale.

     Il profilo educativo scelto dall’autore non è neutro: Albinati parte da sé e dalla sua esperienza, tuttavia essa sconfina fino ad abbracciare un sostrato antropologico che appartiene al gruppo maschile qualunque sia la sua appartenenza sociale o identità culturale. L’iniziazione di cui ci parla lo scrittore travalica dunque la storicità e ci mette a contatto con il problema atavico e patriarcale della violenza maschile sulle donne, trasversale a società diverse, a diverse dominazioni classiste, a modi sociali di produzione e culture diverse.

     Albinati lo fa alternando riflessione a narrazione di esperienze, ma prima di tutto repertando, come un annalista cinese, tutti i passaggi linguistici che portano allo stereotipo sessista e discriminatorio: sono espressioni a volte volgari a volte semplicemente idiote, che s’impongono nella loro serialità ossessiva, uguale a se stessa nel tempo e nello spazio, fino alla noia. Albinati le dissemina tutte in ogni parte del romanzo, centellinandole in modo disturbante e imbarazzante, perché mette di fronte il lettore maschile all’uso comune di espressioni che tutti conoscono (anche perché sono talmente stereotipate che sono le stesse di quando andavo a scuola io in un ambiente completamente diverso da quello descritto da Albinati), che tutti bene o male hanno usato con minore o maggiore propensione misogina, ma che segnano un’identità linguistica maschile, una koiné che diventa parte costitutiva di un atteggiamento discriminatorio che finisce per diventare tanto acritico da essere accolto come naturale. Questo repertorio linguistico, che scorre come un dissonante refrain per l’intero romanzo, diviene il vocabolario che contiene un lessico che sottintende una cultura e un’antropologia inconsce. Albinati non critica le espressioni repertate, ma semplicemente le mostra e le riporta alla superficie visibile e consapevole, mettendole così a disposizione di chi legge. Delineati a grandi linee alcune caratteristiche stilistiche del romanzo, che verranno riprese anche successivamente, veniamo al contesto sociale e ambientale dell’opera.

Il san Leone Magno

La scuola cattolica di cui scrive Albinati è un prestigioso istituto religioso privato: un fiore all’occhiello che doveva formare i giovani provenienti da famiglie borghesi benestanti di tradizione cattolica, abitanti in un elegante quartiere residenziale a nord di Roma. Più che la futura classe dirigente, Albinati ci descrive un ceto medio delle professioni, con qualche punta verso l’alto. Il loro impegno sociale e religioso si esprimeva in poche e scontate cose e prima di tutto – se non esclusivamente – proprio nella scelta di quella scuola, solo maschile e in cui i docenti sono sacerdoti. Nelle prime 400 pagine, il romanzo ricostruisce puntualmente il tipo di educazione e lo stile degli educatori. Trattandosi di un collegio cattolico e pensando ad altre istituzioni totali, nonché a c­­elebri film o romanzi, scattano nella mente di chi legge dei riferimenti molteplici, letterari e non, ma ecco in arrivo la prima sorpresa. Il clima non è greve e repressivo, sebbene la repressione non manchi e non manchi neppure qualche episodio di piccola violenza fisica da parte di qualcuno che poi commetterà ben altri delitti; ma nel complesso il clima è diverso:

Non ci arrivavano. Non lo capivano. Non capivano che i loro precetti liberali ci davano il voltastomaco, concepiti com’erano per farci stare buoni. Certo, ne approfittavamo, ne approfittavamo e basta, ma li disprezzavamo manifestando questo disprezzo quasi come una sfida che loro certo vedevano con chiarezza ma erano costretti a fingere di non vedere. Fino all’ultima goccia succhiavamo il miele di un’educazione permissiva. Quel miele spremuto dalle dottrine moderne e mescolato alla tradizionale bontà. Disprezzavamo chiunque cercasse o pretendesse di “capirci.” Quelli di noi che hanno commesso dei delitti, credo che ci siano arrivati per il gusto di vedere fino a che punto potevano spingersi, continuando a essere “capiti.” Nella comprensione il coltello affonda come nel burro.

Essendo noi stessi il prodotto di quelle balle progressiste sull’educazione, sapevamo benissimo come smentirle, o meglio, eravamo noi la smentita; la prova che funzionavano al contrario. La prima generazione ad avere goduto di una quasi illimitata libertà ne ha fatto il peggiore uso possibile: che del resto è l’unico uso possibile, il più significativo perché eccezionale, estremo. La libertà pura non consiste che in questo. Ed è la sua purezza a fare paura.”1

Siamo lontani da un atteggiamento intimidatorio, abbiamo a che fare con un mix particolare, fra un cattolicesimo che, senza rinunciare ad alcuna delle sue prerogative storiche ben note, si sforza di essere a la page con i tempi: operazione quanto mai rischiosa per chiunque e quasi sempre votata al fallimento, ma specialmente per chi pensa di dover custodire una verità assoluta da millenni! Già da questo passaggio si può intuire come una drammatica ambivalenza corra lungo l’intero romanzo: il nodo di questa educazione non viene del tutto sciolto dal suo autore perché – forse – è impossibile. Tuttavia, lo specifico cattolico occupa una parte importante del romanzo. Al brano di cui sopra, infatti, accosto subito una riflessione di alcune pagine più avanti che sposta lo sguardo rispetto al precedente:

Avere come modello Gesù, è stato sempre il contrario di tutto. Forse è proprio da lui che nasce questa fissazione di volere rovesciare, …. Le gerarchie rovesciate, rovesciare i banchetti dei mercanti… E poi Gesù ha rovesciato l’ultima e unica certezza degli uomini, la morte, resuscitando Lazzaro, probabilmente la più grande ingiustizia mai commessa. Vallo a spiegarlo agli altri morti rimasti sottoterra, ai loro parenti. …. Il sacerdote che volesse seguire l’esempio di Cristo nella sua interezza, sarebbe paralizzato dal compito….2

Queste parole possono suonare irritanti per il cattolico, ma risuonano anche in chi si sente lontano da quella cultura. Anche i rivoluzionari vogliono rivoluzionare e rovesciare tutto e nel prosieguo dell’opera vedremo come questo dover essere assumerà valenze e toni tragicamente grotteschi. Nel mezzo, fra questi due sguardi, quello di chi vuole rovesciare tutto e l’altro, di un cattolicesimo che cerca di seguire i tempi, c’è un vuoto che il narratore non colmerà del tutto, ma tornerà più volte sul tema con variazioni che lo renderanno di volta in volta più complesso senza scioglierlo. Da un lato un modello quasi impossibile da raggiungere persino dai ministri del culto, dall’altro un adattamento che, durante il ‘900 e proprio nell’Italia degli anni ’70 assumerà colorazioni grottesche e persino – mi si perdoni l’ossimoro – tragicamente comiche come in questo brano dove lo sguardo viene portato sulla propensione cattolica al perdono del reo: 

Questa regola santa mi stupiva allora come adesso e va nel novero delle cose di cui riconosco la grandezza spirituale, ma è appunto questa grandezza a sgomentarmi e a irritarmi …. Mi accadrà in seguito molte volte quando vedrò uomini di chiesa così appassionati di peccatori da farli diventare i loro cocchi, quasi i loro beniamini … Pensai una volta a come vincere il Nobel per la Pace: un metodo sicuro è quello di fare il terrorista, mettere bombe e far saltare aeroplani eccetera poi a un certo punto decidere di non esserlo più e deporre le armi e appunto in questo modo diventare a tutti gli effetti un pacificatore, un uomo di pace. Le vittime non scatenano tanta passione quanto il reo redento, è ovvio.

Albinati ci mette spesso di fronte al paradosso e non so se avesse in mente qualcun altro che andasse oltre il perimetro degli anni ’70. Questo passaggio del romanzo mi ha ricordato la storia di Celeste Di Porto, di molto precedente e di certo più tragica delle tragicommedie del pentitismo brigatista, che destano pure il sospetto che certi provvedimenti favorevoli nei loro confronti fossero indirizzati a ottenere il silenzio su molte questioni spinose.3 Il modo apparentemente leggero di questo brano solleva un problema che ha percorso la storia italiana di quegli anni: la sovrapposizione fra una visione del perdono che appartiene del tutto legittimamente al pensiero cattolico e l’impunità di stato, che è altra cosa: ci ritorneremo. Tuttavia, la violenza, anche quella più cruda, fa parte a tutti gli effetti della strategia educativa, senza che questo susciti alcuna reazione:

La violenza è nel mito e nella storia. A grattare sotto la crosta degli insegnamenti che ricevevamo usciva tutta un’altra versione, un’altra religione, una morale rovesciata. Bastava andare un dito sotto o qualche pagina più in là, tra gli episodi meno raccontati, … come quando Achille sgozza un po’ di prigionieri troiani, per celebrare il funerale di Patroclo. E già, li sgozza! Mentre quelli avevano le mani legate dietro la schiena. È roba che si insegna a scuola … a ragazzini di tredici e quattordici anni, come esempi di eroismo, modelli da imitare, voglio dire sì Achille il grande Achille, un mito, un eroe! Non un criminale nazista!…4

La storia, nella letteratura; a volte fa da controcanto all’esaltazione del femminile come un mondo altro che è al tempo stesso inaccessibile perché fuori, oltre e altrove. Proprio alcune autrici contemporanee, peraltro, hanno riscritto la storia di alcuni miti, attingendo a fonti peraltro esistenti ma trascurate e dalle quali emerge una narrazione del tutto diversa: penso a Christa Woolf e a Marguerite Yourncenar in particolare. 

Famiglia, morale cattolica e morale borghese https://www.youtube.com/watch?v=k8O30wPbjHc

Alla relazione fra cultura cattolica e borghese, dentro e fuori la famiglia, il romanziere dedica molti capitoli e passaggi nel libro, alternando come sempre la riflessione al caso emblematico, alla narrazione.  

La famiglia è per eccellenza il luogo del compromesso, essendo prima di tutto un territorio di scambio tra sessi ed età diverse. Da tempo non pensabile una assoluta rigidità educativa, che però non viene quasi mai abbandonata del tutto …. I genitori talvolta sono tentati dalla controriforma, minacciano di tornare indietro di decenni anzi di secoli, ripristinando castighi, correzioni severissime eccetera. … I modelli delle epoche trascorse forniscono di membra e organi la famiglia contemporanea: una testa borghese, un cuore romantico, uno stomaco medioevale animano un corpo che cammina sulle gambe del rispetto arcaico verso i genitori. Quelle gambe spesso vacillano. …. Pp- 411-12.

La convivenza fra elementi diversi e spinte contraddittorie fra di loro ha segnato profondamente le famiglie italiane, anche perché il processo di modernizzazione capitalistica degli anni ’60, in una società ancora largamente contadina, fu impetuoso e disordinato, ma veicolò anche comportamenti che probabilmente non erano previsti sia dall’establishment cattolico e democristiano, ma neppure dalla cultura comunista: non è un mistero che la Dc fosse convinta, ancora a metà degli anni ’70 e con tutto quello che era accaduto, di vincere il referendum sul divorzio, ma la stessa cosa in campo opposto lo pensava anche parte del Pci, sostanzialmente altrettanto estraneo a quei cambiamenti culturali che furono gestiti caso per caso all’interno delle famiglie italiane e tutto sommato con grande buon senso. Il maggiore accesso alla cultura psicoanalitica, almeno a partire dal ’68 in poi, costituì un supporto prezioso, ma successivamente ai cambiamenti più tumultuosi.

Nel brano successivo, Albinati allarga di nuovo il campo della riflessione:

L’identità virtuale fra la morale borghese e quella cristiana, si spezza in questo punto. La morale borghese sembrava solo un doppione di quella cristiana, ma si rivela autonoma laddove difende con puntiglio le scelte di facciata, il fariseismo, contro l’adesione totale dell’anima che Cristo esige.  Pag 495….

E poi c’è una clausola del contrato con cui il cristianesimo si è consegnato allo spirito borghese …. che si rivela alla lunga svantaggiosa: voglio dire quel baratto in cui per conquistare il resto del mondo sulla scia delle flotte imperialiste, si perdeva l’Europa, … Bene il contratto è stato onorato, l’Europa perduta,… prova ne è che i suoi legislatori hanno vergogna a nominare il cristianesimo nei suoi principi ispiratori: la Grecia sì, i Romani sì, gli illuministi pure, ma Cristo che per primo ha detto che tutti gli uomini sono uguali, no. Pag. 514.

In effetti, c’è qualcosa di paradossale nella determinazione con cui i legislatori europei hanno escluso qualsiasi accenno al Cristianesimo nei principi costitutivi della comunità. Paradossale, tuttavia, non vuol dire ingiustificato, ma che, forse, sono le motivazioni reali che vanno cercate. Albinati solleva a mio avviso questo problema: perché l’Europa può essere tutto fuorché il richiamo al Cristianesimo? La motivazione non è chiara perché alle sue spalle ci sono sensi di colpa, non detti e in definitiva non dicibili. Come è possibile accennare a una religione della fratellanza e all’eguaglianza dopo le imprese imperialiste e due guerre mondiali in cui i popoli cristiani si sono scannati fra loro? Meglio tacere, ma nel silenzio opera la rimozione. La storia dell’Europa è quella che è e cinquant’anni e più di pace, sbandierata a sproposito (il Congresso di Vienna del 1815 garantì un periodo di pace ancor più lungo e poi la Jugoslavia non fa parte dell’Europa? Ci siamo già dimenticati di Srebrenica e di Serajevo?) è una coperta tropo corta per coprire tutto il resto; per non parlare dei rischi di implosione dell’Unione europea.   

E veniamo alla famiglia borghese, di cui tratta questo libro: contestata sul piano ideologico e svuotata sul piano pratico, allargata, decimata sul piano demografico, privata delle sue canoniche appendici (servitù), villeggiature, frequentazioni del parentado, cerimonie di iniziazione). Certo che a prima vista sembra il luogo della conservazione piuttosto che quello del rinnovamento. Basti pensare alla implacabile monotonia su cui si incardinano le consuetudini domestiche… polpettone e zucchine ripiene …  la pasta ripassata  … 416

Possono cambiare gli ingredienti ma penso che ciascuno possa stilare la propria lista. Poi la conclusione lapidaria:

L’unica cosa da cui la famiglia non può proteggere è da se stessa. Quando al suo interno è il non – famigliare a manifestarsi. 417-

FINE DELLA PRIMA PARTE


1 Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli editore, Milano 2016 pag.

2 Op.cit. pag. 32.

3 Op.cit. Pag.65. Celeste di Porto, una giovane donna di origine ebraiche, abitante del ghetto di Roma, fu amica e forse amante del gerarca fascista Antonelli. Tale relazione la salvò ma ne fece pure una delatrice, tanto che ebbe un ruolo tragico nel rastrellamento del ghetto. Nel dopoguerra fu sottoposta a diversi processi, finché non decise di convertirsi al cattolicesimo, dichiarando addirittura che avrebbe preso i voti e si sarebbe di ritirata in convento. Tale proposito non ebbe seguito, ma la conversione pose termine ai suoi guai giudiziari.

4 Op.cit pp. 403-4

SIMONE WEIL

“In passato Greci e Troiani si massacrarono a vicenda per dieci anni a causa di Elena. A nessuno di loro, eccetto l’amante guerriero Paride, importava nulla di Elena cosicché tutti maledissero il giorno in cui era nata. Il valore della sua persona era così sproporzionato rispetto a quell’immane conflitto che agli occhi di tutti apparve come un mero simulacro del vero motivo del contendere; solo che quest’ultimo nessuno osava né poteva definirlo, poiché non esisteva. Nessuno poteva misurarlo se non contando i morti già provocati e i massacri futuri. In altre parole il suo valore andava al di là di ogni limite assegnabile.

Ettore presentiva che la sua città sarebbe stata distrutta, che suo padre e i suoi fratelli sarebbero stati massacrati e la sua sposa condannata a una schiavitù peggiore della morte; Achille sapeva di destinare suo padre alle miserie e alle umiliazioni di una vecchiaia indifesa; gli uomini sapevano che le loro case sarebbero andate distrutte a causa di un’assenza così prolungata; ma nessuno stimava che questo fosse un prezzo troppo alto da pagare perché tutti perseguivano un nulla il cui valore era commisurato al prezzo stesso che bisognava pagare. Per suscitare vergogna nei Greci che proponevano di fare gli uni e gli altri ritorno a casa, Minerva e Ulisse credevano che fosse sufficiente evocare le sofferenze dei compagni morti.

Tremila anni dopo ritroviamo esattamente la stessa argomentazione nelle parole con cui Poincaré intende svilire la proposta di una pace senza vincitori né vinti.

[…]

Se non altro al centro della guerra di Troia c’era una donna, per di più una donna di estrema bellezza. Per i nostri contemporanei il ruolo di Elena spetta a parole ornate di maiuscolo. Se afferriamo una di queste parole rigonfie di sangue e lacrime per cercare di stringerla la troveremo vuota. Le parole che hanno un senso e un contenuto non sono parole assassine. […]

Ma mettiamo la maiuscola a parole prive di significato e, alla prima occasione, gli uomini spargeranno fiumi di sangue, a furia di ripeterle accumuleranno rovine su rovine, senza mai ottenere davvero qualcosa di corrispondente; niente di reale può davvero corrispondere a tali parole, poiché non significano niente. Il successo coinciderà esclusivamente con l’annientamento di uomini che lottano in nome di parole diverse. Questo perché un’altra caratteristica di tali parole è che esistono per coppie antagoniste. Intendiamoci, non sempre esse sono prive di senso di per sé: alcune di loro ce l’avrebbero se solo ci prendessimo la briga di definirle come si deve. In tal modo, però, perderebbero la maiuscola e non potrebbero più fungere da vessillo né trovare posto tra le tintinnanti parole d’ordine nemiche; non sarebbero che un tramite per cogliere la realtà concreta, o un obiettivo concreto, o un metodo d’azione. Chiarire i concetti, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso di altre attraverso analisi precise, per quanto possa sembrare strano, servirebbe a salvare delle vite umane”.

“Sembra che in ogni campo abbiamo perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di gradualità, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di nesso tra mezzi e risultato”

(Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia)

Pensare la storia, tessere la pace

Premessa

L’intervento che segue, scritto i giorni scorsi dall’amico Francesco Idotta, ha suscitato in me – oltre che un’immediata adesione per le sue doti di chiarezza, sintesi e intelligenza del cuore – altri interrogativi e sollecitazioni. Lo riporto per intero:  

Indosso da anni questo orologio russo, ne possiedo anche un altro, perché mi ricorda che l’esercito sovietico ha aperto il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz; amo il popolo russo che ha dato i natali ai miei scrittori e musicisti preferiti. Oggi l’esercito russo di Putin si comporta come gli alpini italiani che durante la seconda guerra mondiale, per colpa di Mussolini, Vittorio Emanuele III e Hitler, hanno tentato di invadere l’URSS (e menomale che non ci sono riusciti) e che il Parlamento italiano cerca di commemorare come atto eroico. La storia va studiata … e non a senso unico. Se riusciremo a comprendere le ragioni della Russia di oggi, senza giustificare la violenza di Putin, allora riusciremo a non odiarci e a non scatenare una terza guerra mondiale. W gli artisti russi e il loro popolo e abbasso i carnefici, anche quelli ucraini.

La retorica sui cinquant’anni di pace garantiti dall’Unione Europea, che sfociò addirittura nell’attribuzione del premio Nobel nel 2012, era già da allora basata sul falso, sulla rimozione e su una forma sottile di razzismo, meno appariscente di altre. I 50 anni di pace dal 1945, scadevano nel ’95, ma il 31 marzo 1991 iniziò la guerra nella ex Jugoslavia, che durò dieci anni. A quella rimozione ne seguì un’altra: il documento dal parlamento europeo in cui venivano equiparati il nazismo e l’Unione Sovietica, che con i suoi milioni di morti aveva contribuito alla liberazione del continente. Evidentemente i Balcani, i popoli slavi e i russi non sono considerati appartenenti all’Europa e la ragione è del tutto evidente: la Prima Guerra Mondiale è ancora un nervo scoperto e poiché nei momenti di crisi la storia si riavvolge sempre fino alle origini dimenticate o rimosse, ecco, che tutto ritorna, compreso l’ostracismo nei confronti della cultura e altre aberrazioni. Nel 1914 accadde la stessa cosa: Shakespeare messo al bando in Germania e Mozart in Gran Bretagna e via di seguito. Non sembra vero di poter scaricare, oggi, solo sulla Russia tutto il veleno che soltanto poco più di100 anni fa l’Europa Carolingia e solo occidentale riservava a se stessa; veleno che ci vorrebbe poco a far di nuovo circolare ovunque; basterebbe, infondo, solo la vittoria di qualche partito sovranista e nazionalista in uno degli stati fondatori per affossare tutto e far riemergere da sotto l’esile crosta della retorica tutta la polvere nascosta. Infine, la riflessione di Idotta mi ha riportato a un mio scritto del 2021, una lettura congiunta di due film: Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos e  Film Fahlado di Manoel de Oliveira.   

IL DESTINO DI EUROPA

Il cinema è stato una risorsa in questi tempi di quarantena, ma la scelta è andata più spesso su pellicole di un passato più o meno recente, in molti casi già viste. Credo che uno dei motivi sia la nostalgia per un tipo di cinematografia priva di effetti speciali. La seconda è che pochi film contemporanei mi sono apparsi attuali e all’altezza della tragedia mondiale che stiamo vivendo, a parte Parasites. Alla fine di questo percorso a ritroso ho scelto due film che penso siano stati visti da chi leggerà queste riflessioni, perché il primo è del 2003, il secondo del 1995: ne scriverò dunque dando per scontata la loro visione, che in ogni caso suggerisco. Sono due opere che hanno molte ramificazioni di senso, per entrambe l’Europa è un tema centrale e per tutti e due il filo conduttore che cuce la narrazione è il viaggio. Infine, li accomunano alcuni elementi che costituiscono la cifra stilistica di entrambi: la lentezza della ripresa, l’uso del piano sequenza, una recitazione debitrice nei confronti del teatro, tanto che la parola assume in entrambi una valenza importante. Scontate sono anche le differenze fra le due pellicole, ma dal momento che ho deciso d’intrecciarle nella mia riflessione, ho messo l’enfasi sulle affinità.

Del mito di Europa, come di tutti gli altri, esistono diverse versioni, a volte contraddittorie fra loro, ma su due fatti concordano: che dopo il rapimento furono i suoi fratelli a cercarla, percorrendo tutte le strade possibili, ma che Europa non fu ritrovata. Ognuno dei suoi fratelli fu un fondatore di città, possiamo pensare che idealmente esse costituiscano tutte insieme lo spazio geografico europeo, ma che non fecero altro che combattersi fra loro. Europa è dunque un’entità assai debole da un lato, rapita e mai più ritrovata; dall’altro un teatro d’infiniti conflitti.

Il viaggio che a mia volta ho compiuto dentro le due pellicole, a partire da quella più recente, va idealmente da ovest a est.

L’estremo occidente continentale

Le prime inquadrature di Il Film parlato riprendono il lento allontanarsi di una nave lungo il Tago, avvolto nella foschia. Siamo a Lisbona, vicinissimi alla punta di Estorìl, più protesa nell’Atlantico della lontana Irlanda: siamo dunque ai limiti dei confini occidentali del Continente europeo. Dopo poche inquadrature, lente e scandite dal dialogo fra una madre e una figlia – a bordo della nave – e dall’inquadratura della carena che fende le acque, lo spettatore comincia a interrogarsi sul significato del viaggio e saprà, dopo un tempo discretamente lungo, che le due protagoniste sono dirette a Bombay, dove si trova il marito della donna e padre della bimba.

Lo sconcerto è grande! La nave è un mezzo lentissimo per andare da un luogo all’altro, tanto più così lontano. Il marito della donna, inoltre, lavora nell’aviazione civile: perché non vanno in aereo? Saranno un pope ortodosso e il capitano della nave a rivolgere alla protagonista proprio questa domanda: perché in nave? La risposta sarà semplice: la signora è una professoressa di storia, vuole conoscere direttamente i luoghi che sono oggetto delle sue lezioni, ma desidera anche trasmettere questa conoscenza alla figlia.

Le radici greche

Lo sguardo di Ulisse, del regista greco Theo Anghelopoulos è diviso in tre parti, precedute da due brevi prologhi e seguito da un epilogo. Nel primo prologo vediamo scorrere una vecchia pellicola del 1905. Le donne riprese sono tessitrici di un villaggio greco, anziane e meno anziane. Gli strumenti usati sono antichi e l’attività scelta, la tessitura, c’immette in un universo simbolico molto forte, pregnante e ben noto. La voce narrante recita che stiamo vedendo le sequenze del primo film girato in Grecia e nei Balcani, anche se sapremo successivamente che le cose non stanno proprio così. È il primo sguardo, afferma la voce narrante fuori campo; questa scena e questa battuta verranno riprese più volte nel film, tanto da diventare un primo elemento della cifra stilistica della pellicola, insieme alla lentezza, portata all’estremo.

Il secondo prologo inizia quando il protagonista (un regista cinematografico che torna in Grecia dopo 35 anni di esilio), è ospite di una città dove viene proiettata una sua pellicola che ha suscitato scandalo per ragioni etnico religiose, tornate prepotentemente sulla scena europea con la guerra civile nella ex Jugoslavia. Tuttavia, egli non è tornato per presenziare alla prima del film: è venuto alla ricerca di tre rulli di pellicola girati e mai sviluppati dai fratelli Manakis, i pionieri del cinema greco. Era stato uno di loro a rivelare, in punto di morte, l’esistenza di questo materiale. Nessun ente è disposto a finanziare la ricerca e così il regista decide di fare da solo: parte per recarsi a Skopjie, dove sembra che la pellicola sia custodita. Finisce qui il secondo prologo, quando il regista parte in taxi verso la sua destinazione.

I Balcani http://Lo Sguardo di Ulisse: il capolavoro di Angelopoulos con …http://www.anonimacinefili.it › 2021/01/30 › lo-sguard…

Il protagonista del film dei Anghelopoulos e suo alter ego viene così ad assumere i tratti di un Ulisse moderno, la cui Odissea si svolge nei Balcani. Come l’eroe omerico incontrerà alcuni personaggi femminili, seppure con una variazione rispetto al modello antico: le donne hanno tutte lo stesso volto perché sono interpretate dalla stessa attrice, Maia Morgenstern. Intorno alla ricerca dei tre rulli di pellicola che esistono nella forma inerte di una striscia di plastica, gira la metafora del primo sguardo, un’espressione cui il nostro protagonista ricorrerà più volte.

La prima donna che incontra (una precedente è una semplice apparizione), lavora presso gli istituti cinematografici: una volta conosciuto il motivo del viaggio decide di seguirlo fino a Skopjie. Lei non capisce bene le ragioni di questa ricerca e mostra nei confronti del regista una certa diffidenza, ma lo segue. Quando gli dice che a Skopjie il materiale che lui cerca non c’è, l’uomo ha un moto di stizza, ma le crede. Diminuisce la loro reciproca diffidenza e quando il nostro Ulisse decide di proseguire il viaggio per Bucarest lei lo segue di nuovo e anzi si abbandona a lui appassionatamente.  

Durante il viaggio verso la capitale rumena, Anghelopoulos mette in scena la storia recente dei luoghi che i due attraversano e non è un caso, però, che tutto questo il protagonista del film lo sogni mentre sta dormendo accanto alla donna che viaggia con lui sul treno. Talvolta il sogno diventa un incubo, quando viene portato davanti al plotone d’esecuzione e scambiato per Manakis stesso, il regista di cui cerca le pellicole, perché accusato di avere complottato contro la monarchia bulgara, in uno dei tanti micro episodi di cui è fatta la vicenda balcanica. In un’altra scena, lunga e assai efficace, viene rappresentata una festa di capodanno, tanto estesa da coprire più anni, fino al ’48. A ogni anno che passa, i cambi di regime provocano l’imprigionamento dell’uno o dell’altro dei presenti alla festa, fino all’epilogo, una fotografia di gruppo che inquadra tutti i presenti e che sancisce la fine sia della festa sia della monarchia bulgara: inizia il regime socialista.

Quando il regista si sveglia dal sogno, i due sono in una località bulgara, dove la loro storia d’amore s’interrompe. Il protagonista ritorna nei panni di un Ulisse tradizionale, Penelope non può seguirlo in questa sua ricerca dello sguardo originario e lui potrà tornare a lei solo quando il suo compito sarà portato a termine. Qui finisce la prima parte del film.

Il regista viene a sapere che i rulli potrebbero trovarsi a Belgrado; decide di andare, sfidando i pericoli della guerra in corso nella ex Jugoslavia, anche se la capitale non ne è coinvolta più di tanto in quel momento. S’imbarca clandestinamente su una chiatta che sta trasportando in Germania un’enorme statua di Lenin rimossa dalla piazza della cittadina bulgara. È l’inizio di una lunga sequenza, in cui la statua del fondatore dell’Unione Sovietica, smontata a pezzi, viene depositata quasi fosse un corpo morto sulla barca. Sulle rive del Danubio una folla anonima guarda la scena. La chiatta si muove lentissima, attraversa tutti i confini degli stati ex socialisti che sono tornati a essere quelli antichi della questione balcanica.

Il nostro regista arriva così a Belgrado, ma anche lì le pellicole non ci sono. La seconda parte del film si chiude dopo una lunga conversazione con un amico jugoslavo che vive nella capitale, insieme al quale aveva condiviso il periodo parigino. È un amarcord struggente, un breve intermezzo necessario prima del balzo finale.

Inizia da Belgrado la terza parte, che precipita il film verso l’epilogo. Il viaggio del nostro Ulisse lo ha portato sempre più vicino al cuore della moderna tragedia balcanica ed europea e le pellicole non potevano che trovarsi nella città che più di ogni altra è stata il simbolo, di tale tragedia: Serajievo. Per arrivarci dovrà viaggiare ancora sui fiumi, clandestinamente.

È all’inizio di quest’ultima parte che Ulisse incontra una Penelope slava. Sarà lei a guidarlo alla barca che lo porterà fino alla capitale bosniaca. La donna vive sola in riva al fiume, la sua casa è stata bombardata ed è mezza distrutta, il marito è morto in guerra e lei lo piange disperatamente; in lontananza si sentono colpi di mortaio. Cerca di prendersi cura della vita di ogni giorno: prepara da mangiare, lava i panni, anche quelli dell’Ulisse che le capita in casa, mantiene viva quel poco di vita che resta. Fra i due nasce una fugace storia d’amore, finché lui non riparte. 

La parola e l’immagine

Nel tornare a Film parlato, è inevitabile domandarsi perché mai un titolo e ossimoro così evidente. Il cinema è prima di tutto fotografia in movimento, per dirla con i fratelli Lumière; per lungo tempo fu muto e anche successivamente il contributo della parola, pur importante, rimase un supporto dell’immagine. Non ci si aspetta neppure oggi, da un dialogo cinematografico, che sia un’opera letteraria autonoma dal film, anche in famosi casi di collaborazione fra regista e scrittore; come è in film come Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, i cui dialoghi furono scritti da Peter Handke, oppure in alcuni film di Pasolini. Il titolo di De Oliveira però è calzante perché la parola è qui essenziale: sono le immagini che fungono da contrappunto. Essa è protagonista in quattro diverse forme: come interrogazione da parte della figlia alla madre, come risposta da parte della madre alla figlia, successivamente come descrizione dei luoghi da parte di guide turistiche, infine come conversazione conviviale durante le cene al tavolo del comandante. A ognuno di questi modi corrisponde un diverso livello di complessità.

La figlia interroga la madre come può farlo una bambina di otto anni e le risposte della professoressa sono semplici e scolastiche, non eludono i punti spinosi ma tendono a dare una visione rassicurante della storia.

Quanto alle inquadrature, esse svolgono una funzione di contrappunto e piuttosto che immagini in movimento, De Oliveira sceglie la pittura e la fotografia, fermando in istantanee quasi immobili ciò che intende mostrare, quasi fossero delle cartoline d’arte filmate. In questa galleria sapientemente costruita rinveniamo: la torre di Bèlem avvolta nella nebbia mentre la nave percorre il Tago, Gibilterra vista dal mare, un anonimo scorcio del porto di Marsiglia dove una targa ricorda lo sbarco dei greci, Castel dell’Ovo a Napoli, l’Acropoli di Atene, una veduta dal mare di Istambul, il profilo della nave stessa, ripresa sempre nello stesso modo, mentre fende lentissima le acque del Mediterraneo; infine il Cairo e le Piramidi, prima che la nave imbocchi il canale di Suez per arrivare ad Aden sul Mar Rosso.

Quelle che si susseguono sono immagini da cartolina che abbiamo visto mille volte, ma sta proprio in questo la semplice grandezza del film. L’immagine gioca un ruolo fondamentale perché noi consideriamo ovvia l’esistenza di tutto questo: quando pensiamo ai porti che la nave tocca la maggioranza delle persone comuni li vede nello stesso modo in cui De Oliveira li filma. Tuttavia, non siamo più abituati a riconoscere la bellezza di un luogo, il suo genius loci, perché vittima delle abitudini e anche del consumismo turistico. Spogliando le sue immagini da ogni orpello intellettualistico e rinunciando a ogni possibile effetto speciale, De Oliveira mostra le cose come le vede l’occhio comune. É un’idea di bellezza attualmente spodestata da un’altra che gode dei favori mondani: l’intervento manipolatorio che elimina l’irregolarità.[1]

Secondo la definizione romantica di bellezza invece, ripresa da James Hilmann ne Il pensiero del cuore, essa è il mostrarsi delle cose nel loro habitat. É proprio questo l’effetto che De Oliveira insegue in questo film: mostrarci il paesaggio ovvio della nostra civiltà, come se si facesse vedere a un romano il Colosseo e a un milanese il Duomo.

Torniamo alla parola. Affermavo in precedenza che essa è protagonista in quattro modi diversi. Il primo, l’abbiamo visto, è quello dell’interrogazione da parte di una bambina a una madre professoressa; la seconda sono le sue risposte. La terza sono gli intermezzi insignificanti delle guide turistiche, con due eccezioni: l’incontro con il Pope sulla collina del Partenopee e quello con un attore portoghese al Cairo.

Il primo, il Pope, nel dialogo con la madre e la figlia, svolge prosaicamente il suo ruolo di guida turistica; finché la professoressa, spinta dalla bambina, non gli domanda come mai gli Ortodossi si facciano il segno della croce con le tre dita. È una domanda imbarazzante, cui il Pope risponde con una punta implicita di polemica: “Non ho mai capito, in effetti, perché i Cattolici facciano il segno della croce nel loro modo” e spiega alla bambina, con semplicità disarmante, che il segno con le tre dita corrisponde alla lettera della figura trinitaria della divinità … secondo i cristiani. Semplice sì, ma dalle conseguenze molto profonde: per gli Ortodossi la lettera del rito e il suo contenuto non possono essere scissi, per gli altri cristiani sì.

Il secondo incontro è quello con un attore portoghese, che si trova nella capitale egiziana per lavoro. La professoressa lo riconosce, lui ne è lusingato. La nostalgia, il bisogno di comunicare, la curiosità della bambina, spingono il terzetto in un sontuoso hotel dove sono riprodotte le stampe della festa d’inaugurazione del canale di Suez. L’Europa si apriva una via per le Indie diversa da quella che tre secoli prima aveva aperto il portoghese Vasco da Gama circumnavigando l’Africa. I tre protagonisti portoghesi del film osservano, ripresi di spalle, gli arazzi, testimonianza che l’egemonia sui mari era passata definitivamente in altre mani. Idealmente, questa scena del film di De Oliveira, svolge un ruolo analogo a quella del dialogo fra il regista e l’amico con cui aveva condiviso il periodo parigino in Lo sguardo di Ulisse. In entrambe le scene è la nostalgia a dominare, sebbene in due diverse forme dello stesso sentimento. Il regista e l’amico, in una Belgrado quasi in guerra, ricordano il Maggio Francese, un tempo pieno di sogni, mentre i tre portoghesi osservano il mutare della storia e della geopolitica di potenza. In entrambi i film, la sospensione del tempo che si crea durante i due intermezzi, li fa scivolare verso l’epilogo. Il protagonista di Anghelopulos lo troverà a Serajervo, i protagonisti del film di De Oliveira lo troveranno alla fine del Canale Suez, che non è solo una porta verso il mar Rosso e l’Oceano Indiano, ma il luogo emblematico che congiunge l’Europa ai confitti Medio Orientali e alle tragedie a noi contemporanee.

Serajievo

Il nostro Ulisse regista arriva a Serajievo e l’attraversa sotto le bombe, ma non sembra farci caso. È un vecchio a custodire i tre rulli di pellicola che sta cercando, insieme all’archivio cinematografico della città, che cerca di porre al riparo dalla guerra. L’uomo ha perso ogni speranza di riuscire a sviluppare quelle pellicole. Il nostro Ulisse lo rimprovera aspramente, dicendogli che lui sta cedendo alla storia, o meglio all’attualità e che facendosi sopraffare da quest’ultima, perde di vista ciò che conta: lo sguardo originario che quelle pellicole contengono.

Tu hai la febbre, risponde il vecchio a Ulisse e gli ingiunge di riposarsi.

È vero, il lungo viaggio lo ha provato, in effetti il regista sta delirando e la febbre ce l’ha sul serio, gli passerà solo dopo un lungo sonno; ma il vecchio ha capito. L’incontro con quest’uomo, che nonostante tutto l’orrore cerca ancora qualcosa di diverso da narrare, lo scuote profondamente e gli ridà l’energia necessaria per tentare. Si mette al lavoro e riesce finalmente a trovare la formula chimica giusta per sviluppare i tre rulli; i due uomini, felici, guardano la pellicola scorrere davanti a loro. Qui finisce la terza parte del film e inizia l’epilogo.

È un giorno di festa perché a Serajevo è calata la nebbia e i cecchini non possono sparare e allora in tutta la città, pur divisa, sorgono un po’ dappertutto teatri improvvisati all’aperto e concerti di musica. I due uomini escono insieme ad altri, fra cui l’ultima Penelope, la nipote del vecchio. Il nostro Ulisse regista balla maldestramente insieme a lei una musica vagamente rock e le dice che sta per tornare e che non la lascerà più. Altri si aggiungono alla comitiva. La storia che fino a quel momento, gli era apparsa solo in sogno, oppure nel segno di un’attualità transeunte, è in agguato: è la stessa di sempre, quella che conosciamo fin troppo bene e che ha segnato come una maledizione millenaria la vicenda balcanica, che diviene nel film una metafora della storia europea.

Nella nebbia il gruppo si perde, due bambini si smarriscono e nel cercarli la madre incappa in un posto di blocco. Vengono tutti uccisi, compreso il vecchio, la loro fine è avvolta in una fitta nebbia come nella tragedia antica, dove le uccisioni avvenivano fuori scena: il nostro Ulisse ascolta impotente la sequenza di colpi.

Nella desolazione finale, solo, disperato e piangente, prima piegato e urlante sui corpi in riva al fiume, poi nello studio del vecchio, Ulisse ripete nella scena finale le parole celeberrime di Omero, ma non sa più a chi sta parlando. Nessuna Penelope e nessun altro lo attenderà mai più. La sua è una voce che chiama nel deserto.

L’eleganza conviviale

Torniamo indietro nel film di De Oliveira, al momento in cui la nave abbandona le coste portoghesi. Intorno ai tempi lenti, scanditi dagli spostamenti dalle coste atlantiche al Mediterraneo e poi nel canale di Suez, il regista disegna un ricamo semplice e molto efficacie: a ogni scalo salgono nuovi passeggeri e fra loro tre personaggi importanti. Sono tre donne: un’imprenditrice francese (Catherine Deneuve), un’ex indossatrice italiana (Stefania Sandrelli), una cantante greca (Irene Papas). Sono protagoniste famose della cinematografia europea, ne costituiscono lo stile; De Oliveira filma così il suo omaggio al cinema, l’ultima delle arti, nata in Europa. Esse, tuttavia, si comportano come passeggieri qualunque, vengono avvicinate da chi chiede loro un autografo mentre stanno per salire e da lontano, la madre portoghese e la figlia le riconoscono, ma per un lungo tempo del viaggio saranno ai margini della scena. Con l’ingresso della nave nel Canale di Suez diventano protagoniste insieme al comandante, uno statunitense di origine polacca. Essendo tutte e tre personaggi famosi, sono invitate a cenare al suo tavolo, mentre madre e figlia osservano il loro dialogare da un tavolo poco lontano ma defilato.

Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas, oltre che essere attrici celeberrime sono anche una francese, un’italiana e una greca; e sono anche tre signore di un’età di mezzo, quella in cui si cominciano a fare bilanci. Tutte tre interpretano la loro parte assecondando il cliché che le vuole nell’ordine: elegante, raffinata e altezzosa la francese, chioccia, un po’ oca e belloccia l’italiana, orgogliosa e austera la greca. Con la semplice messa in scena di tre attrici di questo calibro e facendole recitare senza recitazione, cioè conversare amabilmente come se ci si trovasse su una nave da crociera e non su un set cinematografico, De Oliveira fa passare fra le maglie di un’apparente sequenza di ovvietà la grana densa di un affresco. Le tre donne protagoniste, insieme alla giovane storica portoghese e a sua figlia diventano l’Europa; sono l’Europa … Sono dunque tre donne a incarnarla, cui, alla tavola del capitano durante la cena prima dell’epilogo, se n’aggiungono una quarta – la giovane madre professoressa di storia – e una quinta: la figlia di quest’ultima, che dovrebbe raccogliere l’eredità del crogiolo nel quale si è formata la nostra civiltà e di cui la madre funge da mediatrice. Il capitano è gentile e affettato come lo deve essere un comandante, ma con una punta d’imbarazzo. La conversazione è quella che si può immaginare alla tavola del capitano di una nave con tre donne. Lui fa il galante e corteggia la francese, ma nel manifestare la propria voluta solitudine da ogni rapporto, emerge forse discretamente la sua omosessualità. La francese tiene banco con un’escalation di risposte taglienti che sconfinano a volte nel gratuito; comprende che l’altro sta recitando un copione, ma nelle sue risposte, come in un copione speculare, l’imprenditrice mescola istanze femministe e luoghi comuni. La greca è la vera protagonista della prima serata di conversazione. È lei che pone gli interrogativi radicali ed è sempre lei che cerca di darsi delle risposte perché gli altri e le altre sono muti. Alla tavola, ognuna di loro parla nella propria lingua, ma nonostante questo si capiscono: è la greca a notarlo e a dirlo a tutti. La metafora è chiara: c’è una civiltà che ci lega e che si manifesta nel gusto della conversazione elegante, della convivialità, del corteggiamento, del dialogo e della seduzione, di cui è intrisa la filosofia greca. É il trionfo della parola in tutte le sue forme.

Fra questa prima parte e la seconda che precede l’epilogo c’è un intermezzo durante il quale avvengono tre fatti importanti: in primis la conversazione fra la professoressa portoghese e il capitano. Lui l’invita al suo tavolo per la cena del giorno successivo e lei rifiuta decisamente e con un tono quasi infastidito che contrasta con la delicatezza dei suoi modi, ma che nasconde una certa timidezza: la professoressa di storia sa chi sono le tre donne al tavolo del capitano, se ne sente in qualche modo intimidita, ma anche lontana dal centro europeo: è pur sempre una portoghese, defilata come la sua terra.

Il capitano non insiste, ma non rinuncia; mentre la nave fa scalo nel porto di Aden si reca al suk locale e compera un regalo per la bambina. Anche madre e figlia si recano nello stesso suk dove acquistano un vestito arabo per Maria Juana.

A sera il capitano reitera l’invito e mostra il regalo per la bambina, così che la madre non può più rifiutare. La conversazione sembra proseguire come la sera precedente ma non è più la stessa, nonostante il copione non sia mutato. L’allargamento della tavola alle due portoghesi costringe tutti a parlare l’inglese e cioè la lingua di chi un’Europa veramente unita non la vorrà mai: è la greca a farlo notare, ricordando con rammarico che quando gli Stati Uniti ottennero la loro indipendenza il senato americano mise ai voti quale dovesse essere la lingua nazionale e per un solo voto vinse l’inglese sul greco.

Il regalo del capitano alla bimba è una bambola con il chador. La serata continua nel solito stile conviviale della sera precedente. L’ex indossatrice italiana è piena di ammirazione e di nostalgia nel vedere in Maria Juana la figlia che non ha potuto avere; poi, il comandante invita la cantante a regalare a tutti i viaggiatori una canzone. Lei cerca di rifiutare con gentilezza ma poi si adegua. Canta un motivo struggente, che gira intorno a un ritornello che si ripete malinconico come un annuncio di morte.

Un gruppo terrorista ha minato la nave durante l’ultimo scalo, non c’è il tempo di disinnescare l’ordigno, devono abbandonarla; di questi terroristi non sappiamo e non vediamo nulla, non hanno né parola né immagine. La madre portoghese cerca di mantenere la calma, troppa, perché è come in trance, infatti, commette un lapsus decisivo: dimentica la bambola in cabina e quando Maria Juana se n’accorge, la bambina torna indietro a riprenderla. La scena finale inchioda tutti i protagonisti ai loro atti mancati: il capitano invece di abbandonare per ultimo la nave (anzi di affondare con lei come recita la regola antica) si erge impettito e impotente sulla scialuppa di salvataggio, mentre sulla nave la madre e la figlia vedono allontanarsi la salvezza. La catena della trasmissione del sapere di una civiltà si è rotta in due punti diversi: sulla scialuppa, un comando senza più padri guarda una madre professoressa di storia incapace di vedere l’ombra della storia. L’ultima scena coglie in una fissità mortale gli occhi del capitano che vedono esplodere la nave con le due passeggere a bordo.

Europa e il suo mito

La storia europea è al centro del film di Anghelopoulos, ma il suo eroe cerca infondo di scansarla, sfugge dallo scontro che si prospetta alla fine del secondo prologo e che dovrebbe in realtà coinvolgerlo, visto che è stato un suo film a innescare il contrasto etnico: successivamente la storia ricompare come incubo o sogno, infine l’attraversa a Serajevo quasi senza accorgersene. Inconsciamente sa a cosa va incontro e cerca di ritardarlo il più possibile. La scelta registica dell’estrema lentezza, i piani sequenza interminabili, che ritroveremo anni dopo nel cinema di Sokurov, è parte di questa strategia compositiva. Anche nella sequenza onirica della festa di Capodanno, probabilmente assai criptica per un non europeo, ma ostica anche per noi che lo siamo, il gioco del rallentamento ha due funzioni: ritardare, ma anche suggerire che siamo dentro una storia immobile, che non passa, che si ripete estenuante.

Una sola volta l’Ulisse di Anghelopoulos usa un linguaggio superficiale: quando, sulle ali dell’entusiasmo per avere raggiunto il suo scopo e cioè lo sviluppo delle pellicole, annuncia alla nipote del vecchio, mentre passeggia con lei nella nebbia, il suo ritorno imminente. In realtà la nipote è la più sfocata delle donne e infatti, il dialogo amoroso fra i due suona falso e artificioso. Non vi può essere ritorno a buon mercato e Anghelopoulos, nel dialogo fra l’eroe e l’ultima delle Penelopi, mette in scena, prima dell’epilogo, il teatrino delle facili soluzioni, giocando anche sulla differenza d’età fra il maturo protagonista maschile e l’attrice abilmente ringiovanita dai truccatori.

La tragedia non suggerisce soluzioni, ma una piccola catarsi c’è nel film di Anghelopoulos, solo che il regista l’ha disseminata qui e là: è un messaggio diverso possibile, una specie di sequenza laterale come quelle oniriche, ma che gira intorno alle figure femminili.

Era inevitabile, in prima istanza, definirle delle Penelopi, così come è possibile intravedere nel vecchio che custodisce le pellicole un debole Omero sullo sfondo. Anghelopoulos gioca con il cliché e dunque se li cerchiamo ne ritroviamo altri di personaggi dell’Odissea, ma a conti fatti, lo scostamento dal modello è tale – nel caso delle donne – che la scelta appare alla fine del film come un rilievo che s’ispessisce strada facendo. Bisogna allora tornare all’inizio, a una prima importante apparizione femminile, che scompare subito.

La proiezione del film del regista ha fatto scandalo e divisa la comunità in due schieramenti che si fronteggiano in una scena di grande suggestione, che evoca quello che sta accadendo in tutta la Jugoslavia e cioè una guerra civile cruenta e tragica segnata da episodi di efferatezza estrema. Mentre il regista osserva una delle schiere che si stanno pericolosamente avvicinando, viene superato da una donna che prosegue il cammino nello spazio vuoto, una terra ancora di nessuno, ma per poco tempo ancora. Lui la vede e ha la tentazione di seguirla, ma è superato dalle prime fila dell’altra schiera e si ferma. Come lui, quella donna non partecipa agli eventi, non è schierata con l’una o l’altra delle fazioni, si trova nel mezzo e la sequenza successiva del film non ci dice quale sarà la sua fine, ma quella apparizione – seppur fuggevole – è una specie di tertium, che incarna per un breve istante, qualcosa di diverso. Essa avrebbe dovuto suggerire al nostro eroe moderno quello che poi non riesce a vedere nello sguardo delle altre donne che incontrerà: un volto identico nel quale avrebbe dovuto scorgere, come in uno specchio, proprio la reiterazione di una medesima tragedia.

In realtà, nessuna di loro è una vera Penelope, a cominciare da quella fugace apparizione iniziale. Non sono donne in attesa dell’eroe, nessuna di loro lo è, con modulazioni diverse fra l’una e l’altra. La prima, la donna dell’apparizione, va per la sua strada nonostante tutto, la direttrice albanese degli studi cinematografici, diffidente nei confronti del regista all’inizio, s’abbandona a lui perché affascinata dal suo racconto, mentre lei corre di fianco al treno. Il loro addio nella città bulgara è un addio e basta, lei torna alla sua vita di sempre, che non ha mai abbandonato: è lui che le dice che ritornerà, ma solo perché non riesce a uscire dal cliché. La seconda donna, slava, che vive in riva al fiume, non attende lui ma un altro, il marito in guerra già morto. Lo piange disperatamente perché la sua condizione è disperata e quando ha con il regista una breve storia amorosa è solo un intermezzo, un riprendere fiato, con quel tanto di libertà e spregiudicatezza che può concedersi in una situazione disperata come quella. Siamo del tutto fuori dal cliché, è lui che continua a non accorgersene. Infine l’ultima, la nipote del vecchio, una ragazza moderna, che indossa i jeans e porta lo zainetto sulle spalle. Potrebbe essere una frequentatrice di centri sociali, o una giovane qualunque di questa generazione. Anche a lei il nostro eroe ripete che sta per tornare, lei lo ascolta, si abbracciano ma il dialogo è stentato, surreale per certi aspetti. Fra tutte è la meno aderente al cliché e infatti fra i due non accade nulla.

 Europa fuori dal mito

Il mito è stato il leit motiv dell’opera di Anghelopoulos e della sua vita. Con Lo sguardo di Ulisse il regista greco va fino in fondo, fino a fare a pezzi la materia della sua ispirazione. C’è un momento precedente l’epilogo in cui fa pronunciare questa verità all’anonimo taxista che lo sta trasportando in Albania. Fermi perché la strada è interrotta dalla neve i due uomini parlano e bevono, diventano amici. Il taxista scende dall’auto e urla che la Grecia è finita e si augura che la sua fine avvenga il più rapidamente possibile. Sembrava una scena gratuita; vista retrospettivamente dopo che abbiamo conosciuto la conclusione ne capiamo il senso anticipatorio. Il taxista svolge la funzione di un dio che appare all’eroe e gli annuncia una verità che lui non è ancora in grado di scorgere: la Grecia è finita, il suo mito patriarcale ha compiuto il suo ciclo. L’unica figura che nel film di Anghelopoulos non compare è quella di Telemaco, perché la genealogia patriarcale s’è interrotta e l’unico giovane presente nel film è un ragazzino che aiuta il vecchio a procurarsi l’acqua, ma che sembra totalmente abbandonato a se stesso. Non è però solo la Grecia, è sull’Europa in realtà che Anghelopulos punta il dito, quell’Europa che ha permesso il massacro jugoslavo. Perciò, dopo essere partito alla ricerca di uno sguardo che andasse oltre la stessa Odissea, l’Ulisse moderno di Anghelopulos ritrova l’Iliade, cioè la coazione a ripetere.

La saggezza del Senex

Anche il film di De Oliveira ha nella storia il suo centro, ma in un modo che solo un portoghese può sentire: ai margini ma non marginali, i portoghesi hanno un curioso destino sia da un punto di vista della loro secolare politica coloniale, sia rispetto all’Europa. I loro navigatori hanno toccato e sfiorato tutti i mondi, ma hanno sempre scelto di non penetrare troppo nei continenti che pure hanno saputo raggiungere, a volte prima di altri. Le loro colonie sono città piuttosto che imperi, Macao ne è l’esempio più limpido. Tenuto i margini dell’Europa occidentale, che ha tollerato l’esistenza di due regimi fascisti nella penisola iberica, anche dopo la seconda Guerra mondiale, per ragioni di Guerra Fredda, è rientrato nella comunità europea grazie a un evento storico quanto mai portoghese anche quello e cioè la Rivoluzione dei garofani, immortalata nel film Capitani d’aprile della regista Maria de Medeiros.

Il finale di Film parlato invita a tornare di nuovo sulla lentezza del linguaggio cinematografico di De Oliveira – Scarpette rosse per esempio – che mi ha ricordato le pagine che Italo Calvino, in Lezioni Americane, ha dedicato alla rapidità. Siamo abituati a pensare che lentezza e velocità siano la coppia di opposti: Calvino introduce la rapidità come spostamento dalla coppia ed è proprio intorno al binomio lentezza-rapidità che De Oliveira fa esplodere il suo film in una fulminea e tragica scena di morte. Film parlato, tuttavia, non è un’opera nichilista, ma quella di un vecchio saggio. Il regista portoghese ha girato questo film all’età di 96 anni! La sua non è una semplice vecchiaia, è una vita protratta quasi al limite ragionevole della statistica più benevola. È un uomo solo, un vegliardo biblico, l’ultimo testimone. In questi casi i vecchi diventano dei brontoloni che se la prendono con il mondo intero, oppure ritornano a essere dei pueri aeterni deliranti; ma se hanno costruito nel tempo quella che Hillman chiama la Forza del carattere, ecco che sanno trasformare l’orizzonte ravvicinato davanti a loro nella visione del senex, in un ultimo regalo di saggezza. De Oliveria vede la morte della civiltà che lo ha cullato, dalla distanza che un portoghese ha mantenuto per un secolo intero anche per le sue vicende interne, ma pur sempre cullato. Anzi, lo sguardo decentrato favorisce ancor più il saper vedere bene. De Oliveira, guarda all’Europa e ci lancia questo monito, mostrandocela nella sua semplice bellezza. La state perdendo, ci dice: state perdendo le vostre radici, avete poco tempo per salvarle. La rapidità con cui pone fine metaforicamente alla sua e nostra civiltà significa semplicemente che ciò che è stato costruito in alcuni millenni, può finire in un attimo, che la civiltà è precaria come le nostre vite. L’esplosione della metaforica Nave Europa indica un punto di non ritorno.


[1] Un’amica fotografa mi fece concretamente capire come la manipolazione avviene, mostrandomi un reportage fotografico di una nota rivista di promozione turistica. La fotografia in questione, a tutta pagina, mostrava uno scorcio di savana, dai colori sgargianti, perfetti; animali sullo sfondo, tutto quel che serve per creare un’immagine accattivante per il turista. In effetti più che una savana faceva venire in mente un giardino pubblico. Infatti non era quella l’immagine originaria. Armata di una lente, la fotografa mi fece vedere tutti gli interventi di rimozione che erano stati fatti, per pulire la savana in modo da addomesticarla il più possibile. Era stato fatto sparire persino il leone intento al pasto, perché troppo inadatto all’immagine di tranquillo paradiso terrestre che si voleva suggerire.

Leone Tolstoj

“Domandate ai giornalisti perché con i loro scritti eccitano gli uomini alla guerra: essi vi risponderanno che le guerre in generale sono necessarie, e soprattutto la guerra attuale; essi appoggeranno le loro opinioni con frasi vaghe e patriottiche, come i soldati e i diplomatici. E allorché si domanderà loro perché essi, giornalisti, uomini viventi, agiscono in tal modo, vi parleranno degli interessi generali dei popoli, dello Stato, della civiltà, della razza bianca”.  Da Guerra e rivoluzione, scritti del 1904.

Wirginia Woolf: da Le tre ghinee

Saltano subito all’occhio tre ragioni che spingono il vostro sesso a combattere: la guerra è un mestiere; è una fonte di felicità e di esaltazione; è uno sbocco per le virtù virili senza le quali l’uomo si deteriorerebbe … È evidente … che all’interno del medesimo sesso coesistono opinioni diverse sul medesimo argomento. Ma è altrettanto evidente, a quel che si legge sul giornale di oggi, che per numerosi che siano coloro che dissentono la grande maggioranza del vostro sesso è favorevole alla guerra.  

Pensieri di pace durante un’incursione aerea (agosto 1940) di Virginia Woolf

La riflessione proposta è un classico di recente ritradotto da Nadia Fusini. Il testo può essere considerato una sorta di appendice al libro Le tre ghinee e fu pubblicato postumo nel 1942. Lo avevo proposto all’inizio della guerra fra Russia e Ucraina e lo ripropongo oggi anche con la breve introduzione di Tomaso Montanari, quando una nuova guerra di sterminio ancora più atroce è scoppiata nel Medio Oriente. Lo stato di impotenza nel quale siamo immersi è il risultato di una politica sempre più necrofila: ma che altro possiamo fare se non cercare di tenere accese quelle poche luci di un pensiero critico?

“Nadia Fusini ha tradotto in questi giorni questo testo struggente, e lo ha fatto come atto di resistenza alla guerra: a questa sporca guerra di conquista nazionalista, e ad ogni altra guerra. Pubblicarlo qui oggi è il nostro modo di essere vicini alle donne ucraine sotto le bombe russe, e alle donne russe le cui vite sono ora diversamente distrutte. Nessuno come Virginia Woolf ha saputo esprimere la radicale alterità delle donne rispetto alla guerra: eterno “gioco” bestiale dei maschi, frutto della loro (della nostra) puerile e omicida volontà di potenza. Se qualcuno avesse ancora un dubbio sul fatto che liberarsi dal dominio maschile (nei pensieri, nelle parole, nelle opere) non è un obiettivo (solo) delle donne, ma di tutta l’umanità, questo drammatico 8 marzo di guerra serve a toglierselo una volta per tutte.” (Tomaso Montanari)

I tedeschi erano su questa casa la notte scorsa e quella prima. Eccoli di nuovo. È una strana esperienza stare sdraiati al buio e sentire il ronzio di un calabrone che in qualsiasi momento può pungerti a morte. È un rumore che interrompe il pensiero freddo e coerente della pace. Eppure è un rumore che assai più delle preghiere e degli inni dovrebbe costringerci a pensare alla pace. A meno di non riuscire a pensare alla pace, ognuno di noi, ognuna di noi – non questo corpo qui, in questo letto, bensì milioni di corpi non ancora nati – rimarremo al buio ad ascoltare questo rantolo di morte sulla testa. Cerchiamo di pensare che cosa si può fare per creare il solo rifugio antiaereo efficace, mentre in collina i cannoni sparano e i fari tastano le nuvole, e qua e là, a volte vicino, a volte lontano, cade una bomba. Su in cielo dei giovani uomini inglesi e dei giovani uomini tedeschi si combattono. Sono uomini i difensori, sono uomini gli attaccanti. Alla donna inglese non vengono consegnate le armi, né per combattere il nemico, né per difendersi. Lei deve giacere al buio disarmata stanotte. Eppure se crede che il combattimento in cielo è una battaglia tra gli inglesi per proteggere la libertà, e i tedeschi per distruggere la libertà, anche lei deve lottare, per quanto può, dalla parte degli inglesi. Ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco? Fabbricando armi, oppure vestiti o cibo. Ma c’è un altro modo di combattere per la libertà senza armi; possiamo combattere con la mente. Possiamo ‘fabbricare’ idee, che aiuteranno il giovane uomo inglese che combatte su in cielo a sconfiggere il nemico. Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle. Dobbiamo metterle in atto. Così il calabrone in cielo risveglia un altro calabrone nella mente. Ce n’era uno questa mattina, che ronzava nel Times; era una donna che diceva: “Le donne non hanno voce nelle questioni politiche”. Non c’è nessuna donna nel Gabinetto; né in nessun posto di responsabilità. Tutti quelli che producono le idee, e sono in grado di attuarle, sono uomini maschi. Ecco un pensiero che affossa il pensiero, e incoraggia l’irresponsabilità. Perché allora non sprofondare la testa nel cuscino, turarsi le orecchie e abbandonare la futile attività di produrre idee? Ci sono altri tavoli, oltre ai tavoli dei militari e ai tavoli delle conferenze. Ma rinunciando al pensiero privato, al pensiero del tavolo da tè, perché ci sembra inutile, non priviamo il giovane inglese di un’arma che potrebbe essergli utile? Non stiamo esagerando la nostra incapacità, solo perché la nostra capacità ci espone magari all’insulto, al disprezzo? “Non cesserò di combattere con la mente” scrive Blake. Combattere con la mente2 significa pensare contro la corrente, e non a favore. La corrente scorre veloce e violenta. Straripa a parole dagli altoparlanti e dai politici. Ogni giorno ci dicono che siamo un popolo libero, che combatte per difendere la libertà. Questa è la corrente che ha trasportato il giovane aviatore fino in cielo, e lo tiene lì, tra le nuvole. Quaggiù, protetti da un tetto, con una maschera antigas a portata di mano, è nostro compito bucare i palloni gonfiati d’aria e smascherare i germi di verità. Non è vero che siamo liberi. Siamo tutti e due prigionieri stasera: lui imprigionato nella sua macchina con un’arma a portata di mano, noi sdraiate nel buio con una maschera antigas a portata di mano. Se fossimo liberi saremmo all’aperto, a ballare, o a teatro, o seduti alla finestra a parlare. Che cosa ce lo impedisce? “Hitler!” esclamano unanimi gli altoparlanti. Chi è Hitler? Che cos’è Hitler? Aggressione, tirannia, amore forsennato del potere, rispondono. Distruggetelo, e sarete liberi. Sulla mia testa ora il rimbombo degli aerei è come la sega sul ramo di un albero. Va in tondo, e sega il ramo proprio sopra la mia casa. E nel cervello un altro rimbombo comincia. “Le donne capaci” così diceva Lady Astor nel Times di stamani, “vengono frenate, ostacolate, sottomesse per via dell’inconscio hitlerismo nel cuore degli uomini”. È vero, noi siamo ostacolate. E questa sera siamo tutti egualmente prigionieri: gli uomini inglesi negli aerei, le donne inglesi nei letti. Ma se lui smette di pensare, può essere ucciso; e lo stesso vale per noi. E allora pensiamo per lui. Cerchiamo di portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime. È il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e schiavizzare. Perfino nel buio delle tenebre lo si può vedere chiaramente. Vediamo vetrine di negozi che brillano, e donne che guardano, donne truccate, donne vestite di tutto punto ‒ donne con le labbra rosse, le unghie rosse. Sono schiave che cercano di fare schiavi. Se potessimo liberarci dalla schiavitù, libereremmo anche gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi. Cade una bomba. I vetri della finestra tremano. I cannoni antiaerei entrano in azione. Là, in cima al colle, sotto una rete fatta di pezzi di stoffa verde e marrone, che imitano i colori delle foglie d’autunno, si nascondono i cannoni. Ora sparano tutti insieme. Il giornale radio delle nove ci dirà: “Quarantaquattro aerei nemici sono stati abbattuti nella notte, dieci dal fuoco antiaereo”. E una delle condizioni della pace, dicono gli altoparlanti, dev’essere il disarmo. Non ci dovranno essere mai più armi, né esercito, né marina, né forza aerea nell’avvenire. I giovani uomini non saranno più addestrati a combattere con le armi. Il che sveglia un altro calabrone nelle camere del cervello ‒ un’altra citazione: “Combattere contro un nemico reale, guadagnare onore immortale e la gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo della speranza… A questo era stata dedicata finora tutta la mia vita, la mia educazione, la mia formazione, tutto…”. Queste sono le parole di un giovane uomo inglese che ha combattuto nell’ultima guerra. Davanti alle quali, gli attuali pensatori possono onestamente credere che scrivendo “disarmo” su un pezzo di carta in una conferenza dei ministri avranno fatto tutto ciò che si doveva fare? Otello non farà più il suo mestiere, ma sarà sempre Otello. Il giovane aviatore su in cielo non è guidato soltanto dalle voci degli altoparlanti; è guidato da voci che ha dentro di sé ‒ antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Lo dobbiamo biasimare per questo? Si potrebbe forse sopprimere l’istinto materno, al comando di un gruppo di politici seduti intorno al tavolo? Facciamo conto che fra le condizioni di pace ci fosse questa, imperativa: “Fare figli sarà ristretto a una piccolissima classe di donne accuratamente selezionate” ‒ lo accetteremmo? O non dovremmo dire: “L’istinto materno è la gloria della donna. A questo è stata dedicata finora la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto…”. Ma se fosse necessario, per il benessere dell’umanità, per la pace nel mondo, che la maternità venisse controllata, e l’istinto materno messo a tacere, le donne ci proverebbero. Gli uomini le aiuterebbero. Le onorerebbero per il loro rifiuto di fare figli. Offrirebbero altre possibilità alla loro potenza creativa. Anche questo deve far parte della nostra3 lotta per la libertà. Dobbiamo aiutare i giovani uomini inglesi a strapparsi dal cuore l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi. Il rumore di sega sulle nostre teste aumenta. Tutti i riflettori puntano in alto. Verso un punto che sta esattamente sopra questo tetto. In qualunque momento può cadere una bomba in questa stanza. Uno due tre quattro cinque sei… passano i secondi. La bomba non cade. Ma durante i secondi di attesa, il pensiero si blocca. Anche il sentire si blocca, tranne la sensazione opaca della paura. Un chiodo crocefigge l’essere tutto contro un’asse di legno duro. L’emozione della paura e dell’odio è sterile, non fertile. Non appena la paura passa, la mente si riprende e d’istinto rivive e cerca di creare. Siccome la stanza è al buio, creare può soltanto grazie alla memoria. Si protende verso il ricordo di altri agosti ‒ a Bayreuth, a sentire aWagner; a Roma, a passeggiare per la campagna romana; a Londra. Riaffiorano le voci degli amici. Frammenti di poesia. Ognuno di questi pensieri, anche nella memoria, è assai più positivo, rinfrescante, consolatore e creativo di quell’opaco spavento, fatto di paura e di odio. Perciò, se vogliamo compensare quel giovane uomo della perdita della gloria e delle armi, gli dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi? I riflettori accesi sulla pianura hanno finalmente scovato l’aereo. Dalla finestra si vede un piccolo insetto argentato che si gira e rigira alla luce. I cannoni sparano e sparano. Poi smettono. Probabilmente l’incursore è stato colpito dietro il colle. L’altro giorno, uno dei piloti è atterrato sano e salvo in un campo qui vicino. In un buon inglese, ha detto a chi l’ha catturato: “Come sono contento che il combattimento è finito!”. Al che un uomo inglese gli ha dato una sigaretta, e una donna inglese gli ha dato una tazza di tè. Questo starebbe a dimostrare che se si riesce a liberare l’uomo dalla macchina, il seme non cade in un suolo completamente sterile. Il seme può essere ancora fertile. Finalmente tutti i cannoni hanno smesso di sparare. I riflettori si sono tutti spenti. Il buio naturale della notte d’estate ritorna. Si sentono nuovamente gli innocenti rumori della campagna. Una mela cade per terra. Un gufo bubbola, volando da un albero all’altro. E mi viene in mente una frase quasi dimenticata di un vecchio scrittore inglese: “Si svegliano i cacciatori in America…”. Mandiamo dunque queste note frammentarie ai cacciatori che si sono appena alzati in America, a uomini e donne, il cui sonno non è stato ancora interrotto dal rumore della mitragliatrice, nella fede e nella speranza che ci pensino, e generosamente e caritatevolmente le trasformino in qualcosa di utile. E ora, in questa buia metà del mondo, a nanna …