Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Prefazione all’edizione giapponese del 2017

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Political and social notes

Abbiamo appreso con grande dispiacere della scomparsa di Luigi Pasinetti, uno dei grandi maestri del pensiero economico italiano. Pasinetti è stato uno straordinario interprete del pensiero di Ricardo e dei Classici ed uno dei protagonisti del dibattito tra le due Cambridge sulla teoria del capitale e della distribuzione. Tra i suoi scritti non possiamo non ricordare il paper “The myth (or folly) of the 3% deficit-GDP Maastricht parameter”, pubblicato nel 1998 dal “Cambridge Journal of Economics” in cui dimostrò – senza mai avere smentita – l’idiozia dei parametri di Maastricht relativi al deficit e al debito. Pasinetti era uomo pacato e anche raffinato, tanto nei modi quanto nel pensiero. E con raffinatezza e pacata determinazione lottò con tutte le sue forze per evitare che la valutazione della ricerca nel nostro Paese divenisse uno strumento di orientamento della ricerca scientifica volto a screditare le tradizioni di ricerca eterodosse[1]. La sua è una grande perdita. Pubblichiamo qui di seguito uno dei suoi ultimi scritti, la prefazione alla edizione giapponese del libro Keynes e i Keynesiani di Cambridge, apparsa originariamente nel 2017 e mai tradotta in italiano.

La redazione di Economia e Politica


[1] Si veda a tal riguardo La Nota di dissenso del 2006 che abbiamo ripubblicato alcuni anni fa su questa rivista https://www.economiaepolitica.it/editoriale/la-qualita-della-ricerca-scientifica-vqr-e-la-nota-di-dissenso-di-pasinetti/

La bozza (originale) del mio libro Keynes and the Cambridge Keynesians. A Revolution in Economics to be Accomplished è stata consegnata alla Cambridge University Press per la pubblicazione nel maggio 2006. Ciò significa che il libro è stato scritto prima dello scoppio della catastrofica crisi economica che ancora oggi attanaglia le economie di tutto il mondo. Ciò non significa, ovviamente, che il contenuto del libro non abbia nulla a che fare o da dire sulla terribile crisi attuale. Al contrario: lo scopo originario del libro era proprio quello di dare un avvertimento, una scossa per così dire, alla professione degli economisti, che erano caduti nella compiacente convinzione di aver raggiunto una sorta di teoria economica perfezionata che era venuta a coronare gli sforzi analitici dell’ultima generazione di economisti – principalmente di formazione americana dell’ultima parte del XX secolo – basandosi sulla convinzione di aver raggiunto un bel modello scientifico di allocazione ottimale delle risorse esistenti, che poteva essere ottenuta grazie ad una libertà mitica, individualistica, illimitata da parte di individui razionali in competizione tra loro, che agiscono sotto il semplice stimolo dell’interesse personale in un regime di concorrenza senza regole. Questa convinzione è stata formulata come se fosse ispirata dalle idee originali di Adam Smith, il noto “padre” dell’economia classica. Ma tale attribuzione è errata e fuorviante. La visione di un sistema di mercato ideale, completamente libero, competitivo e non regolamentato era, ed è tuttora, l’idea fortemente proposta, ma perniciosa e restrittiva, dei principali economisti di Chicago, come Milton Friedman e Robert Lucas (entrambi insigniti del Premio Nobel per l’economia!), che sono stati molto abili nel promuovere l’illusoria credenza che i bravi uomini d’affari, pur avendo un comportamento basato sul puro interesse personale, svolgessero in realtà la funzione sociale di realizzare la migliore allocazione delle risorse per la società nel suo complesso.

Il mio libro è stato scritto proprio con l’obiettivo di criticare fortemente e di contrastare tale visione (mainstream), che l’autore di questo libro riteneva, e ancora di più ritiene ora, socialmente pericolosa e analiticamente ingiustificata.

Sarebbe ovviamente troppo facile comportarsi in modo altrettanto incauto ora, nella morsa della crisi attuale, e dire: “Ve l’avevo detto e non mi avete ascoltato”. Lo scopo del libro non è polemico; sarà semplicemente, e ampiamente, giustificato se fornirà motivi di ragione e spiegazione.

Il libro era, e rimane, suddiviso in tre parti distinte.

La prima parte è dedicata alla “rivoluzione in economia” avviata dall’economista di Cambridge John Maynard Keynes con il suo famoso capolavoro La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936). Il primo obiettivo di questa traduzione giapponese è semplicemente quello di ricordare ai lettori che, sulla base della storia passata e del lavoro di Keynes, ciò che osserviamo accadere oggi alle nostre economie non è affatto un fenomeno sconosciuto o imprevedibile o immaginario. È in gran parte l’effetto di un rifiuto di imparare veramente quello che avremmo dovuto imparare dalla storia recente.

Molto semplicemente, la prima parte del libro è un monito diretto e drammatico, un invito a tutta la professione degli economisti e all’opinione pubblica a ricordare ciò che accadde solo 80 anni fa, nel 1929, quando si verificò un Grande Crollo, come lo definì in seguito J.K. Galbraith, che coinvolse le economie di tutto il mondo industriale. Come è noto, si erano diffuse enormi capacità produttive inutilizzate e una disoccupazione di massa che caratterizzarono quella che venne giustamente definita la Grande Depressione, negli Stati Uniti e in tutti i Paesi industrializzati, come tutti abbiamo imparato, o almeno come in seguito si disse che avevamo imparato. La professione di economista non dovrebbe dimenticarlo!

Soprattutto, va ricordato il modo in cui quel disastro è stato superato, ossia attraverso l’attuazione di politiche economiche di massiccio deficit spending e di debito pubblico, volte a stimolare la fin troppo difettosa “domanda effettiva”, generata dal sistema economico. Infatti, fu solo in questo modo, cioè secondo quanto sostenuto da J.M. Keynes nella sua Teoria generale del 1936, che lentamente tutto il mondo industriale avanzato poté tornare alla normalità e poi all’espansione.

Ancora una volta, dobbiamo ricordare che più tardi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stato grazie alle politiche economiche “keynesiane”, ormai largamente conosciute, che il mondo industrializzato poté essere condotto alla ricostruzione e al superamento degli spaventosi danni della guerra mondiale e, successivamente, alla ripresa dell’espansione economica.

Gli economisti giapponesi ricorderanno sicuramente il periodo d’oro del secondo dopoguerra, in cui l’economia giapponese, dopo essere stata gravemente colpita dalla guerra, è stata ricostruita e ha raggiunto, in modo straordinario, uno dei periodi più esaltanti mai registrati nella sua storia economica. Come tutti sappiamo, nel giro di un paio di decenni il Giappone si è trasformato in una delle più attive e complessivamente più innovative e potenti economie del mondo moderno.

A livello personale, posso affermare che questa era ancora la percezione delle teorie di Keynes in gran parte del mondo, quando visitai per la prima volta il Giappone all’inizio degli anni ’80 su invito del professor Izumi Hishiyama, allora rettore dell’Università di Kyoto, sotto la cui iniziativa mi recai in giro per il Giappone per tenere conferenze in varie altre università.

All’epoca, sostenevo che J.M. Keynes aveva ragione nel ritenere che fosse necessaria una “rivoluzione” in economia, ma sostenevo anche che c’era molto lavoro teorico ancora da fare.

Tuttavia, se da un lato non mi è stato difficile dimostrare che le politiche economiche keynesiane erano giuste, dall’altro non mi è stato altrettanto facile dimostrare che, come sostenevo, l’intero impianto teorico dovesse essere ulteriormente sviluppato e portato a compimento.

Mi convinsi che il compito più impegnativo da portare a termine era quello di esaminare in profondità i lavori che erano stati fatti a Cambridge dai primi allievi e seguaci di J.M. Keynes. Naturalmente Keynes stesso non c’era più, ma la maggior parte dei suoi allievi diretti lavoravano ancora lì. Questo è il motivo per cui sono andato all’Università di Cambridge, dove gli allievi di Keynes sono divenuti i miei colleghi più anziani. Con loro ho vissuto e discusso a lungo le idee “keynesiane” in lunghe e, il più delle volte, piacevoli conversazioni.

I risultati dei miei studi di quel periodo sono presentati nei saggi che costituiscono la seconda parte del presente libro. Questi saggi includono ciò che di rilevante sono riuscito a raccogliere per il compito di comprendere in profondità in cosa doveva consistere la “rivoluzione” keynesiana. L’ho fatto come esperienza di vita, parlando a lungo e discutendo incessantemente le mie idee con i principali esponenti di quella che ho osato chiamare la Scuola di Cambridge di economia keynesiana. È a loro che è dedicata la seconda parte del presente libro.

Questa seconda parte si è rivelata la più voluminosa del libro, interamente dedicata alla narrazione delle vicende di quel gruppo di brillanti economisti cresciuti come allievi di J. M. Keynes. Le loro storie sono raccontate con riferimento alle opere di quei membri del gruppo che si sono distinti maggiormente. Vengono raccontate le vicissitudini storiche, lo sviluppo delle vite che si sono sviluppate, le difficoltà, le contrapposizioni e anche le fragilità umane delle persone che a Cambridge hanno vissuto all’interno di quello che alla fine è emerso come un dramma keynesiano.

Naturalmente, ho espresso i miei pensieri, così come emergevano da questa interconnessione di pensiero con gli allievi diretti di Keynes. Ma devo subito aggiungere che mi convinsi che ciò che era stato elaborato rappresentava un’impresa ancora incompleta. Alla fine della seconda parte, sono stato spinto a comporre un elenco di caratteristiche abbastanza chiare (ne ho elencate 9, specificando però che non sono esaustive) di ciò che mi sembrava fondamentale per la tentata “rivoluzione keynesiana”. Li ho sintetizzati in un Postludio alla fine della seconda parte; mi sembra che possano contribuire ad una valorosa “lotta per l’indipendenza” nei confronti di una teoria economica tradizionale (mainstream) ancora resistente e irriducibile. In questo senso, non rappresentano la conclusione dell’indagine. Pur con tutti i riconoscimenti relativi a ciò che era stato raggiunto, in termini di politiche economiche effettivamente attuate, la “rivoluzione” rimaneva ancora da completare: non tanto in termini di risultati fattuali, che erano già stati straordinariamente numerosi, ma in termini di un vero e proprio nuovo pensiero economico. A questo punto, guardando a posteriori la seconda parte, sono sorpreso, eppure costretto a rendermi conto, che forse alcuni dei miei giovani allievi avevano ragione quando suggerivano che avevo avuto troppo successo nel raccontare i vari dettagli delle storie dei keynesiani. Dalle reazioni che ho avuto da quei lettori con cui sono stato in contatto, in conversazioni, discussioni o scambi di lettere, è sembrato che la maggior parte di loro abbia in realtà concentrato la propria attenzione proprio su ciò che è raccolto nella seconda parte del libro, soprattutto su ciò che è sintetizzato nel Postludio. Alla fine della mia descrizione delle loro opere e della loro vita, che ho individuato come finalizzata alla “Lotta per l’indipendenza”, sembrerebbe che a molti lettori sia capitato di essere talmente entusiasti della narrazione e dell’esposizione da essere scoraggiati a procedere oltre e ad affrontare argomenti che si facevano più complessi e coinvolgenti.

Spero che questo non sia il caso generale, ma, se così fosse, sarei molto deluso. Infatti, la prima e la seconda parte dovevano essere una preparazione alla parte più importante del libro, cioè la terza.

Vale la pena ricordare ancora una volta che quando Keynes pubblicò il suo libro era convinto di aver proposto “una rivoluzione in economia”. Ma quando ho consegnato la bozza finale di questo libro agli editori, ho sottolineato, e di fatto specificato esplicitamente nella formulazione del sottotitolo, che intendevo contribuire a una “rivoluzione keynesiana” che era ancora “in attesa di essere compiuta”.

Ne ero così convinto da dichiararlo subito all’inizio della mia Prefazione originale in inglese (nel 2006). A mio avviso, la vera “rivoluzione” non si era verificata in termini di concetti e idee. La “rivoluzione keynesiana keynesiana” era, e rimane tuttora, un compito da portare a termine.

E qui arrivo al punto centrale e principale che vorrei sottolineare in questa Prefazione all’edizione giapponese.

Ciò che dico può apparire paradossale: la parte del libro che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto emergere – e dovrebbe emergere ancora adesso, finalmente – come il contributo nuovo, originale, è proprio contenuta nella terza parte. Il paradosso è che la parte terza del libro è quella che ha ricevuto meno attenzione. A parte qualche eccezione, la letteratura economica l’ha praticamente ignorata.

Lo stesso Journal of Economic Literature, probabilmente senza volerlo, sembra aver contribuito a creare questo paradosso decidendo di non recensire affatto il libro[1]. Si è limitato a dedicargli una piccola annotazione, con il semplice elenco dell’indice.

Bisognerebbe dare una spiegazione a questa mancanza di attenzione. Nel frattempo, cercherò io stesso di abbozzare una risposta provvisoria, ricordando brevemente alcuni fatti rilevanti che, presumo, i lettori di questo libro riconosceranno chiaramente come eventi realmente importanti dell’ultima parte del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo.

Per cominciare, la mia prima profonda convinzione è che in quei pochi decenni deve esserci stato qualcosa di drammaticamente importante, anche al di fuori e al di là della normale evoluzione della ricerca scientifica. E la mia ipotesi è che concentrarsi sulla teoria economica “keynesiana” dovrebbe aiutare proprio a percepire tale dramma.

Le mie riflessioni muovono dalla consapevolezza che ciò che avvenne non fu solo un brusco arresto dell’evoluzione di una teoria economica fino ad allora vincente. Si è trattato di un completo capovolgimento di atteggiamento, di paradigma o addirittura di visione. Non c’è stata solo una brusca fine della continuazione e del completamento di una teoria; c’è stato qualcosa di più sostanziale e drastico. Da un movimento teorico di continuo sviluppo a una brusca, nettissima rottura e inversione di direzione. Dagli elogi che sgorgavano, quando la teoria precedente era stata accettata o era in corso di discussione, a un brusco rifiuto, a volte persino all’ostilità. E ciò che più impressiona i ricercatori moderni è che tutto questo non è stato il risultato di un qualche studio condotto empiricamente o di un test sofisticato, organizzato con finalità scientifiche aggiornate. Piuttosto, si è trattato di una brusca rottura, come se fosse arrivata da un’improvvisa ispirazione esterna che ha comportato un capovolgimento dell’intero pensiero teorico.

A mio avviso, non si è trattato solo del rifiuto di procedere secondo linee di pensiero e fatti keynesiani consolidati, pratici e utili. Si trattava di un vero e proprio rifiuto radicale dell’intero paradigma keynesiano.

Che cosa è successo?

Quando si vogliono individuare solide spiegazioni di fenomeni di questo tipo, è necessario aprire la mente a visioni che spaziano in contesti più ampi. Se lo si fa con profonda attenzione e liberi da principi costrittivi, in uno spazio privo di pregiudizi e con un certo sforzo di immaginazione, sono certo che si possano facilmente individuare almeno alcuni tratti reali che caratterizzano i percorsi su cui, o attraverso cui, sono cambiate le nostre economie negli ultimi decenni.

Permettetemi di citare almeno quattro di queste caratteristiche.

Primo: per cominciare, già gli anni Settanta si sono rivelati anni in cui, per eventi politici di grande rilevanza mondiale, riguardanti soprattutto i rapporti dell’Occidente tecnologicamente avanzato con le aree del travagliato Medio Oriente, una generale crisi petrolifera (che ovviamente riguardava una delle principali fonti di energia) è scoppiata. Essa ha interessato il mondo intero.

In termini economici, ha causato aumenti improvvisi e sproporzionati dei prezzi del petrolio in tutto il mondo. L’effetto immediato in tutti i Paesi, soprattutto in quelli importatori di petrolio, è stato l’inizio di un aumento considerevole del livello generale dei prezzi, cioè l’inflazione dei prezzi. Il lettore informato si renderà conto che questo significava generare situazioni di fatto opposte rispetto a quelle che Keynes aveva affrontato prima della guerra.

Keynes e poi i keynesiani avevano concentrato la loro attenzione sul fatto che occorreva evitare la disoccupazione di massa, non sui problemi di contenimento dell’inflazione. In una situazione di aumento anomalo del livello generale dei prezzi, i governi e i loro esperti economisti dovevano concentrare l’attenzione sui fenomeni monetari, che erano i più immediati e urgenti. Questo distoglieva l’attenzione dai problemi più fisici, di cui Keynes e i keynesiani si erano normalmente occupati. Si aprirono orizzonti per la consultazione di esperti monetaristi. Gli esperti di lavoro e disoccupazione non erano nemmeno preparati per questo compito (questa era sicuramente, tra l’altro, una delle incompletezze della teoria economica keynesiana, anche se lo stesso Keynes era stato abbastanza intelligente da prevedere la probabile comparsa del problema dell’inflazione alla fine della guerra).

Secondo: nel decennio successivo, gli anni Ottanta, sono emerse situazioni inaspettate (prima sconosciute in Occidente), che hanno creato seri problemi di produzione fisica e di occupazione, non in paesi capitalisti ma in quasi tutti i paesi socialisti. Tutti i Paesi dell’Europa orientale, e alla fine Unione Sovietica, si trovarono in una situazione economica insostenibile.

Alla fine, verso la fine degli anni ’80, l’insieme dei Paesi europei che si trovavano dietro quella che era stata chiamata “la cortina di ferro” e che si supponeva avessero messo in atto le istituzioni del “socialismo reale”, cadde letteralmente in un collasso economico generale per ragioni inaspettate, principalmente politiche. Nel 1989, la drammatica caduta del “muro di Berlino”, ha simbolicamente sottolineato la fine dell’intero blocco istituzionale del comunismo dell’Europa orientale. L’impatto di questo evento fu formidabile. Diede l’impressione, all’opinione pubblica mondiale, che il vero e proprio confronto fra capitalismo e socialismo, che era stato in prima linea sulla scena politica per settanta anni, a partire dalla Prima guerra mondiale, si fosse definitivamente concluso con un evidente successo del capitalismo. In ogni caso, è un dato di fatto che, a partire da questi eventi, un forzato e drammatico cambiamento delle istituzioni politiche sia avvenuto in tutto il blocco dei Paesi dell’Europa orientale, con una conseguente fine più che disordinata delle istituzioni comuniste e con una diffusione ancora più disordinata di forme primitive e non regolamentate di capitalismo ispirato al laissez-faire.

In ogni caso, per quanto riguarda la leadership nella scienza economica, è un dato di fatto che, a partire da questi eventi, l’Accademia svedese delle scienze sia stata abbastanza determinata nell’escludere completamente qualsiasi valido economista di tendenza keynesiana dall’essere anche solo preso in considerazione per un premio Nobel per l’economia. Gli economisti keynesiani cominciarono a essere considerati, o comunque a essere percepiti, a torto o a ragione (più spesso a torto), come simpatizzanti, o almeno più facilmente inclini a tendenze e istituzioni “socialiste”. L’impatto sui programmi di istruzione economica nelle università di tutto il mondo fu davvero devastante. L’economia tradizionale mainstream raggiunse il suo picco di popolarità. La sua direzione è stata quasi interamente quella di favorire e raccomandare politiche di laissez-faire sulla base di modelli teorici, che non lasciavano spazio ad approcci non ortodossi di alcun tipo nell’insegnamento e nella ricerca in economia, in quasi tutte le università dell’intero pianeta.

Terzo: può essere istruttivo prestare attenzione a un terzo evento interessante degli anni ’80 e che sicuramente ha influenzato l’atteggiamento nei confronti delle istituzioni finanziarie da un lato e le tendenze, le preferenze e le convinzioni degli economisti dall’altro.  Nell’ottobre 1987, un terribile lunedì nero colpì la Borsa di New York a Wall Street. L’indice Dow Jones Industrial Average crollò di oltre il 20% in un solo giorno. Si trattò del calo più pesante mai registrato in un solo giorno a Wall Street, più pesante delle perdite di qualsiasi altro giorno corrispondente anche al 1929! Si trattò di un crollo che ancora oggi rimane eccezionale. Alcuni economisti temevano ragionevolmente che un altro Grande Crollo fosse dietro l’angolo.

Per fare un esempio, Siro Lombardini, un importante economista italiano, in una serie di trasmissioni radiofoniche, interviste televisive e poi in un libro pubblicato poco dopo – La Grande Crisi – 1987 come 1929? aveva previsto nei dettagli un crollo mondiale. Ma, almeno apparentemente, le cose non andarono così. I tempestivi interventi del Federal Reserve Board statunitense, in collaborazione con il FMI e con l’aiuto delle principali banche centrali, riuscirono a circoscrivere l’evento entro limiti strettamente finanziari. Questo evento divenne noto come Greenspan put, dal nome del governatore della Federal Reserve statunitense, Alan Greenspan. Diede l’impressione di un grande successo da parte delle istituzioni finanziarie internazionali al potere nei Paesi occidentali (capitalisti) rispetto a quanto accadeva nello stesso periodo nei Paesi socialisti, che si trovavano tutti in grande difficoltà. Inoltre, ha esercitato una forte influenza sull’opinione pubblica che ha attribuito forza alle misure finanziarie attuate in Occidente, sostenendo allo stesso tempo la presunta “solidità” delle istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Federal Reserve statunitense e altre banche centrali).

In ogni caso, va notato che se si guarda a questo evento ora, a posteriori, dal punto di vista di ciò che si è verificato a seguito di quella vicenda, si può vedere molto chiaramente che il Greenspan put dei primi anni ’90, sebbene sia stato un evento di successo per gli Stati Uniti, non ha funzionato altrettanto bene per gli altri paesi del mondo capitalista. Più specificamente, è ora chiaro che non ha funzionato così bene né per il Giappone né, se mi è consentito, per l’Italia.

In Giappone, gli anni Novanta sono stati poi definiti “il decennio perduto”, a causa delle prestazioni davvero scarse e languenti dell’economia nipponica. In Italia, riprendendo le parole di un ex direttore della Banca d’Italia, incaricato di presentare una relazione su quel periodo: “a partire dal 1992 e poi all’inizio del nuovo millennio, l’Italia è arrivata a subire la peggiore performance della sua economia, in tempo di pace, dai tempi di Cavour”[2].  E questo – va sottolineato – non perché l’Italia non si sia conformata alla tendenza monetarista e liberista propugnata dall’economia mainstream dominante dell’epoca, ma proprio per il motivo opposto. Il governo italiano realizzò in quel decennio la più vasta operazione di privatizzazione mai realizzata nella sua storia economica[3]. I risultati furono deludenti in termini di tutti i principali indicatori: PNL (stagnante), produttività (stazionaria), disoccupazione vicina al 10%.

Quarto: Si può aggiungere un quarto evento, che essendo puramente accademico, è sconosciuto al grande pubblico. Non ha nulla a che vedere con i fatti reali, eppure ha esercitato un’enorme influenza sulla direzione in cui si è formata l’opinione degli economisti più importanti e, di conseguenza, sulle opinioni che sono venute a prevalere tra i loro studenti e, in modo più efficace e importante, tra i dirigenti delle principali istituzioni finanziarie (banche centrali, banche commerciali, amministratori delegati di grandi imprese, ecc.)

Se partiamo dalla sfera dell’alta teoria, bisogna ricordare che le controversie tra keynesiani ed economisti mainstream non sono mai state del tutto risolte. Fin dalla seconda parte del XIX sec, Jevons-Menger-Pareto, la cosiddetta “rivoluzione marginalista”, ha dominato le opinioni ufficiali,  generando rivendicazioni per un laissez faire regolamentato, persino (dopo gli anni ’30) a fianco delle teorie di Keynes. Ma soprattutto, questa tendenza ha ricevuto un forte sostegno nel XX secolo con il perfezionamento di quell’affascinante modello analitico, che è diventato noto come equilibrio economico generale. Le ultime versioni perfezionate di questo modello sono attribuite a Kenneth Arrow e a Gerard Debreu (entrambi insigniti del Premio Nobel per l’economia). Bisogna naturalmente ammettere che le discussioni tra keynesiani e marginalisti devono essere considerate come una caratteristica normale del discorso scientifico. Ma un ulteriore evento notevole e improvviso, davvero nuovo, si è verificato all’improvviso nell’ultima parte del XX secolo. Gli anni ’80 sono stati un decennio in cui l’intera struttura analitica del modello di equilibrio economico generale fu estesa, ben oltre i suoi limiti precedenti, alle relazioni che riguardano la moneta e gli strumenti finanziari. Questo è stato fatto con ipotesi incredibilmente irrealistiche per quanto riguarda le aspettative razionali degli individui. (Un teorema che andava sotto il nome di Modigliani-Miller, tra l’altro, entrambi premi Nobel, è stato enfatizzato nelle fonti bibliografiche di praticamente tutte le Business School, e considerato così fondamentale da meritare di essere applicato in ogni circostanza escludendo ogni altra possibilità).

Grazie a questa estensione, la conseguenza fu che il punto di vista degli economisti dell’Università di Chicago sulla teoria monetaria e sulla gestione ottimale delle istituzioni finanziarie ottenne un successo pressoché totale. Le teorie finanziarie di Chicago su come si comportano le economie mondiali hanno schiacciato qualsiasi altro punto di vista. La scuola di Chicago di economia finanziaria ha conquistato un dominio quasi generale nelle teorie economiche che venivano insegnate, e temo siano ancora in gran parte insegnate, nella maggior parte delle università di tutto il mondo. Questo significa principalmente negli Stati Uniti, ma paradossalmente anche ancora di più in Europa[4].

Tutte queste quattro caratteristiche, e in particolare l’ultima, possono almeno fornire un indizio per capire cosa è successo alla teoria economica nel periodo che ha immediatamente preceduto la crisi attuale. Nei principali circoli economici autorevoli non c’è stata molta fretta, e ancor meno volontà, di indagare le radici profonde della crisi, quando nel 2008 sono iniziati i problemi economici mondiali. I problemi emersi sono stati semplicemente fatti apparire come la conseguenza di un’eccessiva speculazione creditizia “subprime” sul mercato immobiliare statunitense. Si dava generalmente per scontato che tutte le difficoltà emergenti appartenessero al settore finanziario dell’economia.

Tra i principali economisti mainstream, pochissimi osavano anche solo sospettare che potessero esistere almeno alcuni problemi più profondi che potevano ramificarsi nei settori “reali”, cioè fisici e non finanziari, dell’economia.

E questo nonostante il fatto che quasi tutti i contributi precedentemente noti allo studio deli cicli economici (non solo quelli dovuti ai seguaci di Keynes, ma anche quelli dovuti a Hicks, Samuelson, Goodwin e molti altri) fossero stati inquadrati con riferimento ai settori fisici dell’economia. Appariva evidente (con l’appoggio di tanti premi Nobel per l’economia e manager della finanza mondiale) che la crisi poteva essere circoscritta e affrontata nella sfera bancaria e finanziaria, o al massimo nelle sfere ad essa collegate delle compagnie di assicurazione, delle agenzie di rating e di quella panoplia di istituzioni finanziarie che nel frattempo erano state inventate per il sistema economico statunitense, con una diffusa imitazione nelle economie capitalistiche occidentali.

Sembra davvero straordinario ora, dopo sette anni dall’inizio di questa terribile crisi, rendersi conto di quanto siano radicate e ostinate le convinzioni sul ruolo imperativo attribuito alle economie monetarie e finanziarie. Le decisioni dei governi e delle istituzioni finanziarie sono passate attraverso un susseguirsi di decisioni pubbliche che non sono sfuggite a contraddizioni anche selvagge (un esempio emblematico è il caso ben noto e tanto discusso delle decisioni del governo statunitense nel 2008, di salvare, cioè praticamente nazionalizzare, Bear Stearns da un lato e di lasciare che l’analogo caso di Lehman Brothers affrontasse la bancarotta)[5].

I sette anni che sono ormai trascorsi dall’inizio di questa Grande Depressione davvero spaventosa sono pieni di discussioni, di reiterazioni, di convinzioni dichiarate e di presunte credenze nelle virtù di politiche esclusivamente monetarie, secondo i suggerimenti della Scuola di Chicago di economia monetaria e finanziaria. Decisioni secondo le linee mainstream, basate su ipotesi di perfetta concorrenza, perfetta conoscenza, aspettative perfettamente razionali.

Incredibilmente continuano ad essere prese in tutti i Paesi industriali avanzati. Soprattutto in Europa, vengono imposte misure di “austerità”, con scarso riguardo per le sofferenze personali, soprattutto della parte meno abbiente della popolazione. Si dichiara apertamente che l’obiettivo perseguito è quello di ripristinare la fiducia nel sistema bancario e finanziario il quale di per sé dovrebbe essere in grado di autoregolamentarsi. Poi tutti si siedono e attendono fiduciosi in una ripresa della crescita economica. Ma non succede nulla, ancora e ancora.

Purtroppo, questa è la situazione nel momento in cui scrivo questa Prefazione.

Ma, grazie a Dio, c’è stata un’eccezione – per me sorprendente e inaspettata – che sono lieto di annunciare e sottolineare, poiché sembra l’unico caso autorevole che posso citare e che lascia sperare, in fin dei conti, che esista ancora un posto per il buon senso.

In un articolo straordinariamente lucido, pubblicato da Tribune Media Services il 15 ottobre 2008 (cioè, all’incirca, ma tempestivamente, all’inizio di questa Grande Depressione), Paul Samuelson sembra aver illuminato la luce della verità. Il succo del messaggio è espresso dal titolo dell’articolo, coraggioso, preciso, drastico, definitivo, ma non per questo meno drammatico: “Addio al capitalismo liberista di Friedman e Hayek”[6]! Samuelson rimanda immediatamente e semplicemente a tutto ciò che si sarebbe dovuto fare, sfruttando l’esperienza della Grande Depressione del 1929. Le misure economiche che dovrebbero essere adottate sono chiaramente espresse. Ecco le sue parole: “La maggior parte delle perdite sarà permanente, come nel  periodo 1929-1932. Tuttavia, con una sufficiente creazione di nuova moneta da parte della Fed e del Tesoro  americano, la ripresa e la stabilità saranno possibili”. Conclude con: “la via di mezzo delle politiche economiche di Roosevelt-Truman-Kennedy-Clinton avrebbe potuto salvare la situazione odierna. Clinton avrebbe potuto evitare il caos e le bancarotte di oggi”.

E continua con parole che sembrano quasi profetiche: “Che cos’è dunque che, dal 2007, ha causato il suicidio del capitalismo di Wall Street? Alla base del peggior pasticcio finanziario del secolo c’è questo: il capitalismo liberista del laissez-faire, ispirato a Milton Friedman e Friedrich Hayek, a cui è stato permesso di funzionare senza regolamentazione. Questa è l’origine delle difficoltà di oggi. Entrambi questi uomini sono morti, ma la loro eredità avvelenata continua a vivere”. Conclude, inaspettatamente, con una frase tagliente e terrificante (che coinvolge anche lui! anche se stesso!): “Io e i colleghi del M.I.T., di Chicago, di Wharton, di Penn, ecc, potremmo essere trattati male quando ci troveremo di fronte a San Pietro alle porte del paradiso”! È ammirevole che Paul Samuelson abbia invitato la professione (lui stesso compreso!) a condividere una parte della responsabilità di ciò che è accaduto. È troppo triste che queste parole siano state scritte in quello che si è rivelato essere solo poco più del suo ultimo anno di vita!

Ma la tristezza più profonda è forse che ora siamo costretti a chiederci: chi lo ha ascoltato? Paul Samuelson deve essere sepolto nella valle dell’oblio preservato? Sappiamo fin troppo bene che la soppressione e l’oblio sono stati una tecnica ben sperimentata nella letteratura economica del passato, ma normalmente solo in riferimento a economisti non ortodossi.

Paul Samuelson non è un economista eterodosso! È il famoso autore del testo di economia più venduto di tutti i tempi: un testo che ha venduto il maggior numero di copie pubblicate in tutto il mondo!

Dovremmo essere invitati a trattare Paul Samuelson come un economista non ortodosso? A questo punto la contraddizione è totale. Ma la conclusione logica è molto più semplice, anche se non meno drammatica.

Dovremmo accettare che è giunto il momento di scartare e seppellire ciò che, a partire all’incirca dagli anni ’80, è stato vergognosamente insegnato e raccomandato dagli economisti mainstream e al suo posto ripristinare molto semplicemente le teorie e le politiche ben sperimentate che abbiamo appreso dall’economia keynesiana elementare (soprattutto in riferimento ai problemi della disoccupazione).

Se questo fosse accettato, sarebbe la fine delle nostre discussioni?

Non ancora. Accettando i punti di vista e le raccomandazioni ora così meravigliosamente riesposti da Paul Samuelson e la sua acuta valutazione dell’origine delle attuali crisi – inaspettatamente, secondo le ben note linee keynesiane della prima generazione – siamo  tornati al punto in cui eravamo arrivati sopra, riferendoci al contenuto del Postludio alla parte seconda. Ciò significa tornare a prima dell’inizio della terza parte, la parte che sostengo essere la più importante del presente libro, dove faccio due affermazioni fondamentali:

una nei confronti di Keynes stesso e l’altra nei confronti dell’intera teoria economica. Quella relativa all’intera teoria economica – la più importante – è semplice ma drastica: l’intero paradigma dell’economia mainstream, costruito sulla base di una visione del mondo ispirata al commercio [al puro scambio], dovrebbe essere abbandonato. Potrebbe essere stato utile per indagare gli eventi storici dell’epoca post-medievale e persino rinascimentale. Ma con l’avvento della rivoluzione industriale siamo entrati in una nuova e diversa fase della storia, in cui la produzione in un contesto capitalistico è diventata preponderante.

Questo, tra l’altro, spiega anche perché i teorici che affermano la predominanza del modello di equilibrio generale e delle istituzioni finanziare prevalenti non hanno avanzato alcuna pretesa di prova empirica. La visione dell’equilibrio economico generale è stata imposta con la forza della logica e persino con l’attrattiva della bellezza, ma non con la forza dei fatti o con il supporto di test empirici. E poi c’è l’altra affermazione. Come più volte detto in precedenza, il quadro teorico keynesiano di prima generazione non è sufficiente. Di per sé il ritorno a visioni pre-keynesiane ne è una prova: il ritorno al quadro pre-keynesiano e pre-Grande Depressione può essere visto come un’ulteriore dimostrazione che il quadro keynesiano originale non era sufficiente. Ciò che si deve fare ora non è solo tornare indietro dove era giunto Keynes, ma anche andare oltre, oltre Keynes stesso. È quanto sostengo nella terza parte di questo libro. Lo scopo è quello di spingere a fare un salto oltre la versione di Keynes della sua “rivoluzione economica”:

  • abbandonare l’intero paradigma dell’economia neoclassica ispirato puro scambio (capitolo VIII);
  • proporre un framework per una teoria economica di pura produzione (capitolo IX);
  • completarlo con un’appropriata “fase di indagine istituzionale” (capitolo X);
  • e infine “tornare al futuro della rivoluzione keynesiana” (capitolo XI).

Vi sembra un lavoro di indagine troppo difficile? Forse. Ma si tratta di una sfida.

Riferimenti bibliografici

Ciocca P.L. 2014a, La Banca che ci manca, Roma: Donzelli Editori. English transl.: Stabili-
zing Capitalism. A Great Role for Central Banks, London: Palgrave MacMillan: 2015.

Ciocca P.L. 2014b, Storia dell’IRI: (6) L’IRI nella economia italiana, Roma: Editori Laterza.

Pasinetti L.L. 2010, Keynes e i keynesiani di Cambridge, Roma-Bari: Laterza.

Spaventa L. 1982, “Una svolta ad U della Teoria Economica”, in Scritti in onore di Innocenzo
Gasparini, vol. II, Milano: Giuffrè.


[1] Journal of Economic Literature, 2009, 4: 1170

[2] Ciocca 2014b: 292.

[3] In quel decennio, un enorme conglomerato di proprietà statale di aziende manifatturiere e di servizi chiamato I.R.I. – che dava lavoro a oltre 400.000 persone – è stato letteralmente smantellato attraverso una privatizzazione totale in obbedienza alla convinzione diffusa dell’epoca, sia internamente, grazie alle pressioni politiche, sia esternamente, grazie alle regole delle istituzioni europee (ibid.: 292).

[4] Per fare un esempio, un mio caro amico economista, che si distingueva tra gli economisti italiani che avevano studiato a Cambridge, e che aveva scritto articoli rilevanti sulla falsariga di Sraffa, inaspettatamente – per me – nel 1982 scrisse un articolo in cui spiegava che a suo avviso la teoria economica degli anni Ottanta doveva fare un’inversione di rotta, passando dalle posizioni seguite in precedenza, Cambridge compresa, al modo di vedere di Friedman e Lucas, che presto avrebbe trionfato, che si rivolgeva non solo all’economia, ma comprendeva una visione comportamentale complessiva del mondo intero. Si veda Spaventa 1982: 1037-1058.

[5] Un esame sintetico, ma interessante, di questa contraddizione si può evincere chiaramente dall’analisi fornita nel capitolo 9 di Ciocca 2014a.

[6] Paul Samuelson’s, “Farewell to Friedman-Hayek libertarian capitalism”. L’articolo è anche apparso, tradotto, sul Corriere della Sera del 20 ottobre 2008 con il titolo: “I sette errori dei liberisti senza regole”

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