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Capitalismo delle piattaforme, capital gain e revolving doors





Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Andrea Pannone, economista esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e attualmente ricercatore senior alla Fondazione Ugo Bordoni. L’articolo, nell’analizzare le radici del profitto e del potere delle aziende a maggiore capitalizzazione, ha il merito di focalizzarsi su uno dei «meccanismi» reali con cui si costruisce la convergenza tra finanziarizzazione, grandi colossi hi-tech e potere politico.

Il contenuto dell'articolo è esclusiva responsabilità dell'autore e non coincide necessariamente con la posizione dell'Ente in cui lavora


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Piattaforme digitali e «paradosso dei profitti»

La recente affermazione del «capitalismo delle piattaforme» – ossia di una forma organizzata di estrazione del valore basata sull’appropriazione dei dati e dei contenuti prodotti dagli utenti delle piattaforme digitali – ha fatto emergere tra molti ricercatori un notevole interesse sul concetto di «paradosso del profitto» (vedi ad esempio Eeckhout, 2021). Tale concetto è usato per spiegare perché, nelle ultime due/tre decadi, la maggior parte dei benefici economici derivanti dai progressi tecnologici connessi alla massiccia diffusione di Ict in tutti i settori dell’economia sono stati catturati da un numero estremamente limitato di imprese, che hanno aumentato a dismisura il proprio potere di mercato a scapito dei concorrenti e, di conseguenza, la propria capacità di aumentare i prezzi dei beni e servizi offerti, di comprimere i salari e di frenare la nascita di nuove imprese sul mercato. Dove sta il paradosso? Nel fatto che questo fenomeno contrasta con l’idea dominante, presente sin dagli albori della «rivoluzione digitale» nella letteratura economica e nei media, secondo cui l’uso generalizzato di Ict, combinato con la pervasività di Internet, avrebbe sicuramente eliminato quasi del tutto i vecchi intermediari nelle transazioni e abbattuto i costi connessi al funzionamento del meccanismo di mercato (noti come «costi di transazione» [1]). Questo processo avrebbe dovuto, nel tempo, guidare i mercati verso il funzionamento di perfetta concorrenza descritto nei testi di economia, che prevede prezzi decrescenti e tecnologie più efficienti a vantaggio dei consumatori.

Come sappiamo, però, la realtà si è sviluppata molto diversamente. Le piattaforme digitali, infatti, sono diventate il cuore di un nuovo modello di business (basato sulla messa a valore dei dati sul comportamento online e sulla successiva profilazione degli utenti), capace di realizzare una nuova forma d’intermediazione tra utenti e inserzionisti pubblicitari: i primi cedono dati in cambio di servizi, i secondi pagano per la piattaforma per offrire servizi in cambio di attenzione, promuovendo così pubblicità e offerte personalizzate (vedi Dalmastro e Nicita, 2019). Quindi, l’innegabile riduzione del costo che si deve sostenere per reperire, gestire e comunicare l’informazione viene in realtà «pagata» dagli utenti digitali sotto forma di cessione di grandi masse di informazioni (rilevanti a fini economici) che restano catturate nelle piattaforme globali di Google, Apple, Facebook Amazon e Microsoft (Gafam), accrescendo enormemente le loro quote di mercato (e i loro profitti) in segmenti chiave come la pubblicità e la vendita al dettaglio dei dati a terzi. Le stesse piattaforme, poi, possono avvalersi di milioni di individui frammentati e sparsi in tutto il mondo che le alimentano costantemente, attraverso un’attività lavorativa assoggettata a livelli di controllo senza precedenti e scandita strettamente dalle logiche degli algoritmi di intelligenza artificiale (De Stefano, 2016).

Il controllo assoluto dei dati, ossia la proprietà privata di un asset intangibile, sembrerebbe dunque il fattore cruciale che spiega il «paradosso dei profitti» e la costruzione di rendite di posizione apparentemente inscalfibili, associate a un rafforzamento crescente di quella che Shoshana Zuboff chiama la «tecnologia della sorveglianza». A fronte di questa prospettiva, si avanzano seri dubbi sul fatto che lo Stato democratico – teoricamente rappresentante degli interessi collettivi – possieda ancora l’autorità per sviluppare e attuare regole e interventi di policy in grado di ostacolare e limitare l’influenza e il potere di gruppi di interessi privati che hanno assunto dimensioni come quelli delle Gafam. Questo dovrebbe spingere, secondo molti economisti e osservatori, a cedere molte prerogative di controllo o addirittura a costruire ex novo istituzioni sovranazionali allo scopo di limitare la forza di imprese che sicuramente travalicano i confini territoriali di un singolo Stato nazione e che padroneggiano incontrastate le logiche del mondo virtuale. La realtà, come vedremo alla fine di queste pagine, è però molto peggio di così. Sono infatti proprio le regole e le policy fiscali e monetarie adottate dai governi e dalle banche centrali a costituire la ragione primaria del progressivo consolidamento del profitto e del potere dei «giganti digitali», a cui lo Stato democratico ha finito per essere del tutto contiguo negli interessi e nelle finalità. Non esiste alcuna istituzione transnazionale che abbia la capacità e la volontà di riscrivere questa storia.


Gafam: le reali radici del profitto e del potere

Se pure la proprietà di un asset intangibile come i dati sia un elemento di forza indiscutibile delle Gafam, di seguito mostreremo come la gran parte della recente crescita dei loro profitti monetari e del loro potere derivi non tanto dalla suddetta attività di creazione di valore dai flussi di informazione in condizioni di monopolio/oligopolio, quanto piuttosto dai crescenti guadagni derivanti dal possesso e dallo scambio di asset non riproducibili (come ad esempio titoli, azioni, beni immobili ecc.), spesso alimentati con la procedura del riacquisto delle azioni di propria emissione (il cosiddetto «buyback»). Cerchiamo di qualificare questo concetto.

Come è noto, il valore degli asset non riproducibili fluttua in base al divario giornaliero o orario tra quantità domandate e offerte dei loro stock relativi, come riflesso di una sorta di meccanismo d’asta che favorisce scommesse e strategie speculative [2]. L’unico motivo per acquistare questi asset è quello di attendersi un aumento significativo del loro valore di scambio (ossia del loro prezzo futuro rispetto al prezzo di acquisto), aumento che potrebbe avvenire solo perché «in molti» hanno la stessa aspettativa e, per questa ragione, continuano a richiedere l’asset. I guadagni che derivano dall’incremento del valore degli asset (capital gain), spesso, nel caso delle grandi corporation, sono alimentati con la procedura del riacquisto delle azioni di propria emissione (vedi ad esempio Lazonick, 2014), che contribuisce a gonfiare il valore di quegli asset e ad attirare ulteriori richieste degli stessi da parte degli investitori operativi sui mercati finanziari [3]. Poiché i riacquisti di azioni vengono effettuati utilizzando gli utili non distribuiti di un'impresa, l'effetto economico netto per gli azionisti sarebbe lo stesso anche se gli utili non distribuiti fossero pagati come dividendi (considerazioni fiscali a parte) [4]. Osserviamo che questa pratica si fonda sull’idea di derivazione neoclassica (Teoria dell’agenzia, vedi ad esempio Jensen e Meckling, 1976) in base alla quale se un’impresa vuole massimizzare il suo valore complessivo, deve necessariamente massimizzare il valore delle quote detenute dagli azionisti [5].

Dal 2009 al 2017, secondo i calcoli di Artemis Asset Management, le sole aziende americane hanno riacquistato in Borsa azioni proprie per un totale di 3.800 miliardi di dollari. Nel 2019 i buyback del complesso delle aziende americane ammontavano a più di 800 miliardi di dollari [6].

Relativamente alle Gafam nel biennio 2018-2019 abbiamo i seguenti dati [7]:

- Apple nel 2019 ha impiegato 66 miliardi di dollari nell’attività di riacquisto dei propri stock, a fronte di utili (ossia profitti operativi) pari a 55,3 miliardi di dollari, che rappresentava il secondo miglior risultato della storia dell’azienda di Cupertino. Nel 2018 l’impiego è stato di 72 miliardi contro 59,5 miliardi di utile.

- Microsoft nel 2019 ha attivato buyback per 18,4 miliardi di dollari a fronte di utili pari a 39,2 miliardi; nel 2018, invece, i buyback hanno raggiunto la cifra record di 1000 miliardi contro utili per 32,5 miliardi.

- Alphabet (Google), nel 2019, 18,1 miliardi di buyback contro 18,5 miliardi di dollari di utile; nel 2018 8,5 miliardi di acquisti contro 8,9 miliardi di utile.

- Facebook, nel 2019, 4,2 contro 4,9 miliardi di utile; nel 2018 12,8 contro 13,6.

- Amazon, diversamente dalle altre, fino al 2021 è stata scarsamente attiva su questo fronte, nonostante nel 2016 Bezos avesse annunciato un programma di buyback per 5,1 miliardi all’anno. In seguito al disinvestimento a lungo termine di Bezos e al contenimento dell’emergenza pandemica, che aveva fatto impennare tremendamente il valore delle sue azioni, la politica di Amazon è cambiata radicalmente e già nel primo trimestre del 2022 ha riacquistato proprie quote per un ammontare di 2,1 miliardi di dollari con la prospettiva di arrivare a 10, a fronte di utili attesi per circa 25 miliardi.

Come già sottolineato da Lazonik nel 2014, la copiosa quantità di liquidità impiegata dalle aziende nel riacquisto delle proprie azioni non viene reinvestita in nuova occupazione, in aumenti salariali o in nuovi prodotti ma va a gonfiare il portafoglio degli azionisti e il valore delle azioni che essi detengono. Le aziende, quindi, non creano valore dall’espansione quantitativa o qualitativa della propria specifica attività quanto dalla possibilità di estrarre valore ricorrendo a questo meccanismo. Per questa ragione proprio i principali protagonisti della «web-tech revolution», ossia le imprese più innovative di questi ultimi due decenni, sono divenuti progressivamente grandi holding finanziarie, compensando in questo modo i rischi derivanti da investimenti in sviluppo di nuove tecnologie, particolarmente elevati in contesti economici caratterizzati, come negli ultimi anni, da crescente incertezza. Le 5 Gafam (in realtà 4 perché Amazon ha iniziato in modo significativo a partire dal 2022) solo nel 2019 hanno speso in buyback più di 100 miliardi di dollari, ossia più di un ottavo della cifra investita da tutte le società americane nel riacquisto di azioni (vedi sopra). La strategia ha evidentemente dato i suoi frutti: se facciamo riferimento ai dati del 2021, la capitalizzazione di borsa delle Gafam, equivale più o meno ai Pil di Italia, Germania, Francia e Spagna messi assieme, ed è di oltre il doppio di quella del continente africano (circa 2,6 trilioni di dollari).

A ogni modo, il ricorso al suddetto meccanismo ha potuto funzionare per tre ordini di ragioni:

In primo luogo, i riacquisti di azioni proprie non erano sempre legali. In passato furono considerati come manipolazione del mercato fino a quando la Securities and Exchange Commission (Sec), sotto l'amministrazione Reagan, non ha allentato drasticamente le regole per consentire riacquisti regolari e di grandi dimensioni. Più precisamente la Sec ha adottato la Regola 10B-18 nel 1982 come porto sicuro per proteggere un emittente dall’accusa che stava manipolando il prezzo del suo titolo se riacquistava le sue azioni. La Sec ha modificato e interpretato la regola 10B-18 di volta in volta.

In secondo luogo, la possibilità di accedere ad un’ampia disponibilità di credito a basso costo, in conseguenza delle politiche di espansione quantitativa messe in atto dalla Fed e da altre Banche Centrali all’indomani della Grande Crisi del 2008-2009 [8], ha spinto le grandi corporation a impiegare sui mercati finanziari la liquidità presa a prestito dal sistema bancario, dove un manager può raggiungere i propri obiettivi di utile (e di distribuzione dei dividendi tra gli azionisti) ben prima che un qualunque investimento time-consuming generi un eventuale analogo risultato. Questo, a maggior ragione, è vero per gli investimenti nei settori più innovativi come quelli Ict-based, che richiedono l’impiego di una quantità consistente di risorse verso attività (es. R&S) dall’esito fortemente incerto. Non a caso è a partire dal 2009 che i buyback cominciano ad acquisire una rilevanza sempre più grande [9].

In terzo luogo, il vero vantaggio dei buyback risiede nel modo in cui sono stati e vengono tassati. Negli Stati Uniti, fino al luglio del 2019, le società quotate in borsa non pagavano alcuna imposta su di essi, rendendo estremamente più conveniente per gli azionisti l’operazione di riacquisto rispetto al pagamento dei dividendi, soggetti a tassazione alla stregua di redditi da capitale (con aliquota fino al 35%). Successivamente, è stata introdotta, in seguito alla riforma fiscale di Trump, un’imposta sui capital gain pari al 21% – sia per le società quotate che quelle non quotate in borsa. L’imposta relativa ai capital gain derivanti dai buyback, però, è riscossa sul corrispettivo netto pagato dalle società per il riacquisto di azioni dopo aver dedotto l'importo netto ricevuto al momento dell'emissione originaria delle azioni. Mentre per la società, anche in questo caso, riacquistare azioni o pagare dividendi non fa alcuna differenza, per gli azionisti si. Mentre i dividendi continuano ad essere tassati come reddito da capitale, infatti, le azioni vendute dopo un riacquisto comportano un'imposta sulle plusvalenze che si applica solo all'utile complessivo del proprietario. Quindi, per gli azionisti, le operazioni di buyback continuano a rimanere estremamente più vantaggiose che ricevere il pagamento dei dividendi. A questo va aggiunta la considerazione che la riforma di Trump prevedeva, tra le altre misure, una sorta di condono per le imprese multinazionali che avessero riportato negli Usa il capitale detenuto all’estero, con un’aliquota intorno al 10%. Anche questo ha favorito un ulteriore afflusso di liquidità verso le operazioni di riacquisto.


Le «revolving doors» tra Stato e Gafam

Anche se il modello di business basato sul controllo assoluto di una risorsa intangibile come i dati ha permesso la piena affermazione delle Gafam nei mercati digitali, emerge, per quanto detto finora, come la crescita abnorme dei profitti e il consolidamento del potere che oggi quelle imprese hanno raggiunto sarebbero stato impensabili senza alcune delle vantaggiose misure di politica fiscale e monetaria adottate dai governi e dalle banche centrali. Queste risorse sono state determinanti per esercitare una forte azione lobbistica nei confronti dello stesso Stato che ne ha facilitato l’espansione. Alcune delle Gafam come Amazon, infatti, sono tra i principali fornitori di servizi informatici della Cia e della Nsa. In virtù di questi super contratti governativi la società dispone della liquidità necessaria per fare dumping ai danni dei concorrenti della distribuzione, ritagliandosi sempre di più una posizione da monopolista [10]. Nel 2017 il Governo degli Stati Uniti aveva già quadruplicato le richieste legate alla sicurezza nazionale inviate ad Apple per avere informazioni sugli utenti, arrivando ad interessare un numero di utenti compreso tra 9.000 e 9.249 [11]. Come per altre multinazionali, tutte le tecnologie più innovative che le Gafam hanno a disposizione – a partire da Internet e dal Cloud computing [12] – sono state elaborate da agenzie di ricerca federali e finanziate con denaro pubblico, per essere poi in seguito privatizzate e rivendute a chi quelle tecnologie le ha inventate, secondo un sofisticato e inscindibile meccanismo di commistione pubblico/privato [13]. In altri termini, il potere delle Gafam, si manifesta passando attraverso le «porte girevoli» che esistono tra loro stesse e lo Stato, utilizzando outsider aziendali a diventare insider politici e viceversa. Mentre questa porta gira, soggetti privati che lavorano per le Gafam entrano ed escono da posizioni pubbliche, allo scopo di elaborare e applicare le politiche dell’era digitale, sempre più ispirate e coerenti con le logiche del Panopticon, in cui gli interessi di Stato e mercato diventano sovrapponibili (vedi Mirrleess, 2021) [14].

In conclusione, la vicenda storica delle Gafam rappresenta oggi uno dei più efficaci esempi di quello che Karl Marx e Friedrich Engels sinteticamente esprimono nel Manifesto del 1848: «the executive of the modern state is nothing but a committee for managing the common affairs of the whole bourgeoisie».

La storia non cambia e anzi potrebbe addirittura peggiorare qualora le prerogative di uno Stato venissero cedute definitivamente a istituzioni sovranazionali, dove quegli stessi common affairs sarebbero ancor di più garantiti e ulteriormente allontanati dalla conoscenza dell’opinione pubblica.


Bibliografia

- P. Biliç, T. Prug, M. Zitko, The Political Economy of Digital Monopolies: Contradictions and Alternatives to Data Commodification. Policy Press, Bristol University, 2021.

- S. Bruno, Il migliore dei mondi possibili, «Sbilanciamoci», 29 agosto 2021 (http://sbilanciamoci.info/migliore-dei-mondi/ ).

- M. Delmastro, A. Nicita, Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo, Il Mulino, Bologna 2019.

- J. Eeckhout J., The Profit Paradox: How Thriving Firms Threaten the Future of Work. Princeton University Press, 2021.

- M. Jensen, W. Meckling, Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership Structure, «Journal of Financial Economics», vol. 3, no 4, pp. 305-360, 1976.

- W. Lazonik, Profits without prosperity, «Harvard Business Review», Vol 51, III, 2014.

- T. Mirrleess , Getting at GAFAM's Power: A Structural and Relational Framework, «Heliotrope journal», 2021.

E. Turco, Are Stock Buybacks Crowding Out Real Investment? Empirical Evidence from U.S. Firms, «ExSIDE» Working Paper No. 37-2021, 2021.

S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell'umanità nell'era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.


Note [1] Una parte estremamente rilevante dei quali è costituita dai costi che si devono sostenere per reperire, gestire e comunicare l’informazione (sapere se una certa transazione sia utile, se ci sia qualcuno con cui poter avviarla con successo, come avviarla e portarla a termine, come verificarne le varie fasi ecc.). [2] «Taluni beni che entreranno a far parte degli stock di ricchezza possono essere “flussi prodotti”, come ad esempio delle case, ma solo se si tratta di case la cui produzione è ultimata nello stesso anno e il loro valore viene depurato del valore del suolo su cui sorgono. Il suolo è infatti qualcosa che “esiste” e non è prodotto. Si tenga comunque presente che le case prodotte e vendute in ciascun anno sono di solito una piccola frazione di tutte le compravendite di case nello stesso anno», (vedi Bruno, 2017). [3] Osserviamo che tali guadagni non hanno propriamente la natura di redditi, almeno non come il concetto di reddito è sempre stato considerato nella letteratura economica ossia come controparte esatta del valore dei flussi di produzione. [4] Un esempio aiuterà a capire questa somiglianza. «Immaginiamo un’azienda che abbia asset per 100 dollari, 30 di provenienza dal debito e 70 dai mezzi propri (equity). Ciò significa che la società ha un indice di leverage pari a 0,3, (debiti/totale degli asset). Se la società decide di effettuare un buyback di 10 dollari di azioni può recuperare la somma che serve per comprarle o vendendo asset per 10 dollari, e quindi versare il ricavato agli azionisti in cambio di azioni, oppure può prendere a prestito 10 dollari. In entrambi i casi aumentano i debiti: nel primo caso l’indice di leverage arriverà a 0,33 (30 dollari di debito su 90 di asset), nel secondo a 0,4 (40 dollari di debito su 100 di asset). Da quest’esempio si capisce perché il buyback somigli a un dividendo: in entrambi i casi gli azionisti incassano i fondi erogati dalla società» (vedi link https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/09/22/abbuffata-buyback/). [5] Secondo i teorici dell’agenzia il rapporto fra consiglio di amministrazione (in rappresentanza degli azionisti) e management (alla cui testa siede l’amministratore delegato) è assimilato ad un contratto di agenzia dove il principal (l’azionista) affida ad un agent (l’amministratore delegato) la direzione dell’impresa. Il principal e l’agent sono per loro natura soggetti egoisti e perseguono i loro interessi personali: se il primo non riesce a controllare il secondo, questo perseguirà il proprio interesse anche a danno dello stesso. Come riallineare gli interessi degli uni con gli interessi degli altri? Se l’interesse dell’azionista è vedere crescere il valore delle azioni detenute (shareholder value) allora bisogna retribuire il management con la possibilità di acquistare azioni a prezzi scontati incentivandolo a ricercarne costantemente l’aumento di valore (stock options). [6] Questa tendenza si è osservata globalmente, sebbene in misura minore, fuori dagli Stati Uniti. Si segnalano per entità di buyback il Giappone, il Regno Unito, la Francia, il Canada e la Cina. [7] Le fonti dei dati: Bilić et al. (2021); https://www.cnbc.com/2018/12/18/stock-buybacks-hit-a-record-1point1-trillion-and-the-years-not-over.html;.https://www.statista.com/topics/4213/google-apple-facebook-amazon-and-microsoft-gafam/#topicHeader__wrapper [8] Dopo la crisi di fiducia generata nel sistema bancario privato in seguito allo scoppio della bolla dei mutui subprime, la Federal Reserve, allo scopo di ripristinare la capacità delle banche di concedere prestiti a famiglie e imprese, mette in atto le cosiddette misure di Quantitative Easing, Attraverso di esse la stessa Fed, seguita dopo poco tempo dalla Banca d’Inghilterra, dalla Bce e dalla Banca Centrale del Giappone, creano «dal nulla» una quantità enorme di moneta elettronica per acquistare o titoli obbligazionari detenuti dalle banche sia allo scopo di migliorare (quando possibile) i loro bilanci sia di ridurre il costo del credito per famiglie e imprese. Quando gli acquisti di tali titoli sono consistenti, infatti, il loro prezzo tende ad essere relativamente alto. Il tasso effettivo di interesse, misurato dal rapporto tra reddito fisso e prezzo del titolo, tende di conseguenza ad essere relativamente basso, rendendo i prestiti della banca relativamente poco onerosi. [9] Ad ogni modo, come messo in evidenza da Turco (2018): «buybacks have a negative effect on capital investment, both before and after the financial crisis, and especially among large firms operating in highly concentrated industry» [10] La National Security Agency (Nsa), l’agenzia di sicurezza nazionale del governo americano che si occupa di intelligence, ha assegnato un contratto per la fornitura di servizi di cloud computing ad Amazon Web Services, l’azienda specializzata del gruppo Amazon. Il valore del contratto è di 10 miliardi di dollari. Come ha scritto il Washington Post, il contratto tra la Nsa e Amazon arriva sulla scia della lunga disputa sul contratto Jedi – sempre relativo a servizi di cloud, e sempre dal valore di 10 miliardi – che il dipartimento della Difesa americano aveva assegnato a Microsoft, ma che infine è stato cancellato, dando vita a un contenzioso legale. C’entrano le proteste di Amazon, che sosteneva che la scelta di Microsoft fosse stata influenzata dall’ostilità di Donald Trump nei confronti di Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario del «Washington Post», giornale molto critico verso l’ex-presidente, (link https://www.startmag.it/innovazione/microsoft-amazon-contratto-cloud-nsa/ ). Amazon era già un attore importante nel mercato dei servizi cloud per le agenzie di sicurezza nazionale americane: possiede infatti già, dal 2013, un contratto con la Cia per 600 milioni di dollari. [11] Vedi articolo al link https://www.repubblica.it/tecnologia/sicurezza/2017/09/29/news/apple_boom_richieste_dati_da_governo_usa-176865681/ [12] L’idea di una «rete intergalattica di computer» fu introdotta da J.C.R. Licklider, responsabile nel 1969 dello sviluppo di Arpanet, l’Advanced Research Projects Agency Network (Rete dell’Agenzia per i progetti di ricerca avanzati). Sviluppata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, all’origine questa rete nasceva come mezzo per lo scambio di informazioni in modo veloce e sicuro: praticamente il primo network progenitore del moderno internet. [13] Un recente report della società di analisi dei media Graphika, insieme alla Stanford University, ha individuato una strategia su Facebook (ma anche di Twitter e Instagram) orientata a influenzare gli utenti dei social network in Medio Oriente e in Asia a favore di commenti e informazioni sulla politica estera americana e contro la Russia. Tale circostanza è stata rivelata dal «Wahington Post» e confermata dalla portavoce di Meta (la società madre di Facebook). Vedi link https://www.washingtonpost.com/technology/2022/08/24/facebook-twitter-us-influence-campaign-ukraine/. Accuse, ancora se non ancora definitivamente provate, erano state già rivolte a Facebook, durante la campagna di vaccinazione di massa dei Governi contro il Covid-19, riguardo alla diminuzione della visibilità dei commenti di alcuni utenti, calcolando un «punteggio di esitazione al vaccino» e classificando gli interventi a seconda del loro livello di scetticismo (vedi link https://www.foxnews.com/media/facebook-whistleblowers-leak-documents-revealing-effort-to-censor-vaccine-hesitancy-report ). Tutto questo è stato reso possibile grazie all’introduzione di un nuovo algoritmo proprietario, il News Feed – che sfrutta gli sviluppi raggiunti dalla ricerca pubblica campo del Machine Learning (https://royalsociety.org/~/media/policy/projects/machine-learning/publications/public-views-of-machine-learning-ipsos-mori.pdf ) – il cui scopo principale è quello di segnalare, tra le migliaia di possibili post di aggiornamento, quelli che potenzialmente potrebbero interessare di più e quindi di fornire il contenuto giusto alle persone giuste al momento giusto. [14] I numeri che denunciano il fenomeno sono molto chiari: Nel 2017–2018, 93 dei 113 lobbisti di Alphabet-Google avevano lavorato per lo Stato degli Stati Uniti. Nello stesso periodo, 76 su 114 di Amazon e 42 su 50 dei lobbisti di Facebook avevano fatto lo stesso. Nei primi tre mesi del 2019, quasi il 75% dei 238 lobbisti delle Big Tech era stato precedentemente impiegato dallo Stato o da funzionari politici (vedi Mirrlees, 2021).



Immagine: Corrado Costa, Abbeveratoio per farfalle II, s.d.



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Andrea Pannone, economista esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e dei suoi riflessi a livello microeconomico e macroeconomico. Attualmente è ricercatore senior alla Fondazione Ugo Bordoni, ente in cui lavora dal 1993. Si è laureato con lode in Scienze Statistiche ed Economiche all’Università di Roma La Sapienza presso cui ha conseguito anche il Dottorato in Scienze Economiche. È stato docente di economia politica e di economia dei nuovi media in diversi master organizzati in Università pubbliche e private. È autore di pubblicazioni nazionali e internazionali.

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