Nelle paludi di una videocall

Zoom doom: perché i software di videoconferenza ci tengono a bada

Pubblichiamo un estratto da Le paludi della piattaforma: riprendiamoci internet, il nuovo libro di Geert Lovink appena uscito per la collana Not di NERO e tradotto da Silvia Dal Dosso e Silvio Lorusso. Vi ricordiamo che, oltre che sulle cattivissime piattaforme, potete acquistare il libro in libreria o direttamente sul nostro sito.

Dopo alcune settimane di isolamento, abbiamo cominciato a chiederci perché le videoconferenze fossero così faticose. La gente si lamentava del fatto che la Zoom fatigue fosse «gravosa per il cervello». Perché le lezioni e le riunioni su Skype, Teams e Google Hangout sono così sfiancanti? Queste domande non sono emerse come una critica all’interfaccia, ma come un vero e proprio grido di allarme esistenziale. Così lo definiscono gli articoli più popolari su Medium. I titoli sono spesso variazioni sul tema di «Soffri di Zoom fatigue o è esistenzialmente devastante fingere che la vita prosegua normale mentre il mondo va a fuoco?» e «Il problema non è la Zoom fatigue, è il lutto per la vita così come la conoscevamo». 

Sono bastati pochi giorni perché si affermasse il tropo della Zoom fatigue, chiaro segno che il discorso su internet non è più controllato dall’«ottimismo organizzato» delle lobby del marketing. La positività manageriale è stata sostituita dall’arrivo dell’instant doom. Secondo Google Trends, il termine ha fatto il giro del mondo nel settembre 2019 e ha raggiunto il picco alla fine di aprile 2020, quando ne ha parlato anche la BBC. «Le chat video ci costringono a un maggiore sforzo per elaborare gli indizi non verbali come le espressioni facciali, il tono e l’intonazione della voce e il linguaggio del corpo; prestare maggiore attenzione a questi elementi consuma molta energia» dichiarò un esperto. «Le nostre menti sono unite ma i nostri corpi sanno che non lo siamo. Questa dissonanza, che suscita sentimenti contrastanti nelle persone, è estenuante. Non ci si può rilassare nella conversazione con naturalezza». Un altro intervistato parla di come su Zoom «tutti ti guardano; sei sul palcoscenico, quindi subentra la pressione sociale e la sensazione di doversi esibire. Essere performativi è snervante e aumenta lo stress». Forse la previsione di Han sulle prestazioni era corretta.

«Di solito quando faccio lezione sto in piedi e mi muovo, a volte gesticolando molto» afferma Michael Goldhaber, «stare seduti a una scrivania o in qualsiasi altro posto è sicuramente faticoso. Perché non sia stancante bisognerebbe ripensare radicalmente la disposizione di telecamera, microfono e schermo in rapporto ai partecipanti». L’aspetto triste e sfiancante delle videoconferenze forse è legato allo stato «intermedio» dei computer portatili e degli schermi desktop, che non sono né mobili e intimi, come lo smartphone e FaceTime, né immersivi come i sistemi di realtà virtuale tipo Oculus Rift. La Zoom fatigue spicca, perché è direttamente collegata alla dimensione di «bullshit job» delle nostre esistenze da ufficio. Ciò che dovrebbe essere personale si rivela sociale. Ciò che dovrebbe essere sociale, si rivela formale, noioso e (molto probabilmente) inutile. Una consapevolezza che avvertiamo solo nelle rare occasioni in cui viviamo lampi di eccezionale intuizione intellettuale e la vitalità esistenziale fa breccia nei confini tecnologici prestabiliti.

Come ha osservato l’insegnante di programmazione Stoyanova, la possibilità di vedere se stesso – anche se nascosto nel momento – produce un effetto riflessivo stancante, la sensazione di trovarsi in una sala di specchi. Gli educatori sentono di monitorare costantemente il proprio comportamento, cercando al contempo di raggiungere gli studenti attraverso l’interfaccia. In un post sul suo blog, L.M. Sacasas descrive che effetto fa prestare così tanta attenzione a se stessi: «In qualche misura siamo sempre intimamente consapevoli di noi stessi, ovviamente, ma questo è il consueto “Io” nella relazione “Io-Tu”. Qui stiamo parlando piuttosto di una relazione “Io-Me-Tu”. Sarebbe come avere uno specchio che solo noi possiamo vedere e ci segue ogni volta che parliamo con gli altri di persona. È un notevole dispendio di energie sociali e cognitive, perché inavvertitamente mi occupo della mia immagine e di quella degli altri partecipanti».

La videoconferenza è psicologicamente impegnativa perché il nostro cervello deve elaborare il sé come corpo e come immagine. Ci mancano i sottili indizi corporei del contenuto di ciò che qualcuno racconta.

È come esercitarsi in un discorso davanti allo specchio. Quando si parla a se stessi, si avverte una dissonanza cognitiva persistente. A ciò si aggiunge la mancanza di contatto visivo – anche se gli studenti hanno il video attivo – che rende le lezioni in diretta più difficili da gestire. «Senza il feedback non verbale e il contatto visivo a cui siamo abituati, sembrano conversazioni sconclusionate». Curiosamente, parlare nel vuoto attiva comunque le ghiandole dell’adrenalina, a differenza di quando ci si esercita davanti a uno specchio. Siamo entrati in una strana modalità di performance che ha in qualche modo a che fare con l’analisi predittiva e l’azione preventiva. Anche in assenza di pubblico, la performance su Zoom attiva comunque risposte biochimiche nel corpo. 

Eppure, se Zoom è uno specchio, è uno specchio differito e distorto. I videoartisti online Annie Abrahams e Daniel Pinheiro sottolineano gli effetti poco discussi della differita. «Non siamo mai esattamente nello stesso spazio-tempo. Lo spazio è scomodo perché ci troviamo di fronte a volti ravvicinati per lunghi periodi di tempo. Vediamo per la prima volta un volto che ha la stessa inquadratura di quando da bambini i nostri genitori si affacciavano sulla culla. E che poi è diventata l’inquadratura delle interazioni con i nostri amanti a letto. Questo fa sì che durante le videoconferenze abbiamo una connessione costante a qualcosa di molto intimo, anche in situazioni professionali». Abrahams e Pinheiro osservano anche che nell’immagine è impossibile rilevare molti dettagli. «La videoconferenza è psicologicamente impegnativa perché il nostro cervello deve elaborare il sé come corpo e come immagine. Ci mancano i sottili indizi corporei del contenuto di ciò che qualcuno racconta. La nostra immaginazione riempie i vuoti, mentre l’elaborazione e la selezione di cosa ignorare diventa un atto necessario. Nel frattempo, scrutiamo incessantemente lo schermo (non c’è visione d’insieme né periferica). Non siamo mai sicuri di essere “lì”, che la connessione esista ancora, e quindi controlliamo in continuazione la nostra immagine. Sentiamo un suono monofonico compresso, tutti i singoli suoni sono mescolati in un unico paesaggio sonoro».

Il risultato della compressione e della distorsione è un’interfaccia impoverita, un simulacro grossolano dell’interazione sociale. Isabel Löfgren dice che dovremmo pensare a Zoom come a un «medium freddo», che richiede una maggiore partecipazione da parte del pubblico, secondo il concetto di media freddi e caldi di Marshall McLuhan. «Il cervello deve colmare le lacune della percezione e questo fa sì che i nostri cervelli (e i nostri computer) vadano in overdrive». Per quanto riguarda l’angolo di ripresa, Löfgren aggiunge che guardiamo costantemente un campo medio inquadrato male di altri corpi. «Non abbiamo alcun senso delle proporzioni in relazione agli altri corpi… la vicinanza emotiva al soggetto dall’altra parte della telecamera è neutralizzata dalla mancanza di contatto visivo» lasciandoci privi di una «connessione feromonica». In questo senso, «la terminologia Zoom è corretta» osserva l’autrice, «le nostre esperienze degli altri avvengono in “modalità gallery”».

Catturati nella griglia

Il regime di Zoom tiene in riga il soggetto, ligio ai suoi doveri e al suo percorso. Occhi sulla telecamera, sussurra il nostro alter ego digitale dagli auricolari. Secondo Sacasas, le videoconferenze sono «un’esperienza fisicamente, cognitivamente ed emotivamente impegnativa, poiché la nostra mente si impegna a dare un senso alle cose in queste circostanze. Potremmo pensare che si tratti dei soliti processi inconsci che operano alla massima capacità per aiutarci a dare un senso a ciò che stiamo vivendo». Siamo costretti a essere più attenti, non possiamo distrarci. Il multitasking può essere allettante, ma è anche molto ovvio. La cultura della sorveglianza sociale (e a volte anche macchinica) ha i suoi costi. Ci stanno osservando? La nostra risposta in questo caso deve assumere la forma di un nuovo e sofisticato sogno a occhi aperti impercettibile, l’assenza in una situazione di presenza visiva permanente: una mossa impossibile per gli studenti, ai quali non viene concesso il diploma se la telecamera è spenta.

Il software di videoconferenza ci tiene a bada. Dopo aver avviato l’applicazione e inserito nome, numero di riunione e password della sessione, ci vediamo apparire come una figura della deludente galleria di ritratti che costituisce il Team. In pochi secondi ti ritrovi incapsulato in quell’io performativo che sei tu. Sto forse muovendo la testa, sistemandomi in una posizione migliore? Questa angolazione mi dona? Sembro concentrato? E l’immagine professionale è spesso disturbata dalle distrazioni della «vita reale»: partner che entrano nella stanza, un animale domestico che passa, bambini bisognosi e l’inevitabile corriere che suona alla porta. «Grazie alla mia immagine sullo schermo, sono consapevole di me stesso non solo dall’interno ma anche dall’esterno» osserva Sacasas, che descrive l’esperienza come un doppio evento che la mente umana vive come se fosse reale.

Perché sono obbligato ad apparire sullo schermo? Non ho il diritto di essere invisibile? Voglio spegnere la telecamera e tramutarmi in una semi-presenza spettrale. Voglio essere un voyeur, non un attore. Aspiro a essere congelato come un antico busto di marmo, ordinatamente in fila con altri illustri personaggi, che prendono vita con un clic come le sagome di Una notte al museo. Ma no, è troppo tardi, sono già entrato nella chiamata e apparso sul palco. I signori dei software hanno deciso diversamente, regalando al mondo il dono della partecipazione visibile. Esigono un contributo totale. Il set è progettato per assicurare la nostra completa concentrazione, tutto il tempo, affinché possiamo dare il massimo contributo possibile e investire la massima energia mentale. Odiate vestirvi per quella videochiamata (ma lo fate lo stesso). Stanchi e annoiati dal lavoro emotivo, mettete una spiaggia tropicale come sfondo, un paradiso di carta per dare un tocco di allegria alla situazione.

Su Artforum, Paula Burleigh osserva che «l’immagine più pervasiva del COVID-19 ha poco a che fare con la malattia vera e propria: è la griglia digitale delle persone che si riuniscono virtualmente su Zoom per gli happy hour dei “quarantenati”, le riunioni di lavoro e le lezioni in classe».  La griglia, che Burleigh descrive come un segno distintivo del design minimalista e dell’arte modernista, «richiama l’ordine, la funzionalità e il lavoro, la sua struttura ci rimanda alla carta millimetrata e ai cubicoli degli uffici». Alex Bigman, nel suo post in due parti History of the Design Grid, spiega che sono stati la pittura e lo stile di impaginazione rinascimentali a inventare il sistema di intersezione di linee verticali e orizzontali. E questo ha portato allo sviluppo del design grafico. La tesi secondo cui le immagini siano più dinamiche e coinvolgenti quando l’oggetto è in una posizione leggermente decentrata sembra non essere ancora stata recepita dai progettisti di videoconferenze.

Per alcuni, imbrattare di graffiti le riunioni aziendali e di porno i workshop era un atteggiamento fastidioso e puerile da maschi. Altri hanno capito lo scherzo, interpretandolo come un gesto anarchico che sconvolgeva il regime di piastrelle quadrate e il perfetto ordine della piattaforma.

La griglia sovrascrive ogni separazione razionale tra i soggetti imprigionati nelle sue scatole. Gli individui non possono riversarsi nello spazio altrui, se non quando spettegolano su un canale secondario. Ricordiamo i piaceri colpevoli dei photobomber da Zoom che, all’inizio dell’isolamento, facevano raid di gruppo nelle sessioni pubbliche trovate sui vari siti web e social media. Per alcuni, imbrattare di graffiti le riunioni aziendali e di porno i workshop era un atteggiamento fastidioso e puerile da maschi. Altri hanno capito lo scherzo, interpretandolo come un gesto anarchico che sconvolgeva il regime di piastrelle quadrate e il perfetto ordine della piattaforma. Come conclude Burleigh, «la griglia è piena di contraddizioni tra le promesse che fa e quelle che mantiene». I quadrati individuali sono l’equivalente post-industriale di un incubo abitativo alla Le Corbusier: siamo condannati a vivere nelle nostre utopiche celle di prigione. Una tragica normalità, punteggiata da una profonda disperazione.

Siamo ancora vivi, ma veniamo lentamente catturati dalla griglia, intrappolati dentro la realtà dell’esistenza. La sua insistenza su una consapevolezza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, non può che sfociare in una rivolta regressiva, in un desiderio di vendetta. Come possiamo far esplodere la galleria di ritratti sociali con quei terribili ritagli rettangolari? Incarcerati nella griglia, ci isoliamo, ci allontaniamo dalla riunione aziendale ed entriamo in una versione virtuale di Las Meninas (1656) di Velasquez. Ci distraiamo passando alla sala successiva, la mostra sul Suprematismo del 1915 di Kazimir Malevich. Torniamo in noi, solo per accorgerci della deprimente realtà: siamo di nuovo all’interno della nostra triste versione dei titoli di testa di La famiglia Brady. Siamo su Zoom, non stiamo vagando dentro a chissà quale opera d’arte.

Il corpo si esaurisce, si annoia, si distrae e infine crolla. Basta con tutti questi input! Per favore concediamo di meno, spegniamo la fotocamera. Il consiglio più diffuso per combattere la Zoom fatigue è semplicemente «fare meno cose»… Come se fosse un’opzione. C’è un obbligo qui che riguarda la produttività e l’efficienza, non il software. Come diceva un articolo: «Non odiare Zoom, odia il capitalismo». Dovremmo progettare degli indicatori del sentiment del gruppo? In che modo possiamo accelerare le riunioni in tempo reale? Forse con più canali secondari e meno presenza visiva continua. Ma un attimo, non stiamo già facendo abbastanza multi-tasking? 

Geert Lovink è teorico dei media e studioso di Internet. È autore, tra gli altri, di Uncanny Networks (2002), Dark Fiber (2002), e Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme (2019). Coideatore della mailing list Nettime e di ADILKNO (Foundation for the Advancement of Illegal Knowledge), nel 2004 ha fondato l’Institute of Network Cultures all’Università delle Scienze Applicate di Amsterdam.