Lettori fissi

lunedì 22 aprile 2024

DODICI PROVOCAZIONI PER UN RINNOVAMENTO DEL MARXISMO




Premessa. Un bilancio critico e autocritico dopo 20 anni di ricerca di una casa politica


A cavallo del cambio di secolo, di fronte all’approfondirsi della crisi globale (il crollo dei titoli tecnologici al Nasdaq preannunciava la catastrofe finanziaria del 2007/2008), al precipitare del reddito e delle condizioni di vita dei lavoratori e all’acuirsi dei conflitti geopolitici, ho avvertito l’urgenza di riprendere la militanza politica attiva, dopo essermi a lungo impegnato esclusivamente nella ricerca teorica. 


Alla fine dei Sessanta, dopo avere militato in alcuni gruppi maoisti e contribuito alla nascita del Gruppo Gramsci, ho intrapreso la carriera sindacale nella federazione unitaria dei meccanici,  interrotta nel 1974. Nella seconda metà dei Settanta, dopo una breve esperienza in Autonomia, mi allontanai  dalla politica attiva, demotivato dal riflusso delle lotte operaie e dall’evoluzione del PCI e dei partitini della sinistra extraparlamentare, i quali, pur seguendo traiettorie diverse, convergevano verso il postmodernismo liberale. Nei decenni seguenti mi sono limitato a svolgere la professione di giornalista, saggista e ricercatore universitario (caporedattore del mensile “Alfabeta”,  autore di diversi libri dagli  Ottanta ai primi del Duemila, infine ricercatore all’Università di Lecce). 


Il primo passo verso la ripresa di un impegno politico diretto è stato un prudente tentativo di avvicinamento a Rifondazione Comunista tramite la mediazione dell’amico Piero Manni, editore leccese nonché consigliere regionale del Partito. Il rapporto si è interrotto nel 2013, dopo il coinvolgimento di Rifondazione nel cartello elettorale Rivoluzione Civile, che proponeva il giudice Ingroia come “front runner”. Nell’occasione spiegai ai compagni (che avevano adombrato una mia possibile candidatura) che consideravo indigesta l’ammucchiata con forze genericamente “progressiste”, incompatibili con il progetto di ricostruire un partito di classe in Italia. 


Qualche anno dopo, ho immaginato che la Rete dei Comunisti (organizzazione di cui apprezzavo il lavoro nel sindacato di base USB e la gestione delle lotte per la casa alla periferia di Roma, e con la quale condividevo l’obiettivo dell’uscita dall’Unione Europea) potesse incarnare un progetto politico alieno alle sirene elettoraliste e impegnato a costruire un’organizzazione rivoluzionaria di classe. Aderii quindi ad Eurostop (associazione fondata dalla Rete). Me ne sono allontanato dopo la scelta di convergere nel cartello di Potere al Popolo in vista delle elezioni politiche del 2018. Mi dissociai per due motivi: il cedimento alle smanie elettoralistiche distraeva energie dall’obiettivo del radicamento nei territori e nei luoghi di lavoro; inoltre la convergenza con soggetti appartenenti all’area delle sinistre post autonome riproponeva la logica delle liste “arcobaleno”, annacquando la lotta per la difesa della sovranità popolare e aprendo la porta a mediazioni opportunistiche con le culture “politicamente corrette”.


In seguito mi ero convinto che la lotta di classe, dopo la disgregazione delle classi subalterne provocata da decenni di offensiva liberista e dal tradimento delle sinistre, avesse assunto la forma spuria dei populismi, con varianti di destra e di sinistra. Da un lato, alcune esperienze latinoamericane prospettavano la possibilità di usare il populismo come fase intermedia verso una nuova forma socialista, dall’altro cresceva il rischio che a fungere da contenitori della rabbia sociale fossero i populismi di destra, capaci di camuffarsi dietro parole d’ordine di sinistra. Di qui la necessità di riappropriarsi di slogan e parole d’ordine “dirottati” dalle destre, e di puntare alla costruzione di un blocco sociale fra lavoratori e classi medie impoverite, tenendo conto del fatto che gli strati popolari nutrivano un crescente risentimento  nei confronti delle sinistre impegnate a difendere esclusivamente interessi, bisogni e diritti di individui e gruppi minoritari per intercettare il consenso dei ceti medio-alti e dei residenti dei centri urbani gentrificati. Così ho contribuito alla fondazione  dell’associazione Nuova Direzione, dalla quale mi sono allontanato un anno più tardi, avendo capito che non esistevano i presupposti per trasformarla in un rinnovato progetto socialista.

Preso atto che l’unico obiettivo praticabile era impegnarsi in un paziente lavoro di ricostruzione della coscienza di classe, mi sono chiesto quali requisiti avrebbe dovuto soddisfare una forza politica capace di affrontare tale impresa. Li ho sintetizzati in cinque punti: 1) considerate le connotazioni negative assunte dalla parola, tale forza politica non dovrebbe dichiararsi di sinistra bensì chiaramente comunista; 2) dovrebbe legittimare tale etichetta, da un lato svolgendo un lavoro teorico di aggiornamento del marxismo, liberandolo dalle incrostazioni dogmatiche, dall’altro mettendo radici nei luoghi di lavoro e di studio e nei territori; 3) dovrebbe prendere le distanze dall’ideologia antistatalista e antipolitica dei movimenti post sessantottini, chiarendo che lo stato non è solo lo strumento delle classi dominanti, ma anche il terreno dello scontro fra gli interessi e le idee di tutte le classi sociali, per cui la conquista del potere resta un obiettivo irrinunciabile per qualsiasi forza che si definisca comunista; 4) dovrebbe opporre al cosmopolitismo borghese, che è la cifra del progressismo di sinistra, l’internazionalismo proletario inteso come rapporto di solidarietà fra proletari e popoli oppressi e sfruttati nella comune lotta contro l’imperialismo, ribadendo che la sovranità popolare non può prescindere dalla sovranità nazionale, visto che nessun popolo privato della propria sovranità può decidere liberamente del suo futuro; 5) di fronte a una situazione che vede gli Stati Uniti e l’Europa impegnati a costruire una “santa alleanza” contro la Cina, la Russia e tutti i Paesi che non accettano i diktat occidentali, dovrebbe assumere una coerente posizione antimperialista, contro la NATO e la UE. 

Tre anni fa, su sollecitazione di alcuni compagni di Milano iscritti al Partito Comunista diretto da Marco Rizzo, presi visione delle tesi del loro precedente congresso e mi parve che contenessero posizioni compatibili, se non sovrapponibili, con i punti appena elencati, per cui ho accettato, vincendo la mia idiosincrasia nei confronti delle competizioni elettorali, di candidarmi alle elezioni municipali di Milano. Ho avuto modo di pentirmene quasi subito, vista la svolta decisa da Rizzo, il quale, pagando il prezzo di una serie di scissioni che hanno falcidiato il numero degli iscritti, ha deciso di dare vita a Democrazia Sovrana e Popolare, formazione in cui convergono, assieme ai resti del suo partito, gruppi ed esponenti dichiaratamente di destra, ancorché provenienti dalla cosiddetta  “destra sociale”. 

L’ultima tappa di questa ardua ricerca di una casa politica è stata un'esperienza che ho seguito con interesse e simpatia, e alla quale ho partecipato attivamente, nata dal tentativo degli amici della rivista Cumpanis di avviare un processo di unificazione fra i vari gruppi di “reduci” e fuorusciti dai diversi partitini della galassia neo comunista; processo che ha portato alla nascita, prima del Centro Studi Domenico Losurdo, del quale sono stato nominato co-presidente, poi del Movimento per la Rinascita  Comunista, che verrà presentato pubblicamente il prossimo 11 maggio a Roma.  

Mi trovo ora a dover spiegare perché non sarò presente in quella occasione. Potrei accampare ragioni di salute (affatto prive di fondamento) ma non è mio costume mascherare il dissenso con simili scuse, quindi preferisco essere chiaro. Il pletorico (più di 200 pagine!) documento preparatorio ha l’ambizione di affrontare praticamente tutti i temi teorico-politici oggi sul tappeto: dal rischio imminente di una nuova guerra mondiale, all’attualità della categoria di imperialismo; dalla crisi della globalizzazione economica, alla costituzione di un fronte mondiale anti imperialista; dal ruolo guida che la Cina e gli altri socialismi del secolo XXI svolgono in questo fronte, all’analisi degli attuali scenari di guerra (Ucraina e Palestina in primis); dal rilancio delle parole d’ordine fuori dall’Europa e fuori dalla NATO, all’analisi del conflitto di classe oggi in Italia; dalla crisi istituzionale del nostro Paese, all’attacco alla Costituzione del 48, ecc. ecc.). Ambizione che mi pare francamente al di là delle attuali capacità di elaborazione teorico politica del movimento che lo ha prodotto. Nel testo ho trovato tracce dei cinque requisiti sopra elencati, ma anche parti connotate da nostalgie e dogmatismi. Ciò non sarebbe motivo sufficiente per sottrarmi, con atto di presunzione e arroganza, al confronto delle idee, se non fosse che trovo inaccettabile la precipitazione con cui si è voluto dare al movimento lo status organizzativo di un vero e proprio partito (tesseramento, una piramide gerarchica che sale dalle cellule di base alle federazioni territoriali, al comitato di coordinamento e alla segreteria nazionali, il tutto condito dall’immancabile evocazione del centralismo democratico, oltre che non giustificato dalla consistenza numerica dell'organizzazione). Una scelta a dire poco prematura che sancisce di fatto la nascita dell’ennesimo mini partito che va ad affiancarsi alle altre formazioni neo comuniste, saltando il lento e faticoso processo intermedio di maturazione, radicamento ed elaborazione teorica che deve precedere una simile decisione. 

Resto disponibile a partecipare al dibattito in tutte le sedi in cui gli amici riterranno opportuno coinvolgermi, a partire dalle iniziative del Centro Studi Domenico Losurdo (se e quando uscirà dal letargo in cui versa da alcuni mesi), anche se non potrò più esserne presidente perché la salute non me lo consente. Come primo contributo, pubblico qui di seguito queste  “Dodici provocazioni per  un rinnovamento del marxismo” che penso aiutino a spiegare meglio le mie divergenze rispetto al progetto del Movimento Rinascita Comunista e più in generale verso l’intera galassia neo comunista italiana (e più in generale occidentale).

 

***


I. Contro il determinismo storico. Non esiste alcuna necessità immanente al processo storico (nessuna presunta “legge) che consenta di affermare che la fine del capitalismo e l’avvento del socialismo sono eventi ineluttabili. Benché lo stesso Marx lo abbia più volte ribadito (vedi la polemica con il traduttore russo del Capitale, il quale gli attribuiva l’intenzione di descrivere le fasi storiche che ogni nazione e ogni civiltà deve attraversare per approdare al modo di produzione capitalista e poi a quello socialista), e benché l’ultimo Lukacs abbia dedicato larga parte della Ontologia dell’essere sociale a spiegare come il processo storico sia imprevedibile e come le cause che hanno fatto sì che abbia imboccato una determinata direzione piuttosto che un’altra siano afferrabili solo post festum, la visione determinista/meccanicista della storia (di cui la formula delle tre fasi – feudalesimo, capitalismo, socialismo – canonizzate dal diamat staliniano è esempio paradigmatico) ha continuato a essere un elemento caratterizzante della cultura socialcomunista. I suoi corollari sono, fra gli altri, i dogmi economicista ed evoluzionista che indicano nella contraddizione “oggettiva” fra forze produttive e rapporti di produzione la causa fondamentale della fine necessaria e inevitabile del modo di produzione capitalista.


II. Contro il mito delle forze produttive. Una delle smentite più clamorose della tesi che associa la possibilità della rivoluzione socialista a un elevato livello di sviluppo delle forze produttive ci viene dagli eventi storici dell'ultimo secolo. Tutte le rivoluzioni socialiste riuscite sono avvenute in Paesi "sottosviluppati" o in via di sviluppo, fra Asia e America Latina, laddove i tentativi rivoluzionari in Paesi industrialmente avanzati si sono conclusi con la sconfitta delle classi subalterne. I dirigenti della II Internazionale avevano proclamato l'impossibilità che il tentativo bolscevico nella Russia "arretrata" andasse a buon fine, così come i trotskisti predissero che, in assenza di una rivoluzione vittoriosa in Occidente, la rivoluzione russa non avrebbe potuto durare. L'ironica battuta di Gramsci che scrisse che i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione "contro il Capitale di Marx" è la migliore introduzione alla formidabile innovazione teorica introdotta da Lenin. Con la tesi dell'attacco "all'anello debole della catena", Lenin ha infatti colto una verità fondamentale: a spianare la strada alla rivoluzione proletaria sono - più delle crisi e dei conflitti economici - le crisi politiche (guerre, lotte fra le classi dominanti, impasse istituzionali, ecc.) che indeboliscono la capacità di dominio politico, ideologico e culturale (la capacità egemonica) delle élite, opportunità che possono essere colte solo se esiste un'adeguata leadership rivoluzionaria. Il leninismo coincide quindi con la rivalutazione del peso del fattore soggettivo (l’autonomia del politico) nel processo storico. Di solito si ribatte che solo la presenza di "condizioni oggettive" favorevoli consente il successo, altrimenti ogni tentativo rischia di scadere nel volontarismo, nel soggettivismo, nel putschismo, ecc. Giusto, a condizione che il riferimento alle condizioni oggettive non serva a far rientrare dalla finestra i dogmi economicisti ed evoluzionisti. 


III. Contro l'esaltazione acritica di scienza e tecnologia. La visione che attribuisce un ruolo strategico allo sviluppo delle forze produttive come fattore  di per sé progressivo ha fatto sì che la cultura marxista abbia ereditato la tendenza positivista all'esaltazione acritica della scienza e della tecnologia. Il movimento socialcomunista non è riuscito a integrare nel proprio patrimonio culturale i contributi filosofici, scientifici ed ideologici che, nel corso dell'ultimo secolo, hanno smontato il mito della "neutralità" della scienza e della tecnologia, dimostrando come i modelli epistemici di queste discipline teoriche e i loro prodotti incorporino i rapporti di forza fra dominanti e dominati incarnando gli interessi, gli obiettivi e i bisogni dei primi a spese dei secondi. Il giudizio positivo che sia Lenin che Gramsci diedero dei metodi tayloristi di organizzazione del lavoro sono un esempio evidente in tal senso. E un esempio ancora più clamoroso sono i deliri di autori come Antonio Negri e André Gorz che hanno esaltato la rivoluzione digitale come un fattore in grado di democratizzare l'economia, le relazioni sociali, il sistema politico e persino l'organizzazione del lavoro, anche dopo che la concentrazione monopolistica nei settori dell'high tech e della New Economy ha inequivocabilmente dimostrato come queste tecnologie e i loro modelli di razionalità contribuiscano potentemente a elevare i tassi di sfruttamento della forza lavoro, a ridurre l'occupazione e a colonizzare (americanizzandolo) l'immaginario delle nuove generazioni. Ovviamente ciò non significa negare a priori l'utilità dei prodotti della scienza e della tecnica. Il nodo cruciale consiste nel superare la visione ingenua secondo cui basterebbe riappropriarsi delle conoscenze scientifiche e tecnologiche incorporate nell'apparato produttivo per far sì che, una volta socializzate, esse si convertano automaticamente in altrettanti strumenti per la costruzione del socialismo. 


IV. Le rivoluzioni come freno a mano del treno della storia. Se si analizzano senza pregiudizi le motivazioni che hanno consentito di volta in volta alle avanguardie rivoluzionarie di mobilitare le larghe masse popolari contro il potere capitalistico-borghese si scopre che, come scrisse Walter Benjamin descrivendo la rivoluzione come l'atto di "tirare il freno a mano della storia", si è trattato in larga misura di motivazioni conservative, piuttosto che progressiste. I popoli sono insorti contro la colonizzazione capitalistica di tutti gli aspetti della vita sociale allo scopo di renderli funzionali al processo di valorizzazione, contro la distruzione dei legami tradizionali di tipo sociale, storico, affettivo, culturale. L'idea che il capitalismo svolga una funzione progressiva "liberando" l'individuo dai lacci e laccioli comunitari che ne limitavano l'autonomia e l'iniziativa, benché se ne possano trovare tracce in Marx (soprattutto nel Manifesto), è un'idea sbagliata che incarna l'ideologia e le aspirazioni delle classi medie "riflessive", piuttosto che i bisogni e gli interessi delle classi lavoratrici. Non si capisce altrimenti perché, come ricordato al punto 2), ad avere successo siano state le rivoluzioni dei Paesi in lotta contro il dominio imperialistico - coloniale e neocoloniale -, dei Paesi metropolitani, rivoluzioni che hanno avuto come protagoniste le larghe masse contadine, classi operaie di recente proletarizzazione (a loro volta di origine contadina), borghesie nazionali che difendevano le radici storico-culturali delle comunità locali contro il tentativo di integrarle nel mercato mondiale. Leader come Lenin, Mao, Ho Chi Min, Castro, ecc. hanno capito e interpretato questi sentimenti popolari, hanno cioè capito che la rivoluzione è conservativa e locale prima che innovativa e cosmopolita. Ciò vuol dire che la rivoluzione è per definizione impossibile nei paesi "avanzati", "civilizzati" da secoli di dominio capitalistico? No, ma in tali Paesi essa appare più difficile, a meno che non si diano condizioni di gravissima crisi egemonica (politica, culturale, istituzionale) oltre che economica delle élite dominanti, condizioni in cui gli effetti distruttivi dell'economia capitalistica suscitano l’aspirazione di dar vita a un mondo alternativo.


V. Contro l’ideologia progressista. Le tesi precedenti convergono nell'affermare che la rivoluzione socialista non è un evento "progressista". Intanto perché non esiste un'idea di progresso condivisa da tutte le classi sociali, come ha finito per credere il marxismo occidentale. L'idea di progresso si basa sul presupposto (confutato nei punti precedenti) che la storia consista in una serie di fasi evolutive orientate appunto in senso "progressivo". In particolare, si basa sul presupposto che la rivoluzione socialista rappresenti la continuazione di quella democratico-borghese della quale realizzerebbe compiutamente quei valori e principi che quest'ultima ha confinato nell'ambito dei diritti individuali e civili, senza estenderli all'ambito delle relazioni sociali ed economiche. Posto che Marx fu fiero oppositore dei cosiddetti diritti universali dell'uomo (che definiva come diritti dell'homo oeconomicus, ritagliati sull'individuo proprietario), la ragione fondamentale per cui la rivoluzione socialista non può essere la continuazione di quella borghese consiste nel fatto che la classe capitalistica conquista il potere politico nel momento in cui si è già impadronita del potere economico, mentre la classe proletaria non detiene potere alcuno, per cui la sua rivoluzione deve necessariamente marcare una discontinuità, un momento di rottura radicale del continuum temporale (un "balzo di tigre", come scrisse Benjamin). Rompere con l'idea illuministico borghese di progresso implica rompere con i concetti borghesi di democrazia e libertà strettamente associati a tale idea. Sulla democrazia tornerò più avanti, quanto all’idea di libertà, il punto di vista marxista sul tema, fondato sulla distinzione fra libertà da (la libertà negativa dell’individuo dai vincoli imposti dalla politica) e libertà di (la libertà positiva di imporre alle “leggi” del mercato i limiti fissati dalla comunità), è stato a lungo la via maestra che ha sbarrato la strada all’opportunismo. Venuta meno questa distinzione, non vi è stato più alcun argine capace di impedire lo slittamento progressivo verso l’ideologia liberale. Slittamento che ha coinciso con la progressiva mutazione della base sociale della sinistra, sia moderata che “radicale”, fino alla situazione attuale che vede la totale coincidenza fra sinistra dei diritti (beninteso “universali” e rigorosamente individuali!) e classi medio-alte dei centri urbani gentrificati. Le sinistre liberal progressiste ignorano sistematicamente i diritti sociali delle classi lavoratrici (che considerano conservatrici e reazionarie per i loro istinti “politicamente scorretti”) e si schierano altrettanto sistematicamente con le nazioni occidentali impegnate a combattere contro i regimi “totalitari” in nome della democrazia e dei diritti universali dell’uomo (l’una e gli altri identificati con i principi, i valori e le procedure del mondo occidentale e quindi tutto meno che universali).


VI. Il socialismo del secolo XXI oltre l’utopia ottocentesca. Lo straordinario successo delle rivoluzioni cinese e vietnamita, oltre che i più avanzati tentativi rivoluzionari dell’America Latina, mettono in discussione il modello di società socialista formulato da Marx ed Engels negli ultimi decenni del XIX secolo e rimasto sostanzialmente immutato fino al crollo dell’Unione Sovietica. Quel modello prevedeva, fra le altre cose, il superamento in tempi relativamente brevi degli scambi di mercato su base monetaria, la nazionalizzazione integrale di banche e grandi imprese, nonché il progressivo trasferimento della loro gestione alla libera cooperazione fra lavoratori. Di più, la transizione al comunismo veniva immaginata in forme non molto dissimili da quelle ipotizzate da socialisti utopisti e anarchici: estinzione dello stato ed emancipazione totale dei soggetti da qualsiasi forma di alienazione ed estraneazione. E’ evidente che il socialismo in stile cinese è quanto di più lontano da tale modello. Il mercato svolge un ruolo strategico nella relazione fra i vari settori dell’economia, a partire dallo scambio fra città e campagna, e nella distribuzione di beni e redditi fra i cittadini. Tutto ciò avviene tuttavia sotto lo stretto controllo politico da parte dello stato-partito, che non solo non si estingue ma ha svolto, svolge e presumibilmente svolgerà per tempi lunghissimi un ruolo strategico nel rapido e continuo miglioramento dei livelli di vita  dei cittadini (800 milioni di persone strappati alla povertà in tempi brevissimi), che vieta alla borghesia nazionale di tradurre in potere politico la ricchezza accumulata, che proietta sul piano globale la propria capacità egemonica (politica, economica, culturale) assemblando sotto la propria leadership un poderoso fronte antimperialista che ha impedito all’impero a stelle e strisce di estendere il proprio dominio sull’intero pianeta. E’ fondamentale che la teoria marxista cominci a interrogarsi sui limiti della visione classica del socialismo: possiamo immaginare un mondo in cui tutte le contraddizioni spariranno, non saremmo così vicini al concetto di fine della storia, incompatibile con la concezione materialista? Infine no  si tratta di sostituire il modello classico della transizione al socialismo con il modello cinese: la rivoluzione cinese non incorpora un paradigma universale, è un evento unico e irripetibile in cui una storia e una tradizione millenarie assai diverse da quelle occidentali (no feudalesimo, burocrazie imperiali centralizzate, diffusa consapevolezza del bene comune legata alle filosofie confuciana e taoista, ecc.) hanno svolto un ruolo non meno determinante del marxismo -leninismo. Lo stesso dicasi delle forme peculiari che la democrazia ha assunto in Cina, a dimostrazione che la tesi secondo cui ogni Paese che raggiunge un elevato livello di sviluppo economico deve necessariamente imboccare la via della democrazia in stile occidentale è del tutto falsa. La Cina non è un Paese “totalitario”, è un Paese i cui cittadini misurano il grado di democrazia del proprio sistema politico in base alla capacità di promuovere il benessere delle masse e non in base al rispetto di astratte procedure formali. Anche su questo terreno, i comunisti occidentali  sono chiamati a sviluppare una propria specifica concezione di democrazia socialista, senza accettare passivamente la tradizione borghese e senza pensare di ”copiare” quella cinese. 

  


VII. Sovranità nazionale e socialismo. La sinistra condanna la sovranità nazionale in quanto arbitraria, repressiva, autoritaria, “di destra” e ne invoca il superamento da parte di istituzioni sovranazionali, senza rendersi conto che queste ultime incarnano una “sovranità al quadrato” ben più arbitraria, autoritaria e antidemocratica. Contro questa visione occorre ribadire che sovranità nazionale non vuol dire necessariamente nazionalismo, e che distinguere fra interno ed esterno non vuol dire necessariamente xenofobia, bensì volontà di definire lo spazio in cui i cittadini possono liberamente decidere in merito alle scelte che influiscono sulla loro vita. Il dibattito marxista sulla questione nazionale è stato lungo e articolato fino agli anni Settanta del Novecento, dopodiché la (presunta) fine dell’epoca coloniale ha fatto sì che le sinistre occidentali trasformassero il tema in un tabù politico, accusando chi lo riesumava di essere terzomondista, reazionario e nazionalista. Questa polarizzazione si è inasprita a mano a mano che procedeva il processo di costruzione della Unione Europea, dividendo il campo marxista in tre grandi aree: gli entusiasti del progetto unitario, i favorevoli con riserve, i contrari. Gli appartenenti alle prime due correnti ignorano volutamente quanto disse il guru neoliberista von Hayek allorché affermò che l’unificazione europea sarebbe stata la soluzione ideale per stroncare le velleità dei lavoratori di contrattare salari, redditi e diritti. Ai marxisti che sostengono che gli interessi di classe devono prevalere su quelli della nazionalità, citando il detto del Manifesto che recita gli operai non hanno patria, occorrerebbe ricordare come Lenin replicava a questa posizione: “Avete preso una sola citazione dal Manifesto e pare che vogliate applicarla senza riserve, giungendo fino a negare le guerre nazionali. Tutto lo spirito del marxismo esige che ogni situazione venga esaminata soltanto a) storicamente; b) solo in connessione con le altre; c) soltanto in connessione con l’esperienza concreta della storia. [...] La tesi sulla patria e sulla sua difesa non può essere egualmente applicabile in tutte le condizioni. Nel Manifesto comunista si afferma che gli operai non hanno patria. Giusto. Ma non vi si afferma solo questo. Vi si afferma che nella formazione degli Stati nazionali la funzione del proletariato è alquanto particolare. Se si prende la prima tesi (gli operai non hanno patria) e si dimentica il suo nesso con la seconda (gli operai si costituiscono in classe nazionalmente, ma non come la borghesia), s’incorre in un grave errore". Nell’attuale situazione storica, in cui il processo di integrazione nello spazio europeo ha espropriato i cittadini di un contesto in cui possano decidere in merito alle scelte che influiscono sulla loro vita, affermare la necessità che i lavoratori si ri-costituiscano in classe sul piano nazionale non è anacronistico né reazionario: è un elemento strategico del progetto di trasformazione socialista. 



VIII. Cosa ci ha insegnato il populismo. Il populismo non è un’ideologia (non esiste un corpus ideale populista paragonabile a quelli liberale e socialista) ma è la forma che la lotta di classe assume nell’era del capitalismo globalizzato e finanziarizzato in assenza di partiti socialcomunisti all’altezza del compito. Ciò significa che il populismo non è di per sé regressivo, destinato ad assumere connotati “di destra”, ma significa anche che si tratta di movimenti che lanciano una sfida a chi si propone di ricostruire un partito rivoluzionario. A Ernesto Laclau dobbiamo una lucida analisi che, mentre respinge la tesi per cui il populismo sarebbe solo una tecnica di manipolazione delle masse per sovvertire il sistema liberal democratico e rimpiazzarlo con regimi totalitari, riconosce che esso incarna una richiesta di democrazia radicale che il sistema non può soddisfare. Il “momento populista” è frutto di una situazione in cui un determinato sistema non è più in grado di rispondere alle domande che gli arrivano dal corpo sociale. Si instaura così una “catena equivalenziale” fra le domande inevase;  l’accumulo di domande inascoltate e la crescente incapacità del sistema istituzionale di assorbirle fa sì che tra di loro si stabilisca una relazione di equivalenza, radicalizzando il conflitto fra sistema istituzionale e popolo. In tal modo  la società si divide in due campi: “noi e loro" e, a questo punto, si danno le condizioni per unificare i soggetti che avanzano le rivendicazioni tramite il riconoscimento di obiettivi e nemici comuni. Mentre il marxismo associa i conflitti sociali alle contraddizioni immanenti ai rapporti di produzione, questa visione rinvia alla loro unificazione sul piano simbolico in opposizione a un regime oligarchico (élite, casta, ecc.) vissuto come “cattivo”. Questa logica rappresenta una sfida per qualsiasi progetto socialcomunista nella misura in cui le dinamiche di molti movimenti sociali nati negli ultimi decenni sono più simili a queste rispetto a quelle descritte dalla teoria marxista. Si tratta di una sfida che proviene sia da destra che da sinistra, in quanto è difficile distinguere fra movimenti dotati di potenziale emancipativo e rivoluzioni passive, anche perché qui (apparentemente!) non è in gioco l’egemonia di una determinata classe o blocco sociale, bensì la capacità di certe rivendicazioni particolari di incarnare simbolicamente l’intera catena equivalenziale. Queste strategie hanno funzionato nei Paesi latinoamericani dove i populismi di sinistra – grazie a particolari condizioni storico sociali - hanno conquistato il potere fondando nuove formazioni politiche che hanno assorbito al proprio interno le sinistre tradizionali (comunisti compresi). Sono invece fallite in Europa laddove, vedi Podemos in Spagna, si è cercato di “importare” il modello latinoamericano senza condividerne la radicalità antisistemica. Resta il fatto che il populismo, pur con tutti i limiti e i rischi che lo caratterizzano, offre alcuni insegnamenti preziosi a un movimento socialcomunista occidentale sempre meno capace di incidere significativamente nella realtà sociale. In particolare: 1) nei sistemi politici compiutamente post democratici il momento populista ha il merito di rappresentare una rivendicazione di democrazia radicale; 2) la capacità di mobilitazione di massa che i movimenti populisti sono riusciti a esercitare anche in contesti dove ogni velleità antagonista sembrava sopita da tempo, è una chiara dimostrazione del fatto che il popolo non è un’entità preordinata bensì una costruzione politica; 3) il populismo dimostra la necessità di riconoscere l’autonomia della sfera politica (ciò che il marxismo occidentale sembra aver dimenticato dai tempi di Lenin e Gramsci), anche se tale autonomia non è assoluta, né è confinabile nella dimensione puramente simbolico-discorsiva. 



IX. Costruire il partito di classe. La prima generazione di movimenti post comunisti, partoriti dalla crisi delle sinistre "alternative" dei Settanta e/o quelli nati dopo il crollo dei socialismi reali e confluiti nel calderone di un'area culturale ampia e variegata (femministe, no global, eco pacifisti, ecc.) condividono il rifiuto nei confronti di ogni organizzazione di tipo verticale. Forma partito e forma stato vengono ripudiate in quanto "politicamente scorrette". Qualcuno ha definito "paranoia orizzontalista"  l’ossessione che l'organizzazione in quanto tale implichi il suo uso a favore di interessi particolari, che il potere di fare cose si trasformi inevitabilmente in potere sugli altri. Senza sfidare questa diffidenza radicale non è possibile affrontare l’impresa di costruire il partito di classe, formula che preferisco a quella di  ricostruire il partito comunista perché penso che, nell’attuale, concreto contesto storico, costruzione della classe e costruzione del partito debbano andare di pari passo. Parlare di costruire la classe suona bizzarro alle orecchie di chi ragiona a partire dai dogmi che vedono la classe come un’entità che esiste "in sé e per sé", una “realtà oggettiva” generata dai rapporti di produzione. Ma se è vero che la classe operaia occidentale appare oggi come un’entità fantasmatica, un anacronismo otto-novecentesco, dopo che decenni di guerra di classe dall’alto, ristrutturazioni tecnologiche, delocalizzazioni, “riforme” giuridiche e istituzionali, tradimenti di partiti e sindacati convertiti al neoliberalismo l’hanno trasformata in una nebulosa di atomi individuali espropriati del proprio status professionale e giuridico, ma soprattutto inconsapevoli di appartenere a un’entità sociale che condivide interessi, bisogni e aspettative; se è vero tutto ciò, vuole appunto dire che la classe va costruita; un compito che non spetta alla sociologia accademica, ma a un'organizzazione politica, radicata nei vari spezzoni in cui la classe è stata divisa, capace di svolgere un lavoro di analisi sul campo – un tempo la si chiamava conricerca - e di generalizzazione teorica dei risultati. L'organizzazione in questione allo stato dei fatti non esiste, per cui costruzione della classe e costruzione del partito sono processi intrecciati. Il partito può nascere e crescere solo selezionando i soggetti più coraggiosi e intelligenti generati dai nuclei di resistenza anticapitalista che continuano a esistere, malgrado la situazione di arretramento e sconfitta del proletariato. Un processo che non può venire “dal basso”, come frutto di una aggregazione spontanea delle avanguardie di lotta; ma che non può nemmeno essere calato dall'alto adottando il modello leninista nella sua forma “classica”. Questa fase sarà di lunga durata, né si può pensare di poterla abbreviare volontaristicamente, anche se l’attuale crisi economica, politica e militare a livello mondiale richiederebbe tempi brevi. Nel frattempo ogni velleità di costruzione di un blocco sociale rivoluzionario è prematura e controproducente. E' vero che le rivoluzioni asiatiche e latinoamericane hanno costruito ampi fronti di classe anti imperialisti e anticapitalisti, ma si tratta di processi caratterizzati da composizioni di classe, storie e tradizioni radicalmente diverse dalle nostre. Qui non esistono larghe masse contadine, né una piccola e media borghesia realmente “progressiva”, dato che un buon 30/40% della popolazione è parte integrante del blocco sociale egemonizzato dalle élite neoliberali. Perciò per noi costruire il blocco sociale vorrà dire lavorare per un lungo periodo per rinsaldare gli spezzoni in cui le classi lavoratrici sono state separate, mentre solo in una fase successiva si potrà ragionare su eventuali alleanze. 


X. Lo stato delle forze soggettive. Ciò che più colpisce, analizzando la storia dei partitini neo comunisti nati dalla dissoluzione del PCI, è la loro scarsa, per non dir nulla, capacità di capire come il più grande partito comunista occidentale abbia potuto trasformarsi, in tempi relativamente brevi, in un partito neoliberale. L’analisi è rimpiazzata dai sentimenti di rabbia, delusione, risentimento, e dalle accuse di “tradimento” ai gruppi dirigenti. Ma da dove vengono quei gruppi dirigenti? L’incapacità di rispondere a tale interrogativo è certificata dal fatto che non è raro ascoltare panegirici di Enrico Berlinguer, il leader che ha officiato il compromesso storico con la DC e che, dopo avere proclamato l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre, ha dichiarato di sentirsi al sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO; l'uomo che, prima di presentarsi ai cancelli della Fiat nel 1980, quando la battaglia era ormai persa, aveva benedetto la svolta opportunista della CGIL di Lama. Se non si riesce a fare i conti con il fondatore dell’eurocomunismo, figurarsi se ci si possono aspettare riflessioni critiche sulla eredità teorico politica del “migliore”. Eppure l'interpretazione togliattiana del concetto gramsciano di “nazional popolare” ha inciso non poco sugli sviluppi successivi: la base si era illusa che la tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni” fosse un diversivo tattico, senza capire che si trattava di una visione che sovvertiva l’analisi marxista del rapporto fra riforme e rivoluzione, secondo cui la vera alternativa non è fra riforme e rivoluzione, ma fra riforme come mezzo per preparare la rivoluzione e riforme come fine a sé stesse. Il nodo non è l’alternativa fra rivoluzione violenta e conquista del potere per via pacifica bensì: si va al potere per governare il sistema, oppure perché si tratta del primo passo verso un cambiamento sistemico? La via di Togliatti prevedeva di realizzare una convivenza (quella che Berlinguer avrebbe tradotto con la formula del Compromesso storico) con partiti borghesi che mai avrebbero consentito di avviare un cambio di sistema: quel riformismo, che non metteva in discussione la natura, le funzioni e gli obiettivi di questo Stato, e si limitava a rivendicare l'applicazione dei principi della Costituzione del 48, era votato al compromesso con il nemico di classe. Il connubio di elettoralismo ed opportunismo è l'eredità che il PCI ha trasferito a Rifondazione e a tutti gli altri "cespugli" neo comunisti: a mano a mano che questi perdevano voti ed iscritti, cresceva lo spasmodico impegno per conquistare uno straccio di deputato, senatore, consigliere regionale o municipale, le scarse risorse organizzative ed economiche venivano investite per realizzare a qualsiasi costo tale obiettivo, piuttosto che per ricostruire il partito di classe. Questa ossessione, alimentata dalle piccole ambizioni di un personale politico di qualità decrescente, ha provocato la frammentazione e la competizione fra "marchi" concorrenti, fino all’esito grottesco delle pletore di simboli con la falce e il martello che decorano i cartelloni e le schede elettorali. Inutile aggiungere che queste formazioni, salvo rarissime eccezioni, non hanno mai abbozzato una seria riflessione sul rinnovamento teorico del marxismo, sulle ragioni del crollo sovietico e del successo cinese, sulla crisi del sistema capitalistico globale, né tantomeno sulle trasformazioni socioculturali subite dalle classi lavoratrici. Quanto alle sinistre antagoniste degli anni Settanta:  dopo avere combattuta la svolta eurocomunista in nome di una ideologia "marxista leninista" che Lenin avrebbe catalogato come estremismo infantile, e dopo essere state asfaltate dalla controffensiva capitalista, si sono "sciolte" nei movimenti postmoderni dei decenni successivi, convertendosi a loro volta al liberalismo, sia pure in versione progressista. La loro confluenza con i reduci del PCI dopo il "suicidio" della Bolognina ha creato i presupposti dell'esperimento bertinottiano, un calderone in cui si sono mescolati i peggiori difetti del vecchio PCI (elettoralismo e tatticismo opportunistico) con i peggiori difetti del movimentismo (estremismo parolaio, individualismo, democraticismo piccolo borghese). Sono stati i populismi di sinistra a occupare lo spazio politico ed elettorale liberato dalla trasformazione delle sinistre tradizionali in partiti neoliberali, sia fungendo da collettori delle velleità “sovversive” di strati piccolo borghesi vecchi e nuovi, penalizzati dalla crisi ed entrati in stato di ebollizione fin dai tempi di Tangentopoli, sia agendo da megafono della rabbia delle classi lavoratrici. Da quando questa falsa alternativa ha perso energia propulsiva, la galassia dei partitini neo comunisti accarezza l’illusione di poterne ereditare l’effimero consenso elettorale: si punta a intercettarne la base elettorale e a usarla come “scorciatoia” per bypassare il faticoso lavoro quotidiano necessario per organizzare le avanguardie presenti nei vari fronti di lotta, formarle come quadri politici, riunificare i frammenti del movimento comunista, elaborare un programma credibile e forgiare gli strumenti organizzativi necessari ad attuarlo. Riemergono i vecchi vizzi – opportunismo, codismo, elettoralismo, demagogia – aggravati dall’urgenza di rispondere alle sfide imposte dalla crisi economica e politica mondiali. Gli uni si accodano al movimento No Vax, senza distinguere la sacrosanta rabbia popolare che lo ispira dai deliri complottisti e pseudoscientifici di taluni suoi esponenti; altri strizzano l’occhio ai movimenti sovranisti di destra, progettando improbabili intese elettorali con ambigui interlocutori; altri ancora, e sono i casi migliori, si spendono per riunificare i resti della diaspora comunista ed evitano di inseguire chimere elettorali, ma scontano gravi limiti teorici e ideologici, coltivando una visione eccessivamente ottimista delle prospettive dischiuse dai successi del movimento antimperialista mondiale (che nulla può fare per rimediare agli sconquassi di casa nostra). In tutte le varianti l'età media dei quadri è elevata, per cui alimenta nostalgie del passato e spirito di testimonianza, il che emerge sia dal linguaggio - anacronistico, retorico e poco comprensibile dalle masse dei lavoratori e dei giovani - sia dalla riproposizione di modelli organizzativi obsoleti, conditi dal richiamo rituale ai principi del centralismo democratico. 


XI. Lo stato della classe. L'ortodossia marxista postula l’esistenza di un’unica classe sociale, la classe operaia, realmente rivoluzionaria, un Soggetto della Storia “naturalmente” destinato a rovesciare il modo di produzione capitalistico. Nel corso del tempo questo dogma è stato più volte messo in discussione, affidando per esempio il ruolo di guidare la lotta anticapitalista ai lavoratori della conoscenza, al proletariato giovanile, alle “moltitudini”, alle donne, ecc. Il tutto senza che sia venuta meno la logica "essenzialista" che postula l’esistenza di un Soggetto “naturalmente” rivoluzionario. E’ ora di superare questa logica, rimpiazzandola con l’'idea di costruire una rete di gruppi sociali e comunità integrabili in un progetto unitario di cambiamento rivoluzionario. Si tratta di individuare le nuove contraddizioni in grado di integrare la classica opposizione bipolare padroni/operai, con l’obiettivo di tracciare un perimetro che definisca il materiale sociale, culturale e antropologico mobilitabile contro il capitalismo. Il primo parametro riguarda il reddito.  La controrivoluzione liberista ha scavato un solco profondo fra una infima minoranza di super ricchi e una larga maggioranza di poveri e poverissimi: working poor, disoccupati e semi occupati, lavoratori precari (sia dipendenti che “autonomi”), piccoli e medi imprenditori, professionisti in via di proletarizzazione, indebitati, ecc. La povertà non però un criterio sufficiente: occorre distinguere fra chi vive esclusivamente del proprio salario e chi gode di altre fonti di reddito (il lavoro “autonomo” non è un criterio significativo, vista l’elevata quota di lavoro fintamente autonomo). Il secondo parametro è la disponibilità (e l’entità) di eventuali rendite. Negli Stati Uniti e in Europa esiste una quota fra il 30% e il 40% di cittadini che godono di redditi sufficienti (affitti, titoli ecc.) a garantire un livello di vita superiore a quello che potrebbero permettersi con la sola attività lavorativa. Questa classe media detiene un terzo del patrimonio nazionale nei vari Paesi occidentali, ed è di fatto alleata con le élite dei super ricchi, sia perché ne condivide in parte gli interessi, sia perché incarna una promessa di mobilità sociale agli occhi degli strati inferiori. Il terzo parametro è il livello di coinvolgimento nelle funzioni di comando e controllo di altri lavoratori. I post operaisti sostengono che la rivoluzione digitale ha creato uno strato di “lavoratori della conoscenza” dotati di una elevata autonomia nei confronti del comando capitalistico, potenzialmente in grado di assumere il controllo diretto sulla produzione. In realtà la stragrande maggioranza di questi lavoratori sono semplici “operai”, espropriati della capacità di comprendere il processo produttivo totale in cui operano come ingranaggi individuali; viceversa i quadri inseriti nelle grandi imprese della New Economy sono funzionari del capitale che hanno il compito di sviluppare modelli e procedure di governo, controllo e comando sugli altri dipendenti, sulle reti di forza lavoro fintamente autonoma, sui consumatori e più in generale sull’insieme dei rapporti sociali, per cui appartengono a tutti gli effetti alla élite neo borghese. Il quarto parametro è la collocazione territoriale. Il conflitto centri/periferie è scalabile a diversi livelli:  nazioni metropolitane versus nazioni periferiche; regioni ricche, densamente abitate e iper connesse versus regioni povere, scarsamente abitate e isolate, città versus campagna, ecc. Posizione geografica e alti livelli di mobilità fisica e virtuale offrono vantaggi competitivi mentre chi è catturato in aree periferiche a bassa mobilità e minore densità di valore ha scarse possibilità di contrattare il prezzo della propria forza lavoro. La differenza fra chi può “stabilire il proprio prezzo”, perché posizionato al centro, e chi lo subisce perché ingabbiato in un’area periferica, è un elemento strategico del conflitto di classe. Anche il conflitto fra nazioni del centro e nazioni periferiche è a tutti gli effetti una forma di conflitto di classe: l’interesse delle classi subalterne dei centri non coincide necessariamente con quello delle classi subalterne delle periferie, il che vale anche per i processi di colonizzazione interna come quello del Meridione d’Italia da parte delle regioni del Nord. Il capitale globale e finanziarizzato – fatto di flussi accelerati di merci, servizi, capitali e persone che ignorano i confini  – opprime e sfrutta i territori in cui vive la grande maggioranza di quelli che non godono delle chance di mobilità fisica e sociale riservate alle élite. Le metropoli generano i due terzi del Pil e la loro spina dorsale non è più costituita da strati sociali tradizionali, bensì da una neo borghesia emergente. Tutte le chance si concentrano in questi spazi in ragione del loro superiore tasso di integrazione nell’economia mondiale. La cultura di questa neoborghesia metropolitana, fondata sui miti del movimento e del progresso, esalta i diritti dell’uomo (ma non i diritti sociali), pratica un multiculturalismo e un antirazzismo venati di ipocrisia e trova espressione politica nelle sinistre liberal progressiste. Il quinto parametro è antropologico. Il processo di frammentazione sociale  colpisce l'intero corpo sociale, facendolo esplodere in una nuvola di atomi individuali, isolati e incapaci di sviluppare relazioni solidali e comunitarie. Il proliferare di identità sostitutive è una conseguenza di tale fenomeno: anomia e solitudine si combattono inventando nuove "tribù", nel tentativo di auto situarsi in una cornice simbolica condivisa. La mentalità liberal progressista esalta queste pratiche come un processo di "emancipazione" dell’individuo dai legami sociali tradizionali. Si tratta di pura illusione, soprattutto nel caso dei soggetti schiacciati verso il basso della piramide sociale. Per costoro le alternative che consentono di ottenere un surrogato di riconoscimento e autostima sono precarie, irrisorie, posticce, instabili. Il basso profilo culturale e valoriale, e la mancanza di aspettative sul futuro che caratterizza la maggior parte delle persone si proietta anche sui loro investimenti politici: non è un caso se i nuovi movimenti hanno dismesso ogni velleità di cambio sistemico e ambiscono solo a condizionare il potere per "limitare i danni", dando per scontato che le logiche socioeconomiche di base siamo immodificabili. Infine il linguaggio politicamente corretto che permea di sé il discorso politico, le istituzioni formative, l'industria culturale e la comunicazione mediatica (giornali, tv, cinema, pubblicità, ecc.) lavora a pieno ritmo per neutralizzare o deviare su falsi bersagli il tasso di aggressività generato dalle condizioni di frustrazione in cui le masse sono costrette a vivere.          


XII. Ripensare la forma partito? Se i residui del movimento comunista e le classi subalterne in Occidente versano nello stato disastroso appena descritto, ha senso riproporre il modello “classico” del partito leninista? L’esperimento bertinottiano di “scioglimento” del partito nel movimento ha prodotto gli esiti catastrofici che tutti conosciamo, generando una reazione simmetrica alla paranoia “orizzontalista” descritta in precedenza, ha generato, cioè, una paranoia “verticalista”. Contro i deliri moltitudinari si è rivendicata la necessità di rimettere le classi e lo stato al centro dell'analisi. Giusto ma ciò non implica ripetere per inerzia linee politiche e forme organizzative che non rispondono più alla concretezza del momento storico. Possiamo e dobbiamo chiederci se il modello  leninista di partito può essere ripensato. Ragionando sui processi rivoluzionari dell’America Latina, chi scrive ha tentato di immaginare come potrebbe funzionare un'organizzazione di avanguardia capace di egemonizzare, indirizzandola verso obiettivi compatibili con una mutazione sistemica radicale, la base dei movimenti populisti. L'evoluzione della situazione internazionale, caratterizzata dalla pandemia del Covid, dal precipitare della crisi economica e dall'inizio di una “Terza guerra mondiale a pezzi”; per tacere del caos in cui è sprofondato il nostro sistema politico, ha reso problematico tale scenario. Il “partito connettivo” che le rivoluzioni bolivariane hanno montato assemblando una pluralità di soggetti e movimenti sociali, politici e culturali è frutto di condizioni irripetibili: si tratta di rivoluzioni anti liberiste, antimperialiste, di emancipazione nazionale e razziale, realizzate in contesti che hanno promosso la convergenza di interessi fra masse contadine di etnia india, classe operaia, sottoproletariato urbano, piccola e media borghesia progressiva su obiettivi radicali di riforma costituzionale, redistribuzione della ricchezza e cambiamento di matrice produttiva; a guidarle sono stati leader rivoluzionari di grande capacità politica come Chávez; Morales e Linera, temprati da dure esperienze di lotta, i quali hanno saputo innovare la teoria socialista e mobilitare avanguardie politiche esperte e affidabili; inoltre il processo rivoluzionario ha potuto usufruire di strutture di democrazia diretta e partecipativa sorte nel corso di lotte precedenti, mentre i partiti comunisti locali sono stati integrati nel PSUV venezuelano e nel MAS boliviano. Podemos ha tentato di “copiare” quel tipo di forma partito, ma le condizioni socioeconomiche, politiche e culturali di un Paese industrialmente avanzato e integrato nella Comunità Europea come la Spagna – assai diverse da quelle del subcontinente latinoamericano – hanno impietosamente bocciato l’esperimento. Un fallimento dovuto anche dal tentativo di ritagliare una veste postmoderna per il modello latinoamericano: Podemos ha puntato a “costruire un popolo” senza lavorare all’unificazione delle classi lavoratrici e alla costruzione di una organizzazione radicata nel sociale; ha tentato di egemonizzare i movimenti di massa attraverso l’uso dei nuovi media digitali e non ha educato politicamente le avanguardie; ha cercato di ottenere in tempi brevi una maggioranza elettorale per conquistare il governo senza capire che la guida del governo, in assenza di un progetto di mutamento sistemico, sarebbe stata effimera e non avrebbe consentito di modificare i rapporti di forza fra le classi. Concludo rilanciando la domanda: i fallimenti del PRC bertinottiano e di Podemos giustificano l’adozione di un modello classicamente leninista? E’ un interrogativo cui si potrà rispondere solo se e quando il processo parallelo di ricostruzione del partito e della classe avrà compito qualche concreto passo in avanti. Nel frattempo andrebbero evitate sia le auto celebrazioni nostalgiche sia l’illusione che i successi della Cina e degli altri Paesi del Sud del mondo possano risolvere i nostri problemi.


Post scriptum. Per approfondimenti e riferimenti bibliografici rinvio ai seguenti articoli sul mio blog:


https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html 


https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille_26.html 



  

sabato 13 aprile 2024

A PROPOSITO DEL PROLETARIATO ESTERNO

(MERITI E LIMITI DEL PENSIERO DI ZITARA)





Nei miei lavori ho più volte citato le idee “eretiche” del  marxista calabrese Nicola Zitara  (1), pur senza approfondire nei dettagli il suo contributo teorico e limitandomi ad evidenziarne le convergenze con gli autori della scuola della dipendenza, come Samir Amin e gli altri membri di quella che Alessandro Visalli definisce “la banda dei quattro" (2). La lettura di un recente libro di Angelo Calemme (La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea. Contributo alla teoria del socialismo di mercato, Guida editori), mi stimola a riprendere la riflessione sul pensiero di Zitara (3) per discutere le sfide teoriche che questo autore ci ha lasciato in eredità e che ora Calemme rilancia, da un lato mettendone in luce i meriti, dall’altro esasperandone, a mio avviso, i limiti. Nelle pagine che seguono seguirò un percorso in quattro tappe: nella prima esaminerò gli argomenti con cui Zitara e Calemme difendono la tesi secondo cui il Regno delle Due Sicilie era, al momento dell’unificazione nazionale, più avanzato di tutti gli altri stati preunitari sulla strada della modernizzazione economica; nella seconda analizzerò il loro punto di vista sull’unificazione come processo di asservimento coloniale del Meridione da parte della monarchia sabauda; nella terza riprenderò  le loro analisi sulla composizione di classe della società meridionale; nell’ultima discuterò la proposta di una  rivoluzione nazional popolare finalizzata alla autonomizzazione del Meridione e alla sua conversione in una formazione socialista di mercato. 



I.


Ripartendo dalla tesi di Zitara, il quale, confrontando i dati economici relativi ai vari staterelli italiani preunitari, ne estrae l’evidenza di un indiscutibile primato del Regno borbonico, Calemme mette tale primato in relazione con l’influenza politico culturale esercitata dai maggiori esponenti della scuola illuminista napoletana (Galiani, Intieri e Genovesi su tutti). Costoro, argomenta, non si limitarono a nutrire un profondo interesse per i temi della produzione, accumulazione e circolazione della ricchezza, ma associarono la sensibilità nei confronti di un’agricoltura in grado di garantire la sussistenza della popolazione all’attenzione nei confronti della manifattura, delle infrastrutture e dei servizi, prospettando il decollo di un moderno sviluppo industriale come effetto del miglioramento produttivo delle attività agricole piuttosto che dell'indebitamento pubblico, e attribuendo allo Stato il ruolo di sovrintendente pubblico degli interessi privati. Questi fermenti vennero fatti propri, scrive Calemme, dai governi del Regno, dando vita a un “riformismo dall’alto” che cercò di promuovere la nascita di una borghesia industriale e di un’ala riformatrice dell’aristocrazia rurale.


Antonio Genovesi



Sugli effetti concreti di questo attivismo illuminato delle élite regnanti mi pare che Calemme sia più ottimista dello stesso Zitara. Costui ribadisce, citando fra gli altri Nitti, che “nel Mezzogiorno era più grande ricchezza che in quasi tutte le parti del Nord”, parla di un protoindustrialismo basato soprattutto sulla produzione domiciliare, e mette in luce come le alte tariffe doganali fossero riuscite a difendere il Regno dalla penetrazione delle merci inglesi e francesi, concludendo che nel Sud esistevano le condizioni minime per un’evoluzione autonoma verso l’economia mercantile e l’industrializzazione (il che avrebbe salvato l’area dal sottosviluppo e dalla subordinazione coloniale). Quanto a Calemme ritiene che gli insediamenti industriali nel settore della siderurgia e della metalmeccanica fossero qualcosa di più di “efflorescenze prive di consistenza”, rappresentando piuttosto i primi esempi di transizione dalla manifattura all’industria moderna, transizione cui lo stato borbonico contribuì promuovendo lo sviluppo della marina mercantile, delle ferrovie e della telegrafia, svecchiando gli ordinamenti giuridici, sostenendo la formazione tecnica e professionale e incoraggiando gli investitori stranieri (cui talvolta veniva offerta la naturalizzazione). Fermenti cui contribuirono la Banca del Regno delle Due Sicilie e la Borsa di Napoli (tanto che Rothschild e altri grandi finanzieri stranieri aprirono le loro filiali nella capitale del Regno). In conclusione: secondo Calemme i Borboni erano riusciti ad avviare la trasformazione in senso capitalistico del Sud con vent’anni di anticipo sugli altri stati italiani dell’epoca.


Dalla lettura di Zitara non emergono però analoghe tendenze modernizzanti nel settore agricolo: “la pressione demografica, scrive, ostacolava ogni progresso, alimentando la frantumazione fondiaria e vincolando grandi estensioni di terra alla cerealicoltura, poco confacente a clima e suoli”. Ciò detto, il fatto che l’economia fosse scarsamente monetizzata e orientata all’autoconsumo faceva comunque sì che la condizione contadina fosse migliore di quella post unitaria. 


Nicola Zitara



II.

La retorica risorgimentale che celebra l’Unità nazionale raggiunta nel 1861, argomentano Zitara e Calemme, serve a mascherare il cinico interesse di un Regno di Sardegna che la crisi del 1857/58 e le spericolate scelte economiche cavouriane avevano trascinato sull’orlo del fallimento. Al punto che Nitti commentava che il default si sarebbe potuto evitare solo confondendo le disastrare finanze piemontesi con quelle di uno stato più ricco, qual era a quei tempi il Regno delle Due Sicilie. Serve inoltre a nascondere il ruolo decisivo giocato dagli interessi geopolitici inglesi. Le politiche  protezioniste dei Borboni penalizzavano infatti le merci inglesi (e anche quelle francesi), ma soprattutto l’imminente apertura del Canale di Suez faceva del Meridione (in particolare della Sicilia) un nodo strategico delle rivitalizzate rotte mediterranee. Di qui il fattivo appoggio offerto alla conquista sabauda (frutto della spregiudicata politica di alleanze del manovriero Cavour, vedi il successivo appoggio della Francia alle guerre contro l’Austria). 


La spoliazione del Meridione inizia subito dopo l’unificazione: viene prelevato dal Sud il 65% di tutta la moneta circolante del nuovo Regno, e contemporaneamente inizia lo strangolamento delle industrie sviluppatesi all’ombra del riformismo borbonico. Naturalmente  le ruberie non basterebbero di per sé a giustificare il ricorso alla categoria del colonialismo.  Il colonialismo, argomenta Zitara, non è un problema di redditi ma di strutture economico sociali: a partire da quel sottosviluppo (4) che, nel caso del Sud Italia, è il prodotto dell’inclusione del Sud nel mercato nazionale e nel contemporaneo blocco della spinta alla nascita di una produzione industriale autonoma. In particolare, sono l’estensione a tutti gli ex stati pre unitari del sistema fiscale e doganale piemontese e l’abolizione dei dazi interni a colpire duramente. Di fronte all’aumento della pressione fiscale, i proprietari terrieri reagiscono imponendo la conversione monetaria dei canoni di affitto dei fondi, che prima venivano regolati in natura, per cui il contadino è costretto a convertire in prodotti per il mercato i prodotti per il consumo domestico. 


Camillo Benso conte di Cavour



Il sistema si articola su due livelli: da un lato, la pressione finanziaria del Nord colpisce tutti i settori economici meridionali, dall’altro la classe padronale si rifà sulla classe contadina che subisce un rapido processo di immiserimento, dovuto anche al fatto che lo sviluppo di un’agricoltura estensiva specializzata (agrumi, olio e vino) per l’esportazione (favorita dalla politica inizialmente liberista del nuovo governo nazionale) scaccia i coloni e i pastori dalla terra. Nei “normali” processi di proletarizzazione associati all’accumulazione primitiva il lavoro contadino “liberato” dalla terra viene reimpiegato nelle industrie, ma la mancanza e/o la scarsità di queste ultime fa sì che il solo sbocco possibile per i contadini meridionali divenga l’emigrazione di massa: di qui il famoso detto “briganti o migranti” (5). 


Il punto di non ritorno che segnò l’inesorabile declino del Sud, scrive Calemme, fu la svolta protezionista adottata dal governo Depretis nel 1887. La precedente politica liberista aveva apportato benefici alle esportazioni delle monocolture agricole di cui sopra, dopodiché il passaggio al protezionismo (che serve a favorire la nascente industria settentrionale) chiude gli sbocchi di mercato e consolida la morsa del sottosviluppo. Nitti, annota ancora Calemme, pensava che il “sacrificio” del Sud in favore del resto d’Italia fosse inevitabile per consentire l’ingresso del Paese nel concerto delle nazioni industriali, ma pensava anche che il sacrificio sarebbe stato temporaneo e che la reindustrializzazione del Sud avrebbe seguito l'industrializzazione del Nord. Il che non è evidentemente avvenuto. E’ invece avvenuto che le tradizionali aspirazioni contadine di possedere la terra sono progressivamente venute meno, sostituite dal miraggio di una industrializzazione mai arrivata, mentre nel secondo dopoguerra è arrivato il consumismo neocapitalista in un Meridione relativamente spopolato dalle reiterate ondate migratorie e trasformato da area a vocazione agricola ad area di consumo scarsamente produttiva e quindi in costante disavanzo.


III.

Sia in Zitara che in Calemme l’analisi della composizione di classe del Sud Italia si intreccia con le critiche alle sinistre italiane, imputate di persistenti errori di comprensione della realtà sociale e delle aspirazioni popolari, se non di veri e propri tradimenti nei confronti degli interessi delle masse meridionali. Le accuse risalgono indietro nel tempo fino a coinvolgere lo stesso Gramsci, di cui entrambi gli autori si professano pure allievi, riconoscendolo come l’unico teorico marxista che abbia compiuto un serio sforzo di comprensione della Questione Meridionale. Zitara gli rimprovera tuttavia di non avere capito che, dopo decenni di disintegrazione sociale causata dalla condizione coloniale, il proletariato meridionale era solo in minima parte composto di forza lavoro agricola, mentre la maggioranza era ridotta alla condizione di forza lavoro di riserva per le industrie settentrionali e/o straniere. In ragione di tale equivoco, comunisti e socialisti non hanno mai smesso di “ricacciare l’opposizione meridionale nel circolo vizioso delle arcaiche lotte per la terra” (6). In buona sostanza, rincara Calemme, Gramsci ragionava nei termini classici di un’alleanza fra operai e contadini, presupponendo una sostanziale uniformità di interessi fra i due strati proletari. 


L’equivoco si reitera e rafforza nel secondo dopoguerra, allorché si dà per scontata la sostanziale convergenza delle due Italie sul terreno della resistenza democratica e antifascista, laddove il proletariato meridionale è insensibile nei confronti di una democrazia che lo ha sempre ignorato e tradito, per cui percepisce la legittimazione resistenziale come una nuova forma di legittimismo colonialista (7). La rottura fra proletariato meridionale e PCI si aggrava quando Togliatti, fra il 47 e il 50, egemonizza ma al tempo stesso frena le lotte per la socializzazione della terra, limitandone la ridistribuzione ai soli campi incolti (per inciso: vengono redistribuite quote insufficienti per sostenere l’autosufficienza economica degli assegnatari, per cui le terre torneranno rapidamente nelle mani dei nuovi baroni). Insomma: da un lato si insiste sullo schema della terra ai contadini, continuando a pensare alla Questione Meridionale come una questione eminentemente agraria, dall’altro lato non si agisce coerentemente e radicalmente nemmeno su tale terreno. 


Non è che in campo marxista, argomenta Zitara (8) mancasse la consapevolezza dell’unificazione come processo di colonizzazione e dei livelli di supersfruttamento che ciò implica, eppure sul piano politico si è sempre negata pervicacemente l’esistenza di due italie, nel timore che eventuali spinte autonomistiche venissero egemonizzate dalle destre. Timore ingigantito dalla rivolta di Reggio Calabria cappeggiata dai fascisti, che piuttosto avrebbe dovuto ispirare riflessioni autocritiche sulla mancata rappresentazione del proletariato meridionale, condannando le masse dei disoccupati all’afasia  politica e alla disponibilità nei confronti delle sirene di destra (9). 


Vediamo ora l’analisi di classe in base alla quale Zitara, e Calemme con lui, sostiene la tesi secondo cui, nel nostro Paese, esistono due proletariati che, non solo non condividono gli stessi interessi e obiettivi, ma sono oggettivamente in conflitto reciproco. Il primo argomento teorico di Zitara trascende lo scenario italiano e si aggancia direttamente alla tradizione della scuola della dipendenza, come enunciato in apertura di questo articolo. Si tratta di una questione cruciale che rovescia il dogma marxista in base al quale la transizione al socialismo è possibile solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico, a partire da una constatazione di fatto che anche chi scrive (10) ha in più occasioni evidenziato: la classe operaia occidentale non ha portato vittoriosamente a termine una sola rivoluzione e, se più di un terzo dell’umanità vive oggi in sistemi socialisti (malgrado il crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi satelliti!) ciò si deve esclusivamente a rivoluzioni condotte dalle larghe masse delle periferie del mondo (in ampia maggioranza contadine). 


I marxisti ortodossi, nota Zitara, cercano di aggirare la questione sostenendo che si è trattato di eventi diretti da partiti che erano espressione di minoranze operaie, ma l’obiezione cade ove si consideri che sia in Russia che in Cina l’egemonia della classe operaia ha realmente potuto affermarsi a rivoluzione avvenuta, sull’onda dei successivi processi di industrializzazione. Quanto appena osservato si spiega solo riannodando il filo rosso che si dipana dalle riflessioni di Marx sulla necessità dell’emancipazione del popolo irlandese quale condizione imprescindibile del risveglio della classe operaia inglese, anestetizzata dalle briciole del saccheggio imperialista; all’analisi di Lenin sull’imperialismo e sull’intreccio fra rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale;  alle tesi di Baran e Sweezy che hanno inaugurato le riflessioni postbelliche su colonialismo sottosviluppo e dipendenza (11); alle riflessioni di marxisti sudamericani come Mariategui e Linera sul ruolo rivoluzionario delle comunità originarie andine (12); per finire con il concetto di “proletariato esterno” - coniato da Braudel e ripreso da Samir Amin (13) – che è il nodo centrale del pensiero di Zitara.


A sostanziare il nodo in questione è la constatazione che, nel tardo capitalismo, i maggiori livelli di sfruttamento e le contraddizioni più radicali si collocano alla periferia del sistema mondiale, in quelle regioni in cui la penetrazione del denaro e delle merci ha distrutto le forme di vita e i sistemi produttivi e riproduttivi tradizionali senza integrare le persone in rapporti sociali assimilabili a quelli dei centri metropolitani, per cui i livelli occidentali di benessere si associano alla miseria e al supersfruttamento delle masse periferiche. Dunque le classi subalterne non sono divise da diversi gradi di maturazione politica, come sostengono la maggior parte dei marxisti occidentali, bensì da interessi diversi, di fatto contrastanti. Occorre quindi distinguere fra proletari interni ai processi produttivi che il capitale gestisce direttamente, e proletari esterni,  anch’essi coinvolti nell’economia capitalistica ma in modo indiretto, tramite la mediazione di forme sociali ibride che il capitalismo tiene in vita anche attraverso la forma limite della disoccupazione (esercito di riserva globale) (14). 


In tale contesto, argomenta Zitara, perdono senso le categorie classiche di sottoproletariato e aristocrazie operaie, rimpiazzate appunto da quelle di proletariato esterno ed interno, il primo è la base ideale delle politiche rivoluzionarie il secondo è la base ideale del riformismo: un conflitto che si delinea fin dallo scontro fra Seconda e Terza Internazionale e caratterizza l’intera storia moderna del lavoro subalterno e delle sue espressioni politiche (la socialdemocrazia, annota Zitara, non è frutto di una deviazione ideologica, bensì il prodotto storico di interessi reali). Questo schema interpretativo viene applicato alla storia d’Italia: “Fu subito chiaro, scrive Zitara, che le masse settentrionali ferme su una logica rivendicazionista non avrebbero favorito il movimento contadino, che poteva sfociare solo nel rovesciamento del sistema.” (15). Dopodiché aggiunge che che questi due soggetti sociali possono sì, come voleva Gramsci, avere lo stesso obiettivo strategico  ma, al contrario di quanto ipotizzato dallo stesso Gramsci, per realizzarlo dovranno percorrere strade diverse e autonome, perché autonomi e contrastanti sono i rispettivi interessi. Ovviamente il proletariato esterno meridionale non è fatto solo di contadini e disoccupati: è un insieme complesso e disomogeneo di strati sociali accomunati da condizioni di precarietà, un soggetto che può essere descritto, in analogia con le masse periferiche del Terzo Mondo, come una nuova classe di lavoratori coinvolti nella produzione capitalistica ma esclusi dai suoi vantaggi. 


L’analisi di classe di Zitara, riproposta da Calemme, prende in considerazione altri due soggetti fondamentali. Il primo è una borghesia, a sua volta stratificata e disomogenea, che non trova precisa e stabile collocazione nello scacchiere politico nazionale, in quanto priva di effettiva forza contrattuale, per cui svolge di fatto un ruolo analogo alle borghesie ”compradore” (16), svolge cioè il ruolo di cinghia di trasmissione, di mediatore dell’egemonia economica, politica e culturale delle élite settentrionali. Zitara parla di “tre mediazioni concatenate”: dai gruppi egemonici settentrionali allo Stato, dallo Stato agli intellettuali meridionali, da questi alle classi subalterne. Gli intellettuali, anello intermedio della catena in questione, sono il secondo dei due soggetti fondamentali di cui sopra. La storia di questo strato, secondo Zitara, viene da lontano, nel senso che fin dall’inizio le professioni liberali e le magistrature hanno svolto ruoli analoghi, se non identici, a quelli dell’abito talare e del cavalierato destinati ai cadetti dei signori feudali. Gli intellettuali sono  una classe di puri consumatori i cui ranghi sono venuti ingrossandosi a mano a mano che il sistema si impoveriva offrendo sempre meno alternative (17) e, dal momento che i ceti impiegatizi inseriti nella Pubblica Amministrazione e le professioni liberali godono di redditi equiparabili a quelli dei loro omologhi settentrionali, costoro sono il principale alleato del dominio coloniale. Ecco perché, ironizza Zitara, “ancora oggi gli unici veri italiani del Sud sono gli intellettuali” (18). 


IV.

Le idee fin qui analizzate rappresentano un mix di formidabili intuizioni – in particolare sul piano della contro analisi storica del processo di unificazione nazionale e della denuncia delle responsabilità delle sinistre – e di elementi di debolezza - analogie suggestive ma talvolta non del tutto fondate fra Meridione e Paesi del Terzo Mondo, insufficienti aggiornamenti sulle trasformazioni  socioeconomiche e antropologiche che il nostro Sud ha subito degli ultimi decenni. Prima di tracciare un bilancio critico occorre però completare la nostra analisi descrivendo il progetto politico di Zitara e il rovesciamento di paradigma – rispetto a Marx – su cui tale progetto si fonda.  


Il compito prioritario, argomenta Zitara, è dare un volto politico alle forze popolari del Sud, condizione imprescindibile per consentire la partecipazione del proletariato esterno alla lotta di classe, il che è possibile a due condizioni: far sì che esso elabori in forma autonoma i propri obiettivi e la strategia per realizzarli, a partire dalla presa di coscienza di essere oggetto di sfruttamento e oppressione coloniale. Una volta ottenuta tale consapevolezza, la lotta per la liberazione dovrà procedere su due binari: quello della emancipazione nazionale e quello sociale della lotta contro le borghesie locali che mediano l’egemonia del Nord. Parliamo insomma di una  rivoluzione nazional popolare, di una “via subnazionale al socialismo”che permetta in primo luogo di realizzare una piena e buona occupazione e di ottenere un minimo di vita dignitosa per le masse. Questo obiettivo, alternativo a quelli della lotta politico sociale della sinistra nazionale, dovrà necessariamente incarnarsi nella creazione di una nuova entità nazionale nella misura in cui (e qui le idee di Zitara evocano il concetto di delinking (19) di Samir Amin) solo erigendo nuove frontiere sarà possibile combattere la disoccupazione attraverso la valorizzazione delle risorse locali e l’adozione di forme di protezionismo mirate. 


Ma di che socialismo parliamo? Per liberare il Sud, scrive Zitara, non basta uscire dallo Stato italiano e dall’Europa: “bisogna uscire da una cultura che viene dall’utilitarismo inglese e americano” (20) incompatibile con l’antica civiltà mediterranea. Tuttavia quest’ultima affermazione appare in stridente contraddizione con l’invito a ribaltare la concezione marxiana che associa il socialismo all’abolizione della proprietà privata: “Marx vuole abolire la proprietà invece l’assunto va capovolto: ciascuno sia proprietario del proprio prodotto mentre nessuno deve poter possedere il prodotto altrui”. L’idea di libertà, scrive infatti Zitara esprimendo un’opinione che Marx avrebbe liquidato come una robinsonata, è sempre quella classica, associata al pieno diritto di vendere e comprare, definizione che, ahimè, è una delle colonne ideologiche su cui si basa quel liberalismo anglosassone che Zitara dice di voler liquidare.





In poche parole, siamo all’interno di una cornice concettuale che rievoca i classici del socialismo utopistico ottocentesco – Owen ma soprattutto Proudhon – , come esplicitamente confermato da Calemme, il quale mi pare (anche se posso sbagliarmi, non avendo letto tutti gli scritti del suo maestro e ispiratore) che radicalizzi il pensiero di Zitara, spingendolo ulteriormente nella direzione appena descritta. Dopo aver reiterato la necessità di rovesciare l’assunto marxiano dell’abolizione della proprietà privata, Calemme scrive infatti che quella di Zitara è “una versione neo giusnaturalista e neo contrattualista” del socialismo scientifico (sic) marxista nella misura in cui egli ritiene che libertà e proprietà individuali siano diritti naturali inalienabili preesistenti al contratto sociale, già sanciti dalla mercatura medievale, ribaditi dai diritti dell’uomo e del cittadino dell’89 e da Proudhon e altri esponenti del socialismo utopistico. Posto che non si capisce come si possano mettere insieme categorie come giusnaturalismo, contrattualismo, diritti naturali (individuali) inalienabili, nonché l’affermazione che “l’individuo umano libero e autonomo è frutto del soggetto economico e del suo diritto di compravendita” con l’invito a “battersi contro ogni orientamento liberale” (?), non sorprende che questi salmi finiscano in gloria, cioè con la condanna della pianificazione socialista e della distribuzione del prodotto sociale controllata dallo stato, laddove il socialismo liberale del costituendo soggetto nazionale dell’Italia del Sud dovrà limitare il compito dello Stato alla sovrintendenza pubblica degli interessi privati a garanzia dello sviluppo equilibrato di una società fatta di liberi produttori, “ognuno con il proprio capitale preso in prestito da una banca di denaro pubblico”. A questo punto disponiamo di tutti gli elementi per tracciare un bilancio critico. 


* * *

Premetto che non dispongo delle competenze storiche per giudicare se, nel 1861, il Regno delle Due Sicilie fosse effettivamente il più avanzato sul piano dello sviluppo economico in senso capitalista rispetto agli altri stati preunitari, anche se mi pare che sia Zitara che Calemme offrano argomenti convincenti a sostegno di tale tesi. Ritengo invece del tutto condivisibile la tesi del saccheggio coloniale da parte degli occupatori sabaudi e della relazione strutturale fra decollo industriale del Nord e “sviluppo del sottosviluppo” (21) del Meridione, un processo che potremmo anche definire, con David Harvey,  accumulazione per espropriazione (22). In particolare, mi pare meritoria la demistificazione delle retorica risorgimentale (tanto cara anche a certa sinistra) che mette in luce come il successo dell’impresa dei Mille non sarebbe stato possibile senza l’appoggio sabaudo, motivato dalla necessità di mettere le mani sul “tesoro” dei Borboni per salvare dal fallimento il Regno di Sardegna, e senza l’appoggio inglese motivato dall’esigenza geopolitica di rimuovere gli ostacoli al controllo imperiale su Mediterraneo. Senza dimenticare l’ambiguità garibaldina dei confronti delle aspirazioni delle masse contadine, ferocemente represse da Nino Bixio. 


L'eccidio di Bronte



Resta il fatto che, proprio in ragione di quelle aspirazioni, ampi settori delle masse meridionali aderirono entusiasticamente alla mobilitazione contro i Borbone. Il che conferma che il riformismo dall’alto di questi ultimi, nei confronti del quale il giudizio positivo di Calemme mi pare assuma a volte toni eccessivi, era “monco”, non aveva cioè affiancato gli sforzi per sostenere il processo di sviluppo industriale ad altrettanti sforzi per promuovere la modernizzazione dei rapporti sociali nelle campagne. E’ quindi probabile che, ove lasciato proseguire autonomamente la propria evoluzione, il Regno borbonico sarebbe evoluto verso un modello “prussiano”, cioè verso l’integrazione fra nascente borghesia industriale e aristocrazia “junker”, un regime moderno ma con spiccate caratteristiche autoritarie. 


Passo alle critiche alla sinistra. Premetto che le critiche a Gramsci, cui viene rimproverato di non avere realizzato che la questione meridionale, dopo decenni di disintegrazione sociale delle campagne, non era più riducibile alla questione agraria, e che il progetto rivoluzionario non poteva essere proposto nei termini classici di alleanza operai-contadini, mi paiono francamente ingenerose, nel senso che si fondano su una retrodatazione di condizioni che sarebbero giunte a completa maturazione solo nel secondo dopoguerra. Ciò detto condivido la denuncia degli errori che, dopo la riforma agraria “dimezzata” voluta da Togliatti nell’immediato dopoguerra, si sono fatti sempre più evidenti con il sistematico disconoscimento degli interessi del proletariato esterno meridionale, fino alla mancata autocritica dopo la rivolta di Reggio Calabria, per avere consegnato l’egemonia della rabbia popolare ai fascisti. L’ossessione che ha inchiodato le sinistre italiane a ragionare sul Sud esclusivamente nei termini di ridistribuzione delle terre (obiettivo che ormai i contadini proletarizzati avevano rimpiazzato con le aspettative di occupazione industriale) somiglia a quella dei partiti comunisti sudamericani, i quali hanno continuato a perseguire lo stesso obiettivo senza riconoscere il potenziale anticapitalista delle comunità originarie e delle masse proletarie esterne ai centri di sviluppo industriale (23). 


Credo che Zitara abbia perfettamente ragione nel puntare il dito contro la secolare diffidenza (che risale alle sferzanti battute del Marx del Manifesto contro l’ottusità dei contadini), non di rado venata di disprezzo, nei confronti del mondo contadino. E naturalmente condivido, come ho ampiamente argomentato altrove (24), la necessità di prendere atto che le sole rivoluzioni socialiste riuscite sono avvenute in Paesi economicamente “arretrati” ed hanno avuto come protagoniste le larghe masse contadine piuttosto che la classe operaia. Così come sono a mia volta convinto che gli interessi del proletariato esterno e di quello interno siano conflittuali. Ma se questo vale tuttora sul piano dello scontro geopolitico - oggi alle soglie della Terza guerra mondiale – fra imperialismo occidentale e fronte delle nazioni nate dalle rivoluzioni di liberazione nazionale seguite al Secondo conflitto mondiale, mi sembra opinabile se riferito al conflitto fra centri e periferie interni al blocco occidentale. Per quanto riguarda, in particolare, il conflitto fra le due italie, mi pare che lo schema bipolare su base geografica sia stato progressivamente eroso dai processi di immiserimento e precarizzazione che decenni di neoliberismo hanno innescato a danno del proletariato interno settentrionale. Oggi l’opposizione centro periferia tende ad assumere una configurazione a pelle di leopardo, per cui i sud (al plurale) europei (a partire dal nostro, ma vedi anche la colonizzazione della Germania Est da parte della Germania Ovest) non sta più solo al Sud, ma anche nei sobborghi delle metropoli gentrificate, nelle province tagliate fuori dai flussi del capitale globale, ecc. (25). Se ciò è vero, torna di attualità la questione dell’unità proletaria a livello delle singole nazioni più che a livello subnazionale. Unità che non si pone in termini di alleanze, bensì come progetto di ricostruzione politica di una classe lavoratrice disarticolata e dispersa tanto sul piano sociale che sul piano territoriale dai decenni lotta di classe dall’alto che il capitale ha condotto, con la complicità delle sinistre.


C’è poi un fattore culturale e antropologico che rende a mio avviso improbabile il progetto di mobilitare le masse meridionali in vista di una secessione rivoluzionaria. Chi scrive ha vissuto per quindici anni in Salento, insegnando all’Università di Lecce dove ha avuto occasione di frequentare quotidianamente centinaia di studenti appartenenti a ogni strato sociale (non solo medio alto: ai primi del duemila ancora molte famiglie della provincia povera mandavano i figli a frequentare i corsi della triennale, nell’illusione che ciò garantisse più opportunità di lavoro). Ciò mi ha permesso di misurare l’impatto della penetrazione della cultura consumistica (non solo attraverso i media, ma anche grazie all’interazione con i massicci flussi turistici che invadono il territorio per buona parte dell’anno). Ebbene: in questi ragazzi non ho trovato tracce di odio e risentimento per i “colonizzatori” (26) , ho trovato invece un pressoché totale allineamento con i gusti, i valori, i desideri e le aspirazioni “americanizzate” dei loro coetanei settentrionali e/o di altri Paesi occidentali. Quelli che non emigrano al Nord o all’estero, sono impegnati a praticare vari generi di auto-imprenditoria terziaria nei settori del turismo, del commercio, dei nuovi media, della comunicazione pubblicitaria, ecc. Rieducare politicamente questi strati di proletariato esterno “postmodernizzato” non sarà impresa meno ardua di quella di restituire coscienza dei propri interessi di classe al proletariato interno immiserito e precarizzato dalle “cure” delle élite di Bruxelles. 


Proudhon 



Ma veniamo a quello che considero il limite maggiore dei discorsi sin qui presi in esame, vale a dire il tentativo di resuscitare un socialismo utopistico alla Proudhon.  Ammesso e non concesso che oggi sia, non dico realizzabile, ma anche solo concepibile “una società di liberi produttori” (Owen e Proudhon potevano ancora nutrire un simile sogno perché vivevano nella fase aurorale del capitalismo industriale, ma nemmeno loro avrebbero potuto farlo se fossero vissuti nell’era del tardo capitale monopolistico) non vedo come si possa non capire che tale società, in seguito alle differenze di capacità, talento, aggressività, ambizione, ecc. di questi produttori sarebbe destinata a subire un rapido processo di concentrazione dei capitali nella mani di una minoranza a scapito della maggioranza. Peggio mi sento di fronte alla schizofrenia teorica che, da un lato esclude ogni forma di liberismo economico e critica la filosofia utilitarista, dall’altro indica nella proprietà privata e nella piena libertà di vendere e comprare il fondamento dei “diritti naturali” dell’individuo, per tacere della rivendicazione dei principi giusnaturalisti e contrattualisti che, come insegna Andrea Zhok nella sua fondamentale Critica della ragione liberale (27) sono, proprio assieme all’utilitarismo, il fondamento stesso del moderno liberalismo borghese (e quindi anche della sua attuale, spietata versione neoliberista e dell’ordoliberalismo che governa la costituzione materiale della UE).


Qualcuno potrebbe a questo punto obiettare che chi scrive, sulle tracce di autori come Vladimiro Giacché e Giovanni Arrighi (28) ha ripetutamente messo in discussione il modello classico di socialismo formulato da Marx ed Engels, i quali prevedevano l’abolizione integrale del mercato. Vero, solo che io mi riferivo ai socialismi del secolo XXI che crescono in Asia, Africa e America Latina, e in particolare a quel socialismo in stile cinese, che, avendo imparato la lezione del fallimento sovietico, ha restituito ai contadini la libertà di vendere il proprio plus prodotto (ma non la proprietà della terra, che resta saldamente nelle mani dello stato), ha consentito (entro certi limiti e sempre sotto controllo statale) l’accumulazione privata, impedendo però alla borghesia nazionale di tradurre in potere politico il potere economico, e mantenendo il controllo pubblico sui settori produttivi strategici, sulle banche, sulla ricerca scientifica e sui servizi essenziali. Per inciso, le riforme postmaoiste hanno realizzato proprio gli obiettivi prioritari indicati sia da Zitara che da Calemme: piena occupazione, una vita dignitosa per centinaia di milioni di cittadini strappati alla miseria, piena sovranità nazionale dopo più di un secolo di umiliazioni coloniali, per tacere della capacità di competere alla pari sul piano economico, scientifico e tecnologico con l’imperialismo americano che, non a caso, si prepara ad aggredire militarmente questo scomodo competitor, che lo inquieta sul piano ideologico-politico ancora più che su quello economico. In conclusione: niente rivoluzione senza partito rivoluzionario e niente sviluppo socialista senza stato socialista. Per parafrasare il duo Zitara Calemme: per emancipare il proletariato esterno non basta uscire dalla UE, bisogna rompere con il blocco capitalista occidentale e la sua ideologia (e quindi anche con la sua idea di libertà economica!). Quanto all’Italia, il nodo non è più geografico, nel senso che non si tratta più di liberare il Sud, bensì di liberare i sud (minuscolo plurale) estendendo la rivoluzione nazional popolare all’intero territorio.  


Note


(1) Le citazioni si trovano in Utopie letali (Jaka Book, Milano 2013), Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) e Guerra e rivoluzione (2 voll. Meltemi, Milano 2023).


(2) Gli altri membri della “banda” sono Gunder Frank, Giovanni Arrighi ed Immanuel Wallerstein. Cfr. A. Visalli, Dipendenza, Meltemi Milano 2020.


(3) I testi di Zitara cui farò riferimento in questo articolo sono: Il proletariato esterno (Jaka Book, Milano 1972), L’unità d’Italia. Nascita di una colonia (Jaka Book, Milano 1971, ristampa 2010), L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria (Jaka Book, Milano 2010) e Negare la negazione. Introduzione al separatismo rivoluzionario, Città del Sole, Reggio Calabria 2001.


(4) Cfr. fra gli altri, G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano 1957; P. Baran, Il surplus economico, Feltrinelli, Milano 1962; P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, oltre al già citato Dipendenza di A. Visalli.

   

(5) Nelle analisi di Zitara e Calemme il fenomeno del brigantaggio ha il valore di una prima manifestazione della resistenza del proletariato esterno meridionale all’’occupazione coloniale.


(6) In Negare la Negazione, cit.


(7) Anche questo giudizio sull’uso strumentale della retorica resistenziale come legittimismo colonialista si trova in Negare la negazione, cit.


(8) Zitara denuncia questa schizofrenia dell’atteggiamento dei partiti italiani di ispirazione marxista ne L’unità d’Italia, cit.


(9) Ne Il proletariato esterno cit. Zitara scrive che la esibita “purezza morale” fascista che punta il dito contro corruttela, clientelismo e le baronie politiche che la democrazia italiana ha imposto al Sud affascina le masse meridionali.


(10) Cfr. Guerra e rivoluzione, vol. I (Le macerie dell’Impero), cap. I (“La cassetta degli attrezzi).


(11) Vedi nota 4. 


(12) Ne Il proletariato esterno, cit. Zitara nota come la produzione per l'autoconsumo e l’economia di villaggio abbiano svolto  per la classe contadina un ruolo di autodifesa contro lo sfruttamento. Il ruolo di resistenza anticapitalista dei residui di forme sociali precapitalistiche è un tema centrale di molti marxisti latinoamericani. Vedi, in particolare, J. C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti, Einaudi, Torino 1972 e A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015. In particolare Linera estende il concetto di classe rivoluzionaria alle comunità originarie andine, in polemica con i marxisti ortodossi che le considerano forme comunistiche primitive che devono essere “sciolte” nei moderni rapporti di produzione capitalistici prima di poter essere integrate nel fronte della lotta di classe.


(13) Accenno a questo rapporto fra Samir Amin e Zitara in Guerra e rivoluzione, cit., vol. II, pp. 148 e segg. 


(14) Di questa capacità del capitale metropolitano di mettere al lavoro forme economiche ibride in cui il mercato capitalistico convive con rapporti sociali di tipo tradizionale, discute A. G. Linera nel libro citato alla nota 12.


(15) Ne Il proletariato esterno, cit. 


(16) Calemme usa il termine di lumpenborghesia per denotare questa nuova borghesia dominante che rafforza i rapporti di subalternità economica dei Paesi ex coloniali


(17) Sempre ne Il proletariato esterno, Zitara sostiene che a mano a mano che i figli vengono avviati agli studi ciò genera un nuovo fattore sociale che alimenta la disoccupazione intellettuale, foriera di tensioni particolarmente esplosive.


(18) Ne L’unità d’Italia, cit.


(19) Sul concetto di delinking cfr. S. Amin, La déconnextion. Pour sortir du système mondial, La Découvert, Paris 1986 e Classe et nation, Nouvelles Editions Numériques Africaines, Dakar 2015. Vedi anche H. Jaffe, Via dall'azienda mondo,Jaka Book, Milano 1995.


(20) In Negare la negazione, cit.


(21) Cfr. P. Baran e G. Myrdal opp. citt.


(22) Cfr. D. Harvey, The Anti-capitalist Chronicles, Pluto Press, London 2020.


(23) vedi nota 12.


(24) Vedi Guerra e rivoluzione, cit.


(25) Su questa nuova dimensione del conflitto centri periferie, cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.  


(26) Il tema dell’odio meridionale contro i colonizzatori ricorre di frequente nel libro di Calemme (la pulsione violenta della masse meridionali, scrive, “non è esecrabile ma è l’ultimo vestigio della loro umanità, della loro dignità”). Calemme traccia un filo che si dipana dai Fasci siciliani, agli eventi di Avola e Battipaglia, alla rivolta di Reggio, fino ad appellarsi al fenomeno mafioso come “il tentativo storico della classe subalterna meridionale eterna allo sviluppo storico di avviare con la violenza un nuovo processo di accumulazione originaria”, discorso che, mentre può avere un qualche senso alle origini del fenomeno, mi pare non più sostenibile nella sua attuale versione globalizzata e finanziarizzata, totalmente integrata nei vertici del sistema capitalista mondiale.


(27) A. Zhok, Critica della ragione liberale, Meltemi, Milano 2020.


(28) Vedi fra i molti scritti che Giacché dedica al tema, il suo (a cura di) Economia della rivoluzione, il Saggiatore, Milano 2017, quanto ad Arrighi vedi, in particolare, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2007.



  

 


    



 

DODICI PROVOCAZIONI PER UN RINNOVAMENTO DEL MARXISMO Premessa. Un bilancio critico e autocritico dopo 20 anni di ricerca di una casa politic...

più letti