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Marxismo e classe, parte 1: Perché non vogliono che parliamo di classe

Chris Nineham | counterfire.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

24/09/2022

Gli scioperi dell'estate scorsa in Gran Bretagna e l'annuncio da parte di Mick Lynch del RMT (il sindacato dei lavoratori ferroviari, navali e dei trasporti) che «La classe operaia è tornata» devono aver fatto correre un brivido lungo la schiena dell'establishment. Quest'ultimo sperava di aver seppellito definitivamente l'idea di una classe operaia combattiva. Uno dei grandi paradossi degli ultimi quarant'anni è che proprio mentre la società è diventata più diseguale di quanto lo sia stata da un secolo a questa parte, la classe è stata esclusa dal dibattito.

Questo è un risultato per il quale la classe dirigente britannica ha lavorato molto sodo sin dall'inizio del progetto Thatcher. Alfred Sherman, importante consulente dell'allora leader del Tories Margaret Thatcher, tenne una serie di lezioni nel corso degli anni Settanta con l'intento di dimostrare che la classe era «un termine marxista che è privo di significato in qualunque contesto non marxista». La Thatcher fece eco in seguito a queste affermazioni dichiarando che la classe era «un concetto comunista». E Keith Joseph, tra i più intimi confidenti della Thatcher, riteneva che il loro progetto fosse la creazione di una società in cui sarebbe stato possibile affermare «Oggi siamo tutti borghesi».1

Questi temi sono stati ripresi con entusiasmo dall'intero establishment. Nelle università i dipartimenti di studio delle relazioni industriali hanno chiuso i battenti, mentre i business studies sono fioriti. Ormai da molto tempo i giornali hanno licenziato i loro corrispondenti sindacali e si concentrano sulle quotazioni di borsa invece che sulle statistiche sugli scioperi. Ignorando le proprie radici all'interno della classe operaia, ovunque i partiti socialdemocratici hanno abbandonato ogni retorica di classe. Intellettuali di destra, centro liberale e parte della sinistra hanno fatto di tutto per abbandonare il concetto di classe introducendo tutta una serie di nuove categorie sociali, separando la classe da qualunque base economica e riducendola a una semplice suddivisione tra le tante - o negandone espressamente l'esistenza.

La negazione neoliberale della classe è tuttavia soltanto un caso estremo nell'ambito di un'avversione molto più antica. Sin dall'emergere delle prime organizzazioni indipendenti della classe operaia, negli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento, discutere di classe è sempre stato considerato assai inappropriato tra persone istruite. Sino ad allora, la storiografia aveva di tanto in tanto riconosciuto che la classe e perfino la lotta di classe erano essenziali per lo sviluppo dell'umanità. Ma a partire da metà Ottocento, la storia si trasformò in una celebrazione dell'evoluzione e del progresso, o nella mera descrizione di fatti ed eventi privi di qualunque logica interna.

L'economia, che aveva riconosciuto l'esistenza di alcune contraddizioni nel capitalismo, si trasformò più o meno nello stesso periodo in una serie di armonizzazioni puramente matematiche del più volgare liberalismo. Alla fine dell'Ottocento si sviluppò la sociologia, concepita scienza della società che riconosceva l'esistenza di vari collegamenti tra l'individuo e la società, che tuttavia si sforzò in ogni modo di evitare di porre la classe al centro della sua analisi.

Da allora gli accademici, i politici e i giornalisti mainstream hanno sempre avuto la tendenza a negare l'esistenza della classe - oppure, quando questo non era possibile, a suddividerla in più categorie e a trattarla come una semplice suddivisione tra le tante o come un fatto puramente culturale. E in molte, troppe occasioni questo tipo di argomentazioni hanno trovato eco anche a sinistra.

Queste tendenze hanno toccato il culmine negli anni del neoliberalismo. A prima vista può apparire sconcertante che sia stato possibile nascondere la classe sotto il tappeto proprio mentre la diseguaglianza raggiungeva livelli mai più toccati dall'Ottocento - ma in realtà vi è una logica in questo. Per dare vita a una società diseguale come quella in cui viviamo era necessario fare a pezzi i bastioni delle organizzazioni della classe operaia in una serie di battaglie campali. Le sconfitte subite in successione dalla classe operaia in giro per il mondo ha reso credibile l'idea che i lavoratori avessero minore peso sociale. L'ondata di nuove tecnologie, chiusure di fabbriche e ristrutturazione internazionale che ha accompagnato questi processi hanno reso apparentemente obiettiva l'idea che avessimo a che fare con un contesto sociale completamente nuovo.

L'attacco all'idea stessa di classe ha rappresentato tuttavia un elemento importante della guerra di classe scatenata dalla Nuova Destra negli anni Settanta e Ottanta. Paradossalmente, la resa su questa questione, cioè l'accettazione da parte di settori della sinistra dell'idea che la classe non era più fondamentale, è una delle ragioni per cui i datori di lavoro hanno ottenuto la vittoria nella loro guerra di classe.

Il «più intimo segreto»

Perché questo desiderio ossessivo di seppellire la classe? Il primo problema per i capitalisti è naturalmente che la combattività della classe operaia riduce i loro profitti. Perciò, si tratta in parte di una questione di mero interesse personale immediato. La portata dell'operazione, tuttavia, tradisce ansie più grandi. Negare o cancellare la classe è una necessità radicata e ideologica per chi ci governa. In primo luogo, anche la discussione più superficiale del concetto di classe rischia di richiamare l'attenzione delle persone sulla spaventosa diseguaglianza che sfigura il nostro mondo. Per conservare la propria legittimità, la classe capitalista e i suoi sostenitori devono tentare in ogni modo possibile di distogliere l'attenzione delle persone dal fatto che il loro è il dominio di una minoranza.

Ma c'è in gioco qualcosa di più della semplice necessità di nascondere questa lampante diseguaglianza. La classe, nella sua accezione marxista più che sociologica, designa una relazione attiva tra gruppi di persone all'interno della società; spiega come le persone trovano posto nella modalità organizzativa delle basi economiche della società. Per questa ragione, il concetto di classe fa luce sull'economia su cui la società si basa e sui conflitti di interesse che essa genera. Per questo Marx afferma che la classe illumina «il più intimo segreto» della società, «il fondamento occulto dell'intera struttura sociale».

Le società divise in classi esistono da migliaia di anni, sin da quando gli esseri umani hanno iniziato a produrre a sufficienza per creare un surplus - cioè una quantità di prodotti superiore a quella necessaria per la sopravvivenza quotidiana. Ma è nel capitalismo i rapporti di classe hanno raggiunto il loro sviluppo più completo. Nelle società precedenti, lo sfruttamento era determinato dalle necessità immediata dei governanti. Nel medioevo, per esempio, i signori feudali utilizzavano il surplus da loro estratto dai contadini per finanziare i loro eserciti e il loro stile di vita lussuoso.

La caratteristica peculiare del capitalismo è che l'espansione della ricchezza è divenuta un fine in sé: il capitalismo è mosso dalla competizione senza limiti per l'accumulazione di capitale. Per sopravvivere, i capitalisti devono tentare costantemente di accrescere questi profitti in modo da poter generare la quantità massima di nuovi investimenti per acquistare la tecnologia necessaria a raggiungere le economie di scala in grado di mantenere competitivi i loro prezzi. Questa accumulazione si realizza principalmente ricavando profitti dai lavoratori, cioè pagando i lavoratori un valore inferiore a quello della forza-lavoro da loro impiegata per produrre le merci. È questo che spiega il dinamismo del capitalismo, la rapidità con cui esso ha conquistato il dominio del mondo e la spietatezza con cui sfrutta i lavoratori.

La conseguenza è che i lavoratori dipendono completamente dal capitale per i loro mezzi di sostentamento - per la loro stessa esistenza. I fautori del capitalismo affermano che esso si basa sulla libera scelta. È vero che in alcune circostanze i lavoratori possono avere modo di scegliere tra più datori di lavoro - ma questi datori di lavoro competeranno sempre per massimizzare i loro profitti, e quindi tenteranno tutti di ridurre i salari al minimo ed eserciteranno costanti pressioni sul personale affinché lavori in modo più veloce e più efficiente. Di conseguenza, la crescente diseguaglianza è insita nell'impulso economico fondamentale del capitalismo.

Se si comprende il modo in cui il capitalismo sfrutta i lavoratori, i vari modi in cui l'establishment tenta di spiegare il mondo appaiono ridicoli. Il modello di società preferito dall'establishment è un enorme mercato in cui gli individui interagiscono in modo libero ed eguale. La realtà, naturalmente, è che le persone entrano in questo mercato con poteri d'acquisto diversi. La distribuzione della ricchezza è determinata dalla posizione delle persone all'interno del processo produttivo - dalla loro posizione di classe.

I politici, inoltre, amano dirci che «siamo tutti nella stessa barca». Questa affermazione non regge di fronte alla presa d'atto del fatto che l'intero sistema è manovrato da una minuscola minoranza che estorce profitti dal lavoro di molti. Ci dicono inoltre che gli investitori capitalisti «creano ricchezza». In una prospettiva di classe, il capitale che un investitore mette sul tavolo è stato precedentemente espropriato ai lavoratori. L'investitore non fa che riciclare la refurtiva allo scopo di fare ancora più soldi.

Un'analisi di classe permette di smentire anche l'idea che il capitalismo sia destinato con il tempo a «ridurre» la povertà. Il capitalismo ha prodotto una ricchezza inimmaginabile, ma come prevedeva Marx il suo impulso a mantenere bassi i salari fa sì che durante gran parte della sua esistenza la distribuzione di questa ricchezza sia diventata sempre più diseguale. Due decenni e mezzo di boom capitalista dopo il secondo conflitto mondiale, insieme ad alti livelli di pressione da parte della classe operaia, contribuirono a ridurre la diseguaglianza dopo la terribile esperienza degli anni Trenta. Ma quarant'anni di capitalismo neoliberale hanno più che azzerato questi guadagni. La lotta di classe dall'alto messa in atto dal neoliberismo ci ha condotti alla situazione grottesca in cui otto uomini possiedono quanto metà della popolazione mondiale. Se si comprende il concetto di classe come rapporto sociale, si giunge alla devastante conclusione che i poveri sono poveri perché i ricchi sono ricchi. La povertà e la diseguaglianza generalizzate sono una conseguenza necessaria di un sistema basato sulla competizione per il profitto.

Una classe universale

Per Marx, tuttavia, la natura del moderno sfruttamento e l'esclusione dei lavoratori dal godimento dei frutti della produzione aveva altre tre implicazioni profondamente sovversive, che vengono discusse meno sovente benché siano sotto molti aspetti le più importanti.

La prima è che il capitalismo ha creato una «classe universale» che non ha alcun interesse a sfruttare o a opprimere altri gruppi. Le rivoluzioni borghesi provocarono la sostituzione di una classe dominante con un'altra. La classe capitalista emergente combatté contro le rigidità e l'arretratezza del sistema feudale, ma lo fece allo scopo di introdurre un nuovo e più dinamico sistema di sfruttamento. Dal momento che il progetto economico della borghesia dipendeva dallo sfruttamento di una nuova classe, i nuovi diritti da essa offerti alla massa della popolazione, anche nelle loro forme più radicali, erano limitati. Malgrado tutti i successi della Rivoluzione francese, l'uguaglianza annunciata dal suo slogan centrale «libertà, fratellanza e uguaglianza» si rivelò avere una natura formale e politica, più che materiale o economica.

La natura della subordinazione e dello sfruttamento dei lavoratori li pone in una posizione molto più radicale. Non soltanto la classe operaia non è in grado di sfruttare altri gruppi; per i lavoratori, la libertà politica in assenza di liberazione sociale ed economica ha ben poca importanza. La vera liberazione dei lavoratori può avere luogo soltanto smantellando l'intera struttura sociale, e questo implica la lotta contro ogni forma di discriminazione prodotta dal sistema. Come scrive Marx nel Manifesto Comunista:

«Tutti i movimenti sono stati finora movimenti di minoranze o nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo della stragrande maggioranza nell'interesse della stragrande maggioranza. Il proletariato, ceto infimo dell'attuale società, non si può sollevare, non può elevarsi, senza far saltare in aria l'intera costruzione dei ceti che formano la società ufficiale.»2

Le dimensioni stesse dello sfruttamento e dell'oppressione della classe operaia ne fecero una forza più sovversiva di qualunque altra, «una classe che è la dissoluzione di tutte le classi»; in breve, una classe «con catene radicali».3

Il secondo punto è implicito nel primo. La posizione e l'esperienza della classe operaia offrono un punto di osservazione privilegiato per comprendere come funziona il capitalismo. L'esperienza dello sfruttamento, i continui attacchi alle condizioni di lavoro e la tensione tra padrone e lavoratore producono in ogni momento un determinato livello di coscienza di classe. Ciò spiega perché, malgrado le sconfitte subite e la propaganda degli anni del neoliberismo, ben il 60% della popolazione britannica abbia continuato per tutto questo periodo a definirsi appartenente alla classe operaia.4

Ci occuperemo della questione della non uniformità del pensiero e dell'opinione della classe operaia in un articolo successivo di questa serie; ma con buona pace delle snobistiche caricature della classe operaia attualmente in voga - che la dipingono come socialmente retrograda, piena di pregiudizi, «nativista» e via dicendo - in realtà i lavoratori sono la classe che all'interno della società tende ad assumere gli atteggiamenti più progressisti riguardo a una molteplicità di questioni economiche e sociali.5 Tra i lavoratori esiste sempre una qualche forma di percezione del «noi» e del «loro», che si manifesta tra l'altro nell'antipatia per il padrone e nella simpatia o nella partecipazione attiva ai sindacati. Per questo la maggior parte dei lavoratori che partecipano alle elezioni votano per i partiti socialdemocratici e simili.

Nei periodi di tensione sociale e di crisi, le cose tendono a spingersi molto oltre. Vivek Chibber ha probabilmente espresso un'opinione diffusa quando, lo scorso anno, ha ipotizzato che il culmine toccato dalla lotta rivoluzionaria dei lavoratori nel periodo compreso tra le due guerre mondiali abbia rappresentato in un certo senso un'eccezione storica.6 Il periodo della Rivoluzione russa rimane effettivamente il punto massimo toccato finora dalla lotta operaia. Va ribadito, tuttavia, che i lavoratori sono stati all'avanguardia dei cicli insurrezionali sin dalla nascita del capitalismo. Queste lotte, dal movimento cartista alle grandi lotte operaie del Sessantotto e oltre - passando per l'ondata della lotta antifascista in Europa durante la seconda guerra mondiale, le numerose insurrezioni anticoloniali e le varie rivolte recentemente verificatesi nel Sud del mondo - tendono a far risorgere lo spettro del socialismo. Di conseguenza, le lotte della classe operaia hanno senza dubbio costituito il vivaio più importante di idee radicali e movimenti rivoluzionari e anticapitalisti.

Un dato cruciale è naturalmente che i lavoratori, oltre ad avere interesse al cambiamento, hanno anche i mezzi per provocarlo. Se i lavoratori dipendono interamente dai capitalisti per la propria sopravvivenza, i capitalisti dipendono interamente dai lavoratori per i propri profitti. Impotenti a livello individuale, i lavoratori hanno una forza potenzialmente immensa a livello collettivo. Concentrando a forza un gran numero di lavoratori in corrispondenza dei punti di produzione, il capitalismo si crea esso stesso un contro-potere. In quanto dimostra pubblicamente che senza i lavoratori non si può fare nulla ed esemplifica che cosa si può ottenere quando i lavoratori si organizzano collettivamente, ogni sciopero importante contiene in sé il suggerimento, la speranza di un diverso modo di organizzare la società. Citando Marx:

«La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. (…) Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell'associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. (...) In questa lotta - vera guerra civile - si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l'associazione acquista un carattere politico».7

Naturalmente, la classe dominante detesta la combattività della classe operaia, poiché la colpisce nel portafogli. Ma proprio perché le lotte economiche dei lavoratori possono trasformarsi in sfide politiche, per i padroni ogni sciopero rappresenta una sfida insolente alla loro autorità nel suo insieme. Se investono tanti sforzi e tante energie nel tentativo di impedire lo sviluppo della coscienza di classe è perché la storia ha insegnato loro che la lotta di classe può minacciare le basi stesse del loro mondo. Ciò rivela una certa comprensione della ragione più importante per cui la classe conta. I lavoratori si trovano in una posizione ideale per comprendere la rapina sistematica che è al centro del capitalismo, e hanno sia l'interesse sia la capacità di mettervi fine.

Note:

1 Per un'interessante analisi di questo tentativo, v. Jon Lawrence e Florence Sutcliffe-Braithwaite (2012), 'Margaret Thatcher and the decline of class politics', in Ben Jackson, Robert Saunders (2012) Making Thatcher's Britain, Cambridge University Press, Cambridge, pp.132-148.

2 Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del Partito Comunista.

3 Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844).

4 Si veda per esempio l'articolo di Patrick Butler (29 giugno 2016) «Most Britons regard themselves as working class, survey finds», The Guardian, disponibile all»indirizzo: https://www.theguardian.com/society/2016/jun/29/most-brits-regard-themselves-as-working-class-survey-finds

5 Per un'analisi dei dati sulle opinioni della classe operaia si veda Chris Nineham (2017), How the Establishment Lost Control, Zero, Hants, pp.22-3.

6 Vivek Chibber, «Labor's Long March», Jacobin, agosto 2021.

7 Karl Marx, Miseria della filosofia, II (1847).


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