Il conflitto in Ucraina, il ruolo degli USA e le categorie marxiste dell'imperialismo

Il conflitto in Ucraina, il ruolo degli USA e le categorie marxiste dell'imperialismo

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di Hervé Baron* - Ricercatore indipendente, email: hbgil@hotmail.it


Palermo, G. (2022): Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo USA alla conquista dell’Europa, L.A.D. EDIZIONI, Roma, pp. 120, € 13, ISBN: 9791280401151.




È una verità universalmente riconosciuta, soprattutto dopo il triennio 1989-91, che la Storia sia finita e che le categorie del marxismo siano state, una volta e per sempre, screditate.

Ebbene, si tratta di una falsa verità, come ben dimostra il libro di Giulio Palermo (d’ora innanzi: l’autore) intitolato: Il conflitto russo-ucraino. L’imperialismo USA alla conquista dell’Europa, e completamente costruito sulla “classica” categoria marxista[1] di imperialismo.

Voglio subito aggiungere che, nella maturazione del mio punto di vista, ho potuto beneficiare, oltre che della lettura del testo, anche di un confronto con l’autore in persona.

Tuttavia, prima di entrare nel merito del testo, vi sono alcune questioni che vanno sviscerate. Innanzitutto, dato che, come ripeteva Althusser, non esistono letture innocenti, voglio dichiarare subito di quale lettura lo scrivente è colpevole: di una lettura anarco-socialista[2].

In secondo luogo, mi preme fare una premessa metodologica. In effetti, come forse anche i lettori si saranno resi conto, stiamo vivendo strani tempi, tempi in cui il dibattito tende ad essere appiattito su prese di posizione che presentano, sempre più, due caratteristiche:

  1. In primo luogo si tratta di prese di posizione moralistiche, del tipo: noi (che facciamo parte della maggioranza o del mainstream) siamo i “buoni”, gli altri (che fanno parte della minoranza) sono i “cattivi”;
  2. In secondo luogo si tende, sempre più, all’unilateralità, tra l’altro usando modalità che anche l’autore rileva all’interno del suo libro. Tanto che nel terzo capitolo, per esempio, apprendiamo che:
  • La gestione della pandemia è servita per comprimere ulteriormente salari, diritti dei lavoratori (e, aggiungo io: diritti dei cittadini in generale);
  • La gestione della pandemia è servita per uccidere quel poco di (vera, sostanziale[3]) libertà di stampa che restava in Occidente, e per creare una vera e propria “verità ufficiale” a senso unico;
  • La maniera in cui è stata costruita la narrazione pandemica è stata prontamente riciclata nella costruzione della narrazione altrettanto a senso unico che sta accompagnando il conflitto in Ucraina.

A mio modo di vedere, i due inconvenienti segnalati più sopra ai punti i. e ii. vanno messi in relazione con la perdita d’interesse per il concetto filosofico di verità. Infatti, dato che nessuno può pretendere di possedere per intero la verità, la verità filosofica si configura come verità dialogica, ossia una verità che può essere intravista solo attraverso il confronto tra punti di vista differenti. Tutto ciò non è né vuole essere un generico invito al “volemose bene”, bensì all’ascolto (vero) e alla comprensione reciproca, ove il comprendersi reciprocamente va inteso nel senso di: comprendersi razionalmente, ovverosia capire ciò che l’altro vuole significare. Se ciò non avviene, non può esservi alcun dialogo. Tanto che, in quest’ultimo caso, avremo due monologhi paralleli, se tutto andrà bene; se le cose precipiteranno, invece, avremo un pollaio da talk show[4].

Ma torniamo all’argomento principale.

Comincerò la mia presentazione del testo in parola ricordando il concetto leniniano di imperialismo, poiché è intorno ad esso che sono state costruite pressoché tutte le argomentazioni principali dell’autore.

Scrive Lenin (Lenin ([1917] 2002), p. 140): «L’imperialismo è l’era del capitale finanziario e poi dei monopoli». Inoltre (Lenin ([1917] 2002), p. 108): «L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si formano il dominio dei monopoli e il capitale finanziario, l’esportazione del capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici».

A quanto ricordato sopra aggiungo solo che, in ambito marxista, per “capitale finanziario” s’intende, sulla scorta di Hilferding[5], l’unione o meglio la fusione tra due forme (o figure) di capitale: il “capitale bancario” e il “capitale industriale”[6].

Dico subito che il libro è interessante e ricco di stimoli (come sarà chiarito tra pochissimo). Anzi, come instant book – ove il termine instant book va inteso nel senso di: libro scritto per intervenire in tempo reale in un dibattito, con l’obiettivo di trasformarlo – è, a opinione dello scrivente, pressoché imbattibile. Poiché l’autore è egregiamente riuscito nell’arduo compito di far convivere chiarezza, ricchezza del ragionamento, e sintesi.

 

L’argomentazione dell’autore si sviluppa in quattro capitoli, preceduti e da una breve Introduzione e seguiti da altrettanto brevi Conclusioni.

Nel primo capitolo l’autore ricostruisce la storia, nonché i retroscena, del conflitto russo-ucraino, il quale non inizia nel febbraio 2022 e non ha come protagonisti la Russia e la sola Ucraina, bensì da un lato la Russia e dall’altro l’Ucraina + NATO + UE. Inoltre, in questo capitolo viene affermata apertis verbis la natura imperialistica tanto degli USA quanto, e qui sta un enorme merito dell’autore, della Cina. Viene pure sottolineato come la Russia non vada considerata un paese imperialistico, le sue modalità di funzionamento non potendosi inquadrare nella cornice classica di imperialismo testé ricordata.

Il secondo capitolo è invece dedicato alle conseguenze economiche della guerra e descrive tanto le mosse sanzionatorie made by the USA quanto le (sinora efficaci) contromosse della Russia. Oltre a ciò, a p. 50, l’autore fa un’osservazione fulminante, pur nella sua drammatica esattezza: «Nel tentativo di individuare vincitori e vinti della guerra economico-militare, un dato è certo: l’unico paese sconfitto in partenza è l’Ucraina». Questo poiché, nonostante le roboanti dichiarazioni da parte occidentale, a nessuno in Occidente interessa veramente del futuro di tale paese; il quale, anzi, è stato indebitato dalla propria classe politica (almeno) per le prossime due o tre generazioni.

Il terzo capitolo parla dello scontro russo-ucraino nel contesto post-pandemico. A partire da questo capitolo, l’autore tenta di allargare lo sguardo e mostrare quali siano gli interessi imperialistici in gioco, soprattutto per quanto riguarda il controllo delle “nuove tecnologie”. Proprio all’inizio del capitolo in parola, l’autore fa un’altra osservazione fulminante, poiché scrive, a p. 67: «In questo processo, la Russia e l’Ucraina non sono certo protagoniste». I protagonisti, infatti, secondo l’autore sono e restano i capitali statunitensi e quelli cinesi.

Infine, il quarto e ultimo capitolo verte sulla strategia degli USA in Europa. Qui, innanzitutto, viene meritoriamente posto in risalto il fatto che il processo di unificazione europea, lungi dall’avere lo scopo di rendere indipendente il vecchio continente dall’ingerenza statunitense, si configura come un percorso sponsorizzato dagli stessi USA. Tanto che l’autore afferma, a p. 94: «La nascita dell’UE e dell’euro non costituiscono affatto una sfida al capitale USA e all’egemonia del dollaro».

Nonostante io non voglia ricostruire nei dettagli tutte le argomentazioni dell’autore, per non privare i lettori del piacere di scoprirle da soli, prima di passare alle riflessioni che il testo mi ha stimolato, desidero fare almeno un esempio di come l’autore sia riuscito a “far lavorare” in maniera rilevante la classica categoria marxista di imperialismo.

Nel libro v’è, infatti, una convincente illustrazione del conflitto intra-imperialistico (ossia: tra i vari capitali di una stessa potenza imperialistica). Scrive l’autore, nel secondo capitolo alle pp. 58-59-60: «Dopo la crisi finanziaria del 2007-2009, gli Stati Uniti investono molto nel settore energetico […]. Questa rapida crescita produttiva ha ovviamente bisogno di sbocchi e gli Stati Uniti puntano molto sull’Europa. […] Nei confronti degli alleati e dei nemici, il disegno […] è lo stesso: conquistare un nuovo importante mercato di sbocco per le compagnie petrolifere USA e impedire lo sviluppo dei rapporti tra la Russia e l’UE, indebolendole entrambe». Tuttavia, a p. 71 del terzo capitolo, invece, si legge: «Lo scontro interno al capitale finanziario [statunitense] è guidato dai settori ad alta tecnologia (aerospazio, finanziario, armi, elettronica, informatica, media, farmaceutico, green economy) ai danni dei settori tradizionali (petrolio-gas-carbone, trasporti, turismo, agricoltura, manifatturiero, immobiliare, alimentare, tessile)».

Sembrerebbe dunque esserci una contraddizione tra l’affermazione nel secondo capitolo, in base alla quale gli USA stanno fomentando la guerra (anche) per favorire il settore energetico (petrolio & gas) e l’affermazione fatta nel terzo, secondo la quale il settore energetico sarebbe tra le frazioni “perdenti” del capitale USA, soprattutto dopo la sconfitta elettorale di Trump. In realtà, l’autore risolve la contraddizione (apparente) a p. 75, scrivendo: «Nei rapporti internazionali, lo scontro interno al capitale statunitense si scarica sul contesto russo-ucraino in due modi: primo, accelerando il processo di penetrazione dei capitali verdi […] in Europa; secondo, offrendo sbocco al settore petrolifero USA, in difficoltà sul fronte interno […]. [U]n’accelerazione delle tensioni in Ucraina piace in effetti ad entrambi gli schieramenti: da una parte consente alle multinazionali green di andare alla conquista del mercato europeo; dall’altra, dà modo alle compagnie petrolifere di rifarsi all’estero della sconfitta subita in patria».

Concludo questa parte del mio ragionamento affermando che, dal mio punto di vista, i primi due capitoli del libro risultano nettamente i migliori, mentre l’ultimo, ossia il quarto, è quello che mi ha lasciato maggiormente perplesso.

 

Per quanto riguarda gli stimoli fornitimi, comincerò rilevando come, dalla lettura del libro (soprattutto: l’Introduzione e il capitolo quarto), sembrerebbe che il vero nemico di Washington non sia a Mosca, bensì a Bruxelles. In altre parole, il conflitto inter-imperialistico tra USA e Cina, pur essendo rilevato, resta sotto-traccia per tutto lo sviluppo argomentativo.

In realtà l’autore, trattando tale questione di persona, ha chiarito che ritiene fondamentale il conflitto in parola. Probabilmente la necessità di sintesi ha finito per far apparire sottostimato il fenomeno in questione.

A questo proposito, durante la lettura, consideravo come, nonostante la politica estera USA sia, in definitiva, una sola (e rivolta contro l’“avversario strategico”, ossia la Cina), essa possa essere declinata in modi differenti.

Avremo dunque la linea-Trump: distaccare la Russia dalla Cina, trovare un accomodamento con la Russia per poi attaccare direttamente il bersaglio grosso. Non prima, però, di aver riportato tutte le produzioni rilevanti in patria[7].

Avremo però pure la linea-Biden: piegare definitivamente la Russia, magari sino a “spezzettarla” in tre o più tronconi. Proseguire nel frattempo la penetrazione militare in Asia centrale. Continuare a fare affari con la Cina come se niente fosse, sino all’ultimo momento (eventualmente provocandola ogni tanto, per ricordarle “chi comanda”). Qualora lo spezzettamento della Russia portasse, com’è probabile, al potere nei vari tronconi personaggi Eltsin-style allora gli USA potrebbero penetrare con loro basi militari pure nella parte asiatica dell’attuale Russia. In questo modo, l’accerchiamento della Cina sarebbe completo e i cinesi ridotti all’impotenza.

Tuttavia, dovrebbe apparire chiaro che i cinesi difficilmente si lascerebbero “ingabbiare” senza reagire preventivamente.

Da quanto precede, dato che in questo momento è all’opera la linea-Biden, si evince che ogni indebolimento della Russia è un passo in più verso una nuova (grande) guerra.

Veniamo al secondo gruppo di considerazioni ispiratemi dalla lettura.

In realtà, in questo caso si tratta fondamentalmente di un dubbio. In effetti, non sono del tutto sicuro che sia corretto affermare, come l’autore fa specialmente nel primo capitolo, che quello russo non sia (una forma di) imperialismo. Intendiamoci: se consideriamo solo le definizioni di Lenin sopra riportate, allora è fuor di dubbio che la Russia attuale non rientri nello schema. Tuttavia, lo stesso Lenin (Lenin ([1917] 2002), pp. 100-101) scrive: «Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale e attuò l’imperialismo». Da quanto posso capirne, è come se Lenin ci stesse dicendo: la forma “moderna” di certi fenomeni è quella che sto analizzando io, tuttavia fenomeni analoghi, seppur in altre forme, si sono manifestati anche nel contesto di altre formazioni economico-sociali.

Riformuliamo dunque il dubbio: seppur non nella forma imperialistica definita da Lenin, è corretto affermare che la Russia attuale non abbia mire espansionistiche?

La mia risposta è: questo non è affatto sicuro.

Nondimeno, più che la risposta, ritengo conti il ragionamento che sta alla sua base.

Infatti, se consideriamo la storia della Russia in termini di longue durée sia dal lato materiale (e, siccome parlerò di conformazione geografica, più “materiale” di così non potrebbe essere) che dal lato immaginario, alcuni aspetti saltano all’occhio.

Dal lato materiale, la Russia è praticamente piatta lungo tutto il suo confine occidentale. Ciò la rende estremamente invadibile. È bensì vero che, sinora, tanto la sua estensione geografica quanto il “generale Inverno” hanno sconfitto eventuali invasori; resta comunque il fatto che essa abbia sempre cercato, storicamente, di costruirsi una sfera d’influenza (o estero vicino) lungo i suoi confini occidentali. Inoltre, v’è l’altrettanto annosa questione dell’accesso ai mari caldi.

Questo per quanto riguarda il lato materiale.

D’altro canto, se passiamo all’esame dell’immaginario russo[8], vediamo che il vero e proprio mito fondativo della Russia è quello della “terza Roma”. Ovvero l’idea che dopo la “prima Roma”, ossia: Roma propriamente detta; e la “seconda Roma”, ossia: Costantinopoli, Mosca sia divenuta, in seguito alla caduta di Costantinopoli in mano turca, la “terza” Roma. Una Roma che, tra l’altro, i russi ritengono non cadrà mai.

Detto in altre parole: l’immaginario russo, o meglio: grande russo, è un immaginario intrinsecamente imperiale, che la parentesi leniniana[9] non sembra aver scalfito. Anzi, ci troveremmo di fronte, dal punto di vista immaginario, ad un vero e proprio “eccezionalismo”[10].

A ciò bisogna aggiungere che la Russia di oggi non è più la Russia di inizio millennio. Quella Russia, infatti, consapevole di aver perso la “guerra fredda” era disposta a collaborare pedissequamente con coloro che essa chiamava i suoi “partner occidentali”. La Russia di oggi, invece, anche a causa della politica USA/NATO, non pare più disposta a rinunciare a guadagnare/riguadagnare eventuali sfere d’influenza, anche se questo dovesse comportare un nuovo interventismo/espansionismo militare. Che questi miei dubbi abbiano un qualche senso, sembra confermarlo persino l’autore, il quale scrive, a p. 42: «L’escalation che porta all’intervento militare ha più a che fare con le preoccupazioni del ministero della difesa per la presenza sempre più massiccia di truppe NATO in continuo movimento lungo i confini della Russia, che non con le popolazioni del Donbass, sotto le bombe ormai da otto anni».

Ad ogni modo, prima di passare al prossimo gruppo di considerazioni, mi preme chiarire un punto. Nei dubbi appena espressi non è insita nessuna considerazione moralistica. Non sto affatto sostenendo che la Russia sia “buona” o “cattiva”. Ciò perché, come diceva Keynes (Keynes (1994), p. 190): «Chi vuole un fine vuole anche i mezzi per raggiungerlo». E, siccome personalmente penso che valga anche l’inverso, ossia che chi accetta un certo mezzo deve accettare anche i fini ad esso intrinseci, ciò significa, né più e né meno, che accettando, p.es., la “forma-Stato” bisogna accettare anche la “ragion di Stato” (volgarmente chiamata: “interesse nazionale”), che ad essa corrisponde.

Naturalmente, vi sono un’infinità di modi per declinare tale “ragion di Stato” (o “interesse nazionale”), sia all’interno che all’esterno. Per quanto riguarda l’interno si può andare, p.es., dalla mistica nazionale più sciovinista al classismo più radicale; per quanto riguarda l’esterno, invece, si può andare, p.es., dall’imperialismo più bieco all’anti-imperialismo più puro.

Il punto fondamentale è che, a meno che non si diventi tutti anarchici, situazione che, purtroppo, non vedo all’orizzonte, bisogna tener sempre presente che la politica estera si fa solo e soltanto sulla base d’interessi. Le considerazioni più sopra valgono solo come ricognizione, tanto materiale quanto immaginaria, del modo in cui i russi concepiscono i loro interessi, interessi che non escludono (più), a mio parere, l’espansionismo militare.

Nondimeno, tanto poco mi approccio alla Russia in modo moralistico, da auspicare[11], oltre che una veloce conclusione della guerra in Ucraina, anche una non-sconfitta della Russia stessa. E questo sulla base del primo gruppo di considerazioni, svolte più sopra.

Infine, per tornare brevemente alla questione dell’analisi dell’imperialismo: siamo sicuri che lo studio fornitoci da Lenin ormai più di un centinaio d’anni fa, sia ancora attuale? Lo stesso autore, trattando tale questione di persona, ammette che così non è e che ci sarebbe bisogno di un nuovo sforzo analitico. Per quanto mi riguarda, la vera domanda diventa: sarà ancora quella del “capitale finanziario” la forma (o figura) di capitale oggi dominante? E se fosse quella del cosiddetto “capitale fittizio”? Cosa comporterebbe tutto ciò per l’analisi dell’imperialismo?

Ma passiamo ad altro.

Finora ci siamo occupati di questioni geopolitiche. Nel discutere il terzo gruppo di considerazioni mi inoltrerò, invece, in questioni più propriamente politiche.

E dunque: se l’UE è una creatura sponsorizzata dagli USA (come affermato dall’autore soprattutto nel capitolo quarto) per tener meglio aggiogati i paesi europei, non si dovrebbe trarne la conclusione che sarebbe il caso per l’Italia (ma anche per gli altri paesi) di uscirne, e alla svelta?

In effetti, l’autore dichiara a p. 68: «[L’]UE ha inoltre un problema storico strutturale, un peccato originale che si porta dietro dalla nascita: l’UE non è una nazione, non ha un sistema fiscale e non ha un esercito».

Tuttavia, messa così l’osservazione risulta ambigua: vuole forse intendere l’autore che basterebbe all’UE dotarsi di un proprio bilancio (federale) e di un proprio esercito (magari in qualche modo “autonomo” dalla NATO) per trasformarsi in nazione?

Purtroppo non lo sapremo mai, poiché, nonostante alla fine del libro, a p. 110, l’autore dichiari esplicitamente: «A conclusione di questo lavoro in cui – pur senza nascondere le mie posizioni – ho sviluppato il mio ragionamento su basi economiche, fatti storici e dati oggettivi, mi concedo alcuni commenti di natura politica […]», la valutazione sulla natura e/o l’utilità politica dell’UE non viene più ripresa.

Sembriamo dunque trovarci dinnanzi ad un ragionamento non concluso.

Giungiamo così al quarto gruppo di considerazioni suggerite dalla lettura del libro. In questo caso si tratta di considerazioni economiche, o meglio: geoeconomiche.

In effetti, lungo tutto il testo, l’autore sembra dare per scontata l’egemonia economica mondiale degli USA, tanto che, a p. 64, egli scrive: «Dal punto di vista finanziario, l’egemonia del dollaro è certamente sulla via del tramonto, ma la strada è ancora lunga», con ciò sottintendendo che la dominanza USA sia ancora salda.

Siamo sicuri che le cose stiano proprio così?

Per quanto riguarda il dollaro, non sarà inutile ricordare che Zhou Xiaochuan, ex governatore della Banca Popolare Cinese, nel pieno della crisi finanziaria, se ne uscì con la proposta di togliere al dollaro il ruolo di moneta globale[12]. Non ci sarebbe nulla di stupefacente, anche alla luce della situazione internazionale per come presentata più sopra nell’ambito del primo gruppo di considerazioni, se, da allora a oggi, i cinesi avessero continuato a lavorare, magari sottotraccia, per detronizzare il dollaro.

Inoltre, esistono vari autori che, da tempo, rilevano un declino (assoluto o relativo) del dominio economico globale statunitense. Farò qui solo i nomi di: Sylvers, Todd, Barber, Wallerstein[13], aggiungendo che, per quanto mi riguarda, Wallerstein ha prodotto il testo meno interessante, mentre quello di Todd, nonostante personalmente non sia convinto di tutti gli indicatori che egli utilizza, per me risulta il libro più intrigante del quartetto.

Infine, per quanto riguarda il cosiddetto green-new-deal, a cui peraltro l’autore dedica, nel corso del terzo capitolo, una lunga analisi (ma si tratta in realtà di un vero e proprio processo di demistificazione), bisogna prendere atto del fatto che, per ora, esso risulta molto simile all’araba fenice: che vi sarà ciascun lo dice, quando sarà nessun lo sa.

Insomma: forse la posizione economica degli USA nel mondo non è così salda come “si dice” (man sagt). A ciò si aggiunga, ma dovrebbe risultare chiaro da quanto si qui affermato, che, se proprio si vuole trovare un elemento destabilizzante dei rapporti internazionali, questo va cercato negli USA (che non paiono disposti ad accettare il proprio declino) piuttosto che nella Russia, la quale per decenni ha subito l’aggressivo espansionismo della NATO.

Veniamo, da ultimo, al quinto e ultimo gruppo di considerazioni suggerite dalla lettura del libro. In questo caso si tratta di considerazioni di teoria economica.

Voglio cominciare sottolineando un’osservazione fatta dall’autore alle pp. 94-95: «Il passaggio alla moneta unica ha inoltre indirizzato tutti gli squilibri finanziari sui tassi d’interesse. […] In questo sistema, la crisi finanziaria, quale che ne sia la causa, si esprime come crisi del debito pubblico dei paesi periferici», poiché essa sembrerebbe contraddire quanto affermato a p. 69: «La cosiddetta crisi dei subprime del 2007 ha lasciato i suoi segni: nell’UE, la crisi si è sviluppata come crisi del debito pubblico». Nella prima citazione, infatti, l’autore sembra affermare che, dato il contesto istituzionale UE/UME, la crisi economica debba prendere le sembianze di una crisi del debito pubblico dei paesi periferici, mentre nella seconda egli pare credere davvero che la crisi sviluppatasi in UE/UME a partire dal 2009 sia stata una crisi da debito pubblico. Inoltre, lungo tutto il testo, non è chiaro se l’autore ritenga che siano i mercati a considerare l’indicatore debito pubblico/Pil un buon indicatore della solidità finanziaria di uno Stato o se sia lui a ritenerlo tale.

Personalmente propendo per la seconda ipotesi, poiché egli, a p. 101, scrive: «Uno degli indicatori più significativi della solidità finanziaria di uno stato è il rapporto debito pubblico/Pil». Inoltre, egli aveva già affermato, a p. 56: «[L]a Russia è solida: […] i dati di finanza pubblica sono assolutamente invidiabili. Il debito pubblico è pari al 17,7% del Pil, il nono più basso del mondo, contro il 90,0% dell’UE, il 97,2% della zona euro, il 128% degli Stati Uniti, il 93,9% del Regno Unito». Infine, a p. 102, viene dato per scontato che: «Per anni il problema del debito pubblico è rimasto confinato ai Piigs, caratterizzati da un alto rapporto debito/Pil. Tuttavia, il rallentamento della crescita e i piani di rilancio, interamente a debito, lo trasformano ora in un problema generale».

Da tutto quanto precede ritengo si possa trarre non solo la conclusione che sia proprio l’autore a considerare l’indicatore debito pubblico/Pil come qualcosa di rilevante, ma anche che egli sia un partigiano della “neutralità di bilancio” o comunque avverso al principio della “finanza funzionale”.

Ebbene, qualora questo fosse effettivamente il caso, devo dissentire.

Per quanto riguarda la rilevanza, in sé, del rapporto debito/Pil – ove, dato che il diavolo si nasconde nei dettagli, quel che conta veramente è l’espressione “in sé” – comincerò ricordando che l’apparato empirico/teorico che sorreggeva il famigerato studio di Reinhart e Rogoff, inizialmente utilizzato come “pezza giustificativa” per politiche austeritarie anti debito pubblico, è stato letteralmente smantellato[14]. Continuerò citando un articolo di Pasinetti[15], il quale articolo, pur essendo centrato sul parametro di Maastricht che voleva il rapporto deficit pubblico/Pil inferiore al 3% (parametro definito senza mezzi termini “mito” e “follia”), si occupa anche del rapporto debito pubblico/Pil, mostrando non solo che Italia e Belgio, contrariamente al quanto affermato dalla vulgata allora in voga, risultavano, al momento di tale studio, i paesi il cui debito pubblico risultava più sostenibile (pur essendo, in entrambi i casi, ben oltre il 100% in rapporto ai rispettivi Pil), ma anche che il rapporto debito pubblico/Pil, in sé, non significa praticamente nulla.

Nel terzultimo paragrafo dell’articolo in parola Pasinetti, accennando al fatto che lo stock di debito pubblico sia o meno detenuto dai cittadini dello Stato che lo ha emesso, tocca la questione a mio modo di vedere fondamentale: quella del contesto istituzionale in cui il debito pubblico si sviluppa.

E dunque: il debito pubblico si sviluppa in un contesto istituzionale in cui funziona ciò che i francesi avevano chiamato, con definizione inarrivabile, le circuit du Trésor (il circuito del Tesoro), oppure, al contrario, esso si sviluppa in un contesto istituzionale in cui tale circuito è stato “smontato” (p.es. rendendo la Banca Centrale “indipendente” dal Tesoro) e di conseguenza lo Stato è chiamato a finanziarsi sui mercati, come se fosse “una famiglia”? (Tra parentesi: tale è il contesto, seppur tra le mille asimmetrie di potere esistenti tra i vari paesi e nei rapporti tra ciascuno d’essi e la BCE, dell’attuale UME)

 

Considero tutte le questioni sollevate relativamente all’ultimo gruppo di considerazioni essere questioni rilevanti, che ho appena accennato e che sarebbero meritevoli di ulteriore approfondimento. Tuttavia non voglio andare oltre in codesto frangente, per non dare l’impressione (erronea) che queste mie note abbiano un andamento polemico.

Al contrario, come dovrebbe risultare evidente dalla quantità di riflessioni che esso ha saputo ispirarmi, ritengo che il libro di Giulio Palermo debba assolutamente essere letto.

 

*Una versione (quasi) uguale di tale testo uscirà in edizione cartacea sul Numero 3/2023 de il Ponte"

 

 

BIBLIOGRAFIA

Barber B. R. (2004), L’impero della paura. Potenza e impotenza dell’America nel nuovo millennio, Einaudi, Torino.

Hilferding R. ([1910] 2011), Il capitale finanziario, Mimesis, Milano-Udine.

Keynes J. M. (1994), Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano.

Lenin ([1917] 2002), L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Edizioni LOTTA COMUNISTA, Milano.

Pasinetti L. L. (1998), “The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’”, Cambridge Journal of Economics, vol. 22, pp. 103-116.

Reinhart C. M. e Rogoff K. S. (2010), “Growth in a Time of Debt”, American Economic Review: Papers & Proceedings, 100 (May), pp. 573–578.

Sylvers M. (1999), Gli Stati Uniti tra dominio e declino. Politica interna, rapporti internazionali e capitalismo globale, Editori Riuniti, Roma.

Todd E. (2005), Dopo l’impero. La dissoluzione del sistema americano, Net, Milano.

Wallerstein I. (2004), Il declino dell’America, Feltrinelli, Milano.

Xiaochuan Z. (2009), “Reform the international monetary system”, BIS Review, 41/2009, pp. 1-3, cfr.: https://www.bis.org/review/r090402c.pdf.



NOTE

[1]In verità, la categoria di imperialismo ha una storia per nulla lineare. Infatti, se in Marx ed Engels già esisteva l’“idea”, di sicuro ancora non esisteva ancora il “nome”. Inoltre, come notato p.es. da Jaffe, nei fondatori della concezione materialistica della storia sono ancora presenti elementi di eurocentrismo (soprattutto in Marx; e, di tali elementi, egli si libererà solo negli ultimi anni della sua vita) nonché di etnocentrismo (soprattutto in Engels: vedasi la sua infelice diagnosi sui “popoli (slavi) senza Storia” durante i moti del 1848). Il nome di “imperialismo” sarà, invece, pronunciato apertis verbis dal liberal-socialismo inglese, soprattutto da Hobhouse e Hobson. E sarà quest’ultimo che Lenin riprenderà espressamente nella sua celebre analisi.

[2]Avrei potuto usare la formulazione più neutrale di “socialista libertario”. Se preferisco sottolineare il mio lato anarchico ciò dipende dal fatto che, in questo disgraziatissimo Paese, attualmente gli anarchici godono di “cattiva stampa”. Del resto, quando mai gli anarchici, in Italia o altrove, hanno goduto di “buona stampa”?

Ad ogni modo, come il lettore potrà verificare da sé nel prosieguo di questo scritto, praticamente nulla rimanderà a codeste posizioni politiche, poiché mi rendo perfettamente conto che, dati i tempi che corrono, persino predicare una qualsiasi forma di socialismo (ove: socialismo, nel contesto discorsivo in cui mi sto ponendo, va genericamente inteso come anticapitalismo radicale) sarebbe come parlare ai sordi. Il fatto che abbia comunque voluto esplicitare i miei giudizi di valore, oltre a essere l’unica vera forma di rispetto e lealtà verso il lettore, dipende da motivi che saranno chiariti in seguito (vedasi nota 11).

[3]Qui gli aggettivi qualificativi contano più dei sostantivi a cui si riferiscono, poiché la libertà di stampa “formale” è e resta fuori discussione. Così come, del resto, le procedure, altrettanto formali, su cui una “democrazia rappresentativa” si regge.

[4]Per fortuna, non è detto che questo avvenga poiché, se per dialogare bisogna essere (almeno) in due, anche per litigare bisogna essere (almeno) in due.

[5]Il riferimento obbligato, naturalmente, è a Hilferding ([1910] 2011).

[6]Va anche notato come, secondo la logica stessa dell’analisi marxiana, non sia affatto detto che la forma (o figura) dominante di capitale rimanga sempre la stessa. In effetti, mentre prima dell’avvento del modo capitalistico di produzione già esistevano quelle che Marx chiamerà “forme antidiluviane del capitale” (sostanzialmente: capitale commerciale e capitale usuraio), sarà soltanto durante la rivoluzione industriale inglese che il capitale si impadronirà della produzione, dando luogo alla forma dominante ai tempi in cui fu formulata la critica dell’economia politica: il capitale industriale, appunto. Inoltre, solo dopo il pieno dispiegarsi della suddetta rivoluzione industriale il capitale riuscirà a penetrare definitivamente in agricoltura. Infine, come vedremo più sotto, anche oggi potremmo essere dinnanzi ad un cambiamento della forma (o figura) dominante di capitale.

[7]Se codesta mia intuizione fosse corretta, ne conseguirebbe che, mentre da un lato risulta indiscutibile che Trump non abbia iniziato nessuna guerra durante il suo mandato, egli, dall’altro, non sia stato affatto un “pacifista” ma solo un “guerrafondaio a scoppio ritardato”, il quale, prima di muovere guerra ad un nemico giudicato strategico, cerca di raccogliere le proprie forze. Purtroppo o per fortuna, non avendo Trump goduto di un secondo mandato (consecutivo), molto probabilmente non lo sapremo mai.

[8]Sul perché per me sia così importante l’analisi tanto del lato materiale quanto di quello immaginario della realtà sociale-storica, mi sia consentito rimandare ad un altro mio scritto, liberamente accessibile in Rete qui: https://www.academia.edu/43678438/Per_una_concezione_materialistico_immaginaria_del_divenire_sociale_storico_Analisi_di_un_caso_la_Rivoluzione_industriale_inglese_come_cambiamento_epocale_nellorganizzazione_delle_societ%C3%A0_umane, e qui:

https://www.researchgate.net/publication/343105988_Per_una_concezione_materialisticoimmaginaria_del_divenire_sociale-storico_Analisi_di_un_caso_la_Rivoluzione_industriale_inglese_come_cambiamento_epocale_nell'organizzazione_delle_societa_umane.

[9]Scrivo “parentesi leniniana” invece che “periodo sovietico (o bolscevico)” poiché, a mio modo di vedere, la mentalità di Stalin e dei suoi successori rientra perfettamente in tale immaginario, seppur camuffato da visioni ideologiche “marxiste-leniniste”. Il lettore curioso è invitato a confrontare, p.es., le idee di Lenin sulla “questione delle nazionalità” facenti parte dell’URSS e il modo in cui, concretamente, Stalin gestì tale questione.

Del resto, poco importa, dal punto di vista dell’immaginario, che Stalin di nascita fosse georgiano, Krusciov ucraino, ecc. ecc. ecc.

[10]Se tutto ciò che ho affermato sopra ha un qualche senso, non possiamo fare a meno di notare come i due ex contendenti della cosiddetta “guerra fredda” (USA e Russia, essendo stata l’ex URSS a chiara dominanza “grande russa”), condividano un immaginario simile nella struttura, seppur diverso nei contenuti. L’uno, infatti, si considera la “terra d’elezione della libertà”, cosa che lo renderebbe differente da tutti gli altri paesi del mondo; l’altro, invece, si considera in qualche modo l’erede di Roma, cosa che lo renderebbe a sua volta differente da tutti gli altri paesi del mondo.

In definitiva, gli immaginari statunitense e grande russo si troverebbero in solidarietà antitetico-polare.

[11]L’aver detto di auspicare (ma sarebbe stato uguale usando un’altra formulazione, p.es.: sperare in) una non-sconfitta della Russia, potrebbe espormi alla critica di aver espresso un “giudizio di valore”, rendendo dunque la mia analisi “non scientifica”. Però, chiunque ragionasse in tal guisa, lo farebbe sulla base di due presupposti impliciti: 1. Esiste uno e un solo modo di concepire e praticare la scienza; e soprattutto: 2. Tale modo è proprio quello praticato da colui o colei che aderisce al presupposto 1.

È un vero peccato che, innanzitutto, non esista un solo modo di concepire la scienza. Per fare un esempio banale: se riteniamo che non vi sia differenza tra scienze “dure” e scienze “dello spirito” (ovvero, detta in altri termini: tra scienze sperimentali e scienze sociali) allora siamo nel novero dei positivisti (e/o loro derivati); se, al contrario, riteniamo che tale differenza sussista, allora non potremo essere considerati nel novero dei positivisti (e/o loro derivati).

Inoltre, per rimanere nell’ambito delle scienze dure, è ormai acclarato che non esiste un solo modo di concepire e praticare la scienza, non foss’altro che per il fatto che quest’ultima è soggetta ad uno sviluppo storico.

Per quanto mi concerne, d’altra parte, oltre a considerare le scienze sociali come qualcosa di totalmente altro dalle scienze sperimentali (e dunque ponendomi in contrasto coi patetici tentativi delle prime di scimmiottare i metodi delle seconde), non mi ritengo neppure un cultore della science, sia essa declinata in termini empiristici e/o positivistici, quanto piuttosto di una philosophische Wissenschaft. Detto esplicitamente: reputo che (almeno) le scienze sociali debbano essere filosoficamente fondate. Massimamente l’economia (e massimissimamente la “critica dell’economia politica”, qualora ci fosse al mondo qualcuno desideroso di portare avanti il discorso di Marx). Tutto ciò fa sì che, per quanto mi riguarda, sforzo analitico e valutazione assiologica viaggino di pari passo. Da qui la continua esplicitazione dei miei giudizi di valore. Da qui, anche, il fatto che, con tutta probabilità, da molti economisti ex professo potrei essere considerato una sorta di intoccabile.

Infine, ed indipendentemente da quanto sin qui affermato, mi si potrebbe rimproverare che è del tutto inutile auspicare, sperare, o quant’altro, dato che, avendo la Russia il secondo esercito al mondo, essa ha già di fatto vinto.

Ebbene, inviterei tutti coloro che così pensano, ad abbandonare la loro sicumera. Innanzitutto perché, data la disperante situazione attuale della stampa (in Occidente, ma non solo), nessuno di noi può affermare di sapere, neppure a grandi linee, cosa stia avvenendo sul campo. Ci troviamo, invece, dinnanzi ad una propaganda e ad una contro-propaganda, ossia a due propagande, senza che nessuno faccia più neppure finta di riportare le notizie in modo veritiero e corretto.

In secondo luogo perché, se ben ricordo, pure l’esercito sovietico, che risultava più potente dell’attuale esercito russo, le sue guerre le ha perse, vedasi Afganistan. In aggiunta, non sarà forse inutile rammentare come, in tempi più recenti, pure il primo esercito al mondo abbia malamente fallito in una guerra contro l’Afganistan. Cioè a dire: sulla carta un esercito può essere classificato tra i migliori al mondo, però poi ciò che accade sul campo non è detto confermi tali classifiche.

[12]Il riferimento è, ovviamente, a XIAOCHUAN (2009).

[13]Per la precisione, mi riferisco a: SYLVERS (1999), TODD (2005), BARBER (2004), WALLERSTEIN (2004).

[14]La pietra dello scandalo è, naturalmente, REINHART, ROGOFF (2010).

[15]Cfr.: PASINETTI (1998), soprattutto i paragrafi 3 e 4.

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