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A lezione da Keynes, ripensando la macroeconomia

Recensione de “La scienza inutile” di F. Saraceno

di Daniela Palma

Francesco Saraceno: La scienza inutile: Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia,Luiss University Press (2018), https://www.luissuniversitypress.it/pubblicazioni/la-scienza-inutile

maxresdefault live653Tra le conseguenze della crisi che ormai da un decennio sta attraversando l’economia mondiale, non si contano solo fallimenti finanziari e una diffusa stagnazione delle attività produttive. Lo stupore con cui la regina Elisabetta nel novembre del 2008 chiedeva ad autorevoli professori della London School of Economics come mai nessuno fosse stato in grado di prevedere un evento di proporzioni così rilevanti, ci ha avvisati infatti della crisi che stava per investire la scienza economica corrente e segnatamente la macroeconomia. Bene fa perciò Francesco Saraceno con il saggio “La scienza inutile” a lanciare la sua provocazione, per poi subito precisare che si può imparare dall’economia (e molto) purché la si legga con le lenti giuste.

Quella compiuta dall’autore è innanzitutto una scelta di metodo, che però va diritta al merito delle risposte che l’economia intesa come scienza è in grado di fornire. Ed è proprio questo il punto in cui si incardina tutto il ragionamento di Saraceno. Va ricordato infatti che i fenomeni economici non sono l’espressione di “leggi universali che regolano il comportamento umano”, ma si inquadrano in contesti storicamente determinati che condizionano nel tempo e nello spazio l’agire dei diversi soggetti. Respingendo l’approccio storico, la teoria economica tuttora dominante si rifà ai principi della cosiddetta scuola neoclassica, secondo la quale il sistema economico è l’espressione delle scelte ottimizzanti di individui razionali e tende a convergere verso uno stato di equilibrio di piena occupazione delle risorse.

Lo scoppio della crisi mondiale e la sua persistenza mettono chiaramente in discussione questa visione. Ma ciò non basta, poiché – sottolinea Saraceno – bisogna innanzitutto rompere la camicia di forza del razionalismo neoclassico che porta a concepire il progresso della scienza economica come “un approfondimento cumulativo della nostra comprensione” della realtà; ed è necessario quindi scendere sul terreno dello studio della storia del pensiero economico, esaminando l’avvicendarsi delle principali scuole in rapporto ai contesti in cui si sono affermate. Ci si accorge così che la conoscenza economica non ha seguito mai un percorso lineare, ma è andata evolvendosi (ed involvendosi) sull’onda delle trasformazioni e delle crisi più o meno accentuate che hanno interessato lo scenario economico nel corso del tempo.

Secondo Saraceno, un’importante chiave interpretativa – pur con qualche modifica – può essere tratta dallo schema concettuale delineato da Thomas Khun nel suo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, dove il progresso della scienza è ricondotto al consolidarsi di paradigmi intesi come “costellazione di credenze, di valori, di tecniche e d’impegni collettivi condivisi dai membri di una data comunità, fondata in particolare su un insieme di modelli di assiomi e di esempi comuni” entro i quali si vanno definendo le principali linee guida dell’attività di ricerca. In particolare un paradigma risulterà “dominante” fintanto che sarà in grado di spiegare i fenomeni ritenuti rilevanti, mentre nel caso contrario sarà messo in discussione e sostituito da uno più adatto. Nel caso dell’economia è invece “raro che i paradigmi siano abbandonati definitivamente; essi tendono al contrario a restare assopiti quando non sono più atti a spiegare la realtà in un dato momento, per risvegliarsi se l’evoluzione storica li rende ancora pertinenti”. Capire le direttrici di tali paradigmi significa dunque per Saraceno attingere innanzitutto alla dimensione sociale della scienza economica, rinunciando sempre e comunque a una lettura autoreferenziale di ciascuna posizione teorica, spesso tale in quanto frutto di derive dogmatiche che si sono andate cristallizzando finché non hanno colliso con evidenze storiche dirompenti.

Venendo al vivo delle questioni che sono scaturite dal dibattito intorno all’attuale crisi economica, il volume si focalizza sulla “battaglia delle idee” che ha segnato la macroeconomia, ponendo l’accento sul ruolo della politica economica e sulle varie modalità di intervento pubblico. Tale punto di vista è certamente privilegiato, ma niente affatto parziale. Nell’incrinare le certezze sulla capacità di autoregolazione del mercato, cardine del paradigma dominante neoclassico, lo scoppio della crisi ha portato infatti a una rivalutazione delle politiche favorevoli a un’espansione della spesa pubblica, più spesso indicate come di “ispirazione keynesiana”. Il rimando alla precedente crisi del ’29, che aveva consentito una rapida affermazione della pensiero keynesiano, è quindi immediato ed è l’occasione per convenire che il rapporto tra Stato e mercato rappresenti una pietra angolare delle maggiori dispute teoriche che caratterizzano l’ultimo secolo. L’enfasi su ascesa, declino e ripresa del keynesismo nel confronto con la scuola neoclassica è inoltre del tutto funzionale all’illustrazione della complessa dinamica che accompagna l’affermazione di un ciascun paradigma economico. L’intero saggio risulta infatti permeato da una costante tensione dialettica tra “paradigma neoclassico” e “paradigma keynesiano”, che mostra come il passaggio dall’uno all’altro avvenga lungo un continuum, facendo emergere commistioni teoriche che segnano uno spostamento quasi come fosse il moto di un pendolo. Viceversa è importante individuare gli snodi intorno ai quali iniziano a prendere forma le svolte paradigmatiche, e questo Saraceno lo chiarisce fin dai primi due capitoli, dove, con esposizione rigorosa ma accessibile anche ai meno esperti, sono richiamati i fondamenti teorici dei due filoni di pensiero.

Non sarebbe tuttavia possibile comprendere a fondo le oscillazioni del “pendolo” della teoria economica, se non fosse sempre ben presente un serrato confronto con i fatti dell’economia, specialmente quando quest’ultima ha manifestato segnali di crisi se non addirittura veri e propri collassi come quelli del ’29 e del 2007. Il volume ripercorre così, a grandi linee, tutte le principali tappe della storia economica del ventesimo secolo, integrandole direttamente nel testo e in appositi focus di approfondimento, spesso corredati di dati di sintesi e diagrammi grafici, dove l’analisi lascia il posto anche al commento critico dell’autore. Centrale rimane comunque il riferimento alle vicende della politica economica, a loro volta collegate alle diverse posizioni teoriche che nell’ambito dei due paradigmi si sono espresse sull’utilità dell’intervento dello Stato; e centrale rimane soprattutto l’attenzione per il ruolo (tutt’altro che scontato) della domanda pubblica nel sostenere la piena occupazione del sistema economico.

La sconfessione della cosiddetta “legge degli sbocchi di Say”, in base alla quale è l’offerta che genera la domanda, rappresenta la cifra della “rivoluzione keynesiana”, che irrompe sulla scena del primo Novecento, capovolgendo una lettura del circuito del reddito che durava dal tempo della scuola classica di Smith, Ricardo e Marx, sebbene a partire da presupposti teorici diversi da quelli della scuola neoclassica. Ma, attenzione: è Keynes stesso a precisare che il senso della sua nuova teoria non è di confutare il postulato di razionalità individuale dell’approccio neoclassico, quanto di rivedere il meccanismo che guida l’investimento privato in rapporto al risparmio in un contesto dominato da incertezza radicale (o rischio non calcolabile secondo schemi probabilistici) dove la moneta gioca un ruolo fondamentale come ponte tra passato e futuro, essendo riserva di valore oltre che mezzo di scambio. Per Keynes l’investimento privato non è determinato su un mercato di fondi a prestito, dove il tasso di interesse è il prezzo che ne definisce l’equilibrio con il risparmio, come vorrebbe la teoria neoclassica, ma dipende dalle aspettative (animal spirits) degli imprenditori; mentre la scelta di tesaurizzare è collegata al grado di preferenza per la liquidità. Stando così le cose, è evidente che l’equilibrio di piena occupazione non potrà verificarsi che per un caso, e che il livello della domanda aggregata sarà in generale esposto a “quell’elemento che è più soggetto a improvvise ed ampie fluttuazioni”, rappresentato dagli investimenti privati. La disoccupazione “involontaria” sarà pertanto un tratto distintivo del modello keynesiano, mentre per i neoclassici potrà emergere solo come scostamento temporaneo dall’equilibrio di piena occupazione per effetto di imperfezioni dal lato dell’offerta presenti soprattutto in forma di rigidità nel mercato del lavoro, che impediscono un’adeguata flessibilità dei salari. In questo senso la politica fiscale, consistente in aumento della spesa pubblica, avrà per Keynes un ruolo preminente, di sostegno alla domanda aggregata, nonché di stabilizzazione del ciclo economico specialmente in periodi di crisi, favorendo anche il miglioramento delle aspettative, ed è da preferirsi ad un espansione monetaria, che durante una recessione potrà persino fallire poiché in tale circostanza i tassi di interesse possono scendere su livelli molto bassi e la propensione al tesoreggiamento di moneta aumenta (trappola della liquidità). Ciò non implica tuttavia che lo Stato debba essere onnipresente, ma che sia pronto a intervenire nei casi in cui vi sia una stagnazione dell’attività produttiva al di sotto del livello di piena occupazione.

Il modello keynesiano risultava dunque più che attrezzato sia per rispondere ai problemi che la crisi del ’29 aveva posto, sia per ottenere un sufficiente consenso tra gli economisti del periodo, poiché reinterpretava il ruolo dell’agire razionale degli agenti economici riconoscendo al tempo stesso pieno titolo al mercato, una volta chiariti i meccanismi che ne potevano compromettere il funzionamento. Quali sono allora i motivi che ne hanno messo in discussione la validità dopo un lungo periodo di successo? A questa fase Saraceno dedica un breve ma assai denso capitolo (il terzo) che illustra come la teoria keynesiana sia stata progressivamente svuotata dei suoi stessi presupposti senza apparentemente far venir meno l’impianto logico. Keynes aveva in definitiva aperto una nuova strada che, come lui stesso riconosceva, era ancora tutta da percorrere [1]. Il modello, come ci viene ricordato, trascurava il lato dell’offerta e in qualche modo era rimasto intrappolato nell’idea che la leva della domanda pubblica potesse sempre sortire effetti positivi in situazioni di sotto-occupazione. Esauritosi il trentennale ciclo espansivo del secondo dopoguerra, le spinte inflazionistiche legate al vertiginoso aumento dei prezzi petroliferi e la stagnazione economica che le accompagnò a partire dai primi anni ’70, ne decretarono invece il fallimento, lasciando la strada spianata alla successiva controrivoluzione neoclassica. E d’altra parte lo stesso modello era già da tempo diventato preda di semplificazioni che lo riaccostavano all’alveo neoclassico. La fortuna del keynesismo era nel frattempo cresciuta grazie anche alle spinte propulsive legate alla ricostruzione post-bellica, e il fatto che parallelamente si facesse spazio la nuova vulgata della cosiddetta “sintesi neoclassica” (che ha il suo cardine nel modello IS-LM) nella quale spariva il riferimento all’incertezza radicale e con essa molti dei meccanismi che giustificavano l’instabilità della domanda aggregata, non sembrava creare troppi problemi. In definitiva il contesto era tale che il cosiddetto “keynesismo idraulico”, che ben definisce questa visione riduttiva (oltre che distorta) dell’originario modello keynesiano, poteva sopravvivere indisturbato. Ma se è vero che a partire dagli anni ’70 il “paradigma keynesiano” si avvia verso una progressiva dissoluzione, il cui primo atto politico è il crollo del sistema monetario uscito da Bretton Woods, è altrettanto evidente che l’affermazione della sintesi neoclassica rappresenta anche una fase di grande interesse, che mette in luce come all’interno di uno stesso paradigma possano mescolarsi orientamenti teorici diversi, e che le tendenze che risultano infine dominanti traggano non poco impulso dal mutamento dello scenario politico.

Ma ormai a quel punto Tatcherismo e Reaganomics sono alle porte, e trascinano con sé l’onda di un’inarrestabile “rivoluzione conservatrice”. E’ il momento della “controrivoluzione” neoclassica ed è a questo punto (capitolo quarto) che il testo di Saraceno dà ampiamente conto di come, nonostante la presenza di un contesto storico favorevole alla sconfessione del keynesismo, la svolta sia stata il prodotto di una lunga evoluzione. Ci vorrà tutto il corso degli anni ’70 e ’80 perché, nel solco della sintesi neoclassica, le posizioni,in sequenza, della scuola monetarista, dei teorici delle aspettative razionali (che aprono il fronte della “Nuova macroeconomia classica”), e della corrente dei “cicli economici reali”, portino a quella che era già in nuce la derubricazione del modello keynesiano a caso particolare di quello neoclassico con prezzi rigidi, creando la premessa fondamentale per una nuova svolta paradigmatica. Nel passaggio dal primo all’ultimo di questi tre filoni di pensiero, la domanda risulta infatti sempre più ininfluente nella determinazione del reddito, la moneta smette di essere rilevante per l’economia reale, e la politica di espansione fiscale si rivela inutile (in quanto spiazza la spesa privata), se non dannosa (in quanto destabilizzante), mentre l’equilibrio di piena occupazione (intorno a un tasso “naturale” di lungo periodo) è garantito dalla flessibilità dei prezzi. Lo sbocco di questa fase è rappresentato negli anni ’90 da un “Nuovo Consenso” che, riabilitando i fondamenti microeconomici del modello neoclassico, opera una sintesi tra un breve termine con proprietà keynesiane e un lungo termine in cui contano i fattori di offerta. Al di là delle apparenti rimodulazioni di stampo keynesiano, Saraceno sottolinea come sia proprio questo il periodo in cui l’influsso neoclassico torna a predominare, relegando la politica economica a un insieme di “regole” che possono essere facilmente integrate nel comportamento ottimizzante degli agenti economici. Non è quindi un caso che tutto ciò si traduca nell’enunciazione di in un insieme di direttive standard (meglio noto come Washington Consensus) volte a favorire il funzionamento del mercato, che finiscono col diventare il fulcro della governance economica mondiale e plasmare, in particolare, l’architettura istituzionale dell’Unione Monetaria Europea. La ricerca della stabilità macroeconomica (attraverso gli obiettivi di pareggio di bilancio pubblico e di stabilità dei prezzi) e l’attuazione di riforme strutturali tese ad accrescere concorrenza e competitività del mercato, diventano il cuore della nuova politica economica che, prescindendo dalla specificità di ciascun paese (one size fits all), si spinge verso ogni possibile versante di deregolamentazione, lasciando proliferare un settore finanziario sempre più sganciato dall’attività reale, mentre la componente salariale della domanda si riduce progressivamente per effetto dei processi di liberalizzazione sul mercato del lavoro.

Per i sostenitori del Consenso la crisi del 2007 è del tutto inaspettata. La convinzione che l’intervento dello Stato sia ingombrante “a prescindere” è inoltre tale che il conseguimento del pareggio di bilancio non è più considerato sufficiente, ma si punta a ridurre per principio la dimensione economica della spesa pubblica. Le politiche di austerità, specialmente in Europa, sono improntate a questo credo dai tratti evidentemente ideologici, ed è solo quando la crisi si traduce in doppia recessione che sul versante istituzionale (da parte del Fondo Monetario Internazionale in primis, per voce del capo economista Olivier Blanchard) sorge un diffuso scetticismo che riporta da un lato in auge l’attenzione per la politica fiscale, e dall’altro predispone la Banca Centrale Europea (deputata in origine al solo controllo dell’inflazione) ad adottare misure non convenzionali di espansione monetaria a sostegno dell’economia. Ma c’è di più. Cresce infatti la consapevolezza che l’effetto negativo delle politiche di austerità, attuate durante le fasi recessive, non abbia solo effetti transitori di breve periodo, ma si riversi negativamente sul lungo periodo, depauperando il potenziale di crescita del sistema economico, sia in ragione della più ridotta disponibilità di capitale (fisico e “umano”), sia del progressivo aumento delle disuguaglianze di reddito (che risultano correlate a profili di bassa crescita economica) e della sempre più elevata concentrazione di risparmio, che tende ad alimentare il processo di finanziarizzazione.

In che misura dunque l’attuale dibattito sui fallimenti delle politiche d’austerità può lasciare presagire una nuova svolta nel paradigma economico? Per certi versi la macroeconomia neoclassica sembrerebbe dotata di un’intrinseca capacità di sopravvivenza, che le deriva dal concepire il sistema economico come iscritto in un ordine naturale di eventi. Se tuttavia a suo tempo la teoria keynesiana, ancorché sull’onda della drammatica crisi del ‘29, ha potuto ribaltare i principi cardine del ragionamento neoclassico, la questione non può essere posta in maniera così riduttiva, ma va affrontata, ora più che mai, entrando nel vivo della storia delle idee ed individuando tutti quegli aspetti – non ultimi quelli improntati da forme di chiusura ideologica – che hanno inchiodato le diverse teorie economiche su posizioni distanti dalla complessità del mondo reale. Nello stallo in cui sembra oggi permanere l’economia mainstream di orientamento neoclassico, mentre le voci critiche, sebbene sempre più numerose, fanno fatica ad emergere, la lunga disamina di Saraceno non può allora che risuonare come un salutare allarme, che ci rammenta per prima cosa, come già fece Joan Robinson (opportunamente citata), che “per fare un buon uso di una teoria economica, dobbiamo anzitutto fare la cernita tra gli elementi propagandistici e gli elementi scientifici” . Ma non meno importante – anche se l’autore non lo esplicita – ci sembra il recupero di una prospettiva autenticamente keynesiana di visione della conoscenza economica, in cui la teoria riveste un valore strumentale rispetto alla pratica, non assumendo mai il carattere di scienza esatta. La visione di quel Keynes che, nonostante la lunga consuetudine con i filosofi logici di Cambridge, rimase più che affascinato dagli insegnamenti di Alfred Marshall, e da quel suo voler entrare nel “vasto laboratorio del mondo, udirne il ruggito e distinguerne i diversi toni, parlare la lingua degli uomini di affari, e nello stesso tempo osservare tutto con gli occhi di un angelo dotato di un’intelligenza superiore”[2].


Note
[1] J.M. Keynes, (1937) The General Theory of Employment, The Quarterly Journal of Economics.
[2] J.M. Keynes, (1924) Alfred Marshall, 1842-1924, The Economic Journal.
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