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ilconformista

Incertezza e instabilità: la Teoria Generale di Keynes 80 anni dopo

Federico Stoppa

John Maynard KeynesRiprendere in mano un libro di teoria economica scritto ottant’anni fa; studiarlo a fondo, cercando chiavi interpretative per il capitalismo contemporaneo, e strumenti operativi in grado di emendarne i suoi peggiori difetti, che, allora come oggi, rimangono la disoccupazione di massa e la distribuzione iniqua e arbitraria di reddito e ricchezza. Scoprire l’attualità, la freschezza di un pensiero che il tempo non ha fiaccato. E contemporaneamente disfarsi di centinaia di articoli, papers, libri freschi di stampa ma già superati sul piano delle idee.  Scopo delle righe che seguono sarà di riportare alla luce la lezione del più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes: che l’economia capitalistica è intrinsecamente instabile e che la teoria economica dominante nell’accademia, nei centri studi e nelle cancellerie internazionali, quella neoclassica[1], basata sull’equilibrio economico generale e sulla neutralità della moneta[2], non è in grado di spiegare i fatti economici più rilevanti del mondo in cui viviamo.

 

Il ruolo dell'incertezza

L’innovazione profonda e radicale che John Maynard Keynes porta in dote alla teoria economica è di carattere metodologico; riguarda l’accento che egli pone sull’incertezza che caratterizza il contesto decisionale degli agenti economici . E che lo porta per questo a rifiutare l’approccio deterministico allo studio del sistema economico impiegato dalla teoria mainstream neoclassica.

L’incertezza è legata all’incapacità, da parte degli agenti economici, di fare previsioni attendibili su eventi futuri, per mancanza di conoscenza[3].

Ciò implica che non possiamo costruirci un ventaglio di probabilità misurabile per ogni evento che potrà accadere. E non possiamo quantificare ex ante l’impatto che un evento avrà su di noi né tentare di assicurarci contro di esso, poiché non abbiamo nemmeno idea se questo accadrà o meno.

Tuttavia dobbiamo prendere delle decisioni.

Le scelte in condizioni di incertezza dei soggetti economici (imprenditori, operatori finanziari, famiglie) e le fluttuazioni della produzione e dell’occupazione che ne derivano sono il fulcro dell’analisi che l’economista britannico proporrà nella sua opus magnum, la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, uscita il 4 febbraio 1936, in piena Grande Depressione.

 

Moneta e tasso d'interesse

Un’importante cesura attuata dall’economista inglese con il pensiero economico dominante riguarda la differente funzione che egli attribuisce alla moneta nel sistema economico.

Per la teoria neoclassica, essa non ha alcun valore intrinseco.

Poiché è irrazionale lasciarla in forma liquida, gli individui la fanno circolare sempre, all’interno del sistema .

Nello specifico, la utilizzano per comprare beni e servizi oppure, quando i tassi d’interesse sono abbastanza alti, la prestano alle imprese, direttamente tramite i mercati, o indirettamente tramite gli istituti di credito.

Il meccanismo che tiene in equilibrio domanda e offerta di fondi , cioè i risparmi e gli investimenti, è il saggio d’interesse, che costituisce, secondo la teoria neoclassica, il premio per l’astensione dal consumo degli individui.

Se la moneta è quindi un semplice “velo”, è sempre spesa o investita dagli agenti economici, mai lasciata inattiva: mai tesaurizzata. Questo fa sì che venga verificata l’identità tra risparmi (S) ed investimenti (I) e che la domanda aggregata eguagli sempre l’offerta, portando il sistema all’equilibrio di piena occupazione. La legge di Say risulta così perfettamente confermata.

Keynes considera questa teoria valida solo per un’economia di baratto, nella quale non c’è dissociazione temporale tra la percezione del reddito e spesa dello stesso, scongiurando così l’eventualità di disequilibri tra domanda ed offerta.

Ma quella in cui viviamo, ci ricorda l’economista britannico, è un’economia monetaria di produzione, nella quale la moneta, oltre ad avere una funzione di mezzo di pagamento e di numerario, ha anche un ruolo importantissimo come riserva di valore.

Gli individui non domandano moneta solo per spenderla o investirla, ma anche per tesaurizzarla, lasciandola temporaneamente inutilizzata in attesa di tempi migliori.

Se così è, il reddito monetario che le famiglie e gli imprenditori percepiscono non si converte automaticamente in maggiori consumi ed investimenti; esiste anzi la concreta possibilità che vi siano risorse inutilizzate nel sistema. Ciò implica che l’equilibrio economico possa attestarsi ad un livello caratterizzato da insufficiente domanda aggregata e da sotto occupazione (vedi box 1).

Box 1: Keynes vs neoclassici

Equilibrio neoclassico (aggiustamento sui prezzi): S > I → tasso d’interesse↓ → I↑ → S = I (equilibrio di piena occupazione)

Equilibrio keynesiano (aggiustamento sulle quantità): S > I → ∆Scorte → ↓Investimenti → Occupazione↓ → Reddito ↓ → S↓ → S = I (equilibrio di sottoccupazione)

Da questa breve disamina emerge chiaramente come per Keynes la moneta non sia affatto“neutrale”, come pensavano i neoclassici, ma che invece essa incida direttamente sulle variabili reali (reddito e occupazione).

Resta ora da spiegare per quale ragione gli agenti economici decidano di nascondere sotto il materasso moneta perfettamente liquida ed infruttifera d’interesse. Secondo Keynes, abile psicologo del mercato, il movente è di tipo speculativo.

Non riguarda quindi la movimentazione dei flussi di reddito, ma l’allocazione intertemporale degli stock di ricchezza: le scelte di portafoglio degli operatori finanziari. Keynes adotta nella sua analisi il punto di vista dello speculatore professionista, il quale non acquista attività finanziarie per tenerle in portafoglio fino alla scadenza (come fa il cassettista), ma per cederle sul mercato con l’obiettivo di ottenere un guadagno.

Nel porre in essere le proprie scelte finanziarie, lo speculatore è guidato dalle proprie aspettative, soggette a incertezza fondamentale e per questo fortemente volubili.

Esse vengono influenzate dalla situazione in cui versa il sistema economico in un dato istante. Quando, specie durante una crisi, l’incertezza sull’andamento del mercato dei titoli aumenta, gli operatori preferiscono domandare moneta liquida per scongiurare possibili eventi avversi, come perdite in conto capitale. La moneta liquida, infatti, se da una parte non corrisponde un interesse, dall’altra non perde il suo valore nel tempo.

Così non è per le azioni o i titoli a reddito garantito. Il loro rendimento dipende infatti dal prezzo e dal tasso d’interesse, che sono soggetti a fluttuazioni. Agli speculatori non interessa tanto il rendimento attuale di un titolo, quanto quello futuro. Come affermato in precedenza, essi sperano di guadagnare dalla vendita futura del titolo o comunque di evitare le perdite. Quando si aspettano un rialzo del tasso d’interesse, che corrisponde ad un deprezzamento futuro del titolo, essi se ne liberano, acquistando moneta liquida.

Questa scelta, chiamata “preferenza per la liquidità” e la politica delle autorità monetarie determinano il tasso d’interesse, definito da Keynes “il premio per la rinuncia alla perfetta liquidità”. Nella teoria keynesiana, a differenza di quella neoclassica, il tasso d’interesse è quindi un fenomeno strettamente monetario. Esso influenza le decisioni di investimento degli imprenditori, come vedremo nel prossimo paragrafo.

 

Gli "animal spirits" degli imprenditori e l'instabilità del capitalismo

Keynes, sulla scia degli economisti classici, attribuisce all’imprenditore un ruolo predominante nel determinare l’andamento del sistema economico. In questo si discosta dalla tradizione neoclassica, per la quale è invece il consumatore ad essere sovrano. Nell’ottica keynesiana, invece, il consumatore ha un ruolo passivo. Lo schema logico proposto dall’economista inglese è il seguente: gli investimenti degli imprenditori determinano il livello del reddito e il volume dell’occupazione, mentre le famiglie decidono quanto risparmiare e quanto consumare del reddito disponibile. Per una “legge psicologica fondamentale” ( e per l’evidenza empirica), al crescere del reddito crescono anche i consumi, ma non tanto quanto il reddito. La propensione marginale al consumo della collettività, dC/dY , è minore di 1.

Fino a quando gli investimenti programmati dagli uomini d’affari saranno pari al risparmio desiderato delle famiglie, si raggiungerà un equilibrio di piena occupazione.

In un’economia povera, secondo Keynes, questa condizione si realizza facilmente, poiché la maggior parte del reddito è assorbita dal consumo. Gli investimenti che occorrono sono modesti, poiché il risparmio che si forma in un’economia di questo tipo è irrilevante.

La piena utilizzazione delle forze produttive è garantita facilmente.

Ciò non è più scontato in un’economia capitalista, nella quale il livello del reddito degli individui è elevato; di conseguenza, la componente del reddito destinata al risparmio tende anch’essa ad aumentare.

Per assicurare che quelle risorse che si formano nel sistema non rimangano inutilizzate, l’ammontare degli investimenti dovrà essere cospicuo, tale da eguagliare i maggiori risparmi.

Ma tutto questo potrà essere garantito dalla sola libera intrapresa privata? Keynes ci fornisce la risposta attraverso un’analisi delle scelte d’investimento dell’imprenditore.

Questi deve decidere, per esempio, se acquistare macchinari, cioè beni a fecondità ripetuta, per accrescere la capacità produttiva dell’impresa.
Si tratta di investimenti a medio-lungo termine, non facilmente liquidabili e che possono esporre l’impresa a perdite elevate.

L’imprenditore sa poco o niente di cosa gli riserverà il futuro; non è in grado di assegnare probabilità definite agli eventi che potranno verificarsi e di assicurarsi contro quelli sfavorevoli. Tale incertezza epistemica riguardo al futuro non gli consente di valutare correttamente la redditività dell’investimento attraverso un mero calcolo dei costi e dei benefici. Lo stesso tasso d’interesse sul denaro preso in prestito assume, nella trattazione keynesiana, un ruolo di secondo piano.

L’imprenditore, secondo Keynes, si affida invece alle sue aspettative di profitto, gli animal spirits, ossia ad una serie di intuizioni viscerali e considerazioni di lungo periodo sul successo dell’investimento. Derivando da componenti emotive più che razionali della natura umana, gli animal spirits sono discontinui, instabili, ciclotimici.

Durante i periodi di ottimismo, essi porteranno gli imprenditori ad investimenti copiosi, garantendo prosperità all’intero sistema economico. Viceversa, nei periodi di recessione prevarrà una sfiducia e un pessimismo che porterà gli uomini d’affari a comprimere drasticamente gli investimenti e a licenziare, aggravando così la crisi e ritardando la ripresa. In quest’ultima situazione, che Keynes aveva ben presente (ricordiamo che egli scrive in piena Grande Crisi), misure di politica economica come l’abbattimento del costo del denaro rischiano di non avere alcuna utilità per far emergere l’economia dal pantano nel quale è immersa. Infatti, gli individui potrebbero rendere inefficaci queste misure aumentando la propria preferenza per la liquidità, cioè risparmiando di più, poiché temono un futuro peggioramento delle condizioni del sistema.

La conclusione a cui perviene Keynes si colloca agli antipodi di tutto il pensiero economico precedente, con la significativa eccezione di Karl Marx: l’economia capitalista deregolamentata è intrinsecamente soggetta a fluttuazioni ed è sempre esposta al rischio di sottoutilizzare le risorse produttive.

In altri termini, la disoccupazione, lungi all’essere un’aberrazione provocata dall’irresponsabilità dei sindacati o alla generosità del welfare, come sostiene la scuola neoclassica, è un fenomeno strutturale, endogeno al capitalismo stesso. Per questo Keynes respinge il laissez faire estremo propugnato dagli economisti neoclassici ed invoca l’intervento dello Stato per correggere le storture del sistema.

Nello specifico, spese governative in deficit con cui finanziare investimenti pubblici e imposizione fiscale progressiva su redditi e successioni rappresentano gli strumenti più idonei per assorbire la forza lavoro inutilizzata e per rilanciare la propensione al consumo degli individui. Va ricordato però che Keynes, al contrario di quanto recita una sua vulgata oggi tornata di moda, non riteneva questi interventi la panacea di tutti i mali, né semplici ricette da applicare meccanicamente a prescindere dal contesto storico-culturale. La lezione più attuale dell’economista inglese, infatti, ci sembra essere questa, che l’economia politica è una scienza storico-sociale e il suo oggetto di studio è un sistema economico in continua evoluzione come il capitalismo.

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Note
[1] Il progetto di ricostruire l’economia politica come scienza fisico-matematica, sul modello della meccanica classica e dell’astronomia,  ha inizio negli anni ’70 dell’Ottocento, con la rivoluzione marginalista e la scuola neoclassica.  S’incomincia a parlare, nella scienza economica, di curve di domanda ed offerta, di prezzi d’equilibrio, di homo oeconomicus (soggetto razionale capace di prendere delle decisioni sulla base di preferenze coerentemente ordinate, per massimizzare la propria utilità personale) e più in generale di utilizzare modelli desunti dalle scienze naturali per spiegare fenomeni sociali.  I principali pensatori neoclassici (come Leon Walras, Stanley Jevons, Alfred Marshall, Karl Menger etc), cercano di dimostrare, ricorrendo massivamente alla matematica, l’assoluta superiorità del mercato autoregolato e del laissez faire su qualsiasi sistema alternativo, in termini di efficienza produttiva e stabilità. Le crisi, secondo questo approccio, non sono congenite al sistema, ma anomalie provocate da fattori esogeni (come le richieste salariali eccessive da parte dei sindacati, che fanno si che il salario non raggiunga il livello ottimale, causando disoccupazione) e comunque destinate a dissolversi nel lungo periodo, quando il sistema raggiungerà l’equilibrio di piena occupazione. Questa concezione teorica sarà sostanzialmente condivisa, in tempi più recenti, dai monetaristi, dai nuovi classici, e anche – pur se con qualche modifica – dai cosiddetti nuovi keynesiani.
[2] Questo ragionamento è alla base della moderna teoria quantitativa della moneta, formulata dall’economista inglese Irving Fisher(1867-1947). La teoria quantitativa individua una relazione diretta tra stock di moneta immessa nel sistema economico e livello dei prezzi. Ciò significa che un aumento dell’offerta di moneta deciso dalle autorità di politica economica sarà comunque utilizzata dagli individui per domandare beni di consumo e d’investimento, facendone rialzare i prezzi, causa l’impossibilità di aumentare la produzione nel breve periodo da parte delle imprese. In sintesi, gli economisti neoclassici, sostengono che la moneta non influisca direttamente sulle variabili reali del sistema, come reddito ed occupazione, ma solo sui prezzi. Milton Friedman (1912- 2006) e la scuola monetarista di Chicago, negli anni ’70 del Novecento, faranno propria questa tesi per contrastare le politiche attuate dai governi e dalle banche centrali occidentali per sostenere la domanda aggregata. Armati di nuovi modelli teorici, come la curva di Phillips rivisitata in un contesto di lungo periodo e alla luce delle aspettative acceleratrici sui prezzi,  i monetaristi dimostrano come sia velleitario, da parte delle autorità di politica economica, combattere la disoccupazione con interventi congiunturali, quali l’incremento della spesa pubblica e dello stock di moneta all’interno del sistema. Queste politiche hanno effetto sulle variabili reali solo nel breve periodo, ma al costo di un’inflazione sempre più alta.  Nel lungo periodo, invece, esse alimentano soltanto l’inflazione, senza nessun effetto sulla disoccupazione, che rimane al suo livello di equilibrio, “naturale”. Gli stessi agenti economici imparano a tener conto dell’intervento pubblico nell’economia, scontandone gli effetti in anticipo, come affermano i teorici delle aspettative razionali. Così, le uniche misure che le autorità di politica economica dovrebbero mettere in campo per contrastare la disoccupazione sono, secondo i monetaristi, riforme strutturali  volte a ridurre le frizioni nel funzionamento del mercato, dal lato dell’offerta; in particolare, combattere le rigidità del mercato del lavoro, riducendo il potere dei sindacati e la spesa sociale per la disoccupazione; incentivare la mobilità dei lavoratori dai settori in declino a quelli in espansione attraverso la riqualificazione professionale.
[3] L’opera in cui Keynes sviluppa la sua concezione della probabilità e dell’incertezza è il Trattato sulla Probabilità, scritto nel 1921. Nella sua opera, l’economista britannico distingue tra situazioni nelle quali gli individui sono in grado ex ante di assegnare probabilità numeriche agli eventi che accadranno (es. il gioco dei dadi) e situazioni nelle quali questo non è possibile, perché le nostre conoscenze attuali sono insufficienti anche per definire lo spazio degli eventi che ci riserberà il futuro; tali situazioni contraddistinguono in particolare l’ambito economico e finanziario. Per prendere le loro decisioni, gli agenti economici si affidano perciò a “convenzioni”, come quella di supporre che “la situazione attuale durerà a tempo indeterminato”. Tuttavia, come spiega lo stesso Keynes: “Una valutazione convenzionale, che si sia stabilita come risultato della psicologia di massa di un grande numero di individui ignoranti, è esposta a cambiamenti violenti in seguito a un mutamento di opinioni”.
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