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Così parlò Marchionne

Vladimiro Giacché

Non inganni l’understatement, l’apparente umiltà del personaggio: “Non ho nessuna intenzione di farvi nessuna lezione. Non sono un professore, né un economista e neppure lontanamente un politico. Sono semplicemente un uomo d’industria”.

Non inganni il tono concreto e alla mano: “Non amate le conferenze e i congressi che riempiono di parole giornate intere senza dire nulla. Ne ho visti centinaia… Non li amo neppure io”.

L’intervento di Sergio Marchionne al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione del 26 agosto scorso è un vero e proprio manifesto politico. E al tempo stesso un’eccellente una paradigmatica espressione dell’ideologia contemporanea.

A partire dalla sua forma discorsiva: quella dell’opposizione. Precisamente quell’opposizione che Hegel – da Marchionne molto citato ma evidentemente poco meditato – detestava: l’“opposizione dell’intelletto”, in cui gli opposti se ne stanno lì, irrigiditi l’uno di fronte all’altro. Una cosa contro il suo opposto, noi contro loro, il bene contro il male. Tutto l’intervento di Marchionne è contrassegnato da questa assenza di dialettica da talk show televisivo.


È un meccanismo ben noto a chiunque si sia sorbito le esternazioni del premier pro tempore, dei suoi ascari parlamentari e dei suoi mezzobusti di riferimento. Si tratti di attacchi postumi a nemici del tempo che fu (i “comunisti”), a giudici o ad alleati “infedeli”, il meccanismo è sempre il solito: io contro di lui, noi contro di loro. Il tutto in un linguaggio rozzo ed ipersemplificato da tifoseria fascistoide, che mima con effetti di involontaria parodia la contrapposizione schmittiana di amico e nemico. In queste contrapposizioni, rese efficaci per la loro stessa elementarità (e ovviamente per l’indefinita iterazione resa possibile dall’enorme potenza di fuoco mediatica disponibile), risiede uno dei segreti della fascinazione esercitata dall’omino di Palazzo Grazioli. (L’altro segreto è rappresentato dall’inconsistenza personale e progettuale dell’“opposizione”. Che proprio per questo resta intrappolata nel cliché costruito dall’avversario. Il paradosso a ben vedere è proprio questo: l’enfatizzazione teatrale di un’Opposizione assoluta funziona proprio per l’assenza di una reale opposizione – ossia di un concreto qualificarsi dell’opposizione in modo tale da definire un proprio territorio, da galvanizzare i propri aderenti e quindi da contrastare con efficacia le grottesche semplificazioni dell’avversario.)

Ma torniamo a Marchionne. Il suo discorso è ovviamente lontano anni-luce dalla rozzezza e dall’incontinenza verbale che caratterizzano le esternazioni del premier. Ma è strutturalmente identico al neo-manicheismo berlusconiano. I poli dell’opposizione di Marchionne sono “vecchio” e “nuovo”. Tutto il suo discorso di Rimini è un’ossessiva serie di variazioni su questo tema. “Quella alla quale stiamo assistendo in questi giorni è una contrapposizione tra due modelli, l’uno che si ostina a proteggere il passato e l’altro che ha deciso di guardare avanti”. “L’abitudine di mantenere le cose come stanno” contro “la necessità di cambiare”. “Vecchi schemi” contro “nuovi orizzonti”. Disponibilità ad “adeguarci al mondo che cambia” anziché “rifiutare il cambiamento” e quindi “rifiutare il futuro”.

Questa prima opposizione è la premessa della seconda: buoni contro cattivi. Da una parte chi si ostina a rifiutare il cambiamento, dall’altro i suoi paladini. A cominciare ovviamente dallo stesso Marchionne. Che sul suo arrivo in Fiat racconta: “quando sono arrivato, nel 2004, ho trovato una struttura immobile, chiusa su se stessa… Aveva perso la voglia e l’abilità di competere”. Poi però “la Fiat è uscita con le proprie forze da una situazione che nel 2004 sembrava a fondo cieco”. Grazie in particolare a “una forte carica di valori”; secondo Marchionne proprio “quest’etica di business è stata la chiave della rinascita, che ha strappato il gruppo dal fallimento al quale sembrava destinato nel 2004”.

Sono parole molto belle: l’“etica” e i “valori”, del resto, figurano ai primi posti della hit parade del lessico politicamente corretto contemporaneo. Ma i “valori” che nel 2005 hanno strappato la Fiat dal baratro sono di tipo più materiale. Essi sono infatti legati a due eventi che sono estranei alla gestione di Marchionne, ma che l’amministratore delegato della Fiat conosce bene perché firmò il bilancio in cui sono riportati. Il primo è rappresentato dal pagamento di 1,56 miliardi di euro da parte di GM pur di rescindere un contratto che l’avrebbe obbligata a comprarsi la Fiat. Il secondo, dal fatto che le principali banche italiane (Capitalia, Intesa, Unicredito…) – che nel 2002, quando la Fiat stava fallendo, avevano trasformato 3 miliardi di crediti a breve in crediti a medio-lungo termine – nel 2005 convertirono questi crediti in azioni Fiat. In tal modo resero possibile alla società di non rimborsare il suo debito, cosa che nella situazione finanziariamente traballante in cui si trovava l’avrebbe precipitata nel baratro. Tra l’altro il prezzo di sottoscrizione delle azioni fu di 10,28 euro ciascuna, quando il loro valore sul mercato era di 7,3 euro: e quindi la Fiat ricevette dal sistema bancario italiano un grazioso omaggio di 858 milioni di euro, che fu messo a bilancio come “Proventi finanziari atipici”.

In questi e in molti altri casi – vedi alla voce “incentivi” –il “sistema Italia” ha saputo farsi carico della sua principale azienda manifatturiera in difficoltà. E nonostante questo, e malgrado il ciclo economico favorevole durato sino al 2007, la Fiat non ha rispettato gli obiettivi che si era data, e in seguito è stata colpita dalla crisi più severamente di altre case automobilistiche. I motivi sono molti, e vanno dall’insufficienza degli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico alla (connessa) produzione di troppo pochi modelli di successo, alla vera e propria assenza dai mercati in sviluppo, a cominciare da quello cinese (dove sono invece ben presenti tutti gli altri grandi marchi europei). Nessuno di questi motivi può essere imputato ai lavoratori, né ad una disattenzione del sistema nei confronti della Fiat: essi sono invece riconducibili a precise responsabilità manageriali.

Anche per questo l’insistenza di Marchionne sul fatto che “l’unica area del mondo in cui l’insieme del sistema industriale e commerciale del Gruppo Fiat è in perdita è proprio l’Italia”, e che (ri-)portare in Italia la produzione della Panda “non è stata una scelta basata su principi economici e razionali” a fronte di “vantaggi sicuri che altri Paesi potrebbero offrire”, rappresenta un’affermazione un po’ ingenerosa. E anche pericolosa. Infatti, come Marchionne sa bene (è uno dei cardini dell’ortodossia economica dei nostri giorni), nel mercato non c’è soltanto la razionalità di chi vende, ma anche la razionalità di chi acquista, ossia del consumatore. I consumatori italiani oggi comprano il 40% delle auto Fiat vendute complessivamente. Questa quota rappresenta all’incirca il 30% del totale delle automobili vendute in Italia, ed è strategica, in quanto è soltanto grazie a essa che la quota di mercato europea della Fiat non è insignificante ma pari al 5-6% (negli altri Paesi europei la Fiat ha per contro quote di mercato irrilevanti: 1-3%): in altri termini, in un contesto ormai oligopolistico, è soltanto grazie alla quota del mercato italiano che la Fiat, nonostante le perdite che ha accumulato, vale ancora qualcosa. Pensiamo a cosa potrebbe succedere se la razionalità del consumatore italiano tutt’a un tratto lo convincesse a non comprare più auto Fiat, magari in ragione del fatto che esse ormai sono prodotte prevalentemente all’estero, o che la Fiat Automobiles di Marchionne – grazie ai generosi aiuti di Stato di Obama – ha deciso di spostare altrove il baricentro reale delle proprie attività…

Ma occupiamoci ora dell’opposizione fondamentale del discorso di Marchionne: la contrapposizione tra chi continua a “pensare che ci sia una lotta tra ‘capitale’ e ‘lavoro’, tra ‘padroni’ e ‘operai’”, e chi invece chiede “un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici”. È proprio questa opposizione ad avere regalato al discorso di Rimini gran parte del suo successo mediatico. In compenso, nessuno ha rilevato che essa contiene una fallacia logica: se infatti gli interessi di “padroni” e “operai” fossero immediatamente identici, non avrebbe senso neppure parlare di “patto sociale”, che per definizione è un accordo che viene stretto tra portatori di interessi diversi. In linguaggio hegeliano potremmo mettere le cose in questi termini: Marchionne rifiuta la contraddizione tra interessi e tra classi sociali. La rifiuta a tal punto che non gli basta neppure la differenza, ma vuole l’immediata identità. Il cardine dell’opposizione di fondo che innerva tutto il suo ragionamento è appunto l’opposizione tra chi, come lui, vede l’immediata identità tra capitale e lavoro e chi la rifiuta. Ma siccome la contraddizione è reale, essa si vendica insinuandosi nel suo stesso discorso e rendendolo – in senso letterale – contraddittorio. Contraddittorio nelle premesse (l’assurdità di un “patto sociale” tra interessi che già in origine non sarebbero in conflitto). Ma anche nelle conclusioni: perché il “grande sforzo collettivo”, il “patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici” è tutto da una parte sola. Quella dei lavoratori, a cui si chiede ulteriore moderazione salariale (a fronte di stipendi Fiat già inferiori del 30% a quelli della Volkswagen), mutamento in peggio della situazione contrattuale in termini di ritmi di lavoro e addirittura la rinuncia al diritto di sciopero. Dall’altra parte, invece, la volontà di evitare “una guerra in famiglia” si è sostanziata in iniziative quali l’aggiramento e la risoluzione anticipata del contratto nazionale di lavoro (messa in atto da Federmeccanica dopo la minaccia della Fiat di uscire da Confindustria), nonché nel rifiuto di dar seguito ad una sentenza della magistratura avversa all’azienda.

Quanto alla “condivisione” di “impegni, responsabilità e sacrifici”, la distribuzione di dividendi agli azionisti per 237 milioni di euro avvenuta quest’anno nonostante la chiusura in perdita per 800 milioni del bilancio della società non sembra il modo migliore di dare il buon esempio. Semmai, essa è esemplare da un altro punto di vista: perché evidenzia che dietro i ricorrenti appelli alla fine del conflitto e alla necessità di smettere anche soltanto di parlare di “interessi di classe” si cela la volontà di continuare a fare, indisturbati, i propri interessi di classe.

Intendiamoci, niente di particolarmente scandaloso. E neanche di nuovo. Come non lo sono – a dispetto di quanto vogliono farci credere – gli appelli alla conciliazione tra le classi. In uno dei più ispirati si afferma risolutamente “il principio che l’organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell’irriducibile contrasto di interessi tra industriale ed operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e lavoratori, e fra le loro organizzazioni sindacali”. È un testo oggi poco noto, ma che ai suoi tempi ebbe per forza di cose un certo seguito: non poteva essere altrimenti, visto che si tratta del Patto di Palazzo Chigi stretto tra Confindustria e Confederazione generale delle corporazioni fasciste il 21 dicembre 1923.

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