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effimera

Rifiuto del lavoro, corporeità, ironia

Anna Stiede intervista Franco Berardi Bifo

Questa intervista si è svolta a Bologna nell’ottobre 2017. La trascrizione è di Shendi Veli, l’editing di Franco Palazzi

74d493f2c6de7956a54d7ca5fa62ac3b XLA: La cosa che mi ha stupito leggendo questo libretto con il tuo commento [Malgrado voi (1977)] è che tu avevi anche parlato di un bisogno di capire bene la nuova connessione tra il sapere, la tecnologia ed il lavoro. Dato che sono molto interessata alle trasformazioni dello sviluppo economico, connesso anche alla cosiddetta digitalizzazione, al virtuale, etc, sono stata stupita che tu già alla fine degli anni settanta sostenevi che per capire bene la nuova composizione della classe e ricostruire lAutonomi bisognava rivolgere lattenzione verso questa connessione; purtroppo credo che i movimenti non fossero in grado di sviluppare un comportamento collettivo per affrontare tale cambiamento. Dal punto di vista tuo e delle lotte degli anni settanta, come descriveresti questo sviluppo nella composizione di classe ma anche nello sviluppo economico?

B: Il movimento del settantasette italiano, e non solo quello italiano – però adesso parliamo di quello italiano o vorrei dire bolognese – ha un carattere complesso. Ci sono vari elementi, perché c’è un elemento diciamo anarchico, autonomo, ribellista che è simile a quello dei movimenti che dalla California degli anni sessanta va fino agli Sponti tedeschi, fino al punk. È un movimento giovanile ribelle, con caratteristiche particolarmente creative.

Poi però c’è un altro aspetto del movimento del ‘77 che per me è altrettanto importante, ed è il riferimento ad un particolare Marx: il Marx del frammento sulle macchine nel secondo volume dei Grundrisse. Molti di quelli che facevano radio Alice e Attraverso, molti di noi, venivano da Potere Operaio. Eravamo interessati al rapporto tra lavoro e tecnologia. In Potere Operaio c’era un discorso importante nella vicenda italiana, un discorso sul rifiuto del lavoro. Diciamo che il concetto di rifiuto del lavoro è quello più caratteristico della storia di Potere Operaio. Al gruppo bolognese interessava il tema del rifiuto del lavoro, ma anche la questione tecnologica come condizione del rifiuto del lavoro, del realismo, della possibilità reale di trasformare il rifiuto del lavoro in riduzione del tempo del lavoro necessario. Ecco, come vedi si tratta di una questione che negli anni ‘70 nella storia dei movimenti è rimasta un po’ marginale ma secondo me è quella centrale, la più importante di tutte. Se mi si chiedesse: “Qual è il senso profondo di tutto quello che è accaduto nel mondo dal 1968 fino al 1977, in quel decennio?” io risponderei: la coscienza minoritaria ma centrale della maturità del comunismo inteso come liberazione dal lavoro. Poi se vuoi dimentica la parola comunismo che è troppo legata a vicende storiche e così via. Ma insomma la maturità della liberazione dal lavoro sta nelle lotte di quello che noi chiamavamo proletariato giovanile, che voleva dire i giovani operai che hanno studiato, che sono colti, che hanno capacità tecniche e che sono costretti a lavorare in fabbrica ma non lo vogliono fare, rifiutano quel lavoro – perché possono fare di più, non perché vogliano fare di meno, diciamo cosi. Quindi questo è l’aspetto che nel ‘77 viene ad emergere. In realtà era un’intuizione, ma non siamo stati capaci di trasformala in un movimento reale perché i partiti della sinistra – il Partito Comunista Italiano, la socialdemocrazia tedesca, la sinistra in generale – avevano in testa l’idea di difendere il posto di lavoro e quindi non c’è stato un incontro tra il nuovo movimento diciamo autonomo e il movimento operaio, proprio perché il vecchio movimento operaio non aveva, per così dire, letto il frammento sulle macchin. Il punto è che non c’è stata la capacità di congiungere la rivolta studentesca giovanile col processo di liberazione possibile dal lavoro operaio. Ecco, quel problema a mio parere rimane lì ed è ancora una questione centrale, oggi più che mai.

 

A: Quando si parla di automazione, dei robot etc, purtroppo vediamo che lo sviluppo tecnologico non ci ha liberato dal lavoro anzi, siamo più stressati, siamo più precari.

B: Si, le condizioni di lavoro sono peggiorate, il salario è diminuito e la precarietà è aumentata; poi abbiamo paura che il robot ci porti via il lavoro. Dunque dove sta il problema? Il problema sta nel salario, nella condizione salariata, nel fatto che siamo abituati a pensare che se vogliamo vivere dobbiamo lavorare perché dobbiamo guadagnarci il salario. Ma questa è una superstizione, non è vero. Noi dobbiamo e possiamo creare le condizioni per lavorare sempre di meno in contesti più collettivi, però garantendo a tutti un basic income, una condizione economica per la sopravvivenza. Ecco questo secondo me è il senso del ‘77 italiano, che è rimasto in qualche modo incompreso, nascosto, perché tutti dicevano: “Ah tirano le bottiglie molotov”, “Si scontrano con la polizia”, “Si drogano” – tutte cose vere, è vero che c’era un elemento di ribellismo anarchico, qualche volta violento. Ma il nucleo concettuale di quel movimento è rimasto nascosto fino ad oggi. Oggi è lì, evidente, ma nessuno è in grado di tradurlo in azione politica – questo rimane il problema fondamentale del nostro tempo.

 

A: Prendiamo ad esempio la discussione sul basic income in Germania; io sono molto interessata a questo dibattito perché offre un orizzonte sul quale si possono creare nuove strategie per guadagnare lo spazio e il tempo di fare delle cose che sono giuste o che ti piacciono – pero c’è anche lobiezione secondo cui questo distruggerebbe le strutture dello stato sociale, che questa è anche una rivendicazione della Silicon Valley. Anche i sindacalisti sono fortemente contrari.

B: Sì, lo so, perché intacca anche il loro potere. Il potere del sindacato è fondato sulla differenza tra chi lavora e chi non lavora. Ma secondo me questa è una battaglia anzitutto culturale – prima che sindacale, prima che politica. Bisogna creare una cultura, e questa era la funzione del movimento del ‘77, una cultura fondata sull’idea che la vita umana non è destinata al lavoro, all’accumulazione di tempo – e che c’è una distinzione tra lavoro e attività. Dire “rifiuto del lavoro” non vuol dire non fare niente ma vuol dire sviluppare al massimo quelle forme di attività che non sono riducibili al salario, quindi l’educazione, quindi l’invenzione, quindi la cura, tutte quelle sfere dell’attività umana che vengono trasformate in salario ma perdono la loro qualità più profonda. La cura o l’educazione sono essenzialmente attività del piacere umano che il capitalismo ha trasformato in prestazioni salariate, perdendo quindi tutto ciò che di ricco, di piacevole, di erotico c’è dentro quelle forme di attività. Come vedi è prima di tutto una questione culturale, una battaglia culturale che negli anni ‘70 era cominciata in modo molto ampio e che poi si è scontrata con il liberismo da una parte e dall’altra con l’incapacità della sinistra di tradurre quella possibilità in un processo reale. Oggi il neo liberismo mi pare che sia definitivamente cadaverico – è morto, non ha più niente da offrire – eppure continua a essere l’unica filosofia sociale possibile. Ancora continuano a dire: “bisogna intensificare la produttività”, ma come? Oppure “bisogna lavorare di più, invece che fino a 60 anni fino a 62, 67 70”, ma come? Se i giovani sono disoccupati perché devono lavorare di più i vecchi? Perché il problema per il capitale rimane quello di pagare meno salario, di accumulare più valore. Quindi invece di pagare un salario a te e una pensione a me, mi fanno lavorare fino a quando sono morto, e a te danno solo dei lavori precari pagati male e così via. Ecco questo avviene in Germania con la riforma di Schroeder e l’Hartz 4, in Italia con il Jobs Act, adesso Macron ci prova in Francia, ma vedi che c’è una filosofia sociale che nasce con Tatcher negli anni 70, nel ‘77 in realtà proprio in quel momento, e che in Inghilterra e in America distrugge completamente la forza della società, dopodiché cominciamo a proporla in tutto il mondo, in Europa, a riproporla, quando ormai è evidentemente fallita. Perché non riusciamo a venirne fuori? Prima di tutto perché la sinistra è diventata uno strumento principale della riforma neoliberale, con Blair, con Schroeder e così via. Ecco oggi è il momento in cui diventa vitale, necessario venirne fuori, perché altrimenti la conclusione di tutto questo è Donald Trump, cioè il fascismo che rinasce in tutto il mondo.

 

A: Tu stavi anche parlando dellaccumulazione, perché io sto seguendo un po le discussioni in Germania, guardando questa nuova economia – vedo che gli intellettuali marxisti hanno un grande problema a capire la valutazione delleconomia digitale, perché il valore duso non ha più un equivalente di scambio. Io ho letto qualcosa di tuo a proposito di una nuova semiosfera, e questo mi ha ricordato molto delle vecchie teorie femministe sul ruolo del lavoro riproduttivo, della cura che produce valore duso, ma non valore di scambio, secondo te esiste unanalogia?

B: Assolutamente sì. Il capitalismo industriale trasforma il tempo di lavoro in segni, che sono i segni dell’economia, i segni del salario. Quel lavoro che può essere ridotto alla quantità nell’unità di tempo: “Quanto prodotto fai in un’ora? Sette euro… Benissimo, su quello calcoleremo il tuo salario!”. Ma quando si tratta di definire il lavoro di educare un bambino, curare un vecchio, oppure avere un’idea architettonica geniale, che cambia tutto nella costruzione dei ponti, come fai? Per avere un’idea quanto tempo ti occorre? Un minuto o dieci anni? Perché non è quantificabile il tempo di un’innovazione formale, scientifica, così come non è quantificabile il tempo dell’affettività. E dunque tutto quello che è il lavoro affettivo, il lavoro di cura, il lavoro di educazione, il lavoro dell’invenzione, non è lavoro. Se lo chiami lavoro non capisci più niente, e quindi lo vuoi tradurre in salario ma è del tutto arbitrario tradurlo, perché non c’è un punto, un’unità di riferimento quantitativo che ti permetta di tradurre quell’attività in salario. È attività, non lavoro – e l’attività non è quantificabile. Io credo che a partire dagli anni ‘70 e poi fino ad oggi in modo evidente, siamo usciti dalla sfera del lavoro industriale quantificabile e dunque la semiotizzazione capitalistica che si traduce nel salario non funziona più, per cui io di salario ti dò pochissimo o moltissimo. Come si quantifica il lavoro di un finanziere che guadagna 4mila volte più di un operaio? Non c’è più nessuna regola, queòla regola che nell’epoca industriale esisteva – poi c’era lo sfruttamento d’accordo, tutto vero, però un operaio lavora 8 ore, fa quella quantità di prodotto, tengo il profitto e gli dò un salario.

 

A: Prima dicevi che non ha senso chiamare tutto lavoro; io ho lavorato molto sulla cura e mi ricordo che soprattutto le femministe italiane hanno rivendicato il concetto di lavoro riproduttivo, chiamandolo lavoro proprio per renderlo visibile.

B: Mariarosa Dalla Costa

 

A: Per esempio.

B: Il salario al lavoro domestico. Ecco, Negli anni sessanta più che settanta, proprio all’inizio del movimento femminista, c’è una rivendicazione che è quella del salario al lavoro domestico. È paradossale però funziona; dunque la prima richiesta che viene fuori da Potere Operaio e da quel femminismo che era vicino a Potere Operaio, veneto, padovano e veneziano, è tutta incentrata sul salario: “siamo sfruttate, il salario è l’arma, lo strumento tramite il quale costringiamo il capitale a riconoscere questo lavoro”. Nel corso del tempo emerge anche un’altra posizione nel femminismo italiano, quella delle milanesi, il discorso della differenza, Lea Melandri e così via, che è un discorso sul carattere irriducibile dell’affettività, della dimensione affettiva e direi del femminile; il femminile prima rivendica di essere riconosciuto sul piano del salario, ed è un modo per riconoscere un’identità sociale, poi però rivendica anche la sua irriducibilità rispetto al modello capitalistico. Queste due posizioni non sono in contrapposizione, crescono insieme nella storia del femminismo italiano, negli anni 70 e 80; poi la storia del femminismo va in una direzione diversa, diciamo, quando il femminismo si trasforma in un discorso essenzialmente sui diritti; però quelle posizioni oggi sono quelle che spiegano meglio come lo specifico femminile, la differenza femminile oggi si ritrova all’interno di questa dimensione dell’attività. Oggi la cosa che per me è più importante di tutte è riconoscere che l’attività umana nella sua ricchezza, cognitiva ed affettiva, non è più riducibile alla forma del capitale e il, diciamo, il disastro contemporaneo, che vediamo molto bene sul piano politico, è dovuto al fatto che il capitale pretende di continuare a comprimere la ricchezza del cognitivo e la ricchezza dell’affettivo all’interno di un modello che non le può più contenere.

 

A: E dunque questo, nucleo affettivo magari è anche il punto da dove partire per creare strategie, una nuova cultura politica, perché il capitale non sarà in grado di capitalizzarlo?

B: Il capitale è in grado di trasformare l’attività cognitiva e affettiva in valore, in valore economico; però questo non permette all’attività cognitiva e affettiva di sviluppare le loro potenzialità. Se il capitale vuole sfruttare un’attività che non è lavoro, che non si può ridurre al modello del lavoro salariato, l’unico modo è quello di pervertirne la funzione. Diciamo, questo vuol dire che il capitale riesce a sottomettere il lavoro cognitivo ma solo trasformandone la finalità; la finalità del lavoro cognitivo sarebbe quella di arricchire la vita umana, la funzione che il capitale dà al lavoro cognitivo è quella di impoverirla, per così dire.

 

A: Secondo te per analizzare, e anche capire, questo sviluppo delleconomia digitale o digitalizzazione, basta farlo in modo cognitivo? Perché in Germania adesso ci sono molte discussioni intorno a questo processo. Le analisi sono più che altro confinate alle dimensione cognitiva: dobbiamo anche esplorare il livello corporeo e quello mentale?

B: L’organizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo è fatta in maniera tale che i cervelli lavorino sempre più insieme ma i corpi siano sempre più separati; questo è il paradosso essenziale della soggettività lavorativa contemporanea: che noi siamo sempre più connessi sul piano della produzione informativa, della produzione semiotica, che è quella più importante di tutte, ma allo stesso tempo siamo sempre più isolati sul piano della relazione erotica e della relazione sociale – per cui il cervello si arricchisce sempre di più, ma è sempre più scollegato dal corpo e dunque diventa un cervello sofferente (la depressione, il panico, l’epidemia di suicidio, la solitudine contemporanea). D’altro canto il corpo è sempre più scollegato dal cervello e quindi impazzisce, diventa un corpo demente, corpo razzista, corpo fascista, corpo sessista – cioè un corpo che non è più capace di collegarsi intellettualmente e affettivamente agli altri corpi e reagisce sulla base dell’unica cosa che gli rimane: l’identità. Quindi l’identitarismo contemporaneo è a mio parere prima di tutto un effetto di questa demenza.

 

A: È molto interessante, perché c’è anche questa idea del cyberspace, per esempio, che pure da sinistra è stata portata avanti come unistanza in grado di connettere tutto, dove non esistono più i sessi, che è libera; così però allo stesso tempo cè un allontanamento dal corpo, dal reale. Quindi mi chiedo anche se questo cyberspazio del presente non sia anche un progetto un po androcentrico, perché segue lidea per cui corpi, tempi, spazi, condizioni sociali siano irrilevanti.

B: Quella che io chiamo infosfera, ma anche cyberspazio va benissimo, ha una capacità di espansione e di accelerazione infinita. Cioè il cyberspazio può espandersi e può andare sempre più veloce, di fatto va sempre più veloce – ma dall’altra parte c’è quello che possiamo chiamare cybertime, il cybertempo. Il cybertempo è una dimensione essenzialmente mentale, essenzialmente soggettiva, in cui la mente entra in rapporto emozionale con il corpo, e il cybertempo non può accelerare all’infinito; puoi prendere l’anfetamina così vai più veloce, ma non puoi andare alla velocità del cyberspazio, per cui il cybertempo si trova in una condizione di costante “out of sync”, di costante senso di panico, fino a quando questa sconnessione produce un effetto depressivo; cioè il desiderio che l’attività umana investe nel mondo non funziona più, abbiamo continuamente la sensazione di essere in ritardo, di non essere abbastanza competitivi perché il cyberspazio ci mette in questa condizione, questa è la forma in cui noi percepiamo in modo patologico, come sofferenza; la mia convinzione è che proprio questa sofferenza, che è tipica della generazione precaria e cognitiva, questa sofferenza può diventare l’energia da cui ripartire; a cominciare da un’azione che non è politica ma che è essenzialmente terapeutica.

 

A: Mi sono chiesta come affrontare questo sviluppo e conquistare il nostro futuro; quando la gente sperimenta sempre di meno il contatto corporeo, faccia a faccia, il contatto fisico, perché la vivacità della ribellione dei movimenti era sempre un risultato dello stare insieme in piazza, in strada, nel centro sociale, nella cucina, nel letto, quindi cosa significa questo cambiamento anche per le strategie di lotta politica?

B: Se ricostruisci la storia dei movimenti, dal ‘68 al ‘77 all’89 al ’99, al 2001, il movimento no global fino al 2001, secondo me c’è una linea in cui la questione del corpo compare – all’inizio il ‘68 non pensa neanche al corpo perché il corpo è lì, è un dato acquisito, il femminismo pone il problema del salario e dell’estraneità e così via, ma è anche il problema della differenza sessuale, come problema che sta dentro la dimensione della corporeità. Poi arrivi alla fine, nel 2011, e vedi che la questione del corpo viene posta come il primo problema della gente, come qualcosa che ti sfugge – occupy, occupare cosa? Cosa era quel movimento, che non ha vinto niente, che ha perso dappertutto, che non ha prodotto nessun effetto politico positivo, eppure è stato un movimento importantissimo perché ha aperto la nuova grande questione: occupare cosa? Rioccupiamo lo spazio della corporeità, questo era il significato profondo di quel movimento, si è aperta la questione “riattivare il corpo collettivo che adesso è paralitico”. Per questo io ho una convinzione che “occupy” è stato l’inizio di un ciclo nuovo, un ciclo che continuerà 50 anni probabilmente, ma è la nuova questione: riattivare il corpo erotico del general intellect, il corpo erotico del lavoro cognitivo

 

A: Io sono molto daccordo e soprattutto la vedo come lunica strada, però in Germania, per esempio, se tu apri una discussione in questa direzione c’è subito la critica per cui questa diventa una politica solo identitaria, che la lotta per la corporeità non è una lotta sociale perché è solo una lotta identitaria.

B: Questo non riesco a capirlo perché le politiche identitarie, che sono state importanti e sono importanti in senso negativo in generale, sono quelle che si fondano proprio sulla separazione del corpo e del cervello, cioè noi non abbiamo più riferimenti di tipo universalistico, di tipo internazionalista o di tipo generalmente umano, perché la sfera dell’universale è assorbita dalla sfera astratta della finanza, della tecnologia, della virtualità; nella realtà, siamo corpi senza riferimenti universali quindi ci riconosciamo come identità: bianco contro il nero, la femmina come figura identitaria contro il maschio come figura identitaria ; a me pare che invece proprio partendo dal rapporto tra il corpo e il cervello, cioè fra la dimensione della socialità affettiva e la dimensione del lavoro cognitivo, ricostituendo quella relazione, noi possiamo uscire dall’identitarismo; rivendicare il corpo non vuol dire rivendicare l’identità del corpo, vuole dire, come direbbero Deleuze e Guattari, rivendicare proprio un divenire altro. Cos’è la corporeità? Non è la corporeità identificata, ma è la capacita del corpo di divenire l’altro corpo attraverso l’erotismo, attraverso l’arte, attraverso la terapia, attraverso l’educazione, attraverso lo scambio culturale e così via; quindi mi pare che proprio a partre da una corporeità che esce da sé stessa, che esce dalla sua sfera isolata, si può andare oltre l’identitarismo; anzi mi sorprende quello che hai detto, perché l’identità, l’identitarismo, sia nel movimento femminista che nei movimenti – che anche nella destra, perché l’identitarismo alla fine dà vita, fa nascere questo localismo che è quello della Lega, che è quello della difesa territoriale e alla fine è anche quello del fascismo – l’identitarismo è un effetto dell’incapacità di far circolare affettività nella dimensione del corpo, ridurre, separare il corpo dall’universalità del cervello. Questo ha prodotto un’incapacità di autodefinirsi, mi definisco come bianco, come nero o come islamico…

 

A: Io ho cercato di creare una rete europea transnazionale , ed è stata unesperienza molto bella però dopo due, tre anni, mi sono resa conto che stavo davanti al mio computer a connettere i compagni, a scrivere, a comunicare, però mi mancava, mi mancava proprio il contatto, mi mancava qualcosa, quindi ad un certo punto mi sono detta: è così bello internet, essere connessi, avere questi computer, adesso anche lo smartphone, comunicare direttamente, però mi manca qualcosa

B: È chiaro! Diciamo, descrivere questa condizione ormai è facile ed è evidente quale sia il nucleo dell’alienazione contemporanea; solo che questo non rientra nelle politiche della sinistra. La sinistra non vede che il problema sta tutto sul piano antropologico, sul piano psichico, perché è lì che la questione del lavoro oggi si ripresenta. Come fai a parlare del lavoro cognitivo senza parlare degli aspetti psichici che questo comporta? La sinistra questo non è in grado di dirlo, quindi traduce tutto nei termini del neoliberismo in ultima analisi – e non credo si possa riformare. Non credo che ci sia una possibilità di trasformare la sinistra, bisogna dare questa per conclusa e ripartire con una nuova forma di soggettivazione che non ha più niente a vedere con la storia della sinistra del Novecento.

 

A: Mi ricordo di una discussione che hai fatto a Berlino al Volksbuehne con Varoufakis e Srecko, credo due anni fa; ovviamente Varoufakis e Hovart possono parlare bene e in modo interessante, però a un certo punto ho pensato: sono tutte cose abbastanza superficiali, che possiamo leggere tutti i giorni in una certa propaganda di sinistra; invece tu hai detto che dobbiamo interrogarci sulla soggettività, dobbiamo lavorare sulla soggettività, dobbiamo sporcarci anche le mani.

B: Il problema rimane un po’ quello che Diem25 è un intuizione politica importante, cioè non si può criticare l’Europa tornando alla dimensione nazionale, bisogna criticare l’Europa ma non tornando alla dimensione nazionale, e questo è importante; quindi Diem25 ha una ragione di esistere, però poi devi darle carne, vediamo dalla Catalogna cosa può venire fuori.

 

A: Di sicuro conosci Donna J. Haraway, che aveva presentato una figura ironica con il suo manifesto cyborg, e anche tu richiamavi allsuo dellironia nella pratica politica negli anni 70, avete usato forme ironiche di contestazione. Secondo te, come si potrebbe usare lironia oggi nel contesto del digitale e analogico?

B: La questione dell’ironia forse è la più complessa di tutte, forse anche la più decisiva. Intanto: cosa vuol dire ironia? Possiamo definire l’ironia in modo semplice dicendo che è un uso della doppiezza del linguaggio per ragioni tattiche, per disorientare l’avversario, questo è un modo legittimo – quindi tu dici “picchiateci” quando parli della repressione, però l’ironia è una cosa più complessa di questo. L’ironia è, a mio parere, l’infinita ambiguità del linguaggio, perché il linguaggio contiene sempre qualcosa di più di quello che noi stiamo dicendo, che è il modo in cui ci guardiamo per esempio -possiamo dirlo? No, non possiamo dirlo. Si, possiamo dire molte cose, possiamo anche provare a definirlo, lo sguardo, ma lo sguardo è di più; allora, nella corporeità, il lavoro contemporaneo è lavoro cognitivo, quindi è lavoro del linguaggio; ma tutto sta dentro quel linguaggio? No, non c’è tutto dentro quel linguaggio, il linguaggio produce questo mondo, produce la tecnologia, produce, accelera il ritmo della produttività; quindi il linguaggio è il motore principale, ma non è tutto dentro il linguaggio. Allora qualche volta noi abbiamo l’impressione che il capitalismo abbia vinto, perché ha assorbito il nostro linguaggio, è vero…

 

A: E anche adesso nel digitale

B: Il digitale effettivamente è una forma di astrazione del linguaggio; però c’è qualcosa che sfugge, cosa? La nostra sofferenza. Allora l’ironia è la capacità di far riemergere continuamente nel linguaggio ciò che il linguaggio non è capace di dire. Ciò che il linguaggio non è capace di esaurire. Tu sai che Wittgestein dice “il limite del nostro mondo è il limite del nostro linguaggio” e uno pensa allora Wittgestein ci ha chiuso in un recinto. Ma no, Wittgestein diceva anche “la parola limite ha due facce”, c’è il limite di qua e l’al di là del limite. L’ironia è la capacita di far emergere continuamente l’al di là del limite che il capitale ha iscritto nel linguaggio. Ora questo come si manifesta? Beh la poesia è questo, la poesia è un uso del linguaggio che non sta dentro il linguaggio, “non vuol dire niente, quella frase non vuol dire niente proprio perché sta dicendo qualcosa che il linguaggio non è in grado di esprimere”. Come facciamo a tradurre la potenza della poesia nel movimento, nel movimento collettivo? Questa è la questione diciamo che si pone al lavoro cognitivo. Proprio il lavoro cognitivo esaurisce i limiti del linguaggio all’interno della forma capitalistica. Ma qualcosa rimane fuori, e si manifesta nella sofferenza psichica dei lavoratori cognitivi. Ora, io ho come l’impressione che dobbiamo essere capaci di ricostruire un triangolo, che è il triangolo “psic”, il triangolo “est”, estetico, e il triangolo “politico”; quelle tre forme nel 1900 erano separate, allora c’era Freud, c’era Marx e c’era l’Avanguardia Storica – e poi c’erano degli scambi allora: la psicanalisi e il marxismo, l’arte e la politica, ma tutto questo non è più il nostro. A me non frega niente del rapporto tra psicoanalisi e politica, non mi importa niente del rapporto tra arte e politica, perché quelle dimensioni non ci sono più, non esistono più separate; arte, politica, psicoanalisi non esistono più perché c’è un unico problema che possiamo chiamare il “problema ironico del superare i limiti in cui il capitale ha chiuso il lavoro cognitivo” e quindi è la sofferenza dei lavoratori cognitivi, che va curata. Ma come la curi? La curi producendo un movimento. E come si costituisce quel movimento? Attraverso forme di tipo poetico, tanto è vero che le forme più potenti della relazione politica contemporanea sono quelle che si manifestano attraverso una ricodificazione dei segni, quindi è Wikileaks, e quindi sono le mille figure di Amburgo che camminano dipinte di bianco e di grigio e riescono a comunicare una cosa che chiunque veda; quella fotografia si capisce cosa vuole dire: è la vita quotidiana del nostro tempo che è diventata l’inferno – come dicono sempre quelli di Amburgo “Welcome to hell”. Ecco, il mondo è diventato un inferno, questo lo capiscono tutti, se sei capace di metterli davanti ad uno specchio; il compito del movimento è far scattare il desiderio singolare, individuale di uscire da questo, dall’inferno; e poi le modalità tecniche di questo uscire dall’inferno vanno costruite nei prossimi 10 o 20 anni e così via, sapendo che per i prossimi 10 anni siamo in trappola; non credo che ne usciremo presto, però dobbiamo continuare a lavorare sul problema della riattivazione del corpo erotico del lavoro cognitivo come possibilità di liberare la potenzialità che la tecnica contiene.

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Nota di Franco Berardi sull’uso del termine fascismo

E’ legittimo fare obiezione sull’uso della parola “fascismo” riferita alle politiche e al linguaggio di Trump (ma anche: Orban, Putin, Modi, Dutarte, Kaczinski, eccetera, tanto per dire che il fenomeno ha caratteri planetari).

Non si tratta in realtà di fascismo, se non altro per il fatto che il fascismo era espressione di una società giovane che credeva nel futuro mentre il trumpismo è espressione di una società senescente e depressa, cioè incapace di immaginare alcun futuro.

Il ritorno di nazionalismo e di razzismo sono lineari sviluppi del neoliberismo.

Eppure dobbiamo essere capaci di distinguere le due anime del potere contemporaneo: iper-liberismo e nazionalismo si contrappongono ma al tempo stesso vivono in una simbiosi mutualistica. Non possiamo limitarci a dire che sono tutte manifestazioni del capitalismo neoliberale. C’è un surplus di drammaticità in quello che sta accadendo nel mondo: sterminio razziale nel Mediterraneo, Olocausto da demonetarizzazione in India, massacro massivo in Messico eccetera. Certo, sono fenomeni legati al culto neoliberista della competizione, ma c’è un salto che passa attraverso il nazionalismo e una forma di neo-razzismo che non ha le caratteristiche del vecchio razzismo dei colonizzatori.

Certo dovremmo liberarci della parola “fascismo” ma ci occorrerebbe una parola più adeguata alla forma attuale della violenza e del culto della particolarità (nazione razza religione).

Forse la parola più adeguata ce l’abbiamo già: Trumpismo.

Infatti il significato del verbo “trump” contiene tutti gli elementi: travolgere, umiliare, trombare, far fuori, sottomettere. Queste sono traduzioni possibili del verbo.

To trump significa: sottomettere in senso neoliberale ma anche umiliare in senso razzista.

Trumpismo va bene?

Comunque la questione rimane aperta. E più che trovare la parola giusta dovremmo trovare la via d’uscita. Ma per questo ci vuole più tempo, forse un tempo più lungo di quello che mi (ci) resta da vivere.

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