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sinistra

Dal sindacalismo collaborazionista ad un sindacalismo di classe

Alcune riflessioni

di Eros Barone

mirafiori1980Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo…L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, di piccola e media borghesia...Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai…a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico.

Antonio Gramsci, «L’Ordine Nuovo», 8 novembre 1919.

  1. Il documento della maggioranza: il gergo di un ceto privilegiato e autoreferenziale

In questo periodo la CGIL sta tenendo le assemblee di base in vista dello svolgimento del XVIII congresso nazionale, che si terrà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019. I documenti presentati sono due: quello della maggioranza, intitolato “Il lavoro È”, e quello della minoranza, intitolato “Riconquistiamo tutto!”.

Orbene, fin dalle prime pagine il documento della maggioranza si configura come un tipico prodotto di quel linguaggio ‘sindacalese’ ‘politicamente corretto’ che, come osserva Stalin in un suo acuto scritto dedicato alla linguistica, impedisce la corretta comunicazione: «Basta soltanto che la lingua si allontani da questa posizione nei confronti dell'intera nazione, basta soltanto che la lingua si metta su una posizione di predilezione e di sostegno di un qualsiasi gruppo sociale a detrimento degli altri gruppi sociali della società, perché essa perda la propria qualità, cessi di essere mezzo di comunicazione tra gli uomini in seno alla società, si trasformi in gergo di un qualsiasi gruppo sociale, degradandosì e condannando se stessa al dileguamento».

E in effetti la lettura di un simile documento conferma proprio gli aspetti di “degradazione” e di “dileguamento” del modello linguistico-comunicativo adottato, che caratterizzano il documento in parola facendone lo specchio fedele del gergo di un ceto privilegiato ed autoreferenziale, costituito dall’aristocrazia operaia e dalla burocrazia sindacale, che nella CGIL detiene il predominio, seleziona i quadri ed esercita la direzione.

 

  1. Mercato, diritti e rapporti di forza

In questo àmbito discorsivo si colloca pienamente e organicamente un tema che è da tempo al centro dell’iniziativa della CGIL: la “Carta dei diritti universali del lavoro - Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori”, un testo dal titolo altisonante con cui la CGIL intende rilanciare la propria azione sindacale. Si tratta di un elaborato piuttosto corposo che, essendo scritto con lo stesso linguaggio di una legge dello Stato borghese ed essendo perciò irto di tecnicismi, formato com’è da 97 articoli divisi in 64 pagine, è un documento il cui contenuto risulta oscuro e sostanzialmente inaccessibile alla stragrande maggioranza degli iscritti. Sennonché per avere una legge utile ai lavoratori non basta una cultura giuridica adeguata. In un regime di democrazia rappresentativa serve anche un partito in grado di sostenerla, un parlamento disposto ad approvarla e un governo deciso ad applicarla, ossia tre fattori politico-istituzionali che mancano completamente nell’attuale contesto di una crisi prolungata e perdurante dell’economia e dello Stato, in cui all’offensiva padronale si somma l’assenza di un movimento di massa minimamente capace di resistere. Non per niente Gino Giugni, che ne fu il padre, definì la legge 300 del 1970, ossia lo “Statuto dei lavoratori”, come «il frutto di una felice congiunzione tra la cultura giuridica e il movimento di massa», mentre l’attuale “Carta” sembra essere, per un verso, una goffa fuga in avanti del più classico opportunismo sindacale e, per un altro verso, una proposta che non estende i diritti ma si adegua all’attuale condizione del mercato e del diritto del lavoro senza mettere in discussione nessuna delle controriforme che hanno peggiorato la condizione dei lavoratori: dal precariato al blocco dei salari, dallo smantellamento del sistema previdenziale pubblico all’innalzamento dell'età pensionabile e alla libertà di licenziamento (in quanto alle tutele, basti pensare che la “Carta” non prevede nemmeno che l’articolo 18 venga reintegrato a pieno, ma solo parzialmente).

Sennonché, anche a volerle attribuire una qualche valenza alternativa, risulta evidente che, considerata nel suo insieme, la “Carta” non corrisponde ai rapporti di forza esistenti e, dati gli attuali livelli di mobilitazione dei lavoratori, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Ciò di cui non vi è traccia in questo documento è infatti il coraggio di affrontare, se non proprio le cause dei problemi, quanto meno i nodi centrali: ‘in primis’, quello costituito dall’esercito industriale di riserva, che rende inesigibili i diritti solennemente proclamati come “universali”. In realtà, proprio l’assenza di disposizioni cogenti in grado di trasformare i diritti dei lavoratori in obblighi per i datori di lavoro rende questi “diritti universali” uno sterile esempio delle illusioni tipiche di una cultura giuridica borghese ‘di sinistra’. Se non fosse ormai acclarato l’analfabetismo degli attuali quadri sindacali in materia di storia del movimento operaio e di teoria marxista, per demistificare e dissolvere, sia dal punto di vista dottrinale che da quello pratico, questo genere di illusioni sarebbe bastato, in tempi più propizi che non quelli odierni all’analisi di classe, raccomandare la lettura di un testo chiave come il saggio intitolato “Il socialismo giuridico”, scritto da Friedrich Engels e da Karl Kautsky nel 1887 e recentemente tradotto in italiano. Fatta quindi la tara della debolezza intellettuale che affligge da alcuni decenni il movimento operaio, privo sia di un pensiero forte sia di idee-forza, resta da considerare il divario che intercorre tra le pretese normative della “Carta” e la realtà attuale: divario che si può riassumere in tre punti, il primo dei quali è l’assenza di un movimento di massa organizzato che si batta nei territori e nei luoghi di lavoro per modificare le condizioni normative determinate dalla micidiale sequenza “legge Treu - legge Biagi - legge Fornero - ‘Jobs Act’” in un senso meno sfavorevole ai lavoratori; il secondo è l’assenza di una borghesia industriale egemonizzata da frazioni interessate a bloccare e invertire la deriva sempre più periferica che sta subendo l’Italia all’interno della divisione internazionale del lavoro; il terzo è una ripresa dell’accumulazione in grado di coprire i maggiori costi derivanti dalle maggiori tutele offerte ai lavoratori licenziati e ai lavoratori con contratti precari.

 

  1. Il sindacato collaborazionista dell’aristocrazia operaia

La “Carta” risulta dunque, esaminata dal lato riguardante la condizione dei lavoratori salariati, una variante utopistica della tecnica del barone di Münchausen, che, come è noto, consisteva nel cercare di sollevarsi dallo stagno in cui questi era caduto tirandosi su per i capelli. Ma vi è di più e di peggio, poiché, esaminata dal lato concernente gli interessi della borghesia, la “Carta” offre un considerevole sussidio a tali interessi con il tentativo di dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione attraverso il tanto agognato riconoscimento giuridico dei sindacati, che a sua volta ha il suo fulcro nel cosiddetto “Testo unico sulla rappresentanza” siglato nel gennaio 2014 tra i sindacati confederali e la Confindustria. Questo aspetto, unito ad una proposta quanto mai discutibile di regolamentazione dell’orario di lavoro e alla richiesta di attuazione dell’articolo 46 della Costituzione riguardante il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, è una rappresentazione emblematica della deriva neocorporativa e collaborazionista del maggior sindacato italiano. Infine, ultime ma non in ordine di importanza, vi sono le disposizioni per garantire l’effettività della tutela dei diritti, riguardo alle quali la Cgil, in coerenza con la sua natura di sindacato neocorporativo, incentra tutta la sua azione sulla tutela giurisdizionale.

Ma proseguiamo nella lettura del documento della maggioranza, in modo da riassumerne, sia da un punto di vista marxista e comunista che sociolinguistico, gli aspetti salienti. La redistribuzione della ricchezza, sintagma riconducibile alla fraseologia piccolo-borghese, è il motivo conduttore di tutto il documento, il cui contenuto però prescinde dal riconoscimento storico-materiale che il ‘reddito nazionale’ è un campo in cui si manifesta quella lotta di classi contrapposte che gli estensori del documento si sforzano in ogni modo e con ogni mezzo di esorcizzare. Di conseguenza, l’apologia delle istituzioni e delle organizzazioni capital-imperialiste, ossia la Confederazione Europea dei Sindacati e la Confederazione Sindacale Internazionale, è il biglietto di ingresso che serve all’aristocrazia operaia della CGIL, più che mai impregnata della ideologia social-sciovinista e collaborazionista, per dimostrare di meritare la propria diretta partecipazione a tale ‘establishment’. Sotto questo profilo, è altamente significativo il fatto che tale aristocrazia, convinta non a torto di rappresentare un ingranaggio importante nel meccanismo economico-sociale capitalistico, piatisca dalla borghesia una legge in difesa delle sue prerogative e si prefigga di trarre il massimo beneficio, in accordo con i capitalisti, dagli enti bilaterali, dalla previdenza integrativa e dalle polizze sanitarie, senza peritarsi di esporre il salario dei lavoratori al rischio delle speculazioni che, con l’estensione di queste forme di asservimento alla rendita finanziaria, non tarderanno a manifestarsi.

 

  1. Il documento della minoranza: massimalismo, impotenza e subalternità

Dal canto suo, l’altro documento, intitolato “Riconquistiamo tutto!”, si presenta come la tipica superfetazione letteraria di una sinistra tanto verbosa quanto politicamente innocua: una sinistra del tutto interna ai ‘giochi’ sindacali e quindi subalterna alla maggioranza della CGIL e alla “passività” incarnata da quest’ultima. Del resto, stante la logica (non alternativa ma) emendativa che caratterizza le sue battaglie, questo tipo di sinistra si guarda bene dal denunciare che la “passività” della CGIL dipende dalle scelte della sua direzione, la quale, a tutti i livelli, è controllata strettamente dall’aristocrazia operaia: un’omissione quanto mai rivelatrice, perché dimostra che questa corrente, essendo compartecipe della burocrazia sindacale e quindi compromessa, a sua volta, nel carrierismo e nell’opportunismo, non ha alcuna intenzione di condurre una lotta conseguente contro i privilegi e gli interessi dell’aristocrazia operaia del nostro paese. Così, il referendum diventa per gli estensori del documento di minoranza l’arma per eccellenza della democrazia sindacale, come se la proposta di eventuali referendum, oltretutto solo parzialmente abrogativi del ‘Jobs Act’, potesse sostituire la lotta di classe e la mobilitazione organizzata dei lavoratori. In definitiva, come si può constatare da questi rapidi cenni, è innegabile che il massimalismo inconcludente, unito all’impotenza e alla subalternità, del sindacalismo di sinistra, oltre a costituire un diversivo utile per la maggioranza, abbiano rappresentato un fattore importante della mancata costituzione di una frazione comunista all’interno del sindacato confederale.

Alla luce di questa sintetica ricognizione della piattaforma congressuale della CGIL si ripropone perciò al movimento di classe dei lavoratori salariati l’interrogativo cruciale sul “che fare?”. Se partiamo dalle esperienze storiche, è possibile constatare che non esiste una via unica per la costruzione di nuovi sindacati. Bisogna sempre condurre un’analisi concreta della situazione concreta. Tale analisi ci mostra che non bisogna avere feticismi di alcun genere sia dal punto di vista politico che da quello organizzativo. È vero che, se ci richiamiamo ai testi classici e in primo luogo a Lenin, se ne ricava la conferma della obbligatorietà del lavoro politico-sindacale nei grandi sindacati di massa collaborazionisti. I bolscevichi, ad esempio, fino alla rivoluzione d’ottobre sostennero i comitati di fabbrica, in cui detenevano la maggioranza, contro i sindacati che erano influenzati dai menscevichi; anche in Germania e in Ungheria nel 1918-1919 i comunisti non controllavano i sindacati. D’altronde, è vero che i sindacati registrarono un forte aumento degli iscritti durante le situazioni rivoluzionarie, come accadde nella Germania e nell’Italia del primo dopoguerra (il “biennio rosso”) o durante la radicalizzazione della lotta di classe che vi fu nei paesi capitalisti a partire dal 1968.

 

  1. L’Internazionale Comunista e la questione sindacale

La Terza Internazionale, dal canto suo, nei momenti più acuti della lotta di classe non eludeva il problema della scissione: «Poiché per i comunisti gli scopi e l’essenza dell’organizzazione sindacale sono più importanti della sua forma, essi non debbono arretrare neppure dinnanzi ad una scissione delle organizzazioni all’interno del movimento sindacale, qualora il rinunziare alla scissione equivalesse a rinunziare al proprio lavoro rivoluzionario nei sindacati, a rinunziare al tentativo di fare di questi uno strumento di lotta rivoluzionaria, a rinunziare ad organizzare la parte più sfruttata del proletariato» (“Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale”, 3 agosto 1920). E quando le scissioni avvennero per iniziativa dei riformisti, che espellevano i comunisti dai sindacati, e si crearono così sindacati rivoluzionari come in Francia con la CGTU, l’Internazionale détte le seguenti indicazioni: «Là dove la scissione tra il movimento sindacale opportunista e quello rivoluzionario è già avvenuta, là dove, come in America, accanto ai sindacati opportunisti sussistono organizzazioni rivoluzionarie, anche se non di tendenze comuniste, i comunisti sono tenuti ad appoggiare questi sindacati rivoluzionari, ad aiutarli a liberarsi dei pregiudizi sindacalisti e a portarli sul terreno del comunismo: esso soltanto è una bussola sicura nella confusione della lotta economica. Là dove nell’ambito dei sindacati o al di là di essi, nelle fabbriche, si costruiscono organizzazioni, come gli ‘shop stewards’ e il consiglio di fabbrica, che si pongono come scopo la lotta contro le tendenze controrivoluzionarie della burocrazia sindacale e l’appoggio alle azioni spontanee e dirette del proletariato, è evidente che i comunisti debbono appoggiare con tutta la loro energia tali organizzazioni» (“Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale”).

In sostanza la Terza Internazionale subordinava la creazione di una nuova organizzazione sindacale alle seguenti condizioni: a) quando non è possibile un lavoro rivoluzionario nei sindacati; b) quando non è possibile fare dei sindacati uno strumento della lotta rivoluzionaria; c) quando nei sindacati non si riescono ad organizzare i settori più sfruttati del proletariato. Ora, la domanda a cui occorre rispondere è la seguente: è possibile in questo periodo condurre un lavoro rivoluzionario all’interno dei sindacati confederali? In effetti, abbiamo visto le espulsioni nella CGIL dei delegati non in linea. Se non è possibile fare un lavoro rivoluzionario nei sindacati confederali, è implicito che non se ne possa fare uno strumento di lotta rivoluzionaria. Per quanto riguarda il terzo quesito, si vede quanto il lavoro precario sia lasciato a se stesso, così come accade in certi settori del mondo del lavoro, dove ci sono situazioni di sfruttamento ai limiti della sopportazione umana.

 

  1. Per un sindacato di classe e di massa

Bisogna allora riconoscere nella creazione dei vari sindacati di base un’esigenza della parte più avanzata dei lavoratori salariati rispetto ai continui cedimenti dei sindacati confederali. Per questo motivo è giusto considerare attualmente come prioritario l’intervento dei comunisti all’interno dei sindacati di base per dare a tali organismi un orientamento politico efficace; diversamente, se lasciati alla loro spontaneità, questi organismi possono diventare delle brutte copie dei sindacati confederali, cioè dei micro-sindacati che coltivano il proprio orticello. Questo non significa però trascurare l’intervento nella CGIL, ossia consegnare alle dirigenze collaborazioniste centinaia di migliaia di lavoratori; sennonché questo intervento va esplicato senza illusioni di sorta circa rotture di massa tra i lavoratori o circa una possibile direzione alternativa. In realtà, ogni qualvolta la lotta di classe si sviluppa, essa deve affrontare il problema di rompere politicamente ed organizzativamente con le politiche di collaborazione per tendere verso la costruzione di un sindacato di classe e di massa. Fondamentale resta infine la consapevolezza della differenza irriducibile che intercorre tra il partito comunista e il sindacato: differenza che consiste nel fatto che, per quanto conflittuale possa essere, il sindacato di classe e di massa si limita (non per cattiva volontà ma) strutturalmente a lottare contro gli effetti dello sfruttamento, laddove spetta al partito comunista condurre la lotta strategica contro le cause dello sfruttamento.


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