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micromega

Lavoro alla spina e welfare à la carte

di Alessandro Somma

Il saggio che segue introduce il volume, a cura di Alessandro Somma, “Lavoro alla spina, welfare à la Carte. Lavoro e Stato sociale ai tempi della gig economy” (Meltemi). Si occupa tra l’altro della sentenza con cui il Tribunale di Torino ha respinto le richieste dei raider di Foodora di riconoscere il loro rapporto di lavoro come subordinato: richiesta parzialmente accolta dalla sentenza della Corte di appello dello scorso 11 gennaio

Lavoro alla spina welfare a la Carte gig economy 5101. Dalla catena di montaggio all’economia dei lavoretti

Alcuni anni or sono l’Economist, noto settimanale nato nella seconda metà dell’Ottocento per promuovere l’ideologia del libero mercato, ha dedicato l’articolo di copertina alla cosiddetta economia on demand, celebrandola come una sorta di completamento della rivoluzione iniziata al principio del Novecento con l’introduzione della catena di montaggio. Quest’ultima, utilizzata per la prima volta nella produzione di autoveicoli da Henry Ford, avevo reso accessibile a un largo pubblico un bene fino ad allora considerato di lusso e dunque precluso ai più. Allo stesso modo un numero di imprese innovative in crescita esponenziale sta trasformando le abitudini di consumo con riferimento a una vasta gamma di servizi un tempo esclusivi: è il caso del noleggio con autista fornito da Uber, della pulizia della casa realizzata attraverso Handy, della fornitura di pasti a domicilio recapitati da SpoonRocket, o della consegna della spesa assicurata da Instacart. Conclusione: “a San Francisco una giovane programmatrice di computer può già vivere come una principessa”[1].

Le imprese protagoniste di questa rivoluzione, chiarisce l’articolo dell’Economist, possono fornire servizi a basso costo sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche. Esse infatti “uniscono potere dei computer e lavoro freelance”, riuscendo così a “suddividere compiti complessi nelle loro singole componenti e a subappaltarle a specialisti in giro per il mondo”. Il tutto contribuendo a ridisegnare la geografia politica dell’umanità, finalmente non più divisa, come inteso da Karl Marx, tra i ricchi proprietari dei mezzi di produzione e i poveri che lavorano per loro.

Rileva ora una distinzione apparentemente interclassista, o comunque funzionale a disinnescare il conflitto redistributivo cui rinviano le contrapposizioni fondate sulla ricchezza: quella tra “persone che hanno soldi ma non tempo e persone che hanno tempo ma non anche soldi”, ovvero i gruppi che l’economia on demand riesce a mettere in comunicazione.

Tutto ciò non avviene però senza conseguenze di ampia portata, come si è costretti ad ammettere persino dalle pagine dell’Economist. Conseguenze legate alla condizione dei lavoratori dell’economia on demand, significativamente definiti “alla spina” (worker on tap): utilizzati per il solo tempo strettamente necessario a fornire il servizio o la componente del servizio richiesto, quindi al di fuori di un qualsiasi rapporto di lavoro stabile. Tanto che gli effetti si faranno prima o poi sentire sul contribuente, che “finirà per dover sostenere molti lavoratori che non avranno costruito la loro pensione”. Giacché, sembra suggerire il settimanale inglese, occorre necessariamente socializzare i costi di un ordine economico votato a sostenere consumi di massa attraverso stipendi da fame, non essendoci altri modi per rendere sostenibile la privatizzazione dei relativi profitti senza intaccare i fondamenti dell’ortodossia neoliberale.

Da notare anche la caricatura che l’Economist offre dei fronti emersi dallo scontro riconducibile alle trasformazioni in atto. Un fronte è quello dei “lavoratori che attribuiscono un valore maggiore alla sicurezza rispetto alla flessibilità, inclusi molti lavoratori di mezza età”. L’altro è quello dei lavoratori in lotta contro la conservazione: i lavoratori “che attribuiscono un valore maggiore alla flessibilità rispetto alla sicurezza, come le donne intenzionate a combinare lavoro e cura dei figli”, a cui ovviamente fanno capo “i consumatori”. Come si vede si riproducono qui schemi retorici non certo nuovi, da ultimo utilizzati ad esempio per screditare la lotta dei tassisti contro Uber, rappresentata ad arte come un conflitto tra il vecchio che difende i suoi privilegi e il nuovo che avanza verso un futuro radioso[2]. Qui alla denigrazione dei diritti accostati a privilegi si aggiunge la loro svalutazione in quanto ostacoli all’emancipazione femminile. Operazione alquanto goffa se si pensa che l’economia on demand intende tutt’al più combinare lavoro produttivo e riproduttivo, senza evocare nel merito un ruolo dei pubblici poteri, e soprattutto senza mettere in discussione la tradizionale allocazione del lavoro di cura.

Comunque sia, è la flessibilità il tratto identificativo dell’economia on demand. A tal punto che essa è detta anche economia dei lavoretti (gig economy), i cui operatori si presentano come piattaforme concepite per favorire l’incontro di domanda e offerta di servizi (marketplace)[3]. E tutti gli operatori sono impegnati a mostrare come si tratti di un modello di organizzazione del lavoro estremamente flessibile, e proprio per questo da promuovere e valorizzare nell’ambito del menzionato scontro tra un futuro radioso bisognoso di essere riconosciuto e un passato oramai anacronistico e destinato all’estinzione. Il tutto, va da sé, con vantaggi per entrambe le parti della relazione: non solo per i datori di lavoro, ma anche e forse soprattutto per i lavoratori interessati a evitare le costrizioni e i vincoli di fedeltà contemplati dalle tradizionali relazioni di lavoro.

Esemplificativa in tal senso la presentazione di Amazon Mechanical Turk, una piattaforma concepita per reclutare lavoratori cui affidare mansioni semplici e ripetitive sebbene non eseguibili dai computer, per questo dette hit (human intelligence task). Ebbene, il sito della piattaforma enuncia i vantaggi per i datori di lavoro, i quali hanno “accesso a una forza lavoro on demand globale ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette”, possono quindi “gestire efficacemente i costi relativi all’assunzione e alla gestione della forza lavoro”, e infine fare in modo che “lo staff interno si concentri su attività di valore superiore”. Notevoli sono anche i vantaggi che i lavoratori ottengono per il fatto di non essere inseriti in una relazione stabile: possono “guadagnare denaro nel tempo libero”, e lo possono fare comodamente stando a casa, decidendo “autonomamente l’orario di lavoro”[4].

Non occorre troppo acume per constatare che sarà “difficile sopravvivere svolgendo le attività presenti sul sito”, e che “il vero vantaggio è delle aziende”: capaci di “sfruttare a pieno regime una manodopera su scala mondiale”. Ma se così stanno le cose è incomprensibile la conclusione cui si giunge subito dopo: che il Turco meccanico, e in genere l’economia dei lavoretti, costituisce una fonte di relazioni di lavoro ottimali e addirittura “uno strumento democratico a cui chiunque può partecipare”[5]. Come se il cosiddetto lavoretto fosse sempre l’occupazione occasionale di chi già percepisce un reddito e semplicemente intende integrarlo scegliendo tempi e luoghi per farlo: come se non fosse mai l’attività da cui viene ricavata la principale fonte di sostentamento, che i datori di lavoro intendono semplicemente precarizzare e svalutare.

Che il fenomeno dei lavoretti sia da osservare con lenti meno benevoli di quelle proposteci dagli operatori del settore, lo evidenziano alcune statistiche decisamente significative. Una in particolare, fondata su dati raccolti tra il 2016 e il 2017[6], analizza dati provenienti da alcuni Paesi europei ed evidenzia come tra essi l’Italia sia quello con il più alto numero di persone che ricavano dai lavoretti oltre la metà del proprio reddito: ben 2.190.000. Altri Paesi registrano numeri inferiori: si va dai 170.000 della Svezia ai 1.450.000 della Germania, passando per i 200.000 dell’Olanda, i 210.000 della Svizzera e il 1.330.000 del Regno Unito.

Si tratta di numeri importanti, sebbene ancora contenuti in proporzione al numero complessivo degli occupati, comunque indicativi di una tendenza indubbiamente destinata a consolidarsi, così come l’identikit di chi si dedica ai lavoretti: persone forse appagate della loro condizione di lavoratori flessibili, ma non certo dalla loro cronica precarietà e condizione di inferiorità nei confronti della controparte imprenditoriale. La statistica appena richiamata, infatti, evidenzia che i lavoretti sono sovente utilizzati “come parte di una strategia per mettere insieme un reddito da qualsiasi fonte disponibile” e che pertanto non rispecchiano certo “una libera scelta di vita”: chi li svolge è di norma alla ricerca di un “lavoro regolare”.

 

2. Subordinazione e taylorismo digitale

Che l’economia dei lavoretti non sia il regno delle libertà, sebbene sia questa l’immagine veicolata dalle piattaforme, lo possiamo verificare considerando un settore nel quale essa si è particolarmente sviluppata: quello della fornitura di cibo a domicilio (food delivery). Faremo riferimento a una piattaforma scelta a caso tra quelle presenti sul territorio nazionale: la piattaforma che fa capo a Deliveroo, impresa con sede nel Regno Unito fondata nel 2013 e presente in Italia dalla fine del 2015.

Il reclutamento di fattorini, rider nel linguaggio dell’economia on demand, viene promosso secondo gli schemi appena visti, ovvero evidenziando che potranno lavorare scegliendo liberamente se, quando e quanto dedicarsi all’attività lavorativa. E addirittura che questa porterà a una migliore qualità della loro vita, come con sprezzo del ridicolo si sintetizza in una dichiarazione attribuita a un fattorino: “quando pedalo i problemi della mia vita spariscono, è una delle poche attività che mi permette di staccare completamente e non pensare ad altro”[7].

Evidentemente una simile descrizione dell’attività del rider persegue il fine immediato di avere un numero elevato di candidati a collaborare con Deliveroo, e quindi consentire a questa di selezionare entro una vasta platea di candidati, oltre che di allineare le retribuzioni alla legge della domanda e dell’offerta: abbassandole in misura proporzionale alla prevalenza della prima sulla seconda[8]. Ma c’è dell’altro, dal momento che l’enfasi sulla ritenuta libertà del rider è funzionale a rappresentare la relazione di lavoro come estranea allo schema della subordinazione: il fattorino è un lavoratore autonomo, e la piattaforma non è il suo datore di lavoro. È semplicemente, come abbiamo detto, lo spazio virtuale nel quale si realizza l’incontro tra domanda e offerta di servizi di consegna di pasti a domicilio.

Come si intuisce non si tratta di un dettaglio, giacché la subordinazione costituisce il fondamento per l’attivazione delle tutele previste per il lavoratore in ordine alla costituzione del rapporto, alla sua durata, alla sua cessazione e al suo contenuto. La subordinazione è poi il presupposto per il riconoscimento di diritti concernenti la dimensione collettiva delle relazioni di lavoro, ovvero per beneficiare della disciplina delle libertà sindacali, del contratto collettivo e dello sciopero. Almeno fino a quando il legislatore non varerà una disciplina del lavoro capace di relativizzare la distinzione tra subordinazione e autonomia dal punto di vista della necessità di riequilibrare sempre e comunque la debolezza sociale attraverso la forza giuridica, o in alternativa le corti non si faranno carico di realizzare un simile obiettivo attraverso lo sviluppo di un approccio rimediale[9].

Va peraltro considerato che il riconoscimento della subordinazione non è di per sé risolutivo. Da tempo, infatti, la tutela individuale del lavoratore e la dimensione collettiva della sua condizione sono insidiate da chi mira a ridurre il rapporto di lavoro a una relazione di mercato qualsiasi. Lo si ricava in modo esemplare dalla nota vicenda che ha interessato l’art. 18 Statuto dei lavoratori: la disposizione secondo cui l’illegittimità del licenziamento veniva sanzionata con la reintegrazione del lavoratore, misura ora circoscritta a poche limitate ipotesi e per il resto sostituita da forme di tutela solo economica o indennitaria[10].

Altre insidie derivano dal tentativo di mascherare il rapporto di lavoro subordinato, di farlo apparire come rapporto di lavoro autonomo, come accade nell’ambito dell’economia on demand.

A ben vedere l’operazione non è semplicissima, dal momento che la qualificazione del rapporto di lavoro non dipende dalla sola volontà dei contraenti, o meglio da quanto viene imposto dalla parte forte alla parte debole del rapporto. La qualificazione spetta infatti al giudice, il quale la compie tenendo conto del contratto, ma anche e soprattutto della circostanza che la subordinazione “va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici comprovati dalle risultanze istruttorie… da valutarsi criticamente e complessivamente”[11]. Se così non fosse, la parte forte del rapporto, interessata alla sua qualificazione in termini di autonomo per evitare l’attivazione delle tutele altrimenti previste a beneficio della parte debole, potrebbe facilmente far leva sulla sua posizione per raggiungere il suo scopo.

Ovviamente la qualificazione del giudice non è libera, bensì vincolata alla verifica di ciò che la legge reputa costituire indizio di subordinazione: soprattutto il fatto di prestare “il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” (art. 2094 Codice civile). Precisamente:

Per la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è necessario che il lavoratore ponga le proprie energie lavorative a disposizione – entro l’orario di lavoro o comunque nei limiti temporali del contratto – del datore di lavoro, affinché questi le utilizzi secondo le proprie mutevoli esigenze, con poteri di intervento implicanti la possibilità di variazioni, ancorché nel rispetto della professionalità del lavoratore, dei compiti affidati al medesimo, il quale è tenuto non al raggiungimento di un determinato risultato, ma solo ad impiegare le proprie energie per il tempo previsto e secondo gli ordini via via ricevuti; sicché il fondamentale requisito della subordinazione si configura come vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di una assidua attività di vigilanza e di controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative e deve essere concretamente valutato con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al dipendente ed al modo della sua attuazione.

Qualora l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive, quale tratto tipico della subordinazione, non sia agevolmente apprezzabile e valutabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto, occorre far riferimento ad altri criteri, i quali, se individualmente sono privi di valore decisivo ed assumono importanza soltanto complementare e sussidiaria rispetto al cennato elemento fondamentale, ben possono essere globalmente valutati come indizi probatori da parte del giudice del merito; tali sono, oltre il nomen iuris adoperato dalle parti per qualificare il rapporto, la collaborazione sistematica e non occasionale; la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario predeterminato; il versamento, a cadenze prestabilite, di una retribuzione fissa; lo stabile inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa; la mancanza per il lavoratore di qualsiasi rischio economico[12].

Come abbiamo detto, il rapporto di lavoro tra piattaforme e prestatori di lavoretti è di norma qualificato come autonomo: almeno questo viene preteso dalle prime, che nel merito trascurano le istanze dei secondi, evidentemente interessati a beneficiare delle tutele previste in caso di subordinazione. Un interesse peraltro non tutelato in occasione di una recente decisione del Tribunale di Torino relativa alla posizione dei fattorini di Foodora[13], a cui si è esteso il trattamento riservato ai pony express fin dagli anni Novanta. Anche il pony express veniva considerato lavoratore autonomo perché non aveva l’obbligo di rispondere alle chiamate, e più precisamente per le seguenti caratteristiche:

l’utilizzo, per l’espletamento dell’incarico, di un mezzo di locomozione di proprietà… con oneri economici e di gestione a suo carico; l’autonomia decisionale nel quomodo e nel quando dell’itinerario da percorrere e delle consegne; il rischio d’impresa a carico del lavoratore, comprovato dall’assenza di compenso per l’impossibilità della prestazione in caso di mal funzionamento del mezzo di trasporto[14].

Eppure sono innumerevoli gli indizi che portano a qualificare il rapporto tra piattaforme e rider come rapporto subordinato, anche prescindendo da quanto osservano i giudici torinesi: che uno dei decreti legislativi attuativi del cosiddetto Jobs Act, nella parte in cui estende la fattispecie della subordinazione alle ipotesi di collaborazione “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” (art. 2 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81), ha persino individuato per la fattispecie in discorso “un ambito di applicazione più ristretto di quello dell’art. 2094 Codice civile”.

Il riconoscimento della subordinazione può far leva su una caratteristica non limitata cioè al settore della food delivery, bensì condivisa entro l’ambito dell’economia on demand: il ricorso a modalità di controllo e direzione del lavoratore particolarmente penetranti. Si sa infatti che le piattaforme utilizzano algoritmi per gestire ogni singolo aspetto del servizio offerto, inclusi evidentemente i rapporti con i fattorini. Ciò è innanzi tutto funzionale ad alimentare una sorta di taylorismo digitale[15], ovvero ad adattare all’economia on demand il meccanismo per cui, anche al fine di consentire il contenimento del costo del lavoro, le mansioni creative devono essere separate da quelle esecutive e trasformate in un insieme di attività elementari e ripetitive. Soprattutto l’algoritmo, come abbiamo detto, consente livelli di controllo e direzione della forza lavoro impensabili per l’economia tradizionale. Tanto che la scelta di chi far lavorare, in quale momento della giornata e con quale frequenza dipende in massima parte da una valutazione circa le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, e in tal senso delle qualità del lavoratore: premiato con ripetute chiamate se corrisponde alle aspettative della piattaforma, in caso contrario punito invece con uno scarso coinvolgimento. E al limite con la definitiva disconnessione, il corrispettivo del licenziamento, se la sua velocità di esecuzione, la disponibilità e il comportamento con i clienti non sono ritenute all’altezza degli standard definiti dalla piattaforma.

È questo uno dei principali caratteri identificativi di quanto si definisce non a caso in termini di capitalismo delle piattaforme, che non si limita a richiedere al lavoratore la fedeltà alla base delle relazioni tipiche dell’epoca fordista. Il taylorismo digitale è tale perché pretende “una muta esecuzione degli ordini che arrivano sotto forma di una serie di bit elaborati da un dispositivo digitale che il lavoratore deve avere sempre a portata di mano”[16].

 

3. La voucherizzazione del lavoro

I cosiddetti lavoretti sono dunque lavori subordinati, anzi con un livello di controllo ed eterodirezione a tratti persino superiore rispetto a quello relativo ai tradizionali rapporti di lavoro. Se si punta a mascherare questo aspetto, è solo per poter trarre vantaggio da una situazione nella quale si sottraggono diritti a soggetti che invece dovrebbero beneficiarne per bilanciare la loro situazione di cronica e strutturale debolezza sociale.

Si badi che al meccanismo descritto contribuiscono in modo determinante i clienti, chiamati a valutare il fattorino e con ciò a contribuire al mantenimento di un sistema di direzione e controllo dei lavoratori davvero penetrante. E magari fonte di discriminazioni, come avviene nel caso in cui le valutazioni, eventualmente fornite in forma anonima, si fondino su pregiudizi o facciano comunque leva su tratti identitari in qualche modo stigmatizzati dal cliente, e non sulla sola qualità e affidabilità del servizio. Per non dire delle situazioni in cui la valutazione negativa sia riconducibile a una percezione distorta di come si è svolto il servizio, o peggio alla volontà di calunniare o danneggiare il lavoratore[17].

L’economia on demand si fonda su un ampio ricorso ai sistemi reputazionali, e in particolare su forme di rating e feed back, motivo per cui non stiamo qui discutendo di un fenomeno marginale. Siamo cioè di fronte a pratiche costitutive del capitalismo delle piattaforme nella misura in cui concorrono in modo determinante all’edificazione di un ordine economico entro cui minimizzare sino ad azzerare la presenza della politica e dunque del diritto. Non solo il sistema di tutela dei lavoratori è disinnescato dal mascheramento del rapporto di subordinazione: lo stesso vale per la tutela del consumatore, rimpiazzata dal controllo reputazionale e dal relativo sistema di sanzioni sociali, e con ciò sottratta all’azione delle corti e delle autorità amministrative, a cui si impedisce così di interessarsi del funzionamento del mercato.

Insomma, l’economia on demand alimenta in modo decisivo ciò che abbiamo descritto in termini di riduzione della relazione di lavoro a una relazione di mercato qualsiasi. Sostiene insomma quanto si potrebbe chiamare la voucherizzazione di quella relazione: che si vuole tendenzialmente relativa al mero scambio di denaro contro prestazione manuale o intellettuale. Senza che questo scambio faccia sorgere obbligazioni accessorie di alcun tipo, o che sia comunque completata da previsioni concernenti il contenuto dell’accordo o il modo di instaurarlo e scioglierlo[18].

Eppure ci sarebbe una figura contrattuale utilizzabile per preservare da un lato il carattere della subordinazione e valorizzare dall’altro l’eterogeneità del fenomeno dei cosiddetti lavoretti[19], e in particolare le richieste di flessibilità temporale a vantaggio del datore di lavoro e persino del lavoratore: almeno di quelli interessati a entrare in una relazione in cui sia data la possibilità di scegliere davvero liberamente se, quando e quanto lavorare. Si potrebbe cioè ricorrere al contratto di lavoro intermittente, introdotto al principio degli anni Duemila[20], definito come “il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno”[21]. Il tutto senza garanzia di un impiego orario del lavoratore, fatta salva la possibilità di stabilire un obbligo di disponibilità per il quale il datore di lavoro deve corrispondere al lavoratore una indennità pari a una percentuale della retribuzione prevista. L’obbligo in discorso potrebbe però non essere previsto, il che mette in crisi un fondamento della decisione del Tribunale di Torino sui rider Foodora. Lì non si è ammessa la fattispecie della subordinazione in quanto essi “avevano la piena libertà di dare o meno la propria disponibilità”, ma come abbiamo appena visto ciò non comporta necessariamente l’inquadramento come lavoratore autonomo[22].

È vero che l’opposizione della Cgil ha impedito che i contratti collettivi disciplinassero il ricorso a questa figura, e tuttavia il legislatore ha stabilito che in loro mancanza “i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”: cosa che è avvenuta con un rinvio a un regio decreto dei primi anni Venti recante un ampio elenco di “occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia”, comprendente fra l’altro quella dei fattorini[23]. È comunque sempre possibile stipulare un contratto di lavoro intermittente per i lavoratori con meno di ventiquattro e più di cinquantacinque anni.

È peraltro evidente che il contratto di lavoro intermittente, pur consentendo il riconoscimento della subordinazione, espone a livelli davvero notevoli di flessibilità: “talmente elevata… da far dubitare della sua appartenenza alla categoria del lavoro subordinato”[24]. C’è però un’alternativa: il contratto collettivo nazionale di lavoro della logistica è stato recentemente esteso alla “distribuzione delle merci con cicli, ciclomotori e motocicli (cosiddetti rider)”[25]. A questi ultimi si applicheranno le coperture assicurative e previdenziali previste per quel comparto e in particolare per il “personale viaggiante”, con un limite di 39 ore settimanali di lavoro distribuite sino a un massimo di sei giorni, con la possibilità di un part time non inferiore alle dieci ore settimanali e due ore giornaliere, e di un regime di apprendistato per una durata non superiore a tre anni. Altri aspetti saranno affidati alla contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, e tra questi “il riconoscimento del buono pasto giornaliero, la definizione di un premio di risultato, gli aspetti relativi alla privacy in relazione all’utilizzo di strumenti telematici che rilevano la posizione del lavoratore e che non possono in alcun modo essere utilizzati ai fini disciplinari”.

Va peraltro ricordato che, dal lato della parte datoriale, i contratti collettivi nazionali di lavoro sono vincolanti solo se essa aderisce a un’associazione di categoria tra quelle che lo hanno sottoscritto. Da questo punto di vista, almeno nel settore della food delivery, nel quale si fanno particolarmente sentire gli effetti di un’assenza di regole, vi saranno così poche novità: Assodelivery, l’associazione di categoria cui hanno dato vita le imprese rappresentative del 90% di questo settore del mercato, non ha alcuna intenzione di riconoscere il carattere subordinato del rapporto di lavoro con i loro riders.

Il tutto mentre il legislatore sembra avere oramai abbandonato il proposito di intervenire per disciplinare aspetti centrali nella relazione di lavoro nell’economia on demand. Inizialmente aveva previsto, nell’articolato poi approvato e battezzato “decreto dignità”[26], alcune importanti disposizioni dedicate ai lavoratori delle piattaforme digitali, a partire da quella destinata a riconoscere il requisito della subordinazione:

È considerato prestatore di lavoro subordinato, ai sensi dell’art 2094 del codice civile, chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima e anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, dell’imprenditore, pure nei casi nei quali non vi sia la predeterminazione di un orario di lavoro e il prestatore sia libero di accettare la singola prestazione richiesta, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato della prestazione e se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia la propria ma del datore di lavoro.

È subordinata anche la prestazione di attività chiesta e remunerata direttamente da un terzo e resa personalmente nei suoi confronti qualora il datore di lavoro, anche per il tramite di programmi informatici o applicazioni digitali e a scopo di lucro, realizzi un’intermediazione tra lavoratore e terzo, altresì stabilendo o influenzando in modo determinante le condizioni e la remunerazione dello scambio. La natura subordinata resta ferma anche nell’ipotesi in cui il lavoratore renda la prestazione impiegando beni e strumenti nella propria disponibilità.

L’organizzazione fa capo al datore di lavoro qualora la prestazione di lavoro avvenga tramite piattaforme digitali, applicazioni e algoritmi elaborati dal datore di lavoro o per suo conto, a prescindere dalla titolarità degli strumenti attraverso cui è espletata la prestazione. Si considerano piattaforme digitali i programmi delle imprese che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, mettono in relazione a distanza per via elettronica le persone, per la vendita di un bene, la prestazione di un servizio, lo scambio o la condivisione di un bene o di un servizio, determinando le caratteristiche della prestazione del servizio che sarà fornito o del bene che sarà venduto e fissandone il prezzo[27].

La versione originaria del decreto dignità conteneva anche disposizioni in materia di trattamento economico minimo comprendenti un divieto di retribuzione a cottimo, così come disposizioni volte a prevenire un uso distorto degli “algoritmi per la assegnazione dei turni, la distribuzione delle occasioni di lavoro e dei luoghi di esecuzione delle prestazioni di lavoro, e per la valutazione delle prestazioni di lavoro eseguite”. Particolare importanza rivestiva inoltre il diritto alla disconnessione “per un periodo di almeno undici ore consecutive ogni ventiquattro ore, decorrenti dall’ultimo turno di disponibilità completato”, diritto volto a prevenire comportamenti delle piattaforme discriminatori nei confronti dei lavoratori indisponibili a rendersi reperibili senza limiti di tempo[28].

Ebbene, la volontà di tutelare i lavoratori ha ben presto lasciato il posto a una sostanziale inerzia, quella che traspare dalla decisione di affidarsi al raggiungimento di accordi tra organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro, e dunque di fare affidamento alla soft law: fonte del tutto inadatta a produrre accettabili forme di tutela in contesti, come quelli tipici dell’economia on demand, caratterizzati da una forte disparità quanto a potere contrattuale delle parti in causa.

È quanto si ricava considerando la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano, adottata dal Comune di Bologna di concerto con le organizzazioni sindacali di lavoratori e datori di lavoro. La Carta non si esprime sul tema della subordinazione, puntando a “migliorare le condizioni di lavoro di tutti i lavoratori a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto”. Di qui la previsione di alcuni diritti del lavoratore di notevole portata, come in particolare: il diritto a “un’informativa preventiva e completa” sui termini della relazione, inclusi quelli concernenti il “rating reputazionale”, il diritto a “un compenso equo e dignitoso”, il diritto “alla salute e sicurezza”, il diritto alla disconnessione, e il diritto all’organizzazione sindacale e al “conflitto”.

Forse la scelta di non enfatizzare la qualificazione del rapporto di lavoro, e di concentrarsi invece sul riconoscimento di alcuni specifici diritti, può produrre qualche risultato: certo non all’altezza di quelli riconducibili al riconoscimento della subordinazione, ma ciò nonostante di una certa rilevanza. Il problema è però nella scelta dello strumento normativo, che richiede la necessità che i diritti menzionati dalla Carta siano riconosciuti dalle piattaforme per gentile concessione. E proprio questo non è successo e non sembra certo possa succedere in un futuro non troppo distante: al momento ha adottato la Carta una società italiana davvero poco rappresentativa del settore, mentre dalle multinazionali che lo dominano sono giunti solo segnali negativi.

 

4. L’illusione di un’Europa sociale

La debolezza dell’impianto che caratterizza la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale discende anche dalla condivisione della filosofia di fondo che caratterizza le politiche europee in materia di lavoro, cui del resto si rinvia attraverso la menzione di numerosi documenti prodotti a Bruxelles.

La prima menzione è per il Pilastro europeo dei diritti sociali, recentemente sottoscritto dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione[29]. È indubbiamente un testo attento ai diritti dei lavoratori, sebbene concepiti in parte per produrre pacificazione sociale e cooperazione con la controparte datoriale. Purtroppo, però, presenta i medesimi limiti di tutte le disposizioni che si occupano di Europa sociale. Il testo chiarisce infatti che “non comporta un ampliamento delle competenze dell’Unione quali definite nei Trattati”, dove le politiche sociali e occupazionali sono di norma affidate agli Stati, con il livello europeo incaricato tutt’al più di operare un mero coordinamento. In linea con questo schema si aggiunge che non viene intaccata “la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale”, e soprattutto il loro “equilibrio finanziario”: i diritti sociali, diversamente dai diritti funzionali allo sviluppo del mercato unico, devono essere osservati e non anche rispettati, ovvero attuati solo quando le misure a tal fine necessarie sono economicamente sostenibili, ovviamente dal punto di vista neoliberale[30]. Anche per questo il Parlamento europeo ha espresso il timore che il Pilastro europeo dei diritti sociali sia null’altro che “dichiarazione di principi e di buone intenzioni”[31].

Detto ciò, la Carta di Bologna richiama del Pilastro soprattutto le disposizioni che si occupano di coniugare flessibilità e sicurezza, dove per un verso si parla di diritto “a un trattamento equo e paritario per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l’accesso alla protezione sociale”, ma per un altro si afferma che “è garantita ai datori di lavoro la necessaria flessibilità per adattarsi rapidamente ai cambiamenti del contesto economico”, e si precisa che “l’imprenditorialità e il lavoro autonomo sono incoraggiati”. Di qui ulteriori motivi per dubitare dell’utilità di un richiamo al diritto europeo come punto di riferimento per sviluppare forme accettabili di tutela dei lavoratori della gig economy.

Poco significativo anche il richiamo contenuto nella Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale a una recente comunicazione della Commissione in tema di economia collaborativa[32]. Lì ci si limita a constatare che nella gig economy la distinzione tra lavoratore autonomo e subordinato appare “meno netta”, e a richiamare i criteri utilizzati dal diritto europeo in sede di disciplina della circolazione dei lavoratori: materia nella quale si pone evidentemente il problema di identificare l’area del lavoro subordinato. Di qui la precisazione che, a tal fine, “il prestatore di servizi deve agire sotto la direzione della piattaforma di collaborazione”, la quale “determina la scelta dell’attività, la retribuzione e le condizioni di lavoro”. Certo, si tratta di indicazioni da cui possono derivare benefici per i lavoratori dell’economia on demand, e tuttavia ci troviamo di fronte a quanto la comunicazione qualifica in termini di “orientamenti non vincolanti”, quindi, ancora una volta, a fonti di soft law. Orientamenti che, comunque, difficilmente avrebbero indotto la corte torinese a rinunciare alla qualificazione dei rider Foodora quali lavoratori autonomi.

Va infine detto del richiamo alla proposta di direttiva “relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili”, formulata per rivisitare la vigente disciplina europea “sull’obbligo del datore di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto di lavoro”[33] alla luce della constatazione che “le nuove forme di lavoro subordinato non sono regolari o stabili come i rapporti di lavoro tradizionali”[34]. Qui si osserva opportunamente che il differente modo di intendere il concetto di subordinazione nei Paesi membri pregiudica la posizione di “un numero crescente di lavoratori in forme di lavoro subordinato non standard, come… i lavoratori tramite piattaforma digitale”. E tuttavia non si risolve il problema con la definizione proposta: il lavoratore subordinato è la “persona fisica che per un certo periodo di tempo fornisce prestazioni a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima in cambio di una retribuzione”: è una definizione ricorrente anche negli ordinamenti in cui i lavoratori on demand sono stati qualificati come autonomi.

Ma non è tutto. In un recente documento dedicato dalla Commissione al futuro della dimensione sociale dell’Unione europea, si precisa che quest’ultima è “strettamente legata alle sue ambizioni economiche”, motivo per cui “la forza lavoro deve far fronte al ritmo accelerato dei cambiamenti, tanto per acquisire nuove competenze, quanto per adattarsi a nuovi modelli commerciali o a nuove preferenze dei consumatori”. Di qui l’opportunità di assecondare “l’emergere di modelli di lavoro e condizioni di lavoro sempre più vari e irregolari che mettono fine alla prospettiva di una carriera tradizionale”[35].

Insomma, i riferimenti all’Europa sociale così come prefigurata da Bruxelles sono a ben vedere una truffa lessicale, esattamente come la formula da cui traggono fondamento: quella riassunta nell’espressione “economia sociale di mercato”, ora solennemente richiamata dal Trattato sull’Unione europea in sede di elencazione dei suoi obiettivi (art. 3), e da ultimo ripresa anche nel Pilastro europeo dei diritti sociali.

Ebbene, la formula venne coniata in area tedesca alla conclusione del secondo conflitto mondiale nell’ambito di una vera e propria operazione di marketing politico volta a sostenere la diffusione del pensiero neoliberale, e in tale ambito è stata scelta ad arte per trarre in inganno. Il riferimento al sociale, infatti, non prelude all’edificazione di una sorta di capitalismo dal volto umano, bensì rispecchia il convincimento che il mercato in quanto tale sia un’istituzione sociale: molto più dello Stato. Con la conseguenza che la redistribuzione della ricchezza deve essere affidata al libero incontro di domanda e offerta, e non anche all’azione dei pubblici poteri impegnati a difendere la persona dal funzionamento del meccanismo concorrenziale. E ciò equivale a dire che l’inclusione sociale coincide con l’inclusione nel mercato, che modalità alternative di redistribuzione della ricchezza possono svilupparsi solo fuori dai suoi confini, e magari solo nella misura necessaria e sufficiente a sterilizzare il conflitto redistributivo[36].

 

5. La fidelizzazione del lavoro: il futuro è un ritorno al passato

Quest’ultimo aspetto, ovvero la costruzione di un ambiente pacificato e cooperativo funzionale a un’efficiente interazione di capitale e lavoro, viene valorizzato da quanto potremmo definire in termini di diritto europeo della crisi: l’insieme delle misure adottate per fronteggiare la cosiddetta crisi dei debiti sovrani, notoriamente provocata dalla volontà di socializzare le perdite riconducibili al dissesto del sistema creditizio[37].

Il diritto della crisi non si ritrova nei Trattati o in altre disposizioni formalmente poste a fondamento della costituzione economica europea[38]. Si è formato nel tempo in applicazione del principio secondo cui l’assistenza finanziaria dell’Unione agli Stati membri, di norma vietata per attribuire ai mercati la funzione di forza disciplinante il comportamento dei pubblici poteri, è ammessa se necessaria a “salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme”. L’assistenza deve essere tuttavia “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 Trattato sul funzionamento Ue), il che è avvenuto secondo uno schema oramai consolidato: si sono diminuite le uscite comprimendo la spesa sociale e si sono nel contempo incrementate le entrate attraverso programmi di privatizzazioni e liberalizzazioni, in quest’ultimo caso nel solco di assunti tutti ideologici[39].

Si segnalano poi alcune condizionalità rilevanti ai nostri fini, perché riguardano direttamente la relazione di lavoro e il mercato del lavoro. Quanto alla relazione, si distinguono le misure destinate a ridurla una relazione di mercato qualsiasi: ovvero a svalutarla, flessibilizzarla e precarizzarla, in altre parole a voucherizzarla. Tra le condizionalità concernenti il mercato del lavoro spiccano invece quelle volte a limitare il potere dei sindacati dei lavoratori. È questo il senso dell’indicazione secondo cui occorre consentire agli accordi a livello di singola impresa, dove il sindacato è più debole, di derogare agli accordi conclusi a livello centrale, dove possiede invece maggiore forza contrattuale. Da notare poi gli impegni a incentivare la partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa, misura capace di indurre pacificazione sociale e collaborazione tra capitale e lavoro: come osservato da un padre dell’economia sociale di mercato, chi “risponde con il proprio patrimonio, che partecipa alle perdite e agli utili, ha legami psicologici con il mercato, con le sue necessità e le sue indicazioni”[40].

A ben vedere la creazione di un ambiente pacificato e collaborativo ben può essere annoverata tra le finalità delle riforme che da qualche tempo caratterizzano il sistema della sicurezza sociale. Intendiamo le riforme che hanno promosso lo sviluppo del cosiddetto welfare aziendale o occupazionale, e in particolare di quello negoziato: l’insieme dei beni, dei servizi e delle prestazioni la cui erogazione viene decisa in sede di contrattazione collettiva di primo o di secondo livello, sovente in sostituzione di un incremento salariale. La tipologia di questi beni, servizi e prestazioni è la più varia, e riguarda sia ambiti interessati dal sistema dei diritti sociali come la sanità e la previdenza, sia ambiti meno implicanti dal punto di vista della valenza costituzionale delle porzioni di welfare di volta in volta considerate: come nel caso dei buoni pasto, del trasporto casa-lavoro, delle attività ricreative, dell’assistenza a familiari o delle agevolazioni creditizie, per citare solo alcuni esempi tratti da una casistica davvero ampia e variegata[41]. Il tutto incentivato attraverso un sistema di agevolazioni fiscali e contributive che ha ampliato le deroghe al principio della totale tassabilità dei redditi da lavoro, ovvero di “tutte le somme ed i valori in genere a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”[42]. A partire dalla legge di stabilità per il 2016, infatti, si sono estesi al welfare aziendale negoziato i benefici fiscali previsti per quello su base volontaria, e si è inoltre stabilito che i premi di risultato sono convertibili in misure di welfare: con ciò ulteriormente incentivando la contrattazione di secondo livello e dunque l’indebolimento del sindacato[43].

Il welfare aziendale rappresenta un problema innanzi tutto perché alimenta il moto verso lo smantellamento del welfare universale, se non altro in quanto si alimenta necessariamente di servizi e prestazioni forniti da soggetti privati[44]. Di qui il nesso con lo sviluppo della sanità e della previdenza integrativa, e in genere del cosiddetto secondo welfare, la cui misura dipende a questo punto anche dall’esito della contrattazione ed è pertanto variabile: di qui l’idea di welfare à la carte. Il tutto nonostante le premesse, ovvero l’assicurazione che il secondo welfare non avrebbe determinato una contrazione del primo, quello universalistico. Il che è invece puntualmente accaduto in particolare negli ultimi anni, come risposta alle ristrettezze di bilancio imposte dalle misure austeritarie imposte dal livello europeo.

Non solo. Il welfare aziendale finisce per assicurare livelli accettabili di sicurezza sociale ai soli cittadini che rivestono lo status di lavoratori. Che dunque sono indotti a comportarsi in modo collaborativo per non perdere, con il lavoro, anche i beni e i servizi la cui erogazione il welfare universale delega sempre più al welfare aziendale: anche in tal senso quest’ultimo genera “benefici in termini di fidelizzazione e condivisione dell’apparato valoriale dell’imprenditore da parte dei propri dipendenti”[45].

Tutto ciò prefigura un futuro che ha il sapore di un passato lontano. Riporta cioè agli anni in cui si sviluppa un primo embrione europeo di welfare come risposta al fallimento delle misure adottate in area tedesca per reprimere con la forza il movimento dei lavoratori. In particolare le misure previste da una legge degli anni Settanta dell’Ottocento significativamente intitolata “contro le aspirazioni socialmente pericolose della Socialdemocrazia”[46], che non sortirono l’effetto sperato: finirono anzi per incrementare i sentimenti di solidarietà verso i suoi esponenti e dunque il loro successo politico.

Di qui una comunicazione imperiale di poco successiva, in cui si riconosceva che “la riparazione dei danni sociali non si dovrà perseguire esclusivamente attraverso la repressione dei tumulti socialdemocratici, bensì anche attraverso il sostegno attivo al benessere dei lavoratori”[47]. Sostegno che si concretizzò nella nascita dello Stato sociale prussiano, e in particolare nel varo di un’assicurazione obbligatoria per le malattie, gli infortuni, l’invalidità e la vecchiaia finanziata con soldi pubblici e con i contributi dei datori di lavoro e dei lavoratori[48]. Il tutto nel solco di quanto si era sperimentato presso le acciaierie Krupp, che avevano istituito una cassa malattie, significativamente finanziata dalle sanzioni pecuniarie inflitte ai lavoratori infedeli, concepita come contropartita per la rinuncia alla lotta politica[49].

Peraltro il sapore ottocentesco non caratterizza solo il welfare à la carte, essendo anche una prerogativa del lavoro digitale in quanto lavoro alla spina così come lo abbiamo tratteggiato lungo queste pagine: sottoposto a forme di controllo continuo e penetrante, caratterizzato da ritmi intensi e dalla confusione con la vita privata, svalutato e precarizzato[50]. A conferma che il superamento del Novecento, tanto auspicato dai sacerdoti dell’ortodossia neoliberale, è a ben vedere un drammatico ritorno all’Ottocento.


NOTE
[1] Cfr. la sintesi online: Workers on tap (30 dicembre 2014), www.economist.com/leaders/2014/12/30/workers-on-tap.
[2] A. Somma, Per il lavoro, con i tassisti contro Uber (25 febbraio 2017), http://temi.repubblica.it/micromega-online/per-il-lavoro-con-i-tassisti-contro-uber.
[3] Cfr. G. Smorto, La tutela del contraente debole nella platform economy, in “Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali”, n. 40, 2018, pp. 425 s.
[4] Cfr. www.mturk.com.
[5] L. Orioli, Il portale del lavoro “democratico” per tutti (26 ottobre 2012), www.panorama.it/economia/il-portale-del-lavoro-democratico-per-tutti-amazon-mechanical-turk.
[6] Cfr. U. Huws et al., Work in the European Gig Economy, 2017, www.uni-europa.org/wp-content/uploads/2017/11/europeagigeconomy-longversionpdf.pdf.
[7] https://deliveroo.it/it/apply.
[8] Esemplificativo uno studio condotto negli Stati Uniti, nel quale si documenta come i guadagni mensili medi dei lavoratori delle piattaforme nel settore dei trasporti si siano più che dimezzati tra il 2013 e il 2017: cfr. JP Morgan Chase Institute, The Online Platform Economy in 2018 (settembre 2018), www.jpmorganchase.com/corporate/institute/document/institute-ope-2018.pdf, p. 14.
[9] Per tutti T. Treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavori della gig economy, in “Lavoro e diritto”, n. 31, pp. 367 ss.
[10] Per effetto prima della legge 28 giugno 92 n. 2012 (cosiddetta Legge Fornero), e poi del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23, che ha introdotto la figura del contratto a tutele crescenti.
[11] Cass. civile, 10 luglio 2015 n. 14434.
[12] Cass. civile 10 giugno 1998 n. 5792.
[13] Trib. Torino, 7 maggio 2018 n. 778. Nello stesso senso Trib. Milano, 10 settembre 2018 n. 1853 in ordine all’inquadramento di un lavoratore di Foodinho (Glovo).
[14] Cass. civile, 20 gennaio 2011 n. 1238. Al proposito M. Barbera, Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale, fra differenziazione e universalismo delle tutele, in “Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali”, n. 40, 2018, p. 416.
[15] M. Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, Roma, Bari 2017, p. 34.
[16] B. Vecchi, Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, Castel San Pietro Romano 2017, p. 81.
[17] Per tutti G. Smorto, Reputazione, fiducia e mercati, in “Europa e diritto privato”, n. 29. 2016, pp. 209 ss.
[18] Il riferimento è al lavoro occasionale di cui all’art. 54bis legge 21 giugno 2017 n. 96, provvedimento che ha sostituito, senza però innovazioni di rilievo, il lavoro tramite voucher prima disciplinato dagli artt. 48-50 decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 (abrogati con il decreto legge 17 marzo 2017 n. 25, convertito nella legge 20 aprile 2017 n. 49, per evitare un referendum promosso dalla Cgil).
[19] Su cui per tutti V. De Stefano, Lavoro su piattaforma e lavoro non-standard in prospettiva internazionale e comparata (5 maggio 2017), www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---europe/---ro-geneva/---ilo-rome/documents/publication/wcms_552802.pdf.
[20] Con il decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, in attuazione della legge 14 febbraio 2003 n. 30 (cosiddetta Legge Biagi).
[21] Art. 13 decreto legislativo 2015 n. 81.
[22] Cfr. A. Lassandari, La tutela collettiva del lavoro nelle piattaforme digitali, in “Labour law issues”, n. 4, 2018, p. xii.
[23] Regio decreto 6 dicembre 1923 n. 2657, richiamato dal decreto del Ministero del lavoro del 23 ottobre 2004.
[24] R. Del Punta, Diritto del lavoro, 10. ed., Giuffrè, Milano 2018, p. 744.
[25] Così un accordo datato 18 luglio 2018 con il quale si applica ai rider l’accordo del 3 dicembre 2017 relativo alla “logistica, trasporto merci, spedizioni”.
[26] Decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni nella legge 9 agosto 2018 n. 96.
[27] La versione del “decreto dignità” contenente queste disposizioni, poi cancellate, si trova ad es. qui: www.rivistalabor.it/wp-content/uploads/2018/06/Norme-in-materia-di-lavoro-subordinato-anche-tramite-piattaforme-digitali-applicazioni-e-algoritmi.pdf.
[28] Cfr. F. Coin e M. Marrone, Luci e ombre del lavoro digitale, in “Economia e società regionale”, n. 17, pp. 32 ss.
[29] Nel corso del Vertice sociale per l’occupazione equa e la crescita tenutosi il 17 novembre 2017 a Göteborg.
[30] Cfr. A. Somma, Il diritto del lavoro dopo i Trenta gloriosi, in “Lavoro e diritto”, n. 32, 2018, pp. 315 s.
[31] Risoluzione del 19 gennaio 2017, P8_TA-PROV/2017/0010.
[32] Comunicazione “Un’agenda per l’economia collaborativa” del 2 giugno 2016, Com/2016/356 def.
[33] Direttiva 91/533/Cee del 14 ottobre 1991.
[34] Proposta di direttiva del 21 dicembre 2017, Com/2017/797 def.
[35] Documento del 26 aprile 2017, Com/2017/206 def.
[36] Cfr. A. Somma, Economia sociale di mercato e scontro tra capitalismi, in “Diritto pubblico comparato ed europeo”, n. 6, 2015, pp. 107 ss., www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/view/47/42.
[37] Volontà tradottasi in incentivi allo sviluppo del capitalismo delle piattaforme: ad es. N. Srnicek, Platform Capitalism, Polity Press, Cambridge 2017, pp. 26 ss.
[38] F. Losurdo, Stabilità e crescita da Maasticht al Fiscal compact, in “Cultura giuridica e diritto vivente”, n. 2, 2015, pp. 111 s.
[39] Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 284 ss.
[40] F. Böhm, Das wirtschaftliche Mitbestimmungsrecht der Arbeiter im Betrieb, in “Ordo”, n. 4, 1951, p. 242.
[41] Per tutti T. Treu, Welfare e benefit, in Id. (a cura di), Welfare aziendale, Ipsoa, Milanofiori Assago 2013, pp. 9 ss.
[42] Art. 51 Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986 (Testo unico delle imposte sui redditi).
[43] Per tutti W. Chiaromonte, M.L. Vallauri, Trasformazione dello Stato sociale ed ascesa del welfare aziendale, in Id. (a cura di), Modelli ed esperienze di welfare aziendale, Giappichelli, Torio 2018, pp. 20 ss.
[44] Fenomeno da tempo evidenziato soprattutto in ambito sanitario: cfr. E. Pavolini et al., Verso un sistema multi-pilastro in sanità?, in E. Pavolini, U. Ascoli, M.L. Mirabile (a cura di), Tempi moderni, Il Mulino, Bologna 2013, p. 115 ss.
[45] W. Chiaromonte, M.L. Vallauri, Trasformazione dello Stato sociale, cit., p. 34.
[46] Gesetz gegen die gemeingefährlichen Bestrebungen der Sozialdemokratie del 21 ottobre 1878.
[47] Kaiserliche Botschaft del 17 novembre 1881, riprodotta ad es. in Th. Blanke et al., (a cura di), Kollektives Arbeitsrecht, vol. 1, Rowohlt, Reinbeck bei Hamburg, 1975, pp. 77 s.
[48] Ad es. G. Erdmann, Die Entstehung der deutschen Sozialgesetzgebung, Musterschmidt. Göttingen 1957, pp. 10 ss.
[49] J. Boeckh et al., Sozialpolitik in Deutschland, 4. ed., Springer VS, Wiesbaden, 2017, p. 31.
[50] Per tutti R. Ciccarelli, Forza lavoro, DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 23 ss.
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