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Pietro Ichino e l’idea corporativa del sindacato

di Simone Fana e Lorenzo Zamponi

In una lettera al nuovo segretario della Cgil, l'ex senatore del Pd propone un'unità nazionale corporativa per la competitività globale. Una faccia nazionalista del neoliberismo che nega l'antagonismo tra lavoratori e imprenditori

ichino jacobin italia 990x361Pochi giorni dopo l’elezione di Maurizio Landini a segretario generale della Cgil, l’ex senatore del Partito Democratico Pietro Ichino gli ha rivolto una lettera aperta, sul sito economico LaVoce.info. Il tema evocato da Ichino è quello dell’unità sindacale, citata da Landini nelle conclusioni al congresso. Ma si tratta di un pretesto per chiarire al nuovo segretario generale che l’establishment liberal italiano non gli perdona il recente passato battagliero, e lo aspetta al varco, invitandolo pacatamente e serenamente a omologarsi a un’idea di sindacato pacificato e addomesticato. Secondo l’ex senatore, «la Cgil ha bisogno di una correzione» e la lettera ne indica la direzione: un nuovo corporativismo aggiornato all’epoca della globalizzazione, in cui qualsiasi conflitto tra capitale e lavoro è rimosso in nome della competitività dell’Italia nel mercato internazionale, e l’interesse dei lavoratori dev’essere sacrificato all’interesse nazionale, che coincide con quello delle imprese. Un corto circuito solo apparentemente paradossale, quello tra neoliberismo globale e corporativismo nazionalista: la logica della competitività serve proprio a questo, a schiacciare gli interessi di classe in nome del supremo interesse nazionale ad attrarre capitali livellando verso il basso i diritti dei lavoratori.

 

Un sindacato da “correggere”

La lettera di Ichino inizia fondamentalmente chiedendo a Landini di cospargersi il capo di cenere per le battaglie portate avanti negli 8 anni passati alla guida della Fiom. Il primo consiglio è quello di lasciar perdere qualsiasi velleità di confronto con la politica, dedicandosi solo alla contrattazione in senso stretto.

«La Cgil, in diversi suoi comparti, ha anch’essa bisogno di una correzione in questo senso – segnala l’ex senatore –. Il consiglio è di tornare al linguaggio pacato e pragmatico proprio del sindacalismo migliore, rinunciando alla polemica da pari a pari contro questo o quel partito, o esponente politico: il compito del sindacato è un altro».

Perché il sindacato dev’essere meno politico e più “contrattualista”, secondo Ichino? L’ex senatore lo spiega alla fine, nell’ultimo paragrafo della lettera, quando sostiene che, per aumentare «la competitività nel mercato globale degli investimenti» (tema ricorrente, ci torneremo), serve affidare «alla contrattazione collettiva, il ruolo di regolatore principale dei rapporti di lavoro». Ichino, insomma, vuole un sindacato che non si confronta con la politica perché vuole che la politica resti fuori dal mondo del lavoro: «Questo implica – continua il giuslavorista – che si mandi in soffitta la preferenza che una parte del movimento sindacale ancora oggi più o meno apertamente nutre per l’intervento legislativo rispetto alla contrattazione: preferenza radicata nell’idea che anche il sindacato, come il singolo lavoratore, sia una parte necessariamente debole nei rapporti di forza negoziali e perciò bisognosa dell’intervento protettivo del legislatore».

Lo scenario tratteggiato è quello di un sindacato attore economico neutro, che contratta magari il salario (pur negli stretti limiti che vedremo dopo) ma non esce mai dai ristretti confini del luogo di lavoro. Una certa allergia nei confronti della regolazione per legge dei rapporti di lavoro, in nome della priorità alla contrattazione, non è estranea alla cultura sindacale: pensiamo alla storica opposizione nei confronti delle proposte di salario minimo. Ma negli ultimi anni sia la Cgil sia alcuni sindacati di base si sono mossi in senso opposto: dalla Carta dei diritti, al reddito fino alla scuola, non si erano mai viste così tante proposte di legge di iniziativa popolare arrivare dal sindacato. Ed è probabile che l’obiettivo di Ichino fosse il cosiddetto “decreto dignità” varato dal governo Conte l’estate scorsa: un provvedimento moderatissimo, rispetto alle promesse iniziali, ma che torna alla regolazione del mercato del lavoro da parte dello stato. All’epoca la Cgil commentò che si trattava di «misure interessanti e condivisibili» ma prive di «coraggio nell’affrontare, attraverso un intervento organico, un profondo ridisegno delle regole del mercato del lavoro». Dev’essere stata l’eventualità (per quanto remota) che Di Maio metta mano a quel “profondo ridisegno” ad aver spaventato Ichino.

Il richiamo alla superiorità della contrattazione, tra l’altro, arriva dopo aver richiesto a Landini «un riconoscimento esplicito da parte della Cgil dell’errore commesso a Pomigliano d’Arco e a Mirafiori nel 2010», quando la Fiat di Sergio Marchionne chiese proprio di poter derogare al contratto nazionale, in cambio di nuovi investimenti. Solo una sentenza della Corte Costituzionale, a proposito di regolazione per legge, permise alla Fiom di rientrare nelle rappresentanze dei lavoratori Fiat. Insomma, più che la contraddizione tra legge e contrattazione, sembra che a Ichino interessi depotenziare entrambe, in nome della fine del conflitto tra capitale e lavoro.

 

Il corporativismo del XXI secolo

Il modello di sindacato proposto dall’ex senatore, infatti, si basa esplicitamente su questo: la negazione del conflitto di classe e la proposta di una nuova unità nazionale corporativa in nome della competitività globale.

Per Ichino «non ha senso parlare di unità sindacale se non sulla base della convinzione comune che lavoratori e imprenditori non sono forze per loro natura antagoniste: al contrario, non possono neppure esistere gli uni senza gli altri; e condividono l’interesse comune alla massima efficienza delle aziende, quindi anche a favorire i piani industriali più innovativi». Il compito del sindacato non è dunque quello di tutelare l’interesse dei lavoratori, dato che questo non esiste in sé, bensì coincide con l’obiettivo dell’efficienza aziendale: «il sindacato del XXI secolo deve essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori capace di guidarli nella valutazione dei nuovi piani industriali e dell’affidabilità di chi li propone». L’ex senatore propone una visione paradisiaca della globalizzazione, in cui i lavoratori sono messi davanti a continue proposte di investimento da parte di imprenditori di tutto il mondo, possono scegliere la migliore (chiaramente non in base ai propri interessi, che come abbiamo visto non esistono, ma al supremo interesse dell’efficienza aziendale), e poi contrattare col proponente, da qualsiasi parte provenga: «Se la valutazione è positiva, deve saperli guidare nella negoziazione a 360 gradi della scommessa comune con la controparte, da qualsiasi parte del mondo provenga: oggi è interesse vitale dei lavoratori mettere il più possibile gli imprenditori indigeni in concorrenza nel mercato del lavoro con i migliori imprenditori provenienti dal restante 99 per cento del pianeta».

Chiaramente perché ciò avvenga, perché si realizzi questo paradiso della globalizzazione neoliberista, perché capitali di tutto il mondo facciano a gara con quelli autoctoni, c’è una precondizione: serve «rendere il nostro paese attrattivo per il maggior numero possibile di imprese multinazionali». La medaglia neoliberista si trova paradossalmente ad avere una faccia nazionalista: se l’obiettivo dei lavoratori è l’efficienza aziendale, se questa si raggiunge mettendo in concorrenza tra di loro gli imprenditori di tutto il mondo, e se questa concorrenza si produce solo quando tanti vogliono investire in Italia, allora serve che l’Italia, come luogo di produzione, sia “attrattivo” per i capitali esteri.

Al sindacato Ichino propone un nuovo corporativismo, una nuova unità nazionale che schiaccia gli interessi dei lavoratori in una “scommessa comune”, stavolta non con l’impresa nazionale, come nel caso del vecchio corporativismo del Novecento, ma con il capitale in sé, da qualsiasi parte venga, e con l’Italia stessa, luogo di produzione da rimodellare e riadattare per essere il più competitivo e attrattivo possibile.

 

La protezione nel mercato

Non poteva mancare nel repertorio del giuslavorista milanese l’affondo contro la natura assistenziale del welfare state italiano e sull’incapacità del sindacato di misurarsi con una concezione moderna dello stato sociale. Ichino rispolvera per l’occasione gli argomenti tradizionali della dottrina neoliberista, di cui è divenuto nel tempo un fervido sostenitore. La parola d’ordine è smantellare quel vecchio retaggio del Novecento chiamato “stato sociale”. Il sindacato deve smetterla di rivendicare sussidi contro i periodi di disoccupazione, gli ammortizzatori sociali in caso di crisi aziendale, misure di sostegno al reddito, ma deve proteggere i lavoratori e le lavoratrici nel mercato del lavoro. Il ragionamento è quello comune alle élite liberali del vecchio continente: la presenza di sussidi contro la disoccupazione potrebbe disincentivare la ricerca attiva del lavoro, spingendo il lavoratore ad adagiarsi sulla piccola “rendita” erogata dallo stato. L’obiettivo deve essere quello, invece, di rendere la forza lavoro pienamente disponibile agli impieghi che le imprese – unico soggetto legittimato a creare lavoro – offrono. Il mercato del lavoro viene visto, quindi, come spazio neutrale, privo in sé di asperità e conflitti, garante ultimo della perfetta allocazione delle risorse. Un piano di ragionamento che comprende anche il rapporto tra salari e occupazione. Bisogna combattere la tendenza delle organizzazioni sindacali a rivendicare livelli salariali incompatibili con le soglie di produttività imposte dal mercato. Solo comprimendo il ruolo del sindacato nella contrattazione dei salari sarà possibile aumentare l’occupazione e combattere la precarietà. Non importa per Ichino che queste stesse argomentazioni siano all’origine delle politiche deflattive e di contenimento salariale che hanno generato crescente impoverimento di ampi strati del lavoro pubblico e privato, senza lenire il fardello della disoccupazione.

Per far funzionare a dovere le leggi della domanda e dell’offerta – continua Ichino – il sindacato deve spostare il proprio baricentro dalla tutela assistenziale al ruolo di intellettuale collettivo, funzionale a formare i propri iscritti per consentirgli di acquisire quel “capitale umano” sufficiente a rispondere alla dinamicità del mercato del lavoro. In questo crescendo di prese di posizione ideologiche, vendute come verità incontestabili, Ichino arriva anche a citare Bruno Trentin e il riferimento al diritto soggettivo alla formazione. Qui Ichino incorre in una banalizzazione teorica non degna di un accademico di fama, rovesciando l’analisi trentiniana iscritta nella cultura critica del marxismo italiano (seppur dentro una vicenda intellettuale tutt’altro che lineare), in uno slogan pubblicitario. Non è questa la sede per restituire la varietà degli spunti teorici che Bruno Trentin ha lasciato in eredità al movimento sindacale italiano. Tuttavia, è necessario quantomeno ricordare che in Trentin il diritto soggettivo alla formazione non era visto in contrapposizione alle prestazioni sociali che lo stato deve garantire ai lavoratori, come invece viene ripetuto da Ichino. Il diritto a una formazione permanente lungo tutto l’arco della vita doveva diventare uno strumento da consegnare ai lavoratori e alle lavoratrici per governare l’organizzazione del lavoro, per estendere il potere di controllo sugli investimenti, sulla gestione dei turni, sulla determinazione della produttività. Era il passaggio da sfruttati a produttori, non il patto tra produttori. Era il riconoscimento della natura intrinsecamente conflittuale del rapporto di lavoro, che è rapporto di forza tra due soggetti che scontano una differente dotazione di potere.

 

Le sfide del sindacato

I consigli non richiesti di Ichino a Maurizio Landini sollevano vari aspetti con cui il sindacato si dovrà misurare nei prossimi anni. La lettera dell’ex parlamentare del Partito democratico si presenta come uno specchio rovesciato, che consente di focalizzare i punti di analisi e cambiarne contemporaneamente la prospettiva. Il più grande sindacato italiano si troverà davanti una sfida enorme: riportare ampie fasce di lavoratori e lavoratrici a credere nel ruolo di trasformazione sociale delle organizzazioni sindacali. Compito impervio in una congiuntura storica segnata dall’individualizzazione dei rapporti di lavoro e dalle profonde trasformazioni che hanno interessato la composizione tecnica e politica del lavoro. Su questo occorre soffermarsi. La ristrutturazione capitalistica successiva alla grande crisi del 2007/2008 ha portato a compimento tendenze che si erano palesate a cavallo degli anni Novanta e Duemila. Tra queste occorre ricordare un intenso processo di terziarizzazione dell’economia italiana che ha comportato uno slittamento della forza lavoro dai settori industriali a segmenti poveri del mercato del lavoro, dentro un declino inarrestabile del tessuto produttivo del paese, e alla crescita della cosiddetta gig economy (“economia dei lavoretti”). Questo passaggio ha avuto implicazioni rilevanti nell’organizzazione del lavoro, comportando il ricorso alla frammentazione dei cicli di produzione e alla disarticolazione delle strutture tradizionali della contrattazione sindacale. Un modello di produzione che coinvolge le imprese e la pubblica amministrazione, i lavoratori alle dipendenze di aziende private e una fascia non residuale di lavoro pubblico.

Uno scenario dove si inseriscono i grandi monopoli dell’e-commerce e dei servizi logistici, che imprimono una costante ristrutturazione ai processi produttivi. Il ruolo di questi nuovi attori dell’economia mondiale è caratterizzato dall’uso politico delle innovazioni tecnologiche, che divengono uno strumento di comando illimitato nell’organizzazione del lavoro, palesando un aspetto spesso dimenticato, ovvero che la tecnologia non è mai un terreno neutro.

Se la frammentazione e competizione interna al mondo del lavoro rappresenta la fotografia più fedele delle trasformazioni nell’organizzazione della produzione, il riflesso politico di queste tendenze è rilevabile nella crescita del lavoro povero e nella permanenza di ampie fasce di disoccupazione. Il tasso di disoccupazione è il terzo più alto dell’area Ocse, mentre l’andamento dei salari e del livello di produttività del lavoro è inferiore da un decennio a quello delle economie più avanzate. Se si va poi a leggere la composizione qualitativa dell’occupazione italiana si vede che nel nostro paese la perdita di posti di lavoro e di salario si concentra prevalentemente nella pubblica amministrazione. Un’eredità delle politiche di austerità che si ripercuote sui livelli salariali di intere generazioni e sulla qualità dei servizi pubblici. Dati che possono apparire in contraddizione con un’altra statistica che riguarda le ore lavorate per addetto. In questa speciale classifica l’Italia si posiziona prima di Francia e Germania. Se le ore lavorate nel 2017 erano 1.713 in media all’anno in Italia, in Germania il dato è 1.356 e in Francia 1.514. Una contraddizione solo apparente. Infatti, la durata dell’orario di lavoro e l’andamento del salario sono due componenti che dipendono dai rapporti di forza che si affermano dentro e fuori i luoghi di lavoro. Ed è per questa ragione che la rivendicazione di una riduzione dell’orario di lavoro assume un significato politico solo se avviene a parità di salario, solo se capace di spostare il terreno della contrattazione sindacale sulla qualità dello sviluppo e sulla direzione degli investimenti. In questo quadro l’assunzione di una nuova politica contrattuale diviene uno strumento fondamentale per l’azione sindacale solo se orientata alla ricomposizione del lavoro oltre il perimetro tradizionale del rapporto dipendente. In questo spazio di convergenza tra l’azione contrattuale e l’iniziativa legislativa si può aprire una nuova fase di protagonismo del sindacato italiano. Dentro questa strategia di collegamento tra la funzione rivendicativa nell’organizzazione del lavoro con una piattaforma generale che si estenda alle politiche economiche e di difesa di un welfare pubblico e universale si gioca il futuro della Cgil. Si gioca qui l’autonomia del sindacato a cui fa riferimento Maurizio Landini. Nel riconoscimento di essere un soggetto di parte, di una parte frammentata e divisa che ha un disperato bisogno di unità, di un nuovo rapporto tra teoria e prassi. Una parte che da qui vuole trasformare il tutto, con buona pace di Ichino.


*Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. ed è autore di Tempo Rubato (Imprimatur, 2018). Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
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