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manifesto

Il piano inclinato dei salari e la «politica dei redditi»

Aldo Barba e Giancarlo De Vivo

sciopero2Sarebbe paradossale se tutto il recente discutere sui bassi salari che affliggono i lavoratori italiani si risolvesse in un ulteriore passo sulla strada che dalla fine degli anni '70 ha visto la loro con-dizione economica e sociale muoversi costantemente e significativamente verso il basso. Eppure, questo rischia di essere l'esito della «riforma» della contrattazione che Confindustria, il ministro Damiano, Cisl, Uil e almeno una parte della Cgil sembrano voler adottare. Tale riforma infatti prevede, nelle parole del ministro, che «il contratto nazionale... sul piano salariale deve recuperare le perdite provocate dall'inflazione», mentre attraverso la contrattazione aziendale «una parte della produttività dev'essere distribuita ai salari e non solo trattenuta dalle imprese» (Il Manifesto, 3 novembre 2007). A questa linea fanno un battage continuo editorialisti dei più diffusi quotidiani italiani - «economisti in servizio permanente effettivo», li ha chiamati Eugenio Scalfari. Alla Confindustria non pare vero, e dichiara urgente la riforma della contrattazione.

Se questa riforma passasse, i lavoratori dovrebbero lottare per il contratto nazionale al solo fine di cercare di ottenere quello che con la scala mobile avevano senza muovere un dito.

Si consoliderebbe così anche formalmente il meccanismo che dall'inizio degli anni '80 ha provocato una caduta della quota dei salari sul reddito di quasi 10 punti (includendovi anche le pensioni, che una volta si chiamavano giustamente «salario differito», non rendite»), por-tandoci alla situazione che oggi molti sembrano deprecare. Infatti se con i contratti nazionali al massimo si recupera l'inflazione, e con quelli aziendali si deve lottare per dividersi gli aumenti di produttività, vuol dire che i salari al massimo aumenteranno quanto la produttività. Non solo quindi non recupereranno nulla del terreno perduto sul piano della distribuzione del reddito, ma conti-nueranno a perdere, perché non è affatto scontato che a livello aziendale si otterranno aumenti salariali uguali a quelli della pro-duttività, e inoltre dalla contrattazione di questo cosiddetto «salario di produttività» verrà escluso (secondo la stessa Confindustria) almeno il 30% dei lavoratori dipendenti dell'industria, che lavorano in imprese dove la contrattazione aziendale è ignota.

Va forse ricordato che far crescere i salari quanto la produttività non vuol dire attribuire ad essi l'intero aumento del prodotto, ma solo dividere tale aumento nelle stesse proporzioni in cui il prodotto veniva diviso prima: quando i salari crescono come la produttività, la quota dei salari sul prodotto si mantiene costante. Se si passasse da una situazione in cui si produceva 100, con salari in totale pari a 50 (50% del prodotto), ad una situazione in cui, raddoppiata la produttività, gli stessi lavoratori producessero 200, e pure i salari raddoppiassero salendo a 100, la loro quota resterebbe il 50%. E' per questo che quando all'inizio degli anni '60 la Confindustria di Angelo Costa premeva perché si accettasse la «politica dei redditi», che voleva i salari crescenti come la produttività, a una tale «regola» di crescita salariale ci fu una forte opposizione, perché la si vedeva come un modo per negare al lavoro la possibilità di miglioramenti nella distribuzione del reddito. La «riforma» della contrattazione che i sindacati sembrano oggi in buona misura accettare, nel caso più favorevole ai lavoratori consentirebbe appena di congelare l'assai sperequata distribuzione del reddito di questi anni, i cui effetti negativi, anche sullo sviluppo, sono ormai evidenti a tutti (ed erano in fondo proprio questi effetti sullo sviluppo che preoccupavano Draghi).

Un effetto dell'enorme ricchezza accumulata negli ultimi 25 anni dai percettori di rendite e profitti è l'enorme aumento del loro potere. Non si tratta infatti solo dell'uso che di questa ricchezza fanno per accrescere consumi superflui mentre le condizioni di vita dei lavoratori ristagnano, ma del potere, che questa ricchezza genera, di ricreare e rafforzare le condizioni che rendono possibile il mantenimento dello status quo: si pensi ad esempio alla creazione di canali privilegiati di accesso all'istruzione e all'informazione, e parallelamente all'uso sempre più ampio delle «armi di persuasione di massa». In fondo Berlusconi è solo l'aspetto più eclatante di un sistema di controllo sociale che arriva ad agire ad un livello così capillare che quasi niente si può realizzare, nemmeno una rappresentazione teatrale o una ricerca, se non c'è l'approvazione di un ricco sponsor. Ci sembra che questo sistema - accoppiato al progressivo restringimento degli spazi pubblici - in buona misura spieghi quell'accer-chiamento anche ideologico dei lavoratori, che caratterizza oggi la società italiana (e non solo italiana).

 

Post Scriptum

Su «IlSole24Ore» del 25 novembre, Luca Paolazzi, direttore del centro studi di Confindustria, attacca chi come noi ha sostenuto (Il Manifesto, 2 novembre) che la distribuzione del reddito si è spostata notevolmente a sfavore del lavoro. Paolazzi può torturare le cifre quanto gli pare, ma la realtà è che dopo il 1975-80 in ogni singolo quinquennio la crescita dei salari industriali è stata sempre inferiore (e in alcuni quinquenni molto inferiore) alla crescita della produttività. La sola eccezione, se eccezione si può chiamare, è nell'ultimo quinquennio, in cui la variazione della produttività è crollata sotto zero, scendendo così al di sotto di un tasso di variazione dei salari a stento positivo. In questa situazione, spingersi a negare che in Italia ci sia una «questione salariale» è un po' troppo. Perfino per la Confindustria.

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