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manifesto

Materiali d'uso per il passaggio a Nord

di Sergio Bologna

operai02Il grande assente rimane il lavoro, o meglio quali siano i rapporti tra capitale e forza-lavoro in un universo produttivo che vede presenti knowledge workers e working poor. La questione settentrionale è il tema dell'ultimo annale della Fondazione Feltrinelli. Un'ampia e interessante rassegna di saggi su una composita realtà segnata dalla crisi della grande industria

La «questione settentrionale» è un falso problema? E' un modo per non voler affrontare la «questione Italia»? I saggi raccolti nell'ultimo degli Annali della Fondazione Feltrinelli (La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, a cura di Giuseppe Berta, pp. 465) sembrano insinuare questo dubbio e a ragione.

Chiariscono subito, attraverso l'autointervista di Luciano Cafagna, che la locuzione risale agli anni Cinquanta ed aveva un significato ben diverso da quello che ha acquistato agli inizi degli anni Novanta con l'emergere del fenomeno leghista. Era stata usata nel gruppo che stava attorno ad Adriano Olivetti e alla rivista «Ragionamenti» (Roberto Guiducci, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Franco Fortini) per indicare un modo di affrontare la realtà diverso dallo storicismo crociano e fortemente incardinato sulla cultura industriale, sull'approccio sociologico, insomma sui rapporti di produzione più che sulle questioni istituzionali.

Quando il termine «questione settentrionale» viene ripreso agli inizi degli anni Novanta ha tutto un altro significato. È il modo in cui l'establishment repubblicano, in allarme per la spinta secessionista della Lega, cerca di esorcizzare le profonde trasformazioni che hanno alterato l'assetto economico e sociale del paese e reso obsoleto il vecchio sistema dei partiti. Bossi e poi Berlusconi sono l'anomalìa, sono l'offesa all'ordine costituito, il Nord à la malattia dell'Italia. E da qui inizia quel percorso suicida di delegittimazione e demonizzazione dell'avversario che porta a non mettere mai in discussione se stessi né a chiedersi mai cosa sia accaduto nella società italiana che ha portato all'esaurirsi dei valori della Costituzione del '48.


L'ascesa della media impresa


Per fortuna gli Annali Feltrinelli non ripercorrono questo sentiero, hanno il merito di tornare alla prima accezione di «questione settentrionale», concentrandosi sui rapporti di produzione, certo non in senso marxista ma almeno nella scelta di un filone interpretativo, di una chiave euristica: le trasformazioni dell'impresa, la crisi della grande impresa industriale, l'affermazione della media impresa e di tutte le sue varianti, l'impresa a rete, la filiera di imprese, il sistema distrettuale, la microimpresa, la terziarizzazione, l'outsourcing fino al «capitalismo personale», incarnato da quell'imprenditore pedemontano caro ad Aldo Bonomi (presente in questo Annale con un saggio-fiume di circa 100 pagine).

Grande impresa significa per esempio Fiat e Olivetti, settore dell'auto e settore dell'informatica, Torino e l'eporediese, significa non soltanto poteri che a lungo hanno condizionato la vita economica e politica italiana ma anche culture che si sono radicate e hanno dominato le stagioni più nobili della borghesia imprenditoriale italiana. Ma significa anche, per simmetria, storia del movimento operaio, del comunismo e del sindacato, che nel misurarsi con quelle culture, con quelle realtà, hanno acquistato una fisionomia da cui non sono riuscite in parte più a svincolarsi. I saggi di Giampaolo Vitali, Fabio Lavista, Aldo Enrietti, Paolo Bricco, Fulvio Coltorti ripercorrono le tappe della crisi di questi grandi sistemi industriali e della trasformazione degli assetti produttivi, dimostrando tra l'altro, in maniera convincente, che la fine della grande industria non s'identifica con l'eclisse del sistema manifatturiero, anzi. L'Italia del Nord - ma non solo, anche l'Italia centrale - conservano infatti potenti e articolati sistemi manifatturieri organizzati attorno a quel protagonista dinamico che è la media impresa, finanziariamente solida, con tassi di profitto superiori a quelli medi della grande impresa, agile nel sapersi muovere nel bailamme dei mercati, forte nella meccanica oltre che nel made in Italy. I numeri delle esportazioni del 2007 non lasciano dubbi al proposito.


L'orizzonte dell'open source


Per capire veramente che razza di trasformazioni sono avvenute e quali scelte di politica industriale debbano essere compiute per mantenere lo slancio della parte più «sana» del capitalismo italiano, per avere un criterio di giudizio, occorre mettere a fuoco il significato del termine innovazione. Il saggio di Antonelli, Patrucco, Quatraro («Transizioni tecnologiche e modelli economici») dedicato a questa problematica può essere considerato in un certo senso l'anima del volume, quindi merita un attimo d'attenzione.
La sequenza è lineare: il passaggio da una società industriale a una società dei servizi non significa deindustrializzazione e basta, significa anche che l'industria si concentra sulle funzione terziarie ad elevato contenuto di conoscenza, perciò il knowledge management diventa strategico. Al tempo stesso una società che dalla manifattura passa al terziario perde slancio, la produttività scende, «la domanda aggregata subisce un'evidente contrazione con effetti depressivi a livello aggregato che le politiche monetarie non possono contrastare, visto che il problema nasce nelle caratteristiche delle nuove tecnologie produttive e non nei mercati finanziari», come scrivono i nostri autori. Il modello d'innovazione affermatosi nell'ultimo ventennio è quello incarnato dalle tecnologie digitali, ancora insufficientemente applicate nel nostro sistema d'impresa, secondo gli autori. Dunque per mantenere lo slancio della parte più «sana» del capitalismo italiano e trainare anche quella meno dinamica, secondo gli autori di questo volume occorre incentivare la diffusione in profondità di queste tecnologie, utilizzando, se è necessario rompere certe resistenze, le prospettive dell'open source. Una ricetta sulla quale è lecito sollevare dei dubbi, perché non tiene conto sufficientemente del fatto che il mercato dei sistemi informatici è un mercato oligopolistico, cioè un non-mercato.


L'assenza del lavoro


Nel settore delle business application, dominato da colossi come Sap, Oracle e pochi altri e caratterizzato da una corsa impressionante alle fusioni e alle concentrazioni («comprare una società oggi costa meno che ai tempi della bolla di Internet», ha dichiarato il Presidente di Oracle, Charles Phillips, recentemente), la possibilità che una media impresa ha di «scegliersi» le proprie soluzioni sono quasi nulle. Vent'anni di esperienza come consulente in uno dei settori a più alto consumo di prodotti informatici, com'è il settore della logistica, mi hanno permesso di toccare con mano la crescente rigidità di un mercato dominato dall'offerta, tema ricorrente con preoccupazione nelle riviste specializzate. Tanto maggiore diventa il potere dei grandi vendors quanto più fitta è la rete di relazioni cui le imprese debbono accedere. Ma quel che conta più di tutto è il fatto che le business application proposte dai grandi vendors diventano sempre più strumenti di riorganizzazione delle gerarchie e delle funzioni interne, cioè strumenti di politica del personale. È quindi lo stile dei rapporti con i dipendenti, il clima che s'instaura all'interno della forza lavoro, il vero terreno sul quale si gioca l'utilizzo o meno, il buono o cattivo utilizzo, delle nuove tecnologie. Si ritorna quindi al grande problema che questo pur ricco e interessante volume degli Annali non sfiora nemmeno: i rapporti tra capitale e forza lavoro.


Una scelta di disciplina


Torniamo alla media impresa e magari al capitalismo pedemontano di Bonomi. Quanto guadagna in media un dipendente? Quali sono le stratificazioni salariali interne? Qual è il livello di qualificazione/scolarizzazione della forza lavoro? Qual è il turnover? Qual è il salario d'ingresso? Qual'è la posizione della donna nell'organigramma aziendale? Quante sono le ore straordinarie in media all'anno? A chi viene riconosciuto lo straordinario e a chi no? Qual è il tasso di assenteismo? Con quale ritmo aumenta l'incidenza dei lavori «atipici»? Quali sono le funzioni esternalizzate e che incidenza hanno sul costo della forza lavoro? Insomma, la forza lavoro di questa benedetta media impresa che fisionomia ha? Nelle circa cento pagine che Bonomi dedica al postfordismo all'italiana non c'è un numero che sia uno sulla forza lavoro. E allora, se non parliamo di lavoro che stiamo a discutere di «questione settentrionale»? Dove stanno i ceti medi? Saranno mica solo gli imprenditori gli unici cittadini di questo Nord? E i working poors, ce li siamo inventati? E i lavoratori della conoscenza? Vorremmo almeno un numero, uno, per capire la loro incidenza nella media impresa competitiva. Se poi questi dati non ci sono, com'è possibile, o non sono ordinati, sono ingestibili, è ancora peggio. E se oggi nelle aziende italiane, anzi, in generale, se nei luoghi di lavoro dovesse regnare il più piatto conformismo, la disciplina ottenuta non da un gesto gerarchico ma dalla spontanea sottomissione, come moltissime testimonianze ormai ci dicono, quali prospettive può avere l'innovazione?


Rigide gerarchie


La rivoluzione informatica negli Stati Uniti è stata possibile perché le dot.com hanno scelto modelli organizzativi d'ispirazione libertaria, è stata possibile quando sono cambiati i rapporti tra le persone. Porre la «questione settentrionale» significa chiedersi se c'è democrazia nei luoghi di lavoro. E se questa democrazia non ci fosse più, perché ormai il servile ossequio all'ordine aziendale è la norma, sarebbe un'offesa più grave ai valori della Costituzione che le sparate di un Bossi o gli interessi di un Berlusconi. Sottrarsi a questi interrogativi non è più possibile. Una volta i nostri storici, economisti, sociologi, politologi erano capaci di parlare sia di grande impresa che dei suoi tecnici e operai, trattavano con eguale dimestichezza di capitale e di lavoro, possibile che oggi siano capaci di parlare soltanto di capitale? Mi auguro quindi che Giuseppe Berta si metta subito all'opera per preparare un secondo tomo de «la questione settentrionale» dedicato alle varie e mutevoli forme del lavoro. Se non lo farà o altri per lui non lo faranno, la «questione settentrionale» continuerà ad essere appannaggio dei venditori di fumo e la grande lezione dei Panzieri, dei Guiducci, dei Momigliano, dei Pizzorno, che questo volume ha giustamente richiamato alla memoria, rischierà di essere dimenticata ancora un volta.

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