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Fine del lavoro come la fine della storia?

di Sergio Bologna

Parte I

Storia lavoro veneto rifEra il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, quando Francis Fukuyama abbozzava su una rivista la sua teoria della fine della storia, quella che avrebbe poi esplicitato nel libro, dallo stesso titolo, che lo ha reso famoso, pubblicato nel 1992. Tre anni dopo Jeremy Rifkin pubblicava il suo “La fine del lavoro”.

Sollecitato da un vecchio compagno, ho letto alcuni pezzi di un dibattito riguardante il lavoro che ha percorso le pagine de “Il Manifesto” all’inizio dell’estate 2019. Vi ho trovato molte somiglianze con discorsi che sono circolati largamente altrove, più o meno nello stesso periodo, per esempio nelle iniziative della Fondazione Feltrinelli con il ciclo di conferenze-dibattito dal titolo Jobless Society. L’idea che il lavoro sia destinato a sparire con l’automazione o che sia già scomparso per lasciare il posto a non so quali altre cervellotiche forme di rapporti sociali mi ha riportato alla memoria le teorie di Fukuyama o, meglio, l’interpretazione volgare e banale che di quelle teorie è stata data, perché Fukuyama era molto meno stupido dei suoi fans e intendeva per fine della storia il processo di modernizzazione concluso.

Ora, se noi interpretiamo il salto tecnologico in atto (digitalizzazione, IoT, blockchain ecc.) come un processo di modernizzazione, può andar bene, anzi è persino banale, ma se pretendiamo di qualificarlo come un processo concluso o come una frontiera oltre la quale non c’è più nulla, cadiamo nel ridicolo.

Innanzitutto dobbiamo esigere da coloro che parlano di lavoro di essere espliciti su un punto: si sta parlando del lavoro come generica attività umana o di lavoro per conto di terzi in cambio di mezzi di sussistenza? Si parla di lavoro come espressione di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri talenti, o si parla di lavoro salariato, cioé retribuito da un soggetto terzo?

Le due forme possono stare insieme ma possono anche divergere (per Marx sono strutturalmente divergenti). A mio avviso appartengono a due sfere del discorso completamente differenti e quindi ritengo che abbia senso parlare di lavoro solo quando esso presenta una problematicità, una criticità. Il libro di Rifkin, nel quale si preconizzava un aumento esponenziale della disoccupazione tecnologica, terminava facendo appello, per far fronte alla crisi, alla riduzione dell’orario di lavoro ed all’estensione del terzo settore. Non occorre dire che negli anni che ci separano dal 1995 ad oggi non si è assistito ad un fenomeno di riduzione degli orari di lavoro ma semmai ad un prolungamento generale della giornata lavorativa, causato soprattutto dall’estensione di lavori “non standard” non tutelati sindacalmente e dalla diffusione del lavoro autonomo. Per quanto concerne il terzo settore non credo che valga la pena ricordare che esso si nutre sostanzialmente di volontariato, poggia su salari generalmente bassi, su finanziamenti che sono donazioni private o erogazioni di risorse pubbliche. Cioè è un settore fuori mercato.

Quando parliamo di lavoro i nostri discorsi hanno senso se parliamo di mercato. L’automazione ed i fenomeni ad essa collegati hanno origine nel mercato, nascono con l’esigenza di ridurre il costo del lavoro, si spiegano con l’accumulazione capitalistica più che con l’innovazione tecnica e la fantasia degli ingegneri infornatici. E’ inutile che Rifkin continui a parlarci di disoccupazione creata da logiche di mercato e poi pretenda di convincerci che la via d’uscita è fuori dal mercato. Non è un caso che oltre alla riduzione dell’orario di lavoro e di terzo settore egli parli di reddito di cittadinanza, anche se non lo chiama proprio così. Quindi in sostanza evita di parlare delle contraddizioni insite nel rapporto di lavoro salariato oppure, quando ne parla, vedi riduzione del tempo di lavoro, viene smentito dalla realtà. E’ quindi davvero scoraggiante che venticinque anni dopo la comparsa delle teorie di questi signori ci sia qualcuno che ancora si attarda a ripetere le stesse cose, malamente. Jobless Society? Andate a raccontarlo a un rider, a un cameriere di Riccione, a un autonomo, a una donna delle pulizie, a un medico del pronto soccorso, a un marinaio su una portacontainer, a un pilota di Ryanair…

Riprendiamo dunque il discorso dal lavoro come attività conto terzi, dal lavoro salariato, dal lavoro come merce scambiata su un mercato, se sia alienato o meno ora non c’interessa. Non si può parlare di “lavoro” senza parlare di “condizione lavorativa”, cioè di parametri spazio-temporali in cui un’attività lavorativa si esercita. Parliamo delle contraddizioni della condizione lavorativa, parliamo di cose concrete, dei fenomeni che stanno sotto i nostri occhi, come l’applicazione dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi e distributivi, alle abitudini di consumo, alla comunicazione e all’informazione. Non è forse questa che produce la disoccupazione tecnologica? E’ il lavoro per conto di terzi a contenere in sé il maggior numero di contraddizioni. Dunque questa è la forma di lavoro che c’interessa, perché vogliamo affrontare le sue contraddizioni reali, materiali, storiche, oggettive, quelle che viviamo sulla nostra pelle. Non c’interessa parlare di lavoro come oggetto di speculazione, lasciamo volentieri questo esercizio ai perdigiorno perché il lavoro per conto di terzi è intrattabile con l’astrazione, sfugge alle pretese del filosofo e sopporta male anche le ingerenze del sociologo, l’unica condizione nella quale rivela la sua natura è la condizione del conflitto.

Non è possibile parlare di lavoro conto terzi senza evocare il conflitto e il negoziato. Non è possibile parlare di lavoro conto terzi senza riconoscere che esso è il fondamento delle diseguaglianze. Le diseguaglianze si possono lenire coi pannicelli caldi della carità cristiana o del volontariato laico ma si possono superare solo con il conflitto. Perché la storia insegna che solo dopo un conflitto la macchina statale si mette in moto per escogitare forme di riduzione delle diseguaglianze. Dopo un conflitto può iniziare un negoziato e se il tentativo di negoziato si blocca perché trova delle resistenze, solo il conflitto può superarle.

Osservata da questo punto di vista, difficilmente la modernizzazione (di cui la rivoluzione digitale è parte) può conciliarsi con la fine del lavoro. Finché esisterà un solo uomo sulla terra la cui esistenza dipende da una retribuzione ottenuta in cambio di una sua energia vitale prestata a terzi, il termine “lavoro” avrà la sua piena valenza.

 

Il feticcio dell’art. 18

Non meno imbelle delle sue pensate pseudofilosofiche è stata la pratica di quella sinistra che pretende di essere alternativa al capitalismo. Un esempio per tutti, il modo in cui ha affrontato il discorso sull’art. 18 o, per meglio dire, l’abrogazione dell’art. 18 da parte del Jobs Act. Ne ha fatto una bandiera, della difesa dell’art. 18, una specie di linea Maginot lungo la quale ha schierato le sue truppe. Senza accorgersi che l’art. 18 era un puro feticcio. Dal 1980 in poi, da quel tragico ottobre segnato dalla sconfitta alla Fiat, al 2015 quanti sono stati i lavoratori licenziati? Centinaia di migliaia. L’art. 18 quindi può aver arginato la voglia di rivincita di una classe padronale, ha certamente arginato lo smantellamento di certe industrie, ma non ha affatto impedito che il capitale effettuasse senza ostacoli tutte le ristrutturazioni che ha ritenuto necessario fare. Se fosse stato vero che l’art. 18 era una baluardo contro i licenziamenti, nel momento in cui è stato abolito avrebbe dovuto verificarsi una catastrofe occupazionale in Italia. Invece non è successo niente di simile. Noi ci siamo illusi di vivere in un sistema garantista, questo ha contribuito tra l’altro ad abbassare la guardia. ”C’è la Costituzione” dicevamo. Invece anche quella, anche il suo art. 1, venivano giorno dopo giorno messi fuori corso. Non avevamo capito negli Anni 90 che vivevamo in un’altra “costituzione materiale”. Ingenui, certo. Ma chi non l’ha capito ancora nel 2016, nel 2019, non può essere classificato come ingenuo, è un imbecille e basta. E gli imbecilli, com’è noto, fanno più danni degli avversari. Vigente l’art.18 siamo riusciti in Italia ad avere i salari più bassi d’Europa, le forme di flessibilizzazione del lavoro più estreme, com’è possibile se il nostro sistema fosse stato veramente garantista? L’art. 18 dunque era un feticcio e purtroppo lo è anche la Costituzione. Non si tratta di difenderli, si tratta di ricominciare daccapo, consapevoli che le condizioni in cui si trovano oggi le nuove generazioni nel nostro Paese per quanto riguarda quel rapporto sociale fondamentale che è il rapporto di lavoro sono le più fragili se messe a confronto con quelle di altri paesi. L’esodo di massa del lavoro intellettuale ne è una dimostrazione evidente.

 

I limiti della regolazione

In questa situazione di squilibrio di potere tra prestatori d’opera e datori di lavoro è comprensibile che molte aspettative vengano riposte nella regolazione o nelle politiche attive del lavoro. Quando le tutele vengono affidate a una regolazione sappiamo bene che il rispetto delle medesime viene affidato a un corpo di funzionari (i magistrati) ed alla loro discrezionalità nell’interpretare le norme della regolazione. Il prestatore d’opera resta un soggetto passivo, la sua condizione dipende da terzi. Quando entrano in gioco le politiche attive del lavoro nel migliore dei casi esse facilitano l’occupabilità dei soggetti e rimediano in parte al grave squilibrio tra qualità della domanda e qualità dell’offerta di lavoro (il cosiddetto mismatch). Indirettamente agiscono come elemento collaterale delle tutele ma possono essere anche – se mal congegnate – un fattore di ulteriore debolezza del prestatore d’opera o di alcuni segmenti del mercato del lavoro rispetto ad altri che ne possono risultare avvantaggiati. Restiamo sempre in ambiti nei quali il soggetto titolare del rapporto di lavoro resta un soggetto passivo.

Gli interventi di regolazione che si sono succeduti dal 1997 in poi, anno del cosiddetto “pacchetto Treu”, si sono concentrati principalmente sulla durata del contratto di lavoro ed hanno sedimentato la convinzione che il problema centrale sia quello della precarizzazione o della flessibilizzazione, dando luogo a una tendenza della regolazione ad escogitare sempre nuove forme di flessibilità e, solo di recente, a tentare di condizionare le punte estreme della precarizzazione con provvedimenti che vorrebbero riportare l’ago della bilancia a favore del prestatore d’opera, limitando la discrezionalità del datore di lavoro. In questo senso si sono indirizzate le iniziative legislative del governo Renzi con il “contratto a tutele crescenti” e quelle del primo governo Conte con il decreto “Dignità”. I dati emersi nel corso del convegno che Assolavoro, l’Associazione delle agenzie di lavoro interinale, ha tenuto al CNEL il 28 marzo 2019, hanno mostrato come ambedue queste misure di regolazione siano fallite (https://www.youtube.com/watch?v=B2qNJ1hqlis&list=PLrqFbO4n-NYXGap2sebkkaEz-zjabFu9M). I contratti a tutele crescenti sono in forte calo, gli stessi rapporti di lavoro interinali sono in forte calo, aumentano soltanto le forme con un livello minimo o inesistente di tutele. Sembra cioè che, una volta avviato un processo di flessibilizzazione della forza lavoro con misure legislative questo non possa essere più arrestato da contromisure. Una china irreversibile. Anche se si dovessero mettere in cantiere delle politiche attive del lavoro ragionevoli, rendendo efficienti i centri per l’impiego, si potrebbe forse migliorare il famoso mismatch ma scarse, a mio avviso, sarebbero le possibilità di rendere il rapporto di lavoro un rapporto negoziabile. Perché oggi questo rapporto è a discrezione totale del datore di lavoro.

 

Se protesto non lavoro più”

Vorrei chiedere a tutti quei giovani impegnati in attività che richiedono formazione intellettuale e tecnica, i quali spesso lavorano in maniera intermittente ma non necessariamente, quindi quei giovani che riescono a sbarcare il lunario e a pieno titolo possono dirsi “occupati” anche se non hanno dei contratti a tempo indeterminato ma sono vincolati a contratti di collaborazione, contratti a termine, lavorano con partita Iva ma comunque lavorano – ecco a questi giovani vorrei chiedere: “E’ vero che se protestate o mettete in discussione alcune condizioni di lavoro rischiate di non lavorare più?” Sono certo che la stragrande maggioranza mi risponderebbe di sì. Ma ho il sospetto che anche molti di coloro che godono invece di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, posti di fronte alla medesima domanda, risponderebbero che la loro posizione all’interno del luogo di lavoro diventerebbe più critica se osassero protestare. Salvo che la protesta o la rivendicazione venisse avanzata non dal singolo individualmente ma da un gruppo consistente di dipendenti.

Questo dunque è il punto chiave della condizione lavorativa oggi in Italia per le nuove generazioni. Questa è la condizione insopportabile, destinata a peggiorare sempre più. Non è quella dell’occupabilità, non è una condizione modificabile con politiche attive del lavoro ed è rimediabile con la regolazione solo in astratto, teoricamente, nei fatti anche la regolazione non può farci niente. Perché?

Perché la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro rende strutturalmente isolati i lavoratori, si sentono soli, percepiscono nettamente che la loro è una condizione identica a quella degli altri colleghi ma la percezione di questo “destino collettivo” non dà minimamente la sensazione di appartenere a un collettivo, continuano a sentirsi soli e trovano momenti di solidarietà e condivisione soltanto quando si lamentano della loro condizione. Non scatta mai quel senso di solidarietà di gruppo che consente di agire con minore senso del rischio.

Prima di condannare moralisticamente questi comportamenti come fanno tanti vecchi compagni che ricordano davanti a una bottiglia di vino i loro scioperi, i loro sit in e le loro occupazioni di edifici pubblici, cerchiamo di entrare meglio in questi meccanismi.

 

Una galassia di mercati del lavoro ristretti

Non è certo una novità affermare che il sistema postfordista ha fatto “esplodere” il lavoro in una miriade di tanti “lavori”. Ciascuno di essi si muove in un ambito suo proprio, in un mercato (o mercatino) indipendente all’interno del quale vigono delle regole non scritte ma non per questo meno stringenti. All’interno di ciascun “mercatino” valgono determinati prezzi, determinate tariffe, funzionano determinati circuiti di reclutamento, regnano consuetudini che il novellino deve apprendere in fretta se vuole cavarsela. Tutto si regge su un sistema di regole non scritte dove i rapporti di lavoro sono mediati da rapporti personali, individuali. I contratti di lavoro sono spesso sostituiti da un semplice mail (“Le confermo che la Sua collaborazione avrà inizio ecc.”), dove il committente ha cura di scrivere il meno possibile, sia in termini di situazione lavorativa (luogo, orario), sia in termini di retribuzione. E’ un “giro” ristretto, quindi un sistema nel quale se una persona viene sanzionata per un suo comportamento anomalo, soprattutto per un suo gesto di rifiuto di certe condizioni di lavoro o per un gesto di protesta, buttarlo fuori dal “giro” con un semplice passaparola può essere uno scherzo da ragazzi. Sono regole e comportamenti che dovremmo definire similmafiosi. La regolamentazione, per esempio il ricorso alla magistratura, non offre un supporto credibile, anche perché raramente il lavoratore accumula crediti importanti presso il committente. Si tratta di genere di cifre per le quali non vale la pena rischiare la causa di lavoro.

Bisogna far saltare questo sistema, non ci sono alternative. Ci vuole coraggio, ci vuole qualcuno che compia un gesto individuale ma solo se ha la certezza che dietro ha un minimo di struttura in grado di comunicare il suo gesto e di farlo diventare virale. Nel fordismo era all’ordine del giorno sia la ribellione, anche individuale, che il licenziamento seguito dall’ostracismo. Ma il mercato del lavoro era un “mercatone”, un posto lo trovavi sempre, il passaparola del padrone aveva un raggio d’azione limitato. I “mercatini” di oggi sono dei ghetti. Quando si è tentato di rimediare istituendo delle piattaforme pubbliche, dove domanda e offerta di lavoro s’incontravano per via telematica, ci si è accorti rapidamente di aver creato strumenti che peggioravano, non miglioravano la situazione, perché diventavano rapidamente delle aste al ribasso.

 

La svalutazione delle competenze e dell’esperienza

Nei primi anni del postfordismo, quando ci fu una ventata d’entusiasmo per il lavoro autonomo ad alto contenuto professionale, era convinzione diffusa che la competenza e soprattutto l’esperienza erano risorse di capitale umano in grado di conferire potere contrattuale al soggetto. Anche oggi il buonsenso ci dice che è tutto interesse sia dell’azienda privata che dell’amministrazione pubblica disporre di risorse umane con competenza ed esperienza. Esse sono un valore, un capitale. Invece dobbiamo constatare con amarezza e disgusto che per la maggioranza dei committenti e dei datori di lavoro le risorse umane sono semplicemente e unicamente un fattore di costo. Intercambiabili con qualunque altro soggetto, dotato o meno di competenza e di esperienza.

A questo punto potremmo riprendere in mano la tesi della fine del lavoro e dire ai suoi sostenitori e filosofi che se di fine del lavoro possiamo parlare, abbiamo diritto a parlarne solo come fine (o declino) del valore del lavoro, il che fa una bella differenza. Ma con la fine del valore del lavoro non finisce il soggetto che lavora per conto di terzi, continua ad esistere come una persona viva e vegeta, l’insieme di queste persone forma una classe sociale a vari strati e le classi sociali formano una società. E dentro questa società c’è, si allarga sempre più e diventa dominante un imperativo: occorre liberarsi dalla svalutazione del lavoro, occorre restituire al lavoro il suo valore e il suo potere negoziale, pena la sopravvivenza stessa della società ed il suo regredire a stadi primitivi di civilizzazione.

Quello che noi vediamo avverarsi con il capitalismo finanziario e le diseguaglianze sempre crescenti che crea, è una “modernizzazione regressiva”, cioè un moto in direzione opposta a quella immaginata da Fukuyama.

 

Un Paese di cuochi ed affittacamere

La forma che questa “modernizzazione regressiva” assume in un paese come l’Italia è largamente condizionata dalle scelte di specializzazione produttiva effettuate dalla classe dirigente. Da circa 50 anni l’Italia ha iniziato questo cammino a ritroso, i primi segnali importanti si sono avuti con la rinuncia all’elettronica (vicenda Olivetti), poi con la rinuncia alla chimica fine (vicenda Montedison), poi con la rinuncia all’impresa pubblica, poi con la fuga dalla grande impresa e la fanatica esaltazione della piccola-media impresa, poi con la scelta di un made in Italy a bassa complessità tecnologica, poi con la crisi della Fiat e la scomparsa di fatto dell’industria dell’auto e di parte del suo indotto, poi con le delocalizzazioni selvagge, poi con la formazione di monopoli privati nella gestione delle infrastrutture e delle facilities, poi con la cessione ad imprese o investitori istituzionali stranieri di ogni sorta di attività (dal biomedicale alle acque minerali, dal lusso alla logistica) fino a ridurre quella che, con tronfia presunzione si autonomina ancora “la seconda potenza manifatturiera d’Europa”, a un paese di cuochi ed affittacamere, plasticamente rappresentato in questa tabella tratta dal “Rapporto su Mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2017-2018” del CNEL (pubblicato il 6 dicembre 2018).

Tendenze dell’occupazione per settore e livello di qualificazione 2017/2013 (variazioni in punti percentuali)

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Dove cresce l’occupazione in Italia? Nel settore turismo e ristorazione, caratterizzato da forza lavoro stagionale a bassa qualificazione. Nella logistica, caratterizzata da qualificazione ancora più bassa. Ma l’industria stessa, che occupa il terzo posto nel trend positivo, non brilla per incidenza della componente ad alta qualificazione. Meglio fanno le attività immobiliari. Allora, in queste condizioni, come possiamo pretendere che si sviluppi una cultura che riconosce il valore della professionalità e dell’esperienza? In queste condizioni riesce difficile anche immaginare che il lavoro venga sostituito da robot. Quelli che parlano di jobless society prima di scrivere le loro pensate non potrebbero gettare uno sguardo fuori dalla finestra? (scopriamo tra l’altro da questa tabella che non siamo nemmeno più un paese di bottegai, dato che i negozi al dettaglio vengono falciati a migliaia dall’e-commerce).

 

Industria 4.0. come punto più basso?

Dopo 50 anni che il Paese percorre una via di “modernizzazione regressiva” com’è pensabile che esso trovi lo spazio, l’energia, le infrastrutture, per compiere il salto verso la digitalizzazione? C’è davvero il rischio che questa fase rappresenti il definitivo distacco del sistema-Italia dai paesi cosiddetti avanzati. Il modo in cui Confindustria e governi hanno affrontato finora questo passaggio sembra dimostrarlo chiaramente. Propongono di discutere questo passaggio sulla base del documento programmatico, intitolato appunto Industrie 4.0., che il governo tedesco ha elaborato e reso pubblico nel lontano 2013. Su questa base sono stati presi dei provvedimenti da parte del governo Gentiloni che sono passati sotto vari nomi (Legge Calenda, Nuova Sabatini ecc.), provvedimenti con i quali lo Stato ha messo a disposizione delle imprese sostanziali incentivi per l’acquisto di macchinari e apparecchiature digitali. E’ l’unica misura dei governi di centro-sinistra che è stata in parte ripresa dal “governo del cambiamento”.

Né a Confindustria né ai vari governi però è venuto in mente di dare un’occhiata ai due documenti ben più importanti del governo tedesco, quelli del 2015, intitolati Arbeiten 4.0. (Lavori 4.0.), che ponevano una serie d’interrogativi sulle conseguenze della digitalizzazione a livello di occupazione e proponevano una serie di soluzioni al grosso, drammatico problema della trasformazione delle mansioni e delle competenze nell’industria a seguito dell’introduzione delle nuove tecnologie (guarda caso anche i nostri prodi sostenitori della fine del lavoro sembrano ignorare l’esistenza di questi documenti). Rimandiamo alla lettura della sintesi del primo di questi testi che ha voluto farne il “Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali” sul n. 2 del 2018 (Arbeiten 4.0. Il libro bianco del Ministero del Lavoro e degli affari sociali tedesco, a cura di Luca Nogler, p. 515 sgg.) per rendersi conto dell’approccio seguito. Mi limito a segnalare che in questo documento tutto l’accento della parte propositiva è posto sul tema del rafforzamento delle tutele, in quanto si teme che le tecnologie digitali possano incentivare ulteriormente la precarizzazione del lavoro. Ma per Confindustria e dintorni sembra che questi documenti non siano mai esistiti.

Attenzione però: questo è un discorso rivolto prevalentemente alla forza lavoro con le maggiori garanzie contrattuali. Riguarda solo una parte del nostro uditorio ideale. Ipotizziamo tuttavia che un giorno del mese prossimo Confindustria o i sindacati CGIL CISL e UIL si sveglino, traducano velocemente i documenti tedeschi sui lavori 4.0. e decidano di avviare una verifica presso le imprese sulle possibili conseguenze dell’introduzione di certe tecnologie su una serie di mansioni e di professionalità, scelte come rappresentative. Incontrerebbero serie difficoltà. Perché? Perché nei principali contratti nazionali di lavoro (metalmeccanico, logistica, per citarne due) i profili professionali, le cosiddette “declaratorie”, non vengono aggiornati da 30/40 anni. Che vuol dire questo? Che nelle aziende i salari e gli stipendi non sono commisurati alla professionalità. I criteri di carriera sono improntati a valutazioni che guardano più al modo in cui il dipendente si rapporta alle gerarchie che all’esperienza. In altre parole: che non esistono criteri di valutazione basati sul vero valore del lavoro: la competenza tecnica, la professionalità e l’esperienza accumulata negli anni. Se si dovessero riformulare le declaratorie, aggiornandole, probabilmente sarebbe necessario rivedere l’intera struttura salariale – prospettiva che terrorizza Confindustria. Da qui si capisce come il sistema-Italia proceda alla cieca verso la frontiera dell’Industria 4.0., perché di fatto non trae le conseguenze che questo salto tecnologico arreca al sistema dell’occupazione, non vuole analizzarle in dettaglio, in concreto. Blatera quindi di “fine del lavoro” senza avere cognizione di causa ed usa la prospettiva della disoccupazione tecnologica come puro deterrente nei confronti dei lavoratori, come implicito ricatto: “attenzione, se vi mettete in conflitto sul luogo di lavoro, rischiate di accelerare la vostra fine che, comunque, sarà inevitabile”. Questa è pura e semplice, profonda, disonestà intellettuale che poggia su un substrato di voluta ignoranza, di voluta superficialità, di voluta sciatteria. E molte brave persone che pretendono di gravitare ancora nell’ambito “di sinistra” ci cascano.

 

Il conflitto come esigenza vitale

Da quanto detto mi pare che risulti smentito il luogo comune secondo il quale la scarsa considerazione dei fattori di professionalità e di esperienza sarebbe da attribuire all’instabilità dei rapporti di lavoro o sarebbe uno svantaggio che colpisce solo coloro che partono già svantaggiati perché lavorano nella grande zona grigia del lavoro intermittente, a chiamata, con contratti a breve termine o con contratti puramente verbali. No, la scarsa considerazione dei fattori di professionalità e di esperienza colpisce anche la forza lavoro delle aziende più strutturate. E’ una tabe dell’Italia (le molte eccezioni confermano la regola) ed è una delle ragioni della fuga all’estero dei nostri talenti.

Ma la conclusione alla quale più mi preme arrivare è un’altra: non è vero che l’emergenza lavoro in Italia si concentri nei Neet o nei disoccupati o nello squilibrio tra qualità della domanda e qualità dell’offerta, cioè nella fase antecedente l’instaurazione di un qualunque rapporto di lavoro, cioè la fase alla quale s’indirizzano le politiche attive del lavoro, ma è nel rapporto di lavoro, una volta che il soggetto è entrato nel novero degli occupati, che si manifesta la vera inciviltà del nostro sistema. Da qui la grave questione del salario, sempre messa in secondo piano rispetto a quella della durata e della forma del contratto.

Una delle poche scelte sensate da fare oggi in Italia riguarda l’introduzione di un salario minimo legale. Ma sarebbe anche questa una misura molto parziale, non servirebbe a impedire che chi protesta e desidera negoziare alla pari le proprie condizioni di lavoro venga messo al bando nel suo “mercatino”. Né servirebbe a restituire valore all’esperienza e alla professionalità. Se però si deve introdurre un salario minimo legale, sarà opportuno farlo in fretta perché la situazione in certi mercati del lavoro, per esempio tra le cooperative dei servizi, sta a tal punto degradando e scivolando verso forme di retribuzione così basse che l’introduzione del salario minimo legale rischia di diventare uno choc al quale migliaia di imprese non riusciranno a resistere e saranno costrette a chiudere. Ho sotto gli occhi il caso di un’impresa multinazionale della logistica – non una cooperativa marginale, quindi, un leader di mercato! – la cui filiale italiana è stata commissariata dalla magistratura perché impiegava largamente mano d’opera a buon mercato procurata dalle cosiddette “cooperative spurie”. Bene, ha minacciato di chiudere sostenendo che un aumento dei costi di mano d’opera (non si trattava tanto di minimi salariali quanto di contributi previdenziali) l’avrebbe messa fuori mercato. Quando si scende tanto in basso, è quasi impossibile risalire la china!

Più efficiente è la pratica del mutualismo, là dove il soggetto non è più passivo, là dove ritrova la solidarietà, là dove si può rifugiare per rendere tollerabile la sua esistenza. Se non cambia le cose offre comunque il supporto migliore a chi vuol provare a cambiare le cose. E un discorso molto complesso che qui non è il caso di affrontare e ci può distogliere dall’obbiettivo, quello di mettere a fuoco la problematica del conflitto. L’unica prospettiva necessaria è il conflitto. Da qui i nostri discorsi debbono partire. Ma che fatica doversi sbarazzare di idiozie, luoghi comuni, elucubrazioni accademiche, discussioni inutili, falsi obbiettivi….prima di raggiungere finalmente il punto di partenza!

 

Parte II

Provo a ragionare partendo dall’assunto che il solo modo sensato di parlare ancora di lavoro senza cadere nelle analisi perlopiù inutili che continuano a venir prodotte è quello di partire dal conflitto. Perché è lì che si dimostra la nostra resistenza a superare lo schema di conflitto che ci è stato tramandato dal fordismo. Che cosa ha reso obsoleto quello schema di conflitto? Perché è largamente inapplicabile alla forza lavoro di oggi?

La risposta alla prima domanda è che la globalizzazione ha consentito al capitale di migrare nei territori dove il conflitto ha più difficoltà a esplodere. Spostando fisicamente il terreno di scontro il capitale si è reso imprendibile, invincibile. Chi ne ha pagato il prezzo più alto sono stati i lavoratori dei paesi avanzati, quelli dei paesi di nuova industrializzazione ne hanno tratto un certo vantaggio. Quindi il problema del conflitto sul, nel, per il luogo di lavoro è un problema essenzialmente europeo e nordamericano. E’ qui che il fordismo ha dominato, è qui che la sua fine ha lasciato dietro a sé le macerie più consistenti ed è qui che si debbono cercare gli spunti, gli indizi per praticare un nuovo schema di conflitto.

Ma non tutto il sistema di coercizione al lavoro può essere spostato a piacimento, alcuni segmenti di mercato non sono “delocalizzabili” a piacere e non a caso talvolta coincidono con il poco che si muove, con il residuo di schemi fordisti che sembrano aver potuto transitare senza troppe alterazioni nel postfordismo. La logistica di magazzino è uno di questi. Il trasporto merci su strada, pur essendo la quintessenza della mobilità, è un altro. Ma non solo, tutto il sistema delle facilities conserva intatto una capacità d’interdizione che conferisce alla sua forza lavoro un potere contrattuale di natura prettamente fordista.

Qui è necessario introdurre subito delle distinzioni.

Noi parliamo di conflitto quando i lavoratori agiscono per migliorare le loro condizioni retributive, normative, esistenziali, cioè per aumentare il valore di mercato del loro lavoro. Parliamo invece di “resistenza” quando agiscono con forme di protesta contro la perdita del posto di lavoro per trasferimento dell’azienda, chiusura, cessione a terzi ecc.. La crisi del fordismo e la globalizzazione hanno provocato una serie interminabile di queste forme di resistenza. In genere si concludono con una sconfitta totale o parziale, in rari casi si concludono con forme di autogestione. E’ interessante tuttavia seguire anche questi esperimenti di autogestione e le problematiche sottostanti. E’ cosa ben diversa il buy out dei dipendenti di un’impresa da forme di autogestione impostate invece su una trasformazione dell’organizzazione del lavoro e talvolta del prodotto stesso (e qui vale la pena leggere sulla newsletter “sbilanciamoci” il resoconto di un convegno internazionale tenutosi nell’Hinterland di Milano all’interno della fabbrica Rimaflow autogestita: https://mail.google.com/mail/u/0/?tab=wm#inbox/FMfcgxwCggCPtcngCJJmxKxnHpvRCVzh).

In ogni caso, per ora queste forme di resistenza non c’interessano.

Le difficoltà maggiori ad aprire un conflitto sono in quelle forme di attività caratterizzate dalla presenza di forza lavoro precaria, con contratti a termine, con impieghi intermittenti, con un elevato grado di esternalizzazione. Si concentrano nei servizi o, meglio, in tutto quello che non è manifattura, producono beni immateriali, beni simbolici, sistemi di relazione, producono consumo senza produrre beni di consumo e la stessa forza lavoro è convinta di ricevere da queste attività una gratificazione che travalica i problemi di salario e di orario, si accontenta di ricevere una legittimazione sociale. Pertanto non si tratta di attività manuali bensì di attività intellettuali, che richiedono o non richiedono conoscenze tecniche ed uso di determinate tecnologie, ma soprattutto si tratta di attività che richiedono doti o skill relazionali e si concentrano nelle grandi aree metropolitane. E’ molto difficile definire cos’è uno skill relazionale. In massima parte è un comportamento conforme a determinate prescrizioni scritte o non scritte. Anche spiare un collega può essere definita un’attività relazionale. In altri casi invece è una vera e propria attitudine professionale. Moltissime attività di questo genere vengono svolte nel campo della comunicazione o della cosiddetta “cultura” che ormai altro non è, a ben pensarci, che un segmento di mercato dell’industria turistica. Si pensi soltanto a com’è cambiata l’idea di Museo, dove sempre meno conta il valore storico-didattico della conservazione e sempre più il valore estetico e spettacolare del contenitore (fenomeno Guggenheim di Bilbao).

 

L’individualizzazione

La ragione strutturale dell’inferiorità della forza lavoro e della sua incapacità a negoziare il rapporto di lavoro è dovuta al processo di individualizzazione, a quella miscela di fattori oggettivi e normativi che hanno fatto sì, nel corso degli anni dell’èra postfordista, che si sia perduta completamente in questa forza lavoro l’idea di appartenere a un collettivo, a una comunità, a qualcosa di socialmente omogeneo in grado di poter porre il problema della negoziazione dei rapporti di lavoro in maniera collettiva. Da qui l’assoluta estraneità a comportamenti di natura sindacale. Ma se questa individualizzazione o frammentazione è stata ottenuta modificando profondamente l’organizzazione del lavoro nell’impresa, un ruolo non secondario lo ha avuto la diffusione sistematica di un’ideologia della competizione per la quale il soggetto vede nel suo collega di lavoro o in chi esercita la medesima professione non una risorsa ma un competitor, un concorrente. Questa ideologia ha bombardato in particolare i cervelli dei lavoratori autonomi, ottenendo purtroppo consistenti successi.

In questo universo di soggetti lavorativi, che da un ventennio almeno rappresentano in Italia circa l’80% dei nuovi posti di lavoro, si distinguono nettamente due categorie: quelli che ancora conservano una coscienza della subordinazione o della dipendenza economica e ritengono che i rapporti di forza sul mercato sono tali per cui il conflitto presenta alti o troppi rischi e quelli che hanno perduto completamente questa coscienza e ritengono che la legittimazione sociale, il riconoscimento sociale siano la massima ricompensa cui hanno diritto di aspirare nel rapporto di lavoro, il quale, come tale, non può essere messo in discussione. Ritengono che negoziare le condizioni di lavoro sia un sovvertimento dell’ordine sociale.

Ho cominciato ad usare il termine “negoziare” invece che il termine confliggere perché il conflitto di cui abbiamo parlato sin dall’inizio non va inteso assolutamente come un conflitto politico che tende a sovvertire l’ordinamento sociale capitalistico ma come modo per costringere semplicemente il datore di lavoro o committente a negoziare, a discutere sulle modalità con cui la prestazione d’opera verrà fornita, a trattare sulla retribuzione, in una parola a concordare le condizioni lavorative. Nient’altro che questo. Pertanto se il termine conflitto ha suscitato qualche brivido “militante” presso coloro che in un sit-in di riders vedono già l’inizio di un nuovo autunno caldo, sarà bene riportarli subito alla realtà. Negoziare significa contrattualizzare, stabilire delle regole scritte con diritti e doveri delle due controparti. Laddove il conflitto scompare si vanifica poco a poco anche il rapporto contrattuale. Non è un caso che una delle rivendicazioni dei freelance che troviamo presso tutte le loro associazioni è quella di avere una contratto scritto, con il quale poter dimostrare il diritto alla retribuzione. Ma una cosa è disporre di un contratto, altra cosa è veder rispettate le sue clausole. Gli operai degli Anni 70, che avevano una capacità di pressione e una combattività altissima, ottenevano gli accordi e dovevano ricominciare a lottare per farli rispettare. La contrattualizzazione comunque consente un più facile accesso al negoziato e, indirettamente, al conflitto. Non apriamo qui la scabrosa questione della rappresentanza sindacale, non ci aiuterebbe molto se parliamo di freelance, ai quali è negata in gran parte una contrattazione collettiva, né ci aiuterebbe a regolare rapporti di lavoro all’interno dei nostri “mercatini”. Occorre immaginare dinamiche di contrattazione e di rappresentanza che escono dal quadro istituzionale rappresentato, in Italia, dalle tre grandi confederazioni sindacali. Non per escluderle dal gioco a priori, ma per immaginare dei percorsi originali in grado di condurre dei lavoratori, all’interno del singolo “mercatino”, alla fase della negoziazione e della contrattualizzazione. Nel nostro ragionamento ci troviamo ancora nella fase preliminare a queste dinamiche, dobbiamo capire ancora come si possa formare “un collettivo” in grado di aprire una fase di contrattazione. Siamo ancora al momento in cui il professionista, il lavoratore intellettuale, il tecnico, è solo.

Stretto nella morsa della sua solitudine, incapace di protestare o di riuscire a negoziare il rapporto di lavoro e la condizione lavorativa, volendo comunque migliorare la propria situazione, cerca una diversa situazione di lavoro, abbandona il possibile campo di scontro e crea in questo modo, da un lato, una precarietà cercata, voluta, dall’altro, un ulteriore indebolimento del fronte che avrebbe potuto configurarsi in maniera antagonista.

Mi sono fatto la convinzione che il problema del conflitto impossibile o negato ruota attorno alla tragica condizione dell’individualismo e che il problema del neofascismo, del sovranismo, del nazionalismo, del populismo – in una parola dell’antiglobalizzazione – sia essenzialmente una riproposizione dell’identità collettiva, del senso stesso di collettività, ottenuto attraverso la costruzione di un nemico immaginario (ieri gli ebrei, oggi i migranti). Questo è risaputo, è la spiegazione mainstream del neofascismo. Quello su cui non si riflette abbastanza è che alla radice sta sempre il problema del lavoro (o del welfare) e che il senso di frustrazione che è la molla dei comportamenti razzisti deriva proprio dai problemi occupazionali e in ultima analisi dall’impossibilità/incapacità di negoziare le proprie condizioni di lavoro o di migliorare la propria condizione esistenziale.

La differenza sostanziale tra il nostro modo di superare l’individualismo e quello dei populisti sta nel fatto che noi vorremmo costruire la solidarietà attraverso un conflitto reale che comporta notevoli rischi mentre loro costruiscono identità attraverso un conflitto immaginario che non comporta nessun rischio. Per questo il loro ostentare ardimento e aggressività nasconde una profonda, innata, vigliaccheria.

 

Inutili i richiami moralistici

Quando si pensa a come tra Ottocento e Novecento milioni di operai, di lavoratori, analfabeti o semianalfabeti, con famiglie numerose sulle spalle, hanno affrontato il rischio del licenziamento o della galera per difendere i loro diritti, migliorare la loro condizione, essere solidali gli uni con gli altri scioperando compatti e così sono riusciti a costruire collettivamente quel patrimonio incredibile di società di mutuo soccorso, camere del lavoro, cooperative, circoli di cultura e del tempo libero, che è stato il movimento operaio, mentre queste generazioni scolarizzate, provenienti da famiglie in grado di mantenerle ancora per anni dopo la laurea, non hanno il coraggio di muoversi per negoziare le loro condizioni di lavoro – vien proprio voglia di dire: “ma sì, restate nella vostra merda che ve la meritate!”

Quasi quasi una reazione del genere è più onesta e sincera di quella invece largamente dominante che compatisce a ogni pie’ sospinto queste generazioni, ne mette in piazza o in poesia la misera condizione, ne fa oggetto di colossali quanto inutili progetti di ricerca accademica, ne proietta il volto lamentoso o rassegnato in film, pièce teatrali, rap rabbiosi, performances varie – ma in sostanza non sposta di un millimetro la situazione.

Queste reazioni moralistico-emotive (la condanna o il compatimento) dovrebbero una buona volta lasciare spazio invece a una fredda considerazione analitica sui fattori oggettivi e soggettivi che hanno determinato questa situazione.

Cominciamo pure dall’ipotesi più difficilmente realizzabile o addirittura più contraddittoria: un negoziato individuale. Qualcuno ci aveva pensato….udite, udite uno dei fondatori del Nidil, prima di essere cacciato dai vertici della CGIL. Questa persona, funzionario sindacale, che ho intervistato anni fa, si era inventato “la negoziazione assistita”. In cosa consisteva? Che il lavoratore chiedeva un incontro con il datore di lavoro e si presentava all’incontro con un funzionario della CGIL il quale diceva: “questo signore è un nostro iscritto, la sua richiesta è appoggiata da noi, dietro le spalle di questo individuo ci sta un’organizzazione. Prima di mandarlo a quel paese pensateci e intanto spiegatemi come sono compatibili questo e questo e questo trattamento che voi riservate ai vostri collaboratori con gli accordi previsti nel CCNL”. Non mi ha raccontato se queste cose sono state messe in pratica, ma capisco benissimo perché lo hanno trasferito a un’altra categoria. Però da allora continuo a rimuginare su questo racconto e mi sono convinto che è impossibile chiedere ad un soggetto di muoversi per contestare le sue condizioni di lavoro se non c’è un soggetto esterno che in qualche modo condivide con lui i rischi connessi alla contestazione. Una parte di questi rischi debbono essere trasferiti su un soggetto terzo. Molte volte, nelle mie notti insonni, ho pensato di presentarmi come ACTA alle agenzie che intermediano la forza lavoro nel settore in cui opera mia figlia e di battere i pugni sul tavolo dicendo: “Voi fate lavorare la gente 15 ore al giorno per un compenso forfettario, senza assicurazione contro gli infortuni, senza riconoscimento degli straordinari, cambiate musica oppure noi di ACTA….”.

Oppure noi cosa? Quale ritorsione avremmo potuto attuare? Se quello mi diceva che loro non applicano nessun CCNL, se mi diceva che mia figlia non aveva nessun contratto in mano che specifica l’orario di lavoro, se mi diceva di dimostrargli che lavora 15 ore al giorno? E che lui di ACTA se ne faceva un baffo. So benissimo come sarebbe andata finire: che tutti compatti i colleghi della troupe di mia figlia, convocati a rapporto, avrebbero negato di lavorare 15 ore al giorno, avrebbero detto che a me sul set non mi avevano mai visto, non sapevano chi fossi, che mia figlia aveva tentato di sobillarli ecc., ecc.. A quel punto che avrei potuto fare, andare da un magistrato?

 

Le vie legali

Nei periodi nei quali la forza contrattuale del sindacato è indebolita o in un determinato segmento della forza lavoro manca una rappresentanza sindacale consolidata, abbiamo già detto che il ricorso alla magistratura per tutelare i lavoratori si presenta come uno strumento necessario ed indispensabile. Là dove c’è una capacità di mobilitazione il ricorso alle vie legali ha più possibilità di ottenere successo (il caso dei rider di Torino, per esempio). Il problema che ci poniamo discutendo di conflitto considera però il ricorso alle vie legali un’estrema ratio, lo interpreta come segno di debolezza piuttosto che di forza. Questo ci porta ad allargare il discorso al diritto del lavoro. E’ vero che i giuslavoristi si sono dimostrati molto più sensibili di altre categorie verso le problematiche del lavoro precario e autonomo del postfordismo. Una normativa sul lavoro ispirata ai principi di equità sociale è di grande aiuto per chi si trova in posizione d’inferiorità verso il committente/datore di lavoro. Resta il fatto però che il diritto del lavoro consegna al corpo dei magistrati l’onere di decidere con assoluta discrezionalità se il lavoratore ha subito dei soprusi o delle ingiustizie. E’ un corpo di funzionari molto sensibile alle oscillazioni del potere e quando, come è accaduto di recente in Italia, il potere si presenta con volto repressivo (v. Decreto Sicurezza di Salvini) il corpo dei magistrati è portato a radicalizzare invece che a mitigare quella tendenza (v. il caso Mimmo Lucano o certe sentenze del tribunale di Milano verso i Cobas della logistica). Quindi il problema torna sempre sulla capacità di mobilitazione e di organizzazione del conflitto. Proprio questa capacità di mobilitazione e di fare lobbying, di portare un problema all’attenzione dei diretti interessati e dell’opinione pubblica, può conseguire dei risultati. Prendo l’esempio dell’equo compenso. Su pressione degli appartenenti a Ordini professionali ma anche sull’onda delle nostre campagne, molti consigli regionali hanno approvato delle norme che riguardano i professionisti ai quali la pubblica amministrazione affida degli incarichi. E’ noto che la pubblica amministrazione si è sempre caratterizzata come il soggetto che, più di ogni altro, rischia di abbassare la qualità della vita dei professionisti perché, essendo il più grande datore di lavoro, spesso e volentieri si crede in diritto di proporre degli incarichi gratuiti o retribuiti in maniera vergognosa. Leggendo però la lettera delle disposizioni adottate da diverse Regioni ci accorgiamo che c’è ancora molta strada da fare. Alcuni consigli regionali, in particolare nel Mezzogiorno, si sono preoccupati soltanto di regolamentare l’iter burocratico dell’affidamento dell’incarico, come se la loro unica preoccupazione fosse quella di non incorrere in controlli e sanzioni della Corte dei Conti o di altri organi addetti al controllo della spesa. Non sembra essere passato nemmeno per l’anticamera del cervello a lor signori, che godono talvolta di emolumenti superiori a quelli dei parlamentari, che la finalità della norma doveva essere quella di garantire un equo trattamento ai professionisti. Con tristezza debbo dire che il testo migliore che ho letto, con tanto di discorso del relatore sulla proposta di legge regionale, era quello della Regione Veneto a grande maggioranza leghista e che i peggiori che ho letto appartenevano ad amministrazioni di centro-sinistra del Sud.

 

Identità professionali e craft unions

Scartata l’ipotesi di una contrattazione individuale assistita non ci resta che attaccarci al principio che solo il preventivo riconoscimento di un’identità collettiva e l’accettazione di aderire a forme, sia pure embrionali, di rappresentanza può rendere praticabile la negoziazione o il conflitto. Purtroppo da qui non si sfugge. E’ un passaggio che non si può saltare. Possiamo immaginare diverse forme di associazionismo, da quello sindacale di tipo tradizionale all’associazione professionale (le associazioni delle traduttrici e dei traduttori) alle piattaforme digitali, ma un qualcosa in cui una determinata categoria di lavoratori si riconosce, all’interno della quale discute dei problemi sulla propria condizione lavorativa, deve esserci.

Ed allora qui mi torna utile riprendere il discorso fatto nella Prima Parte sui “mercatini” del lavoro. A ben pensarci una simile struttura del mercato del lavoro è molto più permeabile al tipo di associazionismo professionale che all’associazionismo sindacale tradizionale. Nella lunga storia del movimento operaio italiano l’associazionismo professionale è stato combattuto come la più bieca forma di corporativismo. Bruno Trentin su questo ci ha speso la vita. Il risultato è stato che il sindacato italiano ha organizzato la forza lavoro operaia del fordismo ed i colletti bianchi dell’impiego pubblico, trovandosi completamente spiazzato quando questa forza lavoro ha iniziato un irreversibile declino ed è emersa la forza lavoro dei settori non manifatturieri, interamente privati, dell’economia della conoscenza e dell’entertainment, caratterizzati da rapporti di lavoro precari e intermittenti, con un raggio d’influenza molto segmentato in tanti “mercatini”.

Invece, paradossalmente, ha tenuto meglio il sindacalismo americano dove la tradizione delle craft unions è molto più radicata e dove il precariato non è considerato una caratteristica di una parte della popolazione lavoratrice ma la condizione normale di tutti i percettori di reddito da lavoro, dipendenti o indipendenti (tranne alcune categorie di funzionari pubblici, di docenti universitari ecc.).

Per questo, mentre l’esperienza italiana offre pochi spunti per provare a ragionare sui nostri temi, un’occhiata a quel che succede negli Stati Uniti può darci qualche idea. Mentre l’esperienza che ACTA ha fatto a livello europeo con altre associazioni di freelance è stata molto deludente, se non negativa, dall’esperienza della Freelancers Union degli USA ha trovato parecchie cose da imparare.

Per entrare nel mondo delle associazioni professionali o dei sindacati che si articolano per linee di mestiere negli USA non c’è che l’imbarazzo della scelta. Che cosa abbiamo da imparare da queste forme associative? Prima di tutto a) lo stile di comunicazione che è un po’ il segreto delle campagne di reclutamento, poi b) le problematiche di settore ed infine c) i possibili servizi che un’associazione può offrire agli affiliati. Non è molto e non sempre queste problematiche possono esser trasferite pari pari in Italia, ma è sempre più di quello che potremmo trovare scandagliando i siti della CGIL, CISL e UIL ma anche dei Cobas, i quali si occupano piuttosto di categorie dell’impiego pubblico (insegnanti) o di lavoratori manuali ipersfruttati (facchini di magazzino, imprese di pulizie e simili) o di riders.

Pur consapevole che guild viene considerato l’opposto di union e che craft union è molto diverso da labor union, mi sono divertito a navigare su alcuni siti: quello della Writers Guild of America (www.wga.org), perché ricordavo le memorabili lotte degli sceneggiatori di Hollywood. Sono nati negli Anni 30 ma dimostrano ancora una notevole vitalità, basta seguire la campagna che hanno lanciato nel 2019 sulle agenzie (Agency Campaign Resources for Writers). Gli intermediari di mano d’opera sono uno dei problemi strutturali di questo segmento di mercato della forza lavoro (si pensi, in Italia per esempio, al ruolo di Magnolia nelle produzioni televisive e cinematografiche).

A queste associazioni si affiancano quelle che nascono oggi, come la Freelance Journalist Union (JFU) da poco lanciata dallo storico sindacato IWW, nato dalle lotte dei lavoratori immigrati nel 1905, perlopiù occasionali, uno dei più luminosi esempi di anarcosindacalismo, al quale la rivista “Primo Maggio” negli anni 70 dedicò un’attenzione particolare. Scrive il loro sito https://freelancejournalistsunion.org:

is an organisation that aims to reach out to workers who are in or have experience with freelancing in the broad field of journalism, including bloggers and writers etc. So far the FJU is eager to get in touch with as many freelancers as possible and is looking to build a network to share information and support internationally.

Per restare nel campo del cinema e delle produzioni televisive merita seguire il sito della Art Director Guild (www.adg.org) che è parte della International Alliance of Theatrical Stage Employees (https://iatse.net) la quale rappresenta tutte le diverse professioni tecniche e artigianali che stanno “dietro il palcoscenico”. Questa organizzazione, tra l’altro, sostiene il commercio di beni prodotti in America in aziende dove il sindacato è riconosciuto e le condizioni salariali, normative e ambientali sono fair. Questi beni sono in vendita in una rete di negozi certificata fair trade.

Per finire con la Freelancers Union (FU), di cui parleremo in seguito a proposito della campagna Freelancer is’nt free!, per dire semplicemente che ha appena aperto uno spazio di coworking e di consulenza/assistenza in una delle zone più trendy di New York

Freelancers Hub is located in the Made in New York Media Center by IFP, a collaborative space in DUMBO (Down Under the Manhattan Bridge Overpass) featuring classrooms, conference rooms, a library, state-of-the-art 72-seat theater, media arts gallery, and café.

Il successo di questa organizzazione, che non richiede per l’adesione alcuna quota associativa, dipende dal fatto che è riuscita a mettere in piedi una insurance company che offre copertura sanitaria a lavoratori che, essendo indipendenti, non aderiscono a nessuno schema mutualistico aziendale. Ma l’attività militante della FU si trova anch’essa chiusa dai vincoli strutturali del lavoro indipendente che un vero e proprio conflitto di lavoro (in forma di sciopero o altra forma di pressione nei confronti del datore di lavoro) riesce difficilmente a praticarlo. Si concentra quindi su un’azione doppia: all’esterno di lobbying verso le istituzioni e l’opinione pubblica, all’interno di convincimento dei membri della loro identità specifica di freelance. Superba da questo punto di vista la loro gestione del sito e molto intelligente il loro stile di comunicazione.

Altre volte l’esperienza americana è istruttiva non tanto per le forme associative quanto per il segmento di mercato che cerca di mobilitare. Una delle tante esperienze che mi ha interessato, pensando ai nostri giovani laureati con buona conoscenza di due lingue straniere che in certe Fondazioni prestigiose di Milano guadagnano 5 euro l’ora, è quella dell’occupazione del Museo Guggenheim di New York nel 2016. La cosa era partita per attirare l’attenzione sull’apertura di un Guggenheim a Abu Dhabi e sulle condizioni di lavoro non solo nel cantiere di costruzione ma anche del personale tecnico-artistico (conservatori, restauratori, archivisti, organizzatori di mostre ecc.) nell’Emirato arabo. La cosa era gestita da un’organizzazione non governativa sorta nel 2010, la G.U.L.F. (Global Ultra Luxury Faction) che verso il 2014/15 aveva puntato sull’obbiettivo degli emirati del Golfo, giocando su G.U.L.F. come acronimo e Gulf come denominazione geografica, con azioni dimostrative anche alla Biennale di Venezia. L’occupazione del Guggenheim (video presenti in rete) avvenuta nel clima creato da Occupy Wall Street è stata però l’occasione per mettere sul tavolo anche le misere condizioni di lavoro nei Musei newyorkesi e nel mondo dell’indotto che vi ruota attorno, fino a sfiorare il grande bacino di affari finanziari rappresentato dal mercato dell’arte (compravendita di opere d’arte), dove i miliardi girano all’impazzata come attorno alla Borsa. Il punto attuale della situazione lo fa un documento: https://gulflabor.org/2019/gulf-labor-statement-april-28-2019/ ma più interessante di questo forse è il fatto che quella protesta ha contribuito a creare identità presso i vari mestieri presenti nei Musei newyorkesi.

Un’altra interessante iniziativa è quella della Interpreters Guild of America (IGA, http://www.interpretersguild.org/mission/) che è affiliata al sindacato che dichiara 650 mila iscritti The Newspaper Guild and Communication Workers of America. Consapevoli della differenza tra interpreti e traduttori (translators write and interpreters talk) e delle loro rispettive situazioni di mercato, cercano di adottare tecniche differenziate di comunicazione. Scopo dell’organizzazione: migliorare le condizioni di lavoro in termini retributivi e di status, garantire e difendere la professionalità. A titolo d’esempio: nel 2015 hanno aperto una vertenza per equiparare l’onorario giornaliero degli interpreti – tutti self employed – nei tribunali della California a quello riconosciuto agli interpreti nei tribunali federali (lo scarto era quasi del 50%). Ecco, in questo caso dei freelance hanno scioperato tutti assieme, perché il datore di lavoro ed il luogo della prestazione erano comuni a tutti.

Un insegnamento che si può trarre da questo esempio è che il conflitto collettivo può essere praticabile indipendentemente dallo statuto del lavoratore, sia esso employee o self employed quando persistono delle specifiche condizioni esterne.

Sarebbe molto interessante capire perché negli Stati Uniti non è nato un sindacato dei web developer. Navigando in rete si vede che la questione se la sono posta in molti ed una delle risposte che sono state date è che in fin dei conti guadagnano troppo bene per protestare. Ma non sembra convincente. Ad un gruppo di loro era venuto in mente nel 2018 di fondare una Developers Union (https://thedevelopersunion.org/) ma è durata lo spazio di un mattino. Nata specificamente per protestare contro il modello dell’Apple Store si era presentata così:

Dear Apple, We believe that people who create great software should be able to make a living doing it. So we created The Developers Union to advocate for sustainability in the App Store. In May 2018, together we asked Apple to publicly commit — by the tenth anniversary of the App Store in July 2019 — to allow free trials for all apps in the App Store. The Developers Union contributed to small but important changes in the App Store that allow for these trials.

Dalla prima frase sembra che questi non ce la facciano a sbarcare il lunario, altro che guadagni troppo alti! Malgrado la Developers Union abbia dovuto chiudere i battenti, la pressione per ottenere free trial, cioè la possibilità di testare gratuitamente per qualche giorno o settimana un’applicazione o un software prima di acquistarli, sembra continuare in maniera strisciante. E la dice lunga sulle modestissime “pretese” di questi informatici.

Se la sindacalizzazione sembra fallita, gode invece buona salute dal 1997 l’associazione professionale (il nostro Ordine) WebProfessionals.org, che certifica, offre aggiornamento delle conoscenze e crea community. Ma è un’altra cosa, proprio quel tipo di cosa che a noi non interessa.

Il fatto che anche negli Stati Uniti le professioni della new economy abbiano difficoltà a sindacalizzarsi non è certo incoraggiante. A conclusione di questo sommario esame va precisato che le associazioni professionali possono certamente creare identità ma rappresentano anche il rischio di orientarsi verso il modello “Ordine” piuttosto che verso il modello “sindacato”. Quelle che tendono a presentarsi secondo il modello “Ordine” in genere si strutturano come umbrella organization e diventano doppiamente inefficaci, servono solo a dare qualche poltrona a dei professionisti falliti.

Dall’esperienza americana, anche dai sindacati operai, c’è ancora qualcosa da imparare, in particolare l’adozione di forme di lotta che hanno come obbiettivo la reputazione della controparte. Una forma di pressione largamente usata. Il ricorso a espedienti mediatici come quello di appendere enormi bambole gonfiabili raffiguranti animali nei cantieri dove non si rispettano i contratti (v. la famosa campagna del 2018 contro i cantieri edili fuori norma a New York (https://www.nytimes.com/2018/04/13/nyregion/construction-related-companies-unions-developers-go-to-war.html) oppure gli scioperi dei camionisti dove agli angoli delle strade, nei crocicchi, venivano piazzati esemplari di “Scabby the Rat”, (http://inthesetimes.com/working/entry/21888/trump-unions-scabby-the-rat-nlrb-picketing-first-amendment).

Forme di comunicazione della protesta abbastanza efficaci se l’amministrazione Trump pensa di vietarle. Questo nei sindacati operai tradizionali. Ma forme di attacco in rete alla reputazione di un’azienda che si distingue per abusi e illegalità nei confronti dei collaboratori dipendenti o contractors, possono essere anche più sofisticate.

Chiudo questa piccola rassegna con un incontro casuale nel web, quello con Mr. Steve Belarovich, Portland, USA, che si presenta come full stack web engineer impiegato presso la NBC Universal, il quale si chiede nel suo sito: “Dobbiamo costituire un sindacato?” (https://dev.to/steveblue/should-we-form-a-labor-union-13o), un post del 25 luglio 2018. Dopo aver descritto con grande chiarezza e capacità di sintesi le difficoltà esistenziali di molti lavoratori dipendenti dell’high tech e di moltissimi freelancer (tempi di pagamento, tasse, copertura sanitaria, scarso aiuto da intermediari di mano d’opera, certificazione delle competenze ecc.) – il tutto accompagnato da eloquenti e divertenti fumetti – conclude con un appello a costituire un sindacato dei lavoratori del digitale. Niente di speciale o niente di nuovo ma lo stile della comunicazione è molto efficace (qui c’è sempre qualcosa da imparare dagli americani) e offre a noi la conferma che il settore dell’informatica, il personale che opera nel digitale, sono ancora lontani dall’aver acquisito una consapevolezza sindacale. Importante conferma perché non viene da una survey, una ricerca accademica, un’inchiesta, ma dal senso comune, da uno dei tanti. Questo mi fa pensare che l’identità professionale non basta in un settore che si considera l’avanguardia della tecnologia, il soggetto del futuro, e che pertanto è ancora intrappolato nel “professionalismo”, cioè nella percezione di sé come un universo di soggetti (o un mercato) dove il singolo si considera appartenente a un ethnos distinto e bene o male superiore a quello dei comuni mortali (sempre valide, per me, le considerazioni che sul professionalismo sono contenute in Vita da freelance, Feltrinelli editore, che Dario Banfi ed io scrivemmo quasi dieci anni fa). Ma il tempo in cui questa barriera cadrà non deve essere lontano. E’ una scommessa. Che cosa mi fa pensare che questo avverrà? A naso. Il fiuto per certi fenomeni l’ho sempre avuto.

 

Coinvolgere le città

La città di Milano è retta da una buona giunta, il Comune è ancora nelle mani di gente civile, ma cresce ogni giorno di più la preoccupazione che anche questa giunta, come tutta la cosiddetta “sinistra democratica”, non sia all’altezza delle contraddizioni che portano sempre più strati di popolazione a prestare orecchio alle sirene populiste e sovraniste. L’Assessorato alle politiche per il lavoro, Sviluppo economico, Università e Ricerca, che è quello con il quale abbiamo avuto i rapporti più intensi, persegue una linea culturale che da un lato esalta l’inclusione e dall’altro insegue tutte le sollecitazioni che vengono dalle ideologie della smart city. Sono ideologie che, partendo dalle continue innovazione tecnologiche, esaltano i nuovi modi di lavorare, la voglia di fare impresa (start up), secondo una visione della modernizzazione che tenta di conciliare le nuove tecnologie con l’equilibrio sociale (si veda l’iniziativa in corso sul lavoro agile partita alcuni mesi prima che scrivessi queste righe http://www.comune.milano.it/aree-tematiche/lavoro-e-formazione/lavoro/lavoro-agile). Purtroppo questo approccio non solo esclude il popolo delle periferie poco scolarizzato ma rischia di ignorare la sofferenza reale di moltissimi lavoratori intellettuali. Il dramma che queste persone vivono per le retribuzioni ridicole e intermittenti, per delle occupazioni precarie ed umilianti, continua ad essere oscurato. Come può pretendere una città come Milano di essere una smart city, una città all’avanguardia, se quelli che Florida avrebbe chiamato i “talenti della classe creativa”” galleggiano in un mare di prospettive incerte o ingannevoli? Non è compito del governo della città preoccuparsene? Quando abbiamo provato ad avanzare questo interrogativo ci è stato risposto che il Comune non ha alcuna competenza sul lavoro, questa spettava ai sindacati. Poi forse ci hanno ripensato, se qualcosa sembra stia cambiando, dobbiamo approfittarne, anche se si tratta solo di spiragli. Riteniamo che la città debba farsi carico delle condizioni in cui viene esercitata l’attività lavorativa dentro il suo spazio e che lo spunto fornito dal movimento ancora embrionale di Decent Work Cities debba e possa essere sviluppato. All’ultimo congresso di questo movimento era presente la nostra Assessora Cristina Tajani, che ne ha scritto un bel resoconto, http://www.innovarexincludere.it/la-storia-di-gail-e-marta-da-dove-nascono-le-disuguaglianze/ nel quale cita non a caso l’esperienza della Freelancers Union che è riuscita a coinvolgere il City Council di New York in prima persona nel contrasto ai comportamenti scorretti o illegali delle imprese nei confronti sia dei dipendenti che dei contractors (https://www.freelancersunion.org/advocacy/freelance-isnt-free/).

Questa potrebbe essere la strada da battere, il terreno sul quale impegnare i nostri sforzi con un’azione di proposte concreta, scegliendo come interlocutore istituzionale la Città Metropolitana piuttosto che il Comune, perché sulla Città Metropolitana sono state trasferite alcune delle competenze sul lavoro prima in capo alle vecchie provincie. Con questo orientamento si potrebbe cercare di coinvolgere anche altre istituzioni, Fondazioni ecc., spostando l’asse delle loro iniziative da un approccio liberal a un approccio radical (non chic).

 

Il precariato ed il problema del salario

Continuo a ritenere che la grande occasione perduta di dar vita a un movimento del precariato ed a un‘organizzazione sindacale in grado di rappresentarlo orizzontalmente sia stata la breve stagione delle parate milanesi del primo maggio (May Day Parade). Sono altrettanto convinto che l’occasione è andata persa perché ha prevalso nelle componenti post-comuniste ed in genere nella sinistra e nei sindacati confederali la tesi per cui il precariato va semplicemente “superato” con la stabilizzazione del posto lavoro, cioè con la trasformazione dei contratti precari in contratti stabili, cioè con l’abolizione della figura del precario. Come si può creare “identità precaria” se l’obbiettivo della lotta è quello di abolire la figura del precario? In questo modo non solo si è rinunciato a immaginare un welfare di tipo nuovo che possa rendere il precariato “sostenibile”, ma si è caricato d’importanza il problema della durata del contratto trascurando completamente il problema della retribuzione, ritardando di almeno vent’anni la pressione perché fosse introdotto in Italia il salario minimo legale. In questo modo si è anche compromessa la situazione a livello di dipendenti, quando si pensa che gli ultimi grandi contratti nazionali, come quello dei metalmeccanici – cioè delle categorie ritenute più “forti” e politicizzate – si sono conclusi senza un euro d’aumento. E l’Italia si trova oggi con i salari d’ingresso più bassi d’Europa. Pertanto ritengo che un superamento dell’individualismo sia più praticabile mediante azioni che fanno appello a specifiche professionalità piuttosto che accendendo dei ceri in onore di San Precario. Un rilancio della “identità precaria” sul piano orizzontale mi pare una prospettiva senza sbocchi. Altrettanto consunto, specie dopo che se ne sono impadroniti i 5 stelle, il tema del reddito di cittadinanza. Su questo piano, se merita fare pressione per qualcosa è solo per il salario minimo legale.

 

Tirando le somme…

Le proposte concrete sono forse banali e non infiammano gli animi, ma secondo me sarebbe già un grosso passo avanti se si riuscisse a spostare tutte le energie che si spendono in inutili ricerche o in fuorvianti dibattiti sulle trasformazioni del lavoro verso questi banali (ma non tanto) obbiettivi.

  1. spostare l’attenzione dai soliti terreni della logistica, dei riders, dei braccianti, dai marginali oggetto dell’azione del volontariato cattolico, ai terreni e agli ambienti dove sono impegnati lavoratori del terziario, scolarizzati, impegnati in ruoli tecnici o relazionali, in particolare lavoratori dell’economia digitale
  2. analizzare sistematicamente le forme di comunicazione adottate dai siti USA o da qualunque parte vengano di associazioni d’orientamento sindacale rivolte ai lavoratori dei vari “mercatini”
  3. esplorare per ciascuno di questi “mercatini” gli spiragli per l’apertura di un conflitto/negoziazione
  4. iniziare o, laddove è iniziato, continuare un lavoro di base, di sensibilizzazione diretta per ciascun segmento, al fine di creare “identità professionale”, “identità di status” su temi che riportano al binomio condizioni di lavoro/retribuzione con la consapevolezza che il contratto di lavoro a tempo indeterminato non è più garanzia di stabilità/continuità del rapporto di lavoro (si vedano le analisi di Matteo Gaddi nei capitoli sull’ICT del libro Industria 4.0. Più liberi o più sfruttati?, Edizioni Punto Rosso, Milano), superando l’ossessione della tipologia/durata del contratto di lavoro
  5. smettere di collaborare a progetti di ricerca, call for paper e rituali accademici sul tema “trasformazioni del lavoro” che non contengono la dimensione del conflitto
  6. fare azione di pressione su autorità accademiche e docenti affinché in prossimità della laurea o in alternanza scuola-lavoro gli studenti siano informati su come si lavora oggi affinché sappiano cosa li aspetta e si preparino a tutelarsi; le università non debbono più essere intermediarie di mano d’opera a basso costo o gratuita
  7. fare pressione su amministrazioni di grandi città perché colgano lo spunto offerto da Decent Work Cities andando oltre la mera, mitica, “inclusione”, oltre la deplorazione delle “diseguaglianze” ma intraprendano azioni concrete perché il lavoro intellettuale, cognitivo e relazionale abbia maggiore rispetto e sia maggiormente valorizzato, perché le aziende che commettono abusi o illegalità vengano colpite nella loro reputazione
  8. sviluppare format di convincimento della rete dei coworking affinché diventino anche centri di consulenza a lavoratori in difficoltà o almeno sedi di discussione sulle condizioni penose del lavoro intellettuale e cognitivo. Analoga azione nei confronti degli organi di informazione cartacei, siti, reti e blog….insomma bisogna cambiare il clima culturale attorno al tema del lavoro come premessa alla ricostituzione di un terreno favorevole al conflitto.

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