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Alcune riflessioni sulle lotte della logistica

di Visconte Grisi

image 1 e1510913536751Alcuni compagni considerano le lotte nella logistica come lotte, se non proprio marginali, quantomeno come lotte settoriali. Personalmente non sono d'accordo con questi compagni. Intanto una lotta settoriale che dura da più di dieci anni, dalla ormai storica vertenza alla Bennet di Origgio del 2008, in forme ora spontanee ora organizzate e che continua ancora ad allargarsi deve contenere per forza di cose elementi più generali.

Certo le lotte nella logistica hanno le loro proprie particolarità, tipiche peraltro del mercato del lavoro italiano: cooperative, appalti e subappalti, forme di caporalato gestite da organizzazioni mafiose, mancanza di diritti sindacali, bassi salari e orari di lavoro prolungati, forme di lavoro schiavistico ecc., tutto quello contro cui si misurano i sindacati autonomi nelle loro vertenze quotidiane. Tuttavia esistono diversi fattori che rendono queste lotte generali e quindi politiche*.

Per capire meglio questa affermazione è necessario aprire una riflessione sulla “globalizzazione”. “Nei primi anni duemila il trasporto marittimo cresceva al doppio del tasso di crescita mondiale... In fondo, da quando il primo container è stato imbarcato su una nave, nel 1956, questa industria è cresciuta in modo inarrestabile, fino a diventare parte indispensabile dell’economia globale... Oggi esistono meganavi capaci di trasportare più di 18mila container”[1]. Da questi primi dati è possibile capire che il trasporto delle merci è una delle principali attività dell’economia globale, che si tratti di oggetti di consumo come televisori, telefonini, vestiti, o di materie prime, o derrate agricole e semilavorati.

La prima analisi sul settore della logistica comparve sulla rivista Primo Maggio, a partire dallo storico articolo di Sergio Bologna La tribù delle talpe del 1977 in cui si diceva:

«Ci troviamo dinanzi ad una massa di salariati e lavoratori autonomi pari a venti Mirafiori messe assieme. Il peso “oggettivo” di questa forza-lavoro è spaventoso ed è forse oggi l’unica sezione di classe che coi suoi movimenti può paralizzare il ciclo capitalistico»[2].

Nel settore della logistica appunto lo scontro quotidiano è caratterizzato dalla riscoperta di forme di lotta territoriali, già proprie del vecchio movimento operaio, dai picchetti ai blocchi stradali, che sono molto efficaci, in quanto vanno a bloccare la circolazione delle merci, provocando danni notevoli al padronato. In una situazione di “globalizzazione” della produzione bloccare la circolazione delle merci che viaggiano lungo le filiere produttive mondializzate crea un grosso danno ai capitalisti, ciò che costituisce, d’altra parte, un punto di forza degli operai della logistica. Queste forme di lotte autonome sono state sovente attaccate dalla polizia, ma spesso hanno strappato aumenti salariali considerevoli e miglioramenti normativi. Quindi il blocco della circolazione delle merci in un sistema capitalistico "globalizzato" è un primo elemento di carattere generale.

E’ abbastanza evidente che i successi, relativi ma importanti, ottenuti sul piano sindacale e rivendicativo nel settore della logistica da parte dei vari sindacati di base sono dovuti alla lotta dura contro il sistema, molto italiano, delle cooperative, appalti, subappalti, gestioni mafiose, caporalato, mancata applicazione dei contratti nazionali, lavoro nero, bassi salari e mantenimento in condizioni miserabili di una forza lavoro prevalentemente immigrata. Tuttavia da questa dura lotta quotidiana sono emerse delle punte di radicalità, quando la lotta è riuscita a risalire la catena del valore e la filiera produttiva e distributiva delle merci, e a coinvolgere direttamente nel conflitto le grandi multinazionali della logistica o della grande distribuzione, dalla Bennet alla Esselunga, dalla Ikea alla Fedex, da Amazon a Leroy Merlin che davano in appalto alle cooperative il lavoro di facchinaggio, coinvolgendo nella lotta lavoratori dipendenti o precari di queste multinazionali, dai facchini ai riders ecc.

In queste occasioni la indistinta forza lavoro immigrata ha acquisito le caratteristiche, e anche la coscienza, di un nuovo proletariato multietnico, come parte di un proletariato multinazionale, tendenziale soggetto antagonista della nuova composizione di classe. Ed è questo l’aspetto politico più importante delle lotte nella logistica, in cui la distinzione classica fra lotta economica e lotta politica tende a scomparire.

Il proletariato infatti non è sempre uguale a se stesso, nel tempo cambia la sua composizione di classe e cambiano anche i suoi settori più combattivi. Il movimento operaio storico, formatosi nel quadro del capitalismo industriale dell’otto/novecento ha esaurito da alcuni decenni la sua funzione antagonista. Tanto di cappello naturalmente. Secondo alcune interpretazioni con le lotte nella logistica siamo ai primi passi del formarsi di un nuovo proletariato che per la sua composizione multietnica, si configura immediatamente come proletariato internazionale.

Qualcosa di simile era avvenuto negli Stati Uniti nei primi decenni del novecento, con gli IWW, che poi furono spazzati via con la violenza sia privata che statale. Sugli IWW è stato detto: “ Ciò che li caratterizzò fu un tentativo, per molti versi riuscito, di costruire un'organizzazione capace di unire la massa rilevantissima dei lavoratori immigrati, divisi nelle loro comunità etniche, esclusi dal sindacato corporativo che aveva l'egemonia sul movimento operaio statunitense l'American Federation of Labor che organizzava i lavoratori sulla base del mestiere e, imponendo alte quote per l'adesione al sindacato stesso, escludeva nei fatti la massa degli operai non specializzati, migranti, a basso salario[3].”

C'è poi ancora un altro elemento da considerare e cioè il rapporto fra lotte nella logistica e lotte sul territorio. Le lotte nella logistica sono già lotte territoriali, non riguardano il settore della produzione delle merci, ma il settore della circolazione. Si svolgono in territori particolari, come le aree commerciali, gli interporti, gli “hub” della logistica capitalistica, nelle immense distese di capannoni e magazzini alla periferia dei grandi centri abitati, quindi lontane dalle zone centrali gentrificate. Direi che la divisione netta fra la fabbrica come settore della produzione e il territorio come settore della riproduzione si è alquanto annacquata. Oggi il territorio si presenta come un mix di fattori produttivi e riproduttivi, si presenta soprattutto come attraversato da flussi continui, flussi di merci, di forza lavoro, di informazioni, di capitale finanziario. Da ciò deriva che una riproposizione secca della “centralità della fabbrica” o della “centralità operaia” tipica della fase del capitalismo industriale “fordista” è molto problematica. La definizione di un territorio da un punto di vista sia geografico che sociale può essere svolta attraverso una inchiesta che individui i settori produttivi (fabbriche, logistica, agenzie del lavoro ecc.) e quelli riproduttivi (abitazioni, scuole, centri commerciali, ospedali ecc.) mettendo sempre in evidenza la composizione sociale e di classe prevalente nel territorio stesso. Il blocco della circolazione delle merci operato dalle lotte nel settore della logistica può essere di esempio per altre lotte incisive sul territorio.

Le osservazioni che precedono sono, in parte, già note e oggetto di discussione. Però negli ultimi tempi e nelle ultime riunioni ho avuto l’impressione che qualcosa sta cambiando nel mondo della logistica. Già l’ingresso delle multinazionali americane come Fedex e, soprattutto, Amazon indicano che c’è qualcosa di nuovo in vista. A questo proposito non deve trarre in inganno il fatto che Fedex offra 40 mila euro a ciascuno dei 60 esuberi o che Amazon conceda gli aumenti, senza colpo ferire, a 13 lavoratori solo per essersi iscritti al sindacato. Non siamo in presenza di un rovesciamento del rapporto capitale/lavoro o di una redistribuzione generalizzata del reddito fra salari e profitti, semplicemente è usuale che una grande multinazionale utilizzi qualche briciola dei suoi profitti realizzati nel mercato mondiale per evitare problemi nel momento iniziale della sua scalata all’interno di un mercato nazionale. E’ significativo anche che Fedex è in procinto di lasciare Fedit, l’associazione delle imprese dei trasportatori, con cui sono stati siglati tutti gli accordi nazionali degli ultimi anni, cosa che fece già Marchionne con FCA nei confronti di Confindustria.

E’ possibile che gli stessi aumenti salariali conquistati dai lavoratori della logistica con dure lotte, aumentando il costo del lavoro, abbiano reso meno conveniente per i capitalisti ricorrere al tradizionale sistema delle cooperative in subappalto, dando l’avvio a una ristrutturazione del settore che mira a “ripulire i magazzini dai lavoratori sindacalizzati, ridurre il costo della forza lavoro, tagliare il personale, ristrutturare l’intera filiera e riprendere il controllo totale, tentando di azzerare anni di lotte in tutto il settore logistico e delle spedizioni”. Si parla, a questo proposito, del tristemente famoso “modello Amazon” con il conseguente ricorso al lavoro interinale e somministrato. Naturalmente questo comporta anche, come nel caso di Amazon, un ricorso all’innovazione tecnologica che mira a risparmiare lavoro vivo e a intensificare l’intensità del lavoro degli operai occupati. A questo proposito dobbiamo rilevare che noi non siamo a priori contrari all’innovazione tecnologica, il cui effetto è comunque quello di ridurre il lavoro necessario che, se equamente distribuito, porterebbe a una riduzione drastica della giornata lavorativa. La situazione odierna presenta quindi, rispetto alle lotte dell’ “operaio massa” degli anni 70, sia analogie che profonde differenze: il nuovo soggetto antagonista è ancora un immigrato, questa volta multietnico e multirazziale, dequalificato, che lavora in genere nel sottosistema degli appalti e delle cooperative della logistica o sotto il caporalato nelle campagne, quindi senza diritti e sottoposto a un supersfruttamento con salari da fame, quando non con il lavoro nero. Un soggetto certamente più ricattabile, ma che comunque manifesta oggi un antagonismo maggiore rispetto al vecchio, e molto ridotto in termini numerici, proletariato autoctono di fabbrica. Inoltre questo nuovo proletariato può essere considerato da subito una frazione di un immenso proletariato immediatamente internazionale, e pertanto immune da tendenze nazionaliste o “sovraniste”.

Va comunque detto, a questo punto, che la questione del proletariato industriale, delle sue lotte, della sua composizione sia numerica che sociale, deve essere riconsiderata oggi a livello mondiale, ivi compresi i paesi di nuova industrializzazione, mentre una visione ristretta al solo mondo capitalistico occidentale può risultare alla fine fuorviante. Oggi nelle lotte della logistica si ottengono, in molti casi, aumenti salariali notevoli e conquiste normative importanti, ma che rimangono, in massima parte settoriali. La notevole difficoltà nella generalizzazione della lotta è il risultato della disgregazione e della concorrenza fra i proletari indotta dalla crisi. Su questa difficoltà pesano la diffusione del precariato, la diversità dei contratti nello stesso ambiente di lavoro, il lavoro somministrato dalle agenzie del lavoro, il lavoro nero o, addirittura gratuito (stage, lavoro volontario ecc.). Nel capitalismo delle piattaforme (uber, riders ecc.) il lavoratore figura addirittura come imprenditore di sé stesso. Intanto continuano le crisi industriali, dalla GKN alla Gianetti, dalla ex ILVA alla Whirlpool, con la prospettiva di migliaia di licenziamenti. Mentre, in questa situazione, da alcune parti si avanzano richieste di un salario garantito o di un reddito di base incondizionato.

Nonostante quanto detto in precedenza le prospettive di una ricomposizione di classe si sono rivelate, negli ultimi tempi, né immediate né facili. Fra le lotte nella logistica e quelle del proletariato autoctono non si è verificata alcuna significativa convergenza. Le nuove difficoltà prima segnalate nel settore della logistica hanno comportato un certo isolamento delle lotte, anche dure, e una maggiore esposizione alla repressione. Le lotte del proletariato autoctono industriale si sono accese solo in occasione di chiusure di fabbriche con i relativi licenziamenti in tronco. Prendiamo l’esempio più rilevante e cioè quello della GKN di Campi Bisenzio Questa lotta è stata caratterizzata dal profondo radicamento del collettivo di fabbrica fra gli operai e nel territorio, che ha consentito una eccezionale tenuta dell’occupazione della fabbrica, che ha ricordato, a tratti, quanto avvenne alla INNSE di Milano nel 2009. Tuttavia, pur partendo dallo scontro con la multinazionale britannica Gkn e il fondo finanziario Melrose, l’orizzonte di questa lotta si è mantenuto all’interno di una opposizione alle delocalizzazioni e della rivendicazione di un intervento di politica industriale da parte dello stato che mettesse in sicurezza la storia industriale della fabbrica e la professionalità degli operai.

Dal reportage di Andrea Bagni, frutto della sua esperienza durante un turno di sorveglianza notturna alla GKN, pubblicato sul numero 2 di questa rivista, emerge la figura di una “antica classe operaia, radicale quanto colta, ricca e consapevole del suo sapere” in cui “c’è ancora una sorta di sincero orgoglio del lavoro, del lavoro fatto bene... ci spiegano tutto, veramente tutto, come fosse la fabbrica una loro creatura, e noi facciamo finta di capire, ma è un linguaggio molto tecnico, tutto particolare.” Un soggetto operaio capace di “rivendicare radici e senso collettivo, appartenenza a una comunità”[4]. A prima vista sembrerebbe un ritorno a una era prefordista, prima della catena di montaggio, a quello che, nella tradizione operaista, era definito “operaio professionale”, dotato di sapere e parte cosciente di una “comunità operaia” che sembrava scomparsa. Poi però mi viene in mente che l’inchiesta e l’analisi sull’organizzazione del lavoro in fabbrica si è interrotta dopo gli anni 90, quando si parlava di postfordismo, di “toyotismo”, di organizzazione del lavoro “a isole di produzione”, di “just in time” ecc. e che quindi oggi sappiamo molto poco del rapporto operaio/macchina. Oppure si può pensare che il passaggio della proprietà delle fabbriche ai grandi gruppi finanziari abbia prodotto un distacco fra il management, interessato solo alla valorizzazione del capitale azionario e gli agenti diretti della produzione, operai o tecnici.

In conclusione da quanto detto sopra si può dedurre che il percorso della ricomposizione di classe non è dietro l’angolo. Oltre alla precarizzazione e frammentazione del lavoro esistono altri fattori contrari, come le divisioni etniche e razziali o, negli ultimi tempi, le divisioni indotte dalla gestione governativa della pandemia. Anche se le ultime manifestazioni studentesche e operaie dopo la morte in alternanza scuola/lavoro di Lorenzo Parelli fanno ben sperare in una accelerazione del percorso unitari.


Da «Collegamenti», n. 3

* Per inciso, il fatturato della logistica è schizzato alle stelle, vedi: https://www.osservatori.net/it/ricerche/comunicatistampa/settore-logistica-trend-fatturato#:~:text=Logistica%3A%20dopo%20il%20Covid%2D19%20la%20svolta%20sostenibile&text=Il%20mercato%20della%20Contract%20Logistics,(87%20miliardi%20nel%202019). [a cura di d. e.]

Note
[1] Marina Forti, La bancarotta delle navi Hanjin è lo specchio della crisi globale «Internazionale»14 settembre 2016.
[2] Sergio Bologna,– La tribù delle talpe, «Primo Maggio», n. 8. 1 aprile 1977.
[3] Cosimo Scarinzi, I wobblies: le radici e le ali, 19 maggio 2014.
[4] Andrea Bagni, Lotta alla GKN, «Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe», n.2 – Ottobre 2021.

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