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rassegna sind

 

Nell'inferno del nuovo caporalato

Apartheid sul lavoro

di Alessandro Leogrande*

Una moderna schiavitù sta diventando funzionale ai bisogni delle società occidentali. Nei luoghi di segregazione i migranti sono controllati da padroni pronti a punire ogni tentativo di fuga. I caporali stranieri hanno preso il posto dei caporali italiani

(Da Il Mese di febbraio 2009) Oggi non è più una forzatura giornalistica parlare di schiavi del lavoro. Sono le direzioni distrettuali antimafia di molte città italiane, da Nord a Sud, a farlo. Sono alcuni dei nostri migliori magistrati che operano nell’ombra, lontani dalle inchieste sugli intrecci tra politica & affari, sui Ricucci e sui Romeo, a dirci che il reato di “riduzione in schiavitù” si sta pericolosamente estendendo nel mondo del lavoro. Le vittime sono lavoratori stranieri: quasi sempre stagionali dell’Europa dell’Est che costituiscono l’ultimo anello, il più povero, della catena migratoria dai loro paesi; o sans papiers enormemente ricattabili perché “clandestini” e quindi avviati verso un sottobosco di emarginazione legale che produce emarginazione sociale. Siamo di fronte a un nuovo apartheid, ai bordi della società e del mondo del lavoro. Il primo sfruttamento che subiscono i nuovi schiavi è esercitato da caporali, spesso della loro stessa nazionalità, anch’essi stranieri. Sono storie di miseria, violenza, degrado, brutalità quelle che le inchieste della magistratura rivelano. Ed è impressionante notare come, in una conversazione intercorsa tra due caporali polacchi operanti nel foggiano, e intercettata dai carabinieri, i due interlocutori si chiamassero – scherzando – “kapò”. A loro modo avevano tradotto la parola italiana “caporale” in “kapò”, e la utilizzavano tranquillamente per definire il proprio lavoro... Tuttavia, nel descrivere questo sottomondo che si sta estendendo, non bisogna lasciare il minimo spazio a interpretazioni xenofobe. Queste storie non si ripetono perché i loro attori sono “stranieri”; bensì perché – in una società come la nostra, in cui gli ultimi sono non-italiani - è proprio nel sottomondo delle migrazioni più deboli, privo di diritti e argini materiali, che ritorna il medioevo lavorativo. Pochi criminali fanno soldi sulla fatica e sul sudore di tanti altri, ma ciò che va messa in luce è una domanda più profonda: a chi giova tutto questo?

Basta un’osservazione empirica. I nuovi caporali stranieri hanno preso il posto di caporali italiani (che molto spesso continuano a svolgere il proprio lavoro “subappaltandolo” a non italiani) perché questo è funzionale all’arretratezza di una parte del nostro sistema produttivo. È stato così in agricoltura, nelle filiere meno controllate dell’edilizia, nel mondo chiuso delle badanti, nei laboratori tessili soggetti alle nuove mafie... Una moderna schiavitù sta diventando funzionale ai bisogni delle società occidentali in crisi. Basta vedere cosa accade in agricoltura, ad esempio nel mondo del pomodoro o delle arance: l’utilizzo di braccianti privati di ogni diritto è la prima arma di cui dispongono i piccoli e medi proprietari pugliesi, calabresi, siciliani eccetera per stare, come dicono loro, “sul mercato”. Cioè per competere al ribasso, comprimendo oltre ogni logica il costo del lavoro. È un sistema che rischia di uscire totalmente fuori dai gangheri. Il 27 gennaio scorso ha avuto inizio a Bari il processo d’appello per i 17 caporali stranieri (15 polacchi, un algerino, un ucraino) accusati in primo grado di associazione a delinquere finalizzata alla tratta e alla riduzione in schiavitù di migliaia di braccianti. Non centinaia, ma migliaia. Non un caso isolato, ma un sistema esteso in tutto il Tavoliere, nella più grande pianura agricola del Mezzogiorno, di cui hanno beneficiato decine e decine di imprenditori locali. Il processo barese costituisce un precedente importante, anche perché – per la prima volta – un caporale straniero, tra i tanti imputati, ha deciso di diventare collaboratore di giustizia. Ma altri procedimenti, molto simili, potrebbero aprirsi in questi anni. Già nell’estate del 2006, ad esempio, quando i nuovi caporali di Puglia vennero arrestati dai carabinieri del Ros nel corso dell’operazione Terra Promessa, fu lo stesso Ros a mettere in relazione quell’operazione con un’altra svolta altrove, su tutt’altro fronte. L’operazione Nuova Era (così era stata chiamata) aveva portato un anno prima, nel maggio del 2005, al fermo di 15 cinesi su richiesta della Procura distrettuale antimafia di Ancona. Tutti indagati per associazione di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, i 15 (e molti altri insieme a loro) avevano messo in piedi una tratta schiavistica dalla Cina, riducendo al ruolo di vittime centinaia di loro connazionali. Anche in questo caso, non è il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a inquietare (simile a migliaia di altre storie), ma i modi della tratta. I membri dell’organizzazione reclutavano in Cina le persone interessate a migrare verso l’Europa, promettendo loro un viaggio rapido e la possibilità di introdursi clandestinamente nel paese prescelto, spesso per ricongiungersi ai familiari. I migranti utilizzavano inizialmente il proprio passaporto o un altro falso fornito dai trafficanti, ma giunti in Turchia o in Grecia (dopo un lungo viaggio attraverso la Russia e la Giordania) venivano sequestrati, privati dei loro documenti e segregati in appartamenti.

A quel punto veniva avviata, con i familiari presenti in Italia o in Cina, una trattativa telefonica per il pagamento del riscatto, cioè di ulteriori somme di denaro rispetto a quelle precedentemente pattuite e in parte corrisposte prima del viaggio. I sequestri si sono spesso protratti per più di un anno, e in tale lasso di tempo le vittime potevano essere trasferite anche da un paese all’altro, in un gioco dei quattro cantoni difficilmente afferrabile da parte delle autorità inquirenti oltre che dagli stessi famigliari dei sequestrati. Nei diversi luoghi di segregazione i migranti ingannati erano controllati da un “padrone” e dai suoi aiutanti, pronti a trattarli come bestie e a punire duramente ogni tentativo di fuga. Solo una volta ottenuta la promessa di pagamento del riscatto l’organizzazione forniva un passaporto falso, affidando il sequestrato a un “traghettatore” che, a bordo di navi di linea, lo accompagnava ad Ancona, a Roma o a Napoli. Qui, soprattutto a Napoli, queste “anime morte” del XXI secolo venivano consegnate ad altri membri dell’organizzazione, incaricati di custodirle fino al completo pagamento della somma pattuita. Ma qualora i pagamenti fossero stati insufficienti rispetto alle richieste, perché magari i famigliari in Italia non erano riusciti a mettere insieme tutti i soldi, la schiavitù proseguiva con il lavoro nero in laboratori tessili, fino al completo saldo del debito. In alcuni casi le vittime sono state rivendute ad altre organizzazioni che continuavano a gestire il loro sfruttamento, in un’eterna catena di Sant’Antonio che solo in minima parte è stata interrotta dagli arresti del 2005. Ciò che stupisce nelle storie di schiavitù è l’intreccio di crimine ed economia.

A occuparsi di questi casi, come è giusto che sia, sono sempre procure antimafia che ravvedono un’incredibile livello organizzativo, capace di travalicare le frontiere. Eppure l’attività di queste organizzazioni variamente assortite non è orientata al crimine tout court, ma all’intermediazione criminale di manodopera globale. Reggono in questi modi il nuovo mercato delle braccia, fornendo all’economia globale i nuovi schiavi che, impiegati a decine di migliaia, permettono di mantenere bassissimi i costi di produzione. Si tratta di nuove mafie che hanno molto poco delle vecchie mafie, anche quando magari scendono a patti con esse. Anche quando magari trovano un punto di mediazione con la camorra o con la ’ndrangheta. La loro forza non è nel radicamento sul territorio, ma nell’abitare fluidamente gli anfratti più scabri dell’economia globale. È qui che matura il loro immenso potere e prosperano i loro guadagni. Ci siamo dilungati sulla comunità cinese, perché in genere delle storie e delle fratture che l’attraversano si sa molto poco. Storie simili erano state raccontate da Maria Pace Ottieri in un capitolo di Quando sei nato non puoi più nasconderti (Nottetempo, 2003) e in I cinesi non muoiono mai (Chiarelettere, 2008) di Riccardo Staglianò e Raffaele Oriani, in cui si racconta che le nuove mondine, le nuove Silvana Mangano del Riso amaro post-moderno, sono giovani donne cinesi sfruttate oltre ogni immaginazione. Ma le storie di sfruttamento della forza lavoro migrante riguardano tutte le comunità: europee e non europee, africane e asiatiche. Certo, ci sono anche centinaia di migliaia di storie positive, di integrazione, di lavoro regolare.

Ma laddove il lavoro diventa irregolare siamo ben oltre quello che normalmente percepiamo come “lavoro nero”. Si scende nei gironi del caporalato più crudo, e molte volte – come visto – nello schiavismo. È così da Nord a Sud, dal ricco Piemonte alle province più povere di Sicilia e Calabria. Ovunque, nelle campagne e nei cantieri, la base più sregolata della nostra produzione è ormai non italiana. E quando questi lavoratori sono non comunitari molto spesso sono privi di permesso di soggiorno. Impossibilitati a denunciare i loro caporali e i datori di lavoro che di essi si servono, perché temono – più di ogni altra cosa – di finire in un centro di identificazione ed espulsione (gli ex Cpt). Il pacchetto sicurezza elaborato dalla Lega e dal Pdl, respingendo come la peste la richiesta di una nuova sanatoria per gli immigrati irregolari che lavorano, non fa che aggravare la loro esclusione. I nemici individuati dalla Lega sono proprio i nuovi schiavi (la forza lavoro più sfruttata e indifesa), non i loro aguzzini. C’è una profonda differenza tra il nuovo e il vecchio caporalato. E il panorama del nostro Sud agricolo lo rivela appieno. Un tempo i nostri “cafoni” condividevano lo stesso orizzonte sociale del caporale. Abitavano lo stesso borgo, e stabilivano con il caporale, e quindi con il padrone alle sue spalle, dei rapporti di forza di lunga durata, che impedivano – per la loro stessa natura – che il caporalato si trasformasse in schiavitù. Certo, c’erano la fame, la malaria, la mortalità infantile... ma oggi accade qualcosa di profondamente diverso. I braccianti stranieri percepiscono le nostre campagne come una “terra di nessuno” con cui non condividono niente e a cui è difficile prendere le misure. Nei casi più estremi sono stati segregati in veri e propri “campi di lavoro”. E anche quando si insediano nelle borgate e nei casolari intorno ai paesi (in Puglia, Campania, Sicilia, Calabria si sono creati ormai decine di “villaggi africani”) non c’è alcuna forma di integrazione con il tessuto urbano e sociale di quegli stessi paesi. C’è una distanza siderale: ogni chilometro ne vale cento; ed è proprio questa estraniazione a generare la profonda debolezza che alimenta la moderna schiavitù.

Tante storie di violenza, che finiscono in cronaca e che sono rubricate sotto la voce “sicurezza”, sono in realtà storie di sfruttati. Di nuovi braccianti, di nuovi operai e della loro sofferenza. Come quella della giovane donna rumena (bracciante) stuprata a fine gennaio a Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, da cinque connazionali. Era un muratore licenziato da pochi mesi l’indiano bruciato alla stazione di Nettuno. Così come la stessa strage di Castel Volturno, in cui hanno perso la vita sette africani, non è stata una strage di camorra. È stata una strage di braccianti per mano di un commando della camorra; ed è avvenuta nella stessa terra in cui quasi vent’anni prima era stato ucciso Jerry Masslo. Masslo, rifugiato politico sudafricano, era a Villa Literno per raccogliere i pomodori insieme a migliaia di altri africani. E quando un gruppo di balordi entrò nel casolare dove dormiva per rubarvi i pochi averi oppose resistenza. Fu freddato a colpi di pistola. Era il 1989. La sua morte segnò uno spartiacque nella percezione del razzismo italiano e dell’anarchia rurale di molte parti del Mezzogiorno. Ma chi lo ricorda, oggi, come una vittima dell’apartheid del pomodoro?

* Alessandro Leogrande ha appena pubblicato per Mondadori Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi delle campagne del Sud. Si tratta di un’indagine rigorosa, condotta attraverso l’analisi delle carte processuali e l’incontro diretto con le vittime, i magistrati, gli avvocati, i sindacalisti e i medici, sulle nuove forme di schiavismo che si configurano nelle campagne del Tavoliere pugliese in particolare per la raccolta del pomodoro.
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