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La società attiva nel consumare la vita

di Nicola Casale e Raffaele Sciortino

Il Libro Bianco di Sacconi "La vita buona nella società attiva" non è l'ennesima picconata al traballante edificio del welfare state, ma vuole essere l'ultima vangata che ne spazzi via i residui. Il leit-motif non a caso non è più la compatibilità di bilancio, ma "l'autosufficienza di ciascuna persona", la sua "centralità, in sé e nelle proiezioni relazionali", con "comportamenti e stili di vita responsabili, utili a sé e agli altri".

L'obiettivo è eliminare l'egoismo corporativo che spinge i lavoratori a stare sul mercato come soggetto collettivo anziché da individui. Il momento è propizio: due sindacati hanno dimesso ogni "collettivismo". Il terzo si macera nel dilemma tra resistenza e accodamento, verso cui spinge anche l'ex-referente politico (Pci-Pds-Ds)-Pd. Il quarto (extra-confederali) fatica a diventare un soggetto di peso.

Ma è propizio per due altri motivi: il precedente ciclo di lotta ha lasciato profonda sfiducia nell'azione collettiva; e il quadro generale in cui s'era sviluppato è radicalmente mutato: l'economia non cresce più, le imprese sono sempre più volatili, lo stato si ritrae dal "sociale". Schemi, forme e organizzazioni di quel ciclo sono fuori corso. La lotta della Innse è, suo malgrado, paradigmatica: per conservare il lavoro si lotta per conquistare... un padrone desideroso di "intraprendere" piuttosto che di puntare alla roulette della finanza (un homo oeconomicus di cui peraltro la crisi testimonia la rarefazione e accelera l'estinzione).

Il progetto sacconiano riassume una tendenza globale di exit strategy dalla crisi globale: ridurre drasticamente i salari (diretti e indiretti) per far crescere l'economia. L'argomentare del Libro, tuttavia, cerca di elevarsi dal piatto economicismo e si cimenta nella descrizione dei vantaggi individuali e collettivi di una vita buona in quanto attiva.

Ai pensionati, per esempio, non si minaccia l'esplicito taglio della pensione, al modo in cui l'FMI lo pretende in Lettonia. Il rischio di "razionamento delle prestazioni" è ventilato [p. 60] ma, per lo più, li si circuisce con la seducente prospettiva di prolungare la "vita attiva", unico modo per evitare solitudine e abbandono, nonché per fornire sostegno alle famiglie. A tutti i cittadini viene spiegato come lo sviluppo delle tecnologie rende ognuno libero di "scegliere" come curarsi, emancipandosi dal paternalismo del vecchio welfare che decideva con le sue procedure burocraticamente egualitarie della cura e della vita di ciascuno.

La centralità della persona costituzionalmente tutelata [p. 22] può, così, venire a compimento. Libera di scegliere una vecchiaia attiva, dove e come curarsi, come garantirsi da infortuni e perdita del lavoro, con minimo aiuto statale, e l'adesione a specifici piani assicurativi.

Chi ha scritto il Libro sa che la prospettiva del "multipilastro" assicurativo è per i pochi che dispongano di risorse. Per i più dispone un'altra ricetta: estensione delle attività del terzo settore, profit e non profit, della sussidiarietà, e, insieme, richiamo all'assunzione di responsabilità di individui e famiglie verso se stessi e nelle di reti di solidarietà sul territorio. D'altronde, "la storia del nostro Paese è storia del dono" [p. 67].

Il colpo finale all'"egoismo corporativo" è dunque uno degli obiettivi del libro. L'altro è il rilancio dell'economia, ossia delle occasioni di profitto per chi detiene capitale. Vediamo come.

Le delocalizzazioni generano disoccupazione, ma anche impoverimento del capitale nazionale. Il sogno [p. 13] delle multinazionali, di spostare altrove la produzione mantenendo "nel territorio di origine le funzioni più intelligenti" e i profitti è, per l'Italia del "piccolo è bello", pura chimera. Come stimolare allora gli investimenti? Lasciando andare in malora i salari. In modo asettico il libro avverte che la crisi aumenterà la pressione su salari e occupazione [p. 10], ma non se ne dà pena, anzi tesse le lodi del lavoro con il quale "l'uomo scopre la sua dignità, sviluppa relazioni sociali ed esercita il proprio desiderio di costruire" [p. 26]. Con una retribuzione "equa ... perché proporzionata ai risultati dell'impresa" [p. 27], cui i lavoratori partecipino con la "democrazia economica" rifuggendo il peccato mortale di intaccare la "libertà di iniziativa" dell'impresa e in un contesto che premi i meriti grazie alla contrattazione aziendale e individuale.

Anche all'impresa più premiale, tuttavia, non è garantita l'esistenza eterna. Il lavoratore non deve, dunque, concepirsi come "titolare di un contratto di lavoro dipendente" [p. 34], ma accettare di passare da dipendente ad autonomo, con intervalli di forme intermedie e periodi di formazione. Il nuovo welfare potrebbe sostenerlo negli intervalli (meglio se integrato da assicurazione individuale), ma deve essere soprattutto l'individuo ad autosostenersi, superando i propri limiti e egoismi, impegnandosi a intraprendere, imparare, migliorarsi [p. 26]. Di tale formazione l'impresa è il luogo più idoneo [p. 19], il conseguimento dei titoli di studio va legata ai contratti di apprendistato [p. 20 e 43] il che vale anche per titoli universitari e dottorati di ricerca (la riforma dell'università è completata: fagocitata dall'impresa!).

La prospettiva insomma è di spingere a trascorrere ogni singolo minuto della propria esistenza nel lavoro o per il lavoro. La "maledizione" che monsignor Sacconi nella presentazione [p. 6] vorrebbe esorcizzare!

Traduciamo a spanne: le aziende non possono erogare salari che garantiscono una sopravvivenza dignitosa, lo stato non può fornirvi il welfare cui siete abituati, ma non lamentatevene, cogliete anzi l'opportunità di rendere più attiva la vita, nel senso di prolungare l'età lavorativa e di impegnarvi in altri lavori, anche non salariati, gratuiti. Avrete il vantaggio di arricchirvi sul piano relazionale e diventare più adulti, passando da una aspettativa assistenzialista ad una assunzione di responsabilità verso voi stessi, la famiglia, il territorio che vi circonda e l'intero paese. Il moltiplicarsi dei lavori permetterebbe di valorizzare le risorse umane e creare opportunità di investimento per Compagnie delle Opere, Coop bianche e rosse, o come altro si chiamino.

Le forze lavorative si accrescerebbero più di quanto si siano accresciute con la flessibilità introdotta finora, e includerebbero nel mondo del lavoro chi, essendone escluso, rischia solitudine e abbandono. Il mercato perderebbe ogni "rigidità" e la creatività imprenditoriale potrebbe sbizzarrirsi nel diversificare contratti, salari e orari, adeguandoli, va da sé, alle esigenze dei nuovi inclusi. Così, appunto, anche l'economia sarebbe rilanciata.

La pressione sui salari aumenta il bisogno di lavorare, e ciò diviene occasione per accrescerla ulteriormente. Il capitalismo provoca miseria, ma dalla miseria può ripartire per rilanciarsi ... per creare miseria maggiore. Questo meraviglioso obiettivo deve fare i conti con alcune resistenze. Il Libro le bolla senza mezzi termini.

A p. 24 deplora un aspetto della situazione attuale: "Un'idea di libertà assoluta, svincolata da ogni legame ... ha condotto le persone a sperimentare la vertigine di una soluzione esistenziale sempre più isolante. All'incapacità di aderire alla realtà è conseguita una maggiore fragilità esistenziale e morale. Un individuo isolato e inerme di fronte alla realtà è l'esito ultimo di un certo nichilismo moderno." In effetti sembra la descrizione (moralista) di quanto Berlusconi (il miglior analista di sé come fenomeno politico, visto il deserto a sinistra) va dicendo vantandosi che gli italiani lo amano perché vorrebbero essere come lui. Ma passare dal nichilismo individualista a comportamenti socialmente più "responsabili" sarà molto difficile e lo stesso eventuale ritiro del capo (che peraltro trascinerebbe con sé molti dei "miracolati") non sarebbe assolutamente sufficiente.

Tra le resistenze, oltre all'"egoismo corporativo" di cui si è detto, figura la vecchiaia. Il Libro ne è ossessionato. Sembra che la colpa principale di ognuno sia desiderare una vecchiaia improduttiva. L'invecchiamento mina gli equilibri del sistema previdenziale e assistenziale ma ha anche la tendenza "a privilegiare la rendita e la sicurezza e vuol dire meno lavoro, meno consumi e meno investimenti" [p. 10]. Vuoi vedere che la vera causa della crisi sono gli anziani che usufruiscono del salario differito invece che le rendite del capitale finanziario?

La seconda ossessione sono i giovani. A loro si rinfaccia il rifiuto sistematico di "certe occupazioni" mentre "ogni lavoro e ogni mestiere ... ha la sua importanza e la sua dignità" [p. 27]. E se ne dà una descrizione durissima: "Deresponsabilizzazione, incapacità a mettere in relazione le proprie aspirazioni con le esigenze sociali del momento e profondo senso di distacco dalla collettività colpiscono al contempo i giovani e la società: generano frustrazione nei primi e nelle loro famiglie e privano il Paese della inventiva e delle energie proprie delle nuove generazioni ... Una enorme insistenza sui diritti e uno scollamento con i doveri che normalmente derivano dalla convivenza sociale. La moltiplicazione di diritti "insaziabili" determina la perdita del senso del bene comune che non è certamente la mera sommatoria del bene dei singoli individui" [p. 28]. Questa condizione giovanile è, per caso, dovuta a precarietà, difficile accesso alla casa, crisi dell'educazione e della formazione? No, è la sentenza, queste sono tutt'al più conseguenze, le cause sono da ricercare nel "silenzioso mutamento sociale che ha fatto dell'Italia un paese bloccato". Vanno tutti, insomma, adeguatamente ri-educati a un "comportamento fondato sulla responsabilità ... essere utili a sé e agli altri ... con forme di protezione che ... garantiscano non gratuite e deresponsabilizzanti sicurezze ma opportunità di inclusione e di crescita". Inclusione dove? Nel mercato del lavoro con bassi salari ma soddisfatti per la dignità. Crescita di cosa? Dei profitti, con il diritto alla "equa retribuzione" in rapporto ad essi, sempreché ci siano.

Dura reprimenda anche per la scarsa propensione generativa, dovuta a "influenze culturali: la perdita delle competenze genitoriali e del valore della maternità,... la scarsa propensione degli uomini italiani alla condivisione dell'impegno domestico e la scarsissima valorizzazione del lavoro di cura" [p. 37].

Un bel lavoro di disciplinamento sociale aspetta Sacconi & C. per realizzare la "società attiva" che regali a tutti la "vita buona". Ci si dedicheranno, senz'altro, con tutto l'entusiasmo che richiede la difesa della propria condizione di privilegio e della conservazione del sistema che gliela elargisce.

Il progetto del Libro Bianco esplicita la tendenza generale del sistema capitalista per uscire dalla crisi: ridurre i salari e insieme estendere a tutta la vita il tempo di cui il capitale si appropria. La diminuzione dei salari è operata soprattutto con il dispiegarsi della concorrenza senza vincoli alimentata anche dalle campagne securitarie e dal razzismo.

La diminuzione dei salari spinge a lavorare di più, ma espone i lavoratori al rischio di non soddisfare i propri bisogni e a indebitarsi. Qui intervengono produzioni a basso costo e di scarsa qualità, e insieme la necessità di dedicare frazioni crescenti del proprio tempo per la riproduzione propria e della famiglia per bisogni prima soddisfatti dal salario. Così, da un lato, una parte crescente del lavoro riproduttivo non è -o torna a non essere- remunerata, a costo zero per il capitale; dall'altro, si incentivano comportamenti pro "sociale attivo" e si creano nuove occasioni di profitto. Si lavora di più per la produzione, ma aumenta anche il tempo necessario alla riproduzione, e diminuiscono i costi per il capitale che si appropria così di una frazione maggiore del tempo di vita altrui.

Il fenomeno non è frutto della genialità di Sacconi, né inizia adesso. Quel che adesso si realizza, anche grazie alla crisi in atto, è una sua potente accelerazione. È tempo di lavoro non pagato far benzina al self-service, pagare ai caselli automatizzati, passare allo scanner le merci nei super-mercati. È tempo di lavoro non pagato quello di cura caricato sulle donne nella famiglia, e quello che, donne e uomini, giovani ed anziani, dovranno sempre più dedicare alle mille incombenze domestiche, scolastiche, sanitarie, ecc. che non potranno più pagarsi con il salario, né avere sotto forma di salario indiretto come prestazioni dello stato.

Il progetto affiora in tutto l'arco occidentale e non è irrealizzabile. Dalla sua, infatti, ha il consenso attivo dei ceti dominanti, ma anche lo svilupparsi di una tendenza dal basso. Chi per vivere non ha altra risorsa che la forza-lavoro è preso sempre di più nella morsa, da un lato, delle difficoltà a trovare un acquirente disposto a pagarne adeguatamente il consumo, e, dall'altro, di uno stato dal braccino sempre più corto.

In altri tempi simili condizioni avrebbero prodotto movimenti e rivolte per maggiori salari, migliori condizioni di vita e uno stato meno distratto verso i lavoratori. Oggi, si devono fare i conti con il bilancio negativo di quel ciclo, la persistente mancanza di un'alternativa generale, l'aleatorietà delle imprese e l'erosione delle risorse finanziarie dello stato.

Per sopravvivere, nel cuore della crisi, diviene obbligatorio ampliare le proprie auto-attività sul piano della riproduzione nonché ricorrere a forme di scambio non monetario nell'ambito dei circuiti di prossimità.

La tendenza contiene, però, un'ambivalenza storicamente inedita. Se cresce la difficoltà a vendere la propria forza-lavoro per un corrispettivo adeguato e cresce la necessità di utilizzarla per sé e nell'ambito di una comunità non del tutto dominata dallo scambio lavoro/denaro, potrebbe "pericolosamente" diffondersi anche l'idea di poter fare a meno di quella vendita e organizzare la vita sociale impiegando la capacità lavorativa dei singoli, in modo cooperativo, per la sopravvivenza del singolo e dell'intera comunità. L'ipotesi comporta immani problemi teorici, politici e pratici, ma una conseguenza certa: la scomparsa del lavoro salariato porterebbe con sé anche la scomparsa del capitale.

Il rischio per le élites globali di una autonomizzazione della cooperazione sociale è al momento remoto. Non di meno è indicativo che questa paura si fa strada nella testa di qualche imprenditore che, aspettando la ripresa, cerca di non rompere il legame con la manodopera qualificata evitando di licenziarla o forzarla a durevoli periodi di inattività. Alla lunga infatti la minaccia potrebbe ingigantirsi, se e quando dovessero manifestarsi forme di rifiuto a sottomettersi a un lavoro che non ripaga neanche la sopravvivenza, mentre esistono altre possibilità per procurarsela. Se ne ha un chiaro riscontro nelle invettive sacconiane contro la scarsa propensione "a mettere in relazione le proprie aspirazioni con le esigenze sociali del momento" e a disciplinarsi a qualunque tipo di lavoro e di salario. Il Libro Bianco si ripromette di ridurre al minimo il "rischio" elaborando un impianto ideologico-politico che metta la tendenza alla cooperazione non salariata e non sussunta al servizio di una ripresa del capitalismo, trasformando le autoattività per la sopravvivenza in nuove opportunità per rilanciare la spirale dei profitti.

Non è possibile approfondire le ragioni per cui questo incremento di pluslavoro/plusvalore difficilmente risolverà la crisi. E' il caso invece di richiamare il nodo politico fondamentale: quello della responsabilità.

Il Libro la richiama in negativo in rapporto alla de-responsabilizzazione sociale prodotta dallo statalismo del welfare e all'eccessivo individualismo suscitato dal delirio dell'arricchimento personale. In positivo per indurre a lavorare di più per sé stessi e soprattutto per incrementare i profitti.

Lo stato del resto sta effettivamente rivelando la sua incapacità di perseguire il bene comune e svelando la sua natura di "comitato di affari" di una classe sempre più rapace, desiderosa solo di rilanciare la crescita dei profitti (non si pensi al solo cavaliere, ma si legga con attenzione l'esperienza ulivista e l'attuale PD). Per altro verso, l'individuo è chiamato con accresciuta forza, dallo sviluppo dei rapporti economici e sociali, ad assumere su di sé una responsabilità che vada ben oltre la propria vita individuale e familiare. Lo schema secondo il quale ognuno si impegnava nel suo circuito ristretto (fabbrica, sindacato, quartiere) e, per il resto, si affidava alla democrazia con il voto o, al più, con la delega al partito, è oramai saltato. C'è veramente bisogno di una diversa assunzione di responsabilità che superi l'angustia della delega al partito, al processo della rappresentanza democratica e allo stato. Sacconi la vuole indirizzare nella circonferenza ben delimitata di uno stato più leggero (negli aspetti "sociali", ma molto più pesante in quelli militari all'esterno e securitari all'interno) che fornisca alle imprese manodopera disciplinata e a buon mercato, anche con massicce dosi di familismo di ritorno, per rilanciare un sistema in affanno. L'obiettivo di simili tentativi, o abbozzi, è in generale di evitare che individui costretti a sopravvivere senza reti statali (sul piano sociale) e senza garanzie assumano in carico con responsabilità il problema della propria sopravvivenza in uno con la sopravvivenza della Terra e della specie umana. E che, proprio per questo, possano determinarsi a esigere un modo radicalmente diverso di organizzare la produzione e la riproduzione della vita umana, fondando una nuova comunità reale e rifiutando quella illusoria dello stato.

Un po' provocatoriamente, allora si potrebbe dire che il terreno su cui la destra più attenta si muove (Sacconi, Tremonti, Lega) - almeno come programma, ché la questione della base sociale è assai meno lineare - non è dissimile da quello su cui in direzione opposta una nuova sinistra potrebbe nascere. I ritardi qui sono enormi. Altrove la questione è già emersa e produce movimenti e lotte che pure faticano ad attingere la scala globale.

Ovunque siamo all'inizio di un percorso per niente scontato che, per svilupparsi, richiede l'impegno di individui e soggetti politici in grado di fare tesoro di tutta l'esperienza di lotta del movimento operaio nei secoli passati senza, tuttavia, rimanere schiavi delle forme e dei contenuti che l'hanno caratterizzata.

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