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Il regime europeo del salario 3

Germania: sostenere la precarizzazione, esigere lo sfruttamento

di Lavoro Insubordinato

Vedi anche Il regime europeo del salario #1, Regno Unito e #2, Francia

Regime del salario EU G 768x432Guardando agli ultimi teatrali battibecchi tra i leader europei, sembrerebbe che vi sia nell’UE una divergenza di vedute sulle politiche migratorie. Le lunghe e vivaci discussioni al vertice di Bratislava parrebbero tradire la fine della coesione tra Italia, Germania e Francia, mentre a Est si forma un blocco a 4 che minaccia di dare un volto ancora più destro all’Unione, specie in fatto di migranti. A ben vedere, al di là delle tensioni, una tale sintonia tra i governi in tema di comando del lavoro e di governo della mobilità non si era mai vista. Il tanto osannato modello tedesco, avviatosi con l’agenda Schröder 2010 e le leggi Hartz – non a caso fondate sullo stesso principio del «sostenere ed esigere» («Fordern und Fördern») che ora Merkel sbandiera come principio cardine del governo delle migrazioni – è realmente esemplare in termini di impoverimento del lavoro e tagli al welfare. Un modello esaltato perché avrebbe portato la Germania al tasso di occupazione maggiore degli ultimi anni. Eppure, ciò che non si dice è che questo calo della disoccupazione ha significato un abbattimento dei salari e un incremento esponenziale di lavoro precario. In Germania, come in ogni Stato europeo, la lotta alla disoccupazione nasconde la logica secondo cui il lavoro è un privilegio da accettare a qualsiasi condizione. Imponendosi come espressione di politiche di respiro quanto meno europeo, questo modello detta la linea, fornendo la ricetta perfetta per un regime del salario fatto di compressione e precarizzazione dei resti di welfare, sfruttamento dei migranti extraeuropei e degradazione dello status dei migranti interni.

Dal 2003 a oggi l’incedere del regime europeo del salario in Germania è inesorabile. Gli ultimi capitoli di questa storia sono la riforma del welfare o legge Nahles, passata nel Bundestag il 23 giugno come legge per la semplificazione del quadro legislativo riguardante il sistema Hartz IV, entrata in vigore il 1 agosto 2016, e la legge sull’integrazione dei richiedenti asilo approvata a luglio. Mentre la riforma Nahles riguarda i cittadini tedeschi, proprio in questi giorni si stanno discutendo in Parlamento le proposte che toccheranno i migranti europei in Germania. Se un sistema sociale apparentemente solido ha fatto sì che finora gli effetti di questa precarizzazione fossero in qualche misura calmierati, ora è arrivato il momento di attaccare direttamente queste temporanee compensazioni al ricatto della precarietà. Anche il welfare sarà d’ora in poi qualcosa da conquistare a caro prezzo, diventando stabilmente uno strumento di controllo e disciplinamento della forza lavoro, migrante e non, anche se il pretesto della doppia riforma su immigrazione e welfare è proprio l’ondata migratoria. Il regime tedesco del salario viene dunque consolidato attraverso la riforma delle politiche sull’immigrazione, compresa la mobilità dei cittadini europei, e di quelle sul lavoro e sul welfare.

 

Il welfare come ricatto

La riforma di Hartz IV in discussione colpirà i migranti, europei e non, secondo il principio che bisogna guadagnarsi il diritto di restare con la disponibilità al lavoro. La «volontà di lavorare» sarà però misurata dal Job Center secondo criteri inappellabili e al prezzo di un più intensivo sfruttamento sul piano salariale e sociale. Finora il cittadino europeo residente in Germania per più di 6 mesi aveva diritto al sussidio Hartz IV, destinato a chi è in grado di lavorare ma non raggiunge col suo stipendio o con la sua pensione la soglia minima di sussistenza, oppure a chi è disoccupato in cerca di impiego, ma non ha diritto al sussidio riservato a chi ha versato una certa quantità di contributi per la disoccupazione. Se la riforma per i migranti interni passasse, i cittadini europei disoccupati che non abbiano mai lavorato in Germania e i cui sforzi per trovare lavoro non siano evidenti, non avranno diritto all’assistenza per ben cinque anni. Solo dopo questo periodo, infatti, il soggiorno potrà considerarsi stabile e il diritto al sussidio Hartz IV acquisito. Inoltre, al cittadino europeo non spetterà la Sozialhilfe, sussidio riservato a chi non è in grado di sostentarsi autonomamente, nonostante il parere contrario espresso dal BSG (Tribunale sociale federale). Con la scusa della semplificazione si vogliono così introdurre misure che limitano l’esigibilità dei sussidi sociali ai lavoratori «meritevoli» e la procrastinano a un futuro sempre più incerto per quelli che non riescono a provare il loro merito. L’effetto, spacciato come dissuasione dei turisti del welfare a stabilirsi in Germania, è più prevedibilmente un invito a sottomettersi alla precarietà senza aspettarsi nessuna protezione sociale.

Quella restrizione segue logicamente la stretta ai sussidi per i tedeschi che ne hanno pienamente e formalmente diritto. Con la riforma Nahles, infatti, chi accede al welfare dovrà pagare il suo debito verso la società. Questo sistema sancisce un’ineludibile dipendenza del lavoratore tanto dal salario quanto dalle strutture di mediazione, i Job Center, che diventano veri e propri organi di controllo della forza lavoro: il welfare viene concesso, prestato e venduto in cambio della disponibilità ad accettare anche lavori a pessime condizioni, minijobs, 1-euro jobs eccetera. Nel momento in cui riduce a un mese i tempi utili per il ricorso contro gli errori commessi dal Job Center nell’erogazione dei sussidi, la legge Nahles mira a diminuirne drasticamente il numero. Trascorsi 30 giorni, infatti, pur avendo ragione dal punto di vista giuridico, il ricorrente non riceverà quanto gli spetta, per ironia, di diritto! Questo nonostante le erogazioni del Job Center spesso e volentieri contengano errori e chi presenta ricorso abbia buone probabilità di vittoria.

 

Antisociali e indebitati

Se il beneficiario del sussidio rifiuta un lavoro che il Job Center gli o le offre rischia di rientrare nella fattispecie dei «comportamenti antisociali» e di incorrere in sanzioni che costituiscono una sorta di risarcimento per il danno subito dagli erogatori del sussidio. Il rimborso richiesto è pari al 30% del sussidio percepito e può essere fatto valere non appena il periodo di godimento scade, perché solo alla fine può essere quantificato il danno. Ciò vale anche nel caso in cui venga concesso un nuovo sussidio alla scadenza del primo. Il rimborso può essere riscosso fino a quando il danno non viene risarcito. La sanzione, tuttavia, viene valutata in base al tempo in cui si è ricevuto il sussidio fino a un massimo di 3 anni, un tetto che, come presagiscono in molti, prima o poi sarà fatto cadere per lasciare spazio a sanzioni a vita.

Se la fattispecie di comportamento antisociale non è nuova nell’ordinamento tedesco, pur essendo stata di difficile applicazione nel tempo, la sua progressiva generalizzazione è invece una novità. La riforma prevede infatti l’estensione della gamma dei comportamenti antisociali che possono implicare l’applicazione delle sanzioni, affermando una volta per tutte la disponibilità al lavoro precario come misura dell’adeguatezza sociale. Verranno ora considerati antisociali i comportamenti che mantengono, acuiscono o non diminuiscono la già esistente necessità di percepire un sussidio. La definizione è tecnica e si riferisce ora a condizioni ritenute oggettive: se non sei stato capace di mantenerti sei un individuo antisociale e come tale non meritevole dei benefici che la società dovrebbe garantire, anche attraverso il tuo sfruttamento. In questo modo chi rifiuta colloqui o offerte di lavoro di qualsiasi tipo, chi abbandona di propria volontà un impiego o un percorso di formazione, anche se non retribuito, oppure contravviene agli obblighi imposti dal Job Center è costretto ad affidarsi a un meccanismo di indebitamento, fatto di prestiti, e non più di prestazioni, e di sanzioni che innescano un perverso circolo di impoverimento.

Questo è più che mai evidente se pensiamo al trattamento riservato ai genitori separati e in particolare alle donne con figli a carico, la categoria più a rischio di povertà in Germania. Al genitore continua a poter esser sottratta parte del sussidio per i giorni che il figlio passa con l’altro genitore. La mancata introduzione di una prassi comune rispetto all’applicazione di questa misura farà sì che in questo campo non si verifichi, per il momento, una stretta ulteriore e non si approfondisca quell’istituzionalizzazione del controllo prevista dalla proposta di taglio totale delle prestazioni aggiuntive per il genitore con cui il figlio passa meno di metà del tempo, poi ritirata a causa delle polemiche suscitate. Anche nella condizione attuale, tuttavia, la detrazione del sussidio favorisce una coazione sociale a garantire l’integrità del nucleo familiare, restringendo gli spazi di libertà delle donne in quanto soggetti maggiormente colpiti dalla misura.

La riforma del welfare in Germania non istituisce solo un regime del salario in linea con quello che si va imponendo in tutta Europa, ma fa un passo oltre nella misura in cui obbliga tutti, cittadini e non, a obbedire a un codice sociale interamente rimodellato sulle necessità dell’ordine neoliberale e dello Stato che se ne fa garante.

 

Integrazione nella precarietà

La stessa logica guida anche la riforma dell’«integrazione»: la Germania non può rimetterci per la sua «generosità» nei confronti dei migranti. Semmai, per continuare a essere generosa, dovrà aumentare lo sfruttamento di tutti quelli che ha accolto finora e che accoglierà in futuro. La riorganizzazione dell’accoglienza passa per l’istituzionalizzazione di un processo di integrazione coatta dei migranti, che trasforma i rifugiati in una forza lavoro che è costretta ad autoriprodursi, ovvero che ha l’onere di una continua e mai definitiva conquista delle condizioni necessarie alla sua permanenza e all’accesso alle prestazioni sociali, ottenibili solo in forma provvisoria, determinata e restrittiva e in cambio di un incondizionato sfruttamento.

Con la proposta di legge sull’integrazione, abolito l’obbligo di assumere prima i cittadini tedeschi o in possesso di altro titolo di soggiorno, si potranno assumere i richiedenti asilo senza troppe storie e soprattutto con molti vantaggi in più. Sembra una scelta conveniente nella misura in cui permette di creare circa 100.000 nuovi posti di lavoro pagati a un euro all’ora, o più precisamente 80 centesimi, poiché il lavoro si svolge all’interno di strutture di accoglienza, secondo un criterio di riduzione dei costi sociali che impone ai migranti l’auto-sussistenza e lo sfruttamento. La coincidenza di luogo di lavoro e di vita viene penalizzata con un’ulteriore compressione del salario, già di per sé simbolico, e affermando così la visione secondo cui esistono individui che devono lavorare praticamente gratis per ripagarsi il debito dell’accoglienza. Nel caso di abbandono del posto di lavoro o del corso di formazione il richiedente asilo può inoltre essere espulso: una politica ancora più esplicitamente ricattatoria, che richiama la logica del comportamento antisociale applicata ai destinatari del welfare. Sebbene la proposta della Confindustria tedesca di impiegare i rifugiati a 80 cent l’ora anche fuori dai centri sia stata bocciata, la prospettiva di lavorare praticamente gratis, seppure solamente in campi e strutture di accoglienza, non rende meno cogente il legame tra sfruttamento e integrazione. Da qui al lavoro coatto delle carceri americane il passo potrebbe essere molto breve.

In un panorama europeo in cui l’unico modo di entrare in Europa sembra quello di sfruttare i residui di protezione umanitaria, il risultato è la produzione di un circolo vizioso in cui il business dell’accoglienza si autosostiene e, facendo perno sul lavoro non pagato dei migranti, è funzionale alla precarizzazione del mercato del lavoro tout court. «Sostenere ed esigere», significa dunque che i sempre più scarsi diritti e sussidi concessi dallo Stato corrispondono al suo potere di esigere. Ciò che si esige è la disponibilità incondizionata a prestarsi alle necessità del capitale.

Il governo della mobilità in Europa, non riuscendo nei fatti a imporre un controllo totale dei confini interni ed esterni e a gestirne la continua forzatura da parte dei migranti, agisce sul piano dell’integrazione economica e si assicura una forza lavoro che, se non è docile, è però precaria e impoverita. Ad esempio, mentre prima della legge sull’integrazione i rifugiati ottenevano, dopo tre anni di residenza, un permesso a tempo indeterminato, qualora nel corso di questi tre anni non fosse migliorata la situazione nel paese d’origine, adesso le cose cambiano. Il permesso a tempo indeterminato potrà essere richiesto dopo tre anni dal rifugiato che dimostri ottime competenze linguistiche (C1), nonché di poter provvedere quasi interamente da sé al proprio sostentamento. Dopo cinque anni entrambi i requisiti per la richiesta del permesso si abbassano. Qualora non venissero comunque soddisfatti, il permesso rimarrebbe a tempo determinato e legato al permanere della situazione di pericolo nel paese d’origine. In linea con la tendenza europea ad abolire i documenti di soggiorno senza scadenza, la lezione che si vuol dare anche in Germania è chiara: per i migranti non ci sono diritti acquisiti e l’arbitrio degli uffici immigrazione stabilisce la legalità del loro soggiorno.

Oltre che il tempo, la legge sull’integrazione vuole riformare anche lo spazio di soggiorno dei migranti. L’attuale riforma prevede infatti che siano i Länder a decidere in quale luogo o quale città i richiedenti asilo possono essere smistati, secondo imperscrutabili criteri di economicità che creano ulteriori confini interni. Questi «divieti di immigrazione», venduti come tentativi di evitare la «ghettizzazione», rappresentano una forma di capitalizzazione della forza lavoro impoverita, oltre che la riproduzione di uno spazio metropolitano estremamente individualizzato e segmentato che tende quindi a limitare la presenza di reti comunitarie e familiari e, soprattutto, la libertà di movimento dei migranti. Tale individualizzazione è ottenuta materialmente con l’espropriazione non solo dei diritti sociali, ma anche delle risorse necessarie per accedervi, come appunto la presenza di circuiti informali di sostegno ai migranti e la possibilità di sfruttare la propria mobilità per inseguire il salario migliore. Se l’individualizzazione e la limitazione della mobilità imposte per legge sono la cifra della propria appartenenza e inclusione nella società, ogni potere sociale della forza lavoro viene abolito di diritto.

Precarizzare, impoverire, individualizzare e dividere: questa è la ricetta tedesca. Una ricetta ormai di moda non solo in Germania ma in tutta Europa che rientra nel menù del governo dell’austerità e della mobilità, e si traduce in riforme del lavoro, del welfare e delle politiche migratorie coerenti con lo spirito neoliberale dell’Unione. È fin troppo evidente che non sono solamente i membri orientali dell’Unione ad attaccare la sua struttura universalistica. Il regime europeo del salario è lo strumento con cui tutti gli Stati senza eccezioni stanno preparando un’Europa fatta di differenze, distanze e gerarchie, un’Europa nella quale le differenze tra gli Stati saranno tanto più feroci quanto più si coniugheranno con quelle all’interno degli Stati stessi. Se le istituzioni dell’Unione Europea e i governi nazionali tentano di operare una sincronizzazione delle condizioni politiche dello sfruttamento, parlare di Nord e Sud europei, di centro e periferie, o di eccezioni nazionali perde senso. Di fronte a questioni di portata europea, che incideranno tanto nell’immediato quanto sul lungo periodo sulle vite di precarie, migranti, operai, è necessaria una risposta di dimensione altrettanto europea, e che non si fermi all’organizzazione di un singolo evento simbolico. Per accumulare una forza capace di rovesciare il regime europeo del salario servono rivendicazioni comuni che mostrino la connessione di salario, welfare e mobilità come terreno di ricatto e, al contempo, di elaborazione di strategie di sottrazione al dispotismo del capitale. Su questo piano si colloca la sfida di costruire uno sciopero sociale transnazionale.


* Ringraziamo Susanna Karasz per il lavoro di ricerca svolto nella preparazione dell’articolo.
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