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antiper

Introduzione a Il salario sociale

di Gianfranco Pala

Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995

wages strugglesLa capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente.
(Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi)

Ciò che l’operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro;
nello scambio è la capacità di disposizione su di esso: egli la aliena.
Ciò che riceve come prezzo è il valore di questa alienazione
[Karl Heinrich Marx]

Il salario, per il suo stesso carattere storico, è sociale. Dunque, l’apposizione di quest’ul­timo aggettivo sembrerebbe tautologica, suona come un pleonasmo. L’essere “sociale” del sala­rio, la sua dimensione di classe, deriva direttamente dal suo essere la categoria centrale delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico. L’analisi di Marx sul tema è tal­mente inequivocabile che occorre solo riesporla, con le sue stesse parole, aggiungendo solo quel tanto di attualizzazione, che potrebbe essere perfino ridondante, se non fosse per la dimentican­za e il travisamento in cui è caduta. Numerosi sono i luoghi da cui sono state tratte le parole di Marx; in particolare, tuttavia, si rimanda al Capitale [I-4.8.15.17/19; II-16.20; III-48], ai Linea­menti fondamentali [Q.II-26/28; Q.III-5/16; Q.VI-11.12]; e al Salario [Laboratorio politico, Na­poli 1995]. Con una riscrittura della lezione marxiana troppo spesso ignorata, dimenticata o fraintesa, quindi, si può offrire quella proposizione di concetti, categorie e determinazioni eco­nomiche delle quali è inutile tentare rielaborazioni artificiose. Giacché non potrebbero essere scritte meglio, neppure per l’attualità.

Il salario racchiude in sé la forma necessaria del rapporto di capitale. É una forma di re­lazione, pertanto, che non riguarda il singolo lavoratore e il singolo capitalista. Il lavoratore sa­lariato, la cui sola risorsa è la vendita della sua capacità di lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esisten­za.

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altraparola

In occasione del centenario di “Storia e Coscienza di Classe”: la dialettica di natura e società tra György Lukács e Alfred Schmidt

di Francesco Bugli

Questo testo è dedicato alla memoria di Roberto Sassi (1960-2023)

Lukacs72.pngParte I

Nell’influente raccolta di saggi Storia e Coscienza di Classe (dalla cui pubblicazione ricorre il centenario), György Lukács si pose un problema metodologico, ovvero se fosse possibile applicare alla natura il metodo dialettico nella formulazione engelsiana. La risposta secondo l’autore è sostanzialmente negativa, ed è già presente nel primo testo della raccolta intitolato Che cos’è il marxismo ortodosso?. Sappiamo che Storia e Coscienza di Classe è spesso considerato il testo fondatore del cosiddetto marxismo occidentale, incarnato da una rosa di autori che interpretano il pensiero di Karl Marx come separato da quello di Friedrich Engels su molte questioni cruciali, a partire proprio da quella metodologica. La separazione di cui parliamo riguarda cioè il metodo con cui si debba indagare natura e società: ciò non era scontato nella vulgata marxista del tempo che sarebbe confluita nel cosiddetto diamat di matrice sovietica. Il testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schimdt è a nostro avviso segnato da una profonda influenza del testo lukácsiano che lo porta a seguire la traiettoria del pensatore ungherese nella valutazione del pensiero di Engels. In questo articolo si traccerà quindi un ponte tra i due autori: un ponte relativo alla loro valutazione del pensiero engelsiano. Inoltre, verrà tenuta al centro la problematica ontologica, mostrando come essa sia declinata dai due autori in modi differenti.

 

  1. Storia e coscienza di classe: metodo e problemi nella conoscenza della natura e della società

A partire dal primo testo di Storia e coscienza di classe, Lukács poneva il problema della differenza di metodo da adottare nell’analisi della società e in quella della natura[1].

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futurasocieta.png

Sulle contraddizioni

Alcune riflessioni sui contributi di Mao Tse-tung allo sviluppo del pensiero marxista

di Vladimiro Merlin

1961 mao zedong reading peoples daily in hangzhou 1.jpgMao, riprendendo gli studi di Marx ed Engels e di Lenin sul materialismo dialettico, sviluppa e approfondisce l’analisi della contraddizione.

In particolare sviluppa i concetti di contraddizione principale e contraddizioni secondarie e, sul concetto di principale, tra i due opposti di una contraddizione.

Categorie, queste, che non fissano una volta per tutte, in modo permanente e statico le caratteristiche di una contraddizione, ma sono anzi destinate a mutarsi e anche a capovolgersi nel corso del tempo e in base allo svilupparsi della contraddizione.

Una contraddizione che in un dato momento è la principale, in una situazione che è cambiata può diventare secondaria, mentre una che era secondaria può diventare principale in una fase successiva.

Secondo il pensiero di Mao, fare una analisi corretta e adeguata alla situazione del momento delle contraddizioni che sono in campo è fondamentale per arrivare a una comprensione e a una azione adeguata sulla situazione stessa.

Questo metodo è, per Mao, la giusta applicazione del materialismo dialettico a ogni campo della realtà, dalla scienza alla politica, in particolare in quest’ultimo campo è l’unico modo per evitare di cadere nell’opportunismo di destra o nel dogmatismo settario di “sinistra”.

Mao fa molti esempi di come questi concetti si applicano, in particolare in campo politico, ma non solo; ne cito uno: “Per esempio, nella società capitalistica le due forze in contraddizione, il proletariato e la borghesia, formano la contraddizione principale.

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maggiofil

Dal prestito alle “tavolette” dei Sumeri (con le equazioni di Dgiangoz)

Cronache marXZiane n. 13

di Giorgio Gattei

145025 COM7038.jpg1. Sul pianeta Marx (quell’insolito corpo astrale comparso nel cielo della economia politica nel XVIII secolo e studiato da astronomi capaci come Adam Smith, David Ricardo e infine da Karl Marx che gli ha dato il nome) io sono stato trascinato nel 1968 dai marXZiani dell’astronave “la Grundrisse”, che mi hanno letteralmente rapito, e nella mia lunga esplorazione di quel pianeta, che sto raccontando in queste “Cronache marXZiane”, sono alla fine approdato alla terra di Saggio Massimo (del profitto) nella quale non si pagano salari. Ma non è paradossale che non si remuneri il lavoro che pure s’impiega nella produzione delle merci? Niente affatto se si segue l’acuta osservazione del cosmonauta (non astronauta!) Piero Sraffa, che ha visitato personalmente quel pianeta prima di me dandone un resoconto preciso in Viaggio di merce per merce (1960), che il salario va considerato come composto di due parti distinte: un “salario di necessità” e uno “di sovrappiù”, con il primo che è dato esogenamente e deve essere necessariamente pagato per la sopravvivenza dei lavoratori «sulla stessa base del combustibile per le macchine o del foraggio per il bestiame», mentre il secondo partecipa in competizione con il profitto alla spartizione del sovrappiù prodotto attraverso il sistema della contrattazione sindacale tra le parti sociali di capitalisti e lavoratori ed è variabile potendo andare da “tutto il prodotto al lavoro” (come recitava la rivendicazione politica di un tempo) a zero quando la forza del lavoro sia così indebolita (per qualsiasi accidente storico, compreso il maledetto fascismo) da dover lasciare l’intero sovrappiù alla parte avversa. Così in quella estrema periferia del pianeta Marx il fatto che non si paghino salari significa soltanto che non si paga il “salario di sovrappiù”, dato che quello “di necessità” rimane, eccome, dentro ciò che in gergo è chiamata la “matrice della tecnica” ad indicare quali e quanti input, ovvero fattori produttivi compresi quindi i beni-salario “necessari”) servono per produrre ogni output.

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sinistra

Domenico Losurdo e i marxismi

di Salvatore Bravo

Dmenico Losurdo.jpgCapire la catastrofe che ha condotto la sinistra comunista a essere numericamente irrilevante è la via per comprendere la sua rinascita. Il liberismo impera da sinistra a destra, l’intero impianto parlamentare è sostanzialmente monopartitico. I nomi cambiano, i volti si susseguono, le parole, pertanto, celano messaggi sempre eguali, “democrazia”, dunque, ma senza opposizione. Essa agonizza sotto i colpi del formalismo giuridico. La Stato democratico protocollare è il segno della verità del liberismo: democrazia e liberismo sono un ossimoro. Gli studi di Domenico Losurdo lo dimostrano, per porre il liberismo nella sua cornice storica reale ed effettuale, è opportuno disporsi in una prospettiva storica non eurocentrica. Vi sono dogmi che bisogna rimettere in discussione, in modo da infrangere la sudditanza al politicamente corretto e riaprire “il tempo nuovo” della storia. La verità del liberismo è espressa massimamente nel colonialismo con il suo corollario di saccheggi e genocidi. Essi sono stati la normalità truculenta non riconosciuta della storia delle democrazie occidentali. La rimozione della politica coloniale liberista e la sua insufficiente tematizzazione hanno rafforzato il liberismo e hanno indebolito il comunismo, al punto che si possono individuare due tipi di marxismi: il marxismo occidentale e il marxismo orientale che, con il trascorrere dei decenni e delle lotte coloniali, hanno assunto identità profondamente diverse. La divisione indebolisce la progettualità politica e l’impianto critico, Domenico Losurdo individua nella contrapposizione senza sintesi dei due marxismi una delle cause strutturali della crisi del comunismo:

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Lo sviluppo economico capitalistico e la guerra

di Gianfranco Pala

main qimg b08fb1fce34b380c855313a429b40f9d lq.jpegIn memoria di Gianfranco Pala, ex docente di Economia alla Sapienza di Roma e deceduto il 14 di questo mese, si intende ricordarlo con la pubblicazione di un suo articolo sullo sviluppo economico capitalistico e la guerra, scritto nel 2005, 18 anni fa. Nonostante alcuni riferimenti ovviamente datati, l’analisi si presenta nella sua difficile ma pregnante attualità. In un presente perennemente dilaniato da crisi economica e guerre - al momento non si sa se potenzialmente estensibili a teatri bellici più ampi – un’analisi marxista che riconduce alle cause e agli obiettivi di un sistema che domina il mercato mondiale, può reindirizzare una riflessione generale che per lo più induce alla povertà ideologizzante della comunicazione mainstream. Il frastuono e l’emotività che la violenza bellica fa emergere non deve limitare, o peggio impedire, la comprensione razionale di chi guadagna sulla distruzione e morte altrui, del potere e delle istituzioni mondiali che presiedono al potere economico sempre nascosto, ma operante, dietro gli schermi da lui creati in apparente autonomia [Carla Filosa]

* * * *

N.B.: La guerra è sviluppata prima della pace:
modo in cui attraverso la guerra e negli eserciti, ecc.,
determinati rapporti economici come lavoro salariato, macchine, ecc.,
si sono sviluppati prima che all’interno della società borghese.
Anche il rapporto tra forze produttive e scambio
diviene particolarmente evidente nell’esercito.
[Karl Marx, Lf, q.M, f.21]

Marx, in conclusione dell’inedita Introduzione del 1857, lasciata nei manoscritti dedicati ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, al primo punto di un “notabene: alcuni punti che sono da menzionare qui e non devono essere dimenticati” pose la questione della <guerra> (riportata nell’esergo qui posto a mo’ di occhiello).

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lavocedellelotte

La teoria del valore di Karl Marx per comprendere il funzionamento del capitalismo oggi

Gianni Del Panta intervista Guglielmo Carchedi e Michael Roberts

capnotwork11 e1536161651712La recente uscita di Capitalism in the 21st Century: Through the Prism of Value (Londra: Pluto Press, 2023) rappresenta un’occasione importante per comprendere se e in quale misura la teoria del valore formulata da Karl Marx un secolo e mezzo fa continui a essere un valido strumento teorico per decriptare il funzionamento del capitalismo nella nostra epoca. Dato che il libro è attualmente disponibile solamente nella versione inglese, abbiamo deciso di intervistare i due autori per rendere fruibile anche al pubblico italiano non anglofono i principali contenuti del testo.

Guglielmo Carchedi e Michael Roberts sono due dei più apprezzati economisti marxisti e la loro collaborazione ha affrontato negli anni alcuni dei nodi centrali della teoria marxista, come la caduta tendenziale del saggio di profitto e l’appropriazione di plusvalore da parte degli stati più avanzati tecnologicamente ai danni di quelli che lo sono meno – ovvero, la determinante economica dell’imperialismo moderno, secondo la loro stessa formulazione.

* * * *

Caro Guglielmo, nel libro che hai scritto assieme a Michael Roberts c’è un chiaro tentativo di rivendicare come la teoria del valore di Karl Marx rappresenti il punto di partenza centrale per comprendere le leggi di movimento del capitalismo nel nostro tempo. Per i lettori che non hanno familiarità con questa teoria, quali sono i suoi assunti principali? E perché e come questa teoria si differenzia dalle principali spiegazioni fornite dall’economia mainstream?

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lanatra di vaucan

Introduzione al “Manifesto contro il lavoro”

di Massimo Maggini*

Gruppo Krisis: Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di Massimo Maggini, prefazione di Anselm Jappe, postfazione di Norbert Trenkle, Mimesis ed. 2023

Schermata del 2023 11 09 18 55 22.pngPresentiamo qui l’edizione rinnovata ed ampliata del Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. L’originale apparve in Germania nel “lontano” giugno 1999, in forma autoprodotta, e in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Successivamente in Germania sono uscite altre tre edizioni, la seconda già nel settembre 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel gennaio 2019, in occasione del ventennale della prima uscita. In quest’ultimo caso, il Manifesto è stato corredato di una post-fazione scritta da Norbert Trenkle, che includiamo nel presente libro, con il quale in qualche modo proviamo a celebrare, anche in Italia, il ventennale della prima edizione italiana, arricchendola con altri testi.

Da quel primo anno, in cui è stato elaborato e ha preso forma il Manifest, molta acqua è passata sotto i ponti. Si sono succedute – e continuano a succedersi – guerre apocalittiche, movimenti sono nati e morti, emergenze su emergenze si sono avvicendate ed eventi decisivi hanno cadenzato la nostra esistenza. A fare da filo conduttore di tutti questi avvenimenti, solo apparentemente slegati fra loro, un motivo è però rimasto costante: la crisi strutturale del sistema capitalistico, che ha preso forma compiuta in modo inquietante e risoluto – benché già presente in nuce anche prima – almeno dalla fine degli anni ‘70, cioè in coincidenza, non casuale, della fine dei cosiddetti “30 anni gloriosi” e il boom economico che li aveva caratterizzati.

Ma cosa c’entra il “lavoro” con tutto questo? Soprattutto, perché muovergli una “critica” in tempi di crisi, quando molti, anzi, ne lamentano a gran voce la mancanza?

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pangea

MEGA 2, ovvero: il nuovo volto di Karl Marx

Luca Bistolfi intervista Roberto Fineschi

Ho sentito il dovere di occuparmi della nuova e definitiva edizione dell’opera omnia di Marx ed Engels, la mega 2, ancora in corso, per i lettori di Pangea intervistando Roberto Fineschi, uno dei suoi massimi curatori e contemporaneamente autore di diversi e vasti studi sul “nuovo Marx”, che riesce dal mastodontico lavoro (oltre duecento volumi). Cionondimeno mi sento in dovere di precisare di non essere sempre d’accordo con Fineschi e di cogliere Marx e le sue implicazioni teoriche e politiche in maniera spesso diversa, quantunque ritenga che un marxista degno di questo nome abbia l’obbligo di prestare orecchio alle posizioni benevole e oneste ma critiche verso il pensatore e rivoluzionario tedesco, al fine di non incorrere in quelle autoillusioni e in quelle superficialità, quando non falsificazioni, che ahimè troppo spesso hanno costellato la storia del marxismo

Karl Marx Pangea.pngNella chiusa alla Postfazione al bellissimo Karl Marx e la letteratura mondiale di Siegbert S. Prawer (Bordeaux 2021, già Garzanti 1978 come La biblioteca di Marx), Donatello Santarone riferisce le giuste impazienze o raccomandazioni di Immanuel Wallerstein, Franco Fortini e Friedrich Engels sintetizzabili nell’esclamazione del primo: «Leggete Karl Marx!». Erano stanchi di sentir chiacchierare sedicenti marxisti senza una pagina del Moro. Fortini (Avanti!, 7 dicembre 1947) spiega: «Ognuno legge… Marx dovunque, eccetto che in Marx». Banalità persino, ma quanto disattese!

Però col rivoluzionario di Treviri pare che la faccenda sia un po’ complicata, o almeno ciò è quanto emerge dai numerosi e densi lavori di Roberto Fineschi, uno dei più autorevoli membri del comitato internazionale per l’edizione definitiva dell’edizione, naturalmente critica, degli scritti di Marx e di Engels, la così detta mega 2.

Fineschi, già curatore di un’accuratissima versione filologica del primo libro del Capitale (due poderosi volumi, il secondo solo di varianti), ha sfornato già parecchi titoli per ripigliare il discorso ormai dai più abbandonato sul marxismo, forte della sua assidua frequentazione con i manoscritti. Ne dò parziale ma essenziale conto alla fine dell’intervento.

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antropocene

Ecologia marxiana, Oriente e Occidente: Joseph Needham e una visione non eurocentrica delle origini della civiltà ecologica cinese

di John Bellamy Foster

MR ott23.jpg

Si pensa spesso che il materialismo ecologico, di cui il marxismo ecologico rappresenta la versione più sviluppata, trovi le sue origini esclusivamente nel pensiero occidentale. Ma se così fosse, come spiegheremmo il fatto che il marxismo ecologico sia stato accolto tanto prontamente (o forse, più prontamente) in Oriente quanto in Occidente, scavalcando le barriere culturali, storiche e linguistiche per sfociare infine nell’attuale concetto di civiltà ecologica in Cina? La risposta è data dal fatto che, riguardo al materialismo dialettico e all’ecologia critica, esiste un rapporto dialettico tra Oriente e Occidente molto più complesso di quanto si creda, rapporto che affonda le sue radici nei millenni.

Le concezioni materialista e dialettica della natura e della storia non nascono con Karl Marx. Le origini di un “naturalismo organicista” e dell’“umanismo scientifico”, secondo il grande scienziato e sinologo inglese marxista Joseph Needham, autore di Scienza e civiltà in Cina, possono essere fatte risalire al periodo che va dal sesto al terzo secolo a.C., sia in Grecia, a cominciare dai pre-Socratici e sino ai filosofi ellenistici, sia nell’antica Cina, con l’emergere dei filosofi taoisti e confuciani durante il periodo delle guerre fra stati sotto la dinastia Zhou[1]. Come ha mostrato Samir Amin nel suo Eurocentrismo, la «filosofia della natura [in opposizione alla metafisica] è per essenza materialista» e ha costituito una «svolta cruciale nei modi di produzione tributari, sia in Oriente che in Occidente, a partire dal quinto secolo a.C.»[2].

In Within the Four Seas: The Dialogue of East and West del 1969, Needham rilevava la massima rapidità con cui il “materialismo dialettico” venne adottato in Cina durante la Rivoluzione Cinese e come, in Occidente, questo fatto sia apparso come un grande mistero.

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lavocedellelotte

Marx, l’ecologia e il comunismo per Kohei Saito

Il ritorno dell’alternativa socialismo o barbarie

di Matteo Pirazzoli

saito.jpgKohei Saito è uno studioso marxista giapponese che con i suoi scritti su Marx e l’ecologia ha venduto centinaia di migliaia di copie nel suo paese. Il libro pubblicato in Giappone non è al momento disponibile in lingue europee, ma molti dei saggi principali dell’autore sono presenti nel testo Marx in the Anthropocene: Toward the Idea of Degrowth Communism (Cambridge: Cambridge University Press, 2023). Pubblichiamo in anteprima la recensione al libro, parte del numero 6 di Egemonia che uscirà nelle prossime due settimane. Questo lavoro non parla direttamente dell’importanza strategica della classe lavoratrice per il movimento ecologistica, ma rappresenta un’indagine delle condizioni di possibilità teoriche e metodologiche di tale alleanza. Esse non sono per nulla scontate, soprattutto se si considera la storia del movimento comunista del secolo scorso e i suoi difficili rapporti con concetti quali «crescita» e «ambientalismo».

* * * *

Soggetto e oggetto nella prassi trasformativa della natura

A partire dallo studio degli appunti di Marx posteriori all’edizione del primo libro del Capitale Saito indaga come il Moro abbia approfondito studi scientifici e naturalistici, conferendo alla questione ecologica un’importanza rilevante nell’analisi del capitalismo, in un panorama di parziale revisione del suo metodo che lo ha portato a studi più attenti delle società pre-capitalistiche da un lato e, dall’altro, a un approfondimento sulle implicazioni ideologiche e non puramente tecniche dello sviluppo delle forze produttive sotto il dominio del capitale.

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lanatra di vaucan

La critica del lavoro nel “duplice” Marx

Dialettica “categoriale” e “Wertkritik”

di Afshin Kaveh

lavoro di merda.jpgPremesse (o “cronache marxiane”)

Quando Roman Rosdolsky scrisse «ist klar, dass eine fruchtbare Anwendung der Marxschen Theorie nur möglich ist, wenn man die esoterischen und die exoterischen Elemente derselben auseinanderhält»[è chiaro che un'applicazione fruttuosa della teoria di Marx è possibile solo se si tengono separati gli elementi esoterici e quelli essoterici]1, quello che lui anticipava come «chiaro» in verità non poteva di certo esserlo all’epoca, in un angusto panorama pullulato da dubbie ortodossie e animato da fedele estimazione per il “socialismo da caserma” (Kurz). Eppure, in riferimento al contesto nostrano, anche oggi, col fioco lamentìo di quegli spettri, la «fruttuosa applicazione della teoria marxiana» possibile solamente «se si distinguono gli elementi esoterici ed essoterici» della stessa, non trova alcuno sbocco per permettersi di prendere respiro, soffocata per mano di decenni di riletture limitate e fortemente problematiche dell’opera dell’agitatore di Treviri.

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eticaeconomia

György Lukàcs: Storia e coscienza di classe ha 100 anni. Ma non li dimostra

di Laura Pennacchi

Laura Pennacchi, sullo sfondo di un suo viaggio memorabile a Budapest a fine anni ‘60 per conoscere Lukàcs, ci mostra la perdurante attualità di Storia e coscienza di classe, a 100 anni dalla pubblicazione, restituendoci la figura di un grande maestro e intellettuale. Da tenere a mente ancora oggi: la dimensione spirituale del potere; il ruolo della conoscenza e della soggettività; la progressiva reificazione del sociale e del naturale nel capitalismo, favorita dal convincimento della calcolabilità di tutto, dal dominio dell’economico e dall’alienazione degli individui da sé

7586bcdd7a745d843a3897512742ccdb XL.jpgSono passati cent’anni dalla pubblicazione, nel 1923, di Storia e coscienza di classe di György Lukàcs e a me sembrano un nulla, così come mi sembra un nulla il tempo trascorso da quando scopersi, alla fine degli anni ’60, quella che si era rivelata una delle più controverse, ma anche più influenti, opere del marxismo del Novecento. La sua straordinarietà derivava dal fatto che in quel testo il giovane Lukàcs aveva condensato elementi della comune riflessione con Rosa Luxenburg – la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo – in una teoria della storia e della società come totalità costruita attorno alla generalizzazione della “forma merce” (dalla cui concettualizzazione rimase influenzato anche l’Heidegger di “Essere e tempo”) e ai processi di “feticizzazione”, “reificazione”, “alienazione” che ne erano scaturiti, dando un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali e facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura. L’enigma della merce sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone viene reificata, riceve cioè il carattere della cosalità e quindi “un‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Dall’ambito produttivo la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione”.

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antropocene

Quello che anche un bambino dovrebbe sapere sulla teoria del valore di Marx

di Michael A. Lebowitz

MR set23.jpgLa legge del valore funziona in modi misteriosi. Per alcuni marxisti, essa è alla base di tutto ciò che dobbiamo sapere sul capitalismo.[1] Ma, così come Karl Marx affermava di non essere marxista, allo stesso modo avrebbe potuto dire: «Questa non è la mia legge del valore».

 

È tutta una questione di allocazione* del lavoro

«Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa pure che le quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo». Karl Marx [2]

Ogni bambino ai tempi di Marx potrebbe aver sentito parlare di Robinson Crusoe. Quel bambino potrebbe aver sentito dire che sulla sua isola Robinson doveva lavorare per non morire, che aveva «bisogni [di vario genere] da soddisfare». A tal fine, Robinson doveva «compiere lavori utili di vario genere»: costruiva mezzi di produzione (utensili), cacciava e pescava per il consumo immediato. Si trattava di funzioni diverse, ma tutte erano soltanto «modi differenti di lavoro umano», il suo lavoro. Dall'esperienza, sviluppò la Regola di Robinson: «Proprio la necessità lo costringe a dividere esattamente il proprio tempo fra le sue differenti funzioni». In questo modo, imparò che la quantità di tempo dedicata a ciascuna attività dipendeva dalla sua difficoltà, cioè dalla quantità di lavoro necessaria per ottenere l'effetto desiderato. Date le sue esigenze, imparò come allocare il suo lavoro per sopravvivere.[3]

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Comunisti: la nostra comprensione dei fenomeni si conforma al materialismo dialettico?

di Giannetto Marcenaro*

A margine dell’intervento del direttore Giannini, pubblicato nella ricorrenza della morte di Friedrich Engels

Immagine per interno articolo Marcenaro 554x420.jpgA margine del brillante intervento del direttore Giannini, pubblicato nella ricorrenza della morte di Friedrich Engels, nel quale si sottolinea con la dovuta insistenza quanto l’emarginazione della figura di Engels dal percorso intellettuale e filosofico di Karl Marx sia stata una tendenza promossa da «un vasto fronte politico e filosofico», in sostanza coincidente al cosiddetto “Marxismo occidentale”, possono essere di utilità alcune osservazioni sulle questioni acutamente sollevate da Giannini, in particolare riguardo all’importanza di evidenziare il ruolo cruciale avuto da Engels nello sviluppo del materialismo dialettico, e alla funzione scientifica inestimabile che tale concetto epistemologico porta con sé.

Fu Engels, infatti, nel suo progetto sulla “Dialettica della Natura”, a cercare in origine di dare un ordine intelligibile preciso a tale concetto, prima che Lenin ne esponesse, per quanto succintamente, e mai in modo sistematico, il principio generale e il carattere essenziale, che fu poi ulteriormente chiarito da Mao Zedong nella prima metà del 20° secolo.

Appare di estremo rilievo a riguardo l’osservazione del direttore Giannini, sulla scia del professor Domenico Losurdo, riguardo al «nesso tra le nette posizione engelsiane volte alla necessità storica della violenza rivoluzionaria e alla necessità della presa del potere [del] proletariato (e alla liceità della sua difesa con la forza) e il vasto tentativo di liquidare Engels» da parte «della filosofia borghese e del marxismo revisionista», e al fatto che si sia usata la «linea concreta» della «violenza rivoluzionaria, senza la quale mai si potrebbe scardinare il sistema borghese», sostenuta ne “L’ideologia tedesca”, ma appunto anche nel “Manifesto del Partito Comunista” – cioè due testi scritti a quattro mani da Marx ed Engels – per separare l’uno dall’altro, e imputare a Marx o una visione escatologica del processo storico, o una visione economicista della dinamica rivoluzionaria.

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perunsocialismodelXXI

Che cosa ho imparato da Mario Tronti

di Carlo Formenti

41H b3XIvWL. SX311 BO1204203200 Questo non è un necrologio. Odio questo genere letterario perché, avendo a lungo lavorato nella redazione cultura di un grande quotidiano, lo associo a quelli che in gergo giornalistico si definiscono “coccodrilli”, vale dire gli articoli “precotti” che ogni redazione conserva nel proprio data base, in attesa di sfoderarli per celebrare la morte di questo o quel personaggio famoso. Sono scritti che raramente si sottraggono alla retorica, all’abuso di luoghi comuni e al mix di distacco e artificialità che caratterizza un testo costruito “a tavolino”, privo cioè delle emozioni suscitate dall’evento reale della morte. Quello che segue è invece il tributo che sento di dovere al pensiero di un autore che ha contribuito non poco a indirizzare il mio lavoro teorico recente. Un tributo che non ha pretese di “oggettività” accademica, nella misura in cui ricostruisce il pensiero di Tronti enucleandone gli aspetti che più si avvicinano al mio punto di vista sul mondo attuale, mentre trascura quelli che sento meno affini.

 

1. Operai e capitale. Ovvero la difficoltà di sbarazzarsi di una eredità ingombrante

La biografia teorica e politica di Tronti è caratterizzata da un paradosso: benché l’avesse “rinnegata” non molti anni dopo averla scritta, Operai e capitale (1) è rimasta la sua opera di gran lunga più conosciuta, e ha continuato a esercitare una profonda influenza anche dopo che l’autore ne aveva preso le distanze, segnando il punto di vista che intere generazioni di militanti hanno avuto, e hanno tuttora, in merito alle chance di superare il modo di produzione capitalistico.

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lavocedellelotte

"Nell'antidogmatismo di Tronti c'è qualcosa di vitale per il marxismo contemporaneo"

Juan Dal Maso intervista Jamila Mascat

In questa intervista con Juan Dal Maso, Jamila discute le principali idee ed esperienze di Mario Tronti, così come l’importanza di un recupero critico della sua opera per la sinistra di oggi

entrevista mascat imagen interior 1 9faa6Mario Tronti è una figura chiave del pensiero politico di sinistra in Italia nella seconda metà del XX secolo. Come possono essere periodizzate la sua opera e la sua carriera?

Il lungo corso della traiettoria di Mario Tronti si snoda attraverso i tortuosi tornanti della seconda metà del Novecento. Toni Negri ha parlato recentemente dell’enigma Tronti, per sottolineare quella che a suo avviso è “la discontinuità profonda fra il Tronti di Operai e capitale e quello dell’autonomia del politico”1. In realtà, nonostante i cambiamenti di rotta puntualmente intrapresi nello sforzo di riconfigurare nella congiuntura l’orientamento della sua bussola politica, il percorso di Tronti presenta forti elementi di continuità. Uno per tutti, il primato dell’organizzazione, che è un nodo essenziale della sua esperienza politica nonché della sua riflessione teorica. Non mancano però i salti, cari a Lenin lettore della Logica di Hegel, che in Operai e capitale già definiscono la linea di condotta del metodo di Tronti.

Nel 1951 Tronti si iscrive alla Federazione giovanile comunista e nel 1954 al PCI, a cui resterà iscritto fino allo scioglimento del partito nel 1991. Nel 1956, però, prende posizione con altri giovani militanti e intellettuali a favore degli insorti in Ungheria. La vicenda ungherese segna sicuramente un punto di svolta e scombussola l’adesione ortodossa di Tronti al PCI, rivelando manifestamente ai suoi occhi e a quelli di una generazione le storture dello stalinismo di Togliatti. Parallelamente, sul versante della critica teorica, matura l’avversione di Tronti, influenzato dalla scuola di Galvano Della Volpe, nei confronti del marxismo gramsciano egemone in Italia in quanto filosofia ufficiale del partito.

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La sconcertante parabola dell’operaismo italiano

di Maria Turchetto

L'articolo Dall’operaio massa all’imprenditorialità comune: la sconcertante parabola dell’operaismo italiano, tratto da Intermarx, rappresenta una versione ampliata della voce “operaismo” destinata al Dictionnaire Marx contemporain, a cura di J. Bidet e E. Kouvélakis, PUF, Paris, 2OO1

boschi tronti 1Non è difficile, almeno in Italia, trovare un accordo linguistico sul termine “operaismo”. Non ci sono dubbi sulle principali riviste intorno a cui si è formato questo filone di pensiero negli anni ’60 e ’70 (Quaderni Rossi, Classe Operaia, Potere Operaio), né sugli autori che ne sono i principali esponenti (Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri hanno senz’altro una posizione di spicco sui molti altri che hanno dato contributi anche molto importanti [1]). Soprattutto, è impossibile non riconoscere un “operaista”, se ne incontri uno: a quasi quarant’anni dalla sua nascita (che ritengo sia lecito far coincidere con la pubblicazione del primo numero di Quaderni Rossi, nel giugno del 1961), l'”operaismo” si è sedimentato in “mentalità”, atteggiamento, lessico.

In effetti, nonostante sviluppi, correzioni, svolte e varianti abbiano ormai prodotto al suo interno una varietà di posizioni, l'”operaismo” ha mantenuto, se non un’autentica coerenza teorica, almeno una marcata fisionomia. Alcuni assunti di fondo, diventati nel tempo veri atteggiamenti mentali, l’uso di certi passi di Marx (l’arcinoto frammento sulle macchine dei Grundrisse [2], citazione ormai rituale), alcune “parole chiave” (general intellect, composizione di classe, autonomia) funzionano ancora oggi come un forte dispositivo di riconoscimento. Dispositivo forse più linguistico che teorico, più evocativo che realmente propositivo, e che tuttavia serve da riferimento a vari spezzoni di quello che è stato il “movimento” (altra parola chiave) degli anni ’70.

Di fatto, oggi l'”operaismo” italiano è soprattutto questo riferimento impoverito, questa raccolta di parole che tiene il posto di una teoria e che regala unità e identità apparenti a posizioni confuse, ostaggio di volta in volta delle mode culturali o delle nostalgie.

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rifonda

Un momento cruciale del marxismo italiano: il contrasto tra Panzieri e Tronti

di Rino Malinconico

Imagoeconomica 913119 1 690x362Dopo i fatti di Piazza Statuto del luglio ‘62, si avviò all’interno del gruppo–rivista dei Quaderni Rossi un dibattito serrato, che via via assunse toni aspri e alla fine determinò la rottura. Nel giugno del 1963 la contrapposizione si esplicitò plasticamente con due editoriali sul terzo numero. Il primo, firmato direttamente Quaderni Rossi è da attribuire a Panzieri. In esso veniva colta la progressione in avanti della coscienza operaia, ma mettendone in risalto anche le parzialità. Poi, a proposito del ciclo di lotte aperto dalla stagione contrattuale del 1962, si metteva in guardia dai pericoli di un’interpretazione immediatista delle potenzialità rivoluzionarie:

Un aspetto importante nella situazione di oggi è nel pericolo di scambiare in modo immediato la «feroce» critica verso le organizzazioni implicita, e spesso esplicita, nei comportamenti operai, o il grado più alto di consapevolezza che vasti gruppi di operai rivelano delle condizioni politiche delle lotte a livello di capitalismo organizzato e pianificato, per una immediata possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale, ignorando il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari alla costruzione di tale strategia. Una strategia operaia non può essere preparata dall’accumularsi di una serie di rifiuti frammentari, non collegati tra loro in un disegno politico unitario virgola ma soltanto idealmente unificati in uno schema interpretativo del funzionamento del capitalismo contemporaneo. In tal modo diviene indifferente se l’esigenza operaia di «trascendere» il contenuto delle singole rivendicazioni si manifesti in forma anarchizzante, o nel senso di predisporre una linea anticapitalistica globale, secondo una dinamica controllabile.

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Mario Tronti anni Settanta 1A scrivere questo breve ricordo è un vecchio militante. Un ricordo brevissimo perché gli darò subito la parola. Non solo per comprensibile pudore, ma perché i testi consigliati parlano da soli. Raccontano di una sconfinata passione umana, intellettuale e politica. Sconfinata e sobria, sino alla fine.

Il primo è una sorta di autobiografia, recentissima e toccante, La saggezza della lotta edito nel 2021 da DeriveApprodi. Un breve profilo nel quale Mario Tronti ripercorre le tappe più importanti della sua formazione politica e teorica, traccia la sua personale interpretazione del Novecento, si interroga sulla “saggezza della lotta.” Lo trovate ancora agevolmente in libreria.

Il secondo, un testo praticamente introvabile ed è per questa ragione che abbiamo deciso di pubblicarlo integralmente. Si tratta dell’intervento ad una tavola rotonda tenutasi all’Università di Urbino il 21 ottobre 2010 in occasione del seminario Il nomos della Terra 60 anni dopo. L’Europa di Carl Schmitt nell’ambito dei seminari promossi da “Critica europea” e pubblicato nel numero 1-2 del 2011 nella Rivista “Teoria del diritto e dello Stato”.

Nel corso della tavola rotonda dedicata al tema “Il nomos e il nuovo ordine europeo” Mario Tronti interviene due volte. Interloquisce con i promotori del seminario e gli altri partecipanti alla tavola rotonda (Antonio Baldassarre, Domenico Losurdo, Guido Maggioni, Stelio Mangiameli), cimentandosi con l’interrogativo tipicamente trontiano del perché oggi “non si pensa più l’Europa”. Una denuncia, una profezia, come era nel suo stile abituale.

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ilcovile

Merci++

Ovvero i feticci non sono più quelli di una volta

di Stefano Borselli

downloadni5dQuasi un anno fa, Il Covile № 646, pubblicai un te­sto sulla questione del feticismo delle merci inti­tolato «Marx e gli stalloni dello storpio» nel quale, tra l’altro, mi confrontavo criticamente con un brillante articolo sul tema di Daniele Vazquez (vedi in rete: L’anatra di Vaucanson, 4 aprile 2016). Successivamente, sul­la scorta del­le forse ora meglio comprese chiarificazioni, anche terminologiche, di Jacques Camatte, mi sono reso conto di alcune lacune. Con questo provo a colmarle.

* * * *

Jacques Camatte, nella sua opera Emer­genza di Homo gemeinwesen, separa con­cettualmente quello che chiama il movimento del valore, da quello, successivo, del capitale. Ciò, insieme ad altre importanti implicazioni che non tratteremo qui, gli per­mette di non fraintendere il celebre incipit del Capitale di Marx:

La ricchezza delle società nelle quali pre­domina il modo di produzione capita­listico si presenta come una «immane raccolta di merci» e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce.

Il passo ha infatti dato luogo all’idea che la mercificazione sia caratteristica nuova e propria della società capitalistica. Idea pere­grina perché scambio, mercato, merci, equiva­lente generale, denaro, conio ecc. precedo­no di gran lunga l’af­fermazione del capitale. In effetti, a pensarci, quello che si presentava nelle agorà greche o nei fòri romani non era già una «immane raccolta di merci», dove ve­nivano «mercificati» alimenti, animali, uomi­ni? Il capitale, imponendosi, ha trasformato in modo a lui confacente non solo il lavoro1 (dalla ricca complessità di quello artigiano sussunto inizialmente nella manifattura, al­l’astrazione parcellizzata del lavoro mecca­nizzato della fabbrica moderna) ma pure la natura della merce, come vedremo. Scrive Ca­matte:

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carmilla

Siamo marxisti, oltre il produttivismo c’è di più

di Fabio Ciabatti

Kohei Saito, Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, Cambridge University Press, 2023, edizione Kindle, pp. 278, € 25,48

karl nel pratoIl rapporto tra ecologia e marxismo non è mai stato molto semplice. I verdi si sono spesso cullati nell’illusione di uno sviluppo sostenibile compatibile con il capitalismo o hanno pensato l’ambientalismo come una sorta di terza via tra capitalismo e comunismo. Ci sarebbe bisogno di una buona dose di critica dell’economia politica per svegliarsi da questi pallidi sogni, ma la diffidenza ha spesso prevalso nei confronti del pensiero di Marx perché considerato intriso di produttivismo e dunque una sorta di gemello diverso del moderno sviluppo ecologicamente devastante.

La domanda sorge spontanea: Marx era davvero un produttivista? La risposta potrebbe sembrare scontata perché per il materialismo storico, comunemente inteso, lo sviluppo delle forze produttive rappresenta il lato positivo della storia che, arrivato ad un certo punto, rompe la gabbia dei rapporti di produzione e consente di passare ad un modo di produzione più progredito. Questo è accaduto con il passaggio dal feudalesimo al capitalismo e lo stesso accadrà quando il capitalismo sarà soppiantato dal comunismo. È incontrovertibile che Marx abbia sostenuto queste posizioni. Ma è tutto qui?

Kohei Saito, marxista giapponese che ha goduto di una inaspettata fama tra il grande pubblico del suo paese, sostiene che oltre il produttivismo c’è di più. Nel suo Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, argomenta che nella biografia intellettuale del rivoluzionario tedesco è possibile trovare le tracce di uno sviluppo teorico che pone le premesse, come indica il titolo del libro, di un comunismo della decrescita. Una tesi senz’altro originale e radicale che vale la pena di conoscere, anche al di là dei suoi possibili aspetti problematici.

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maggiofil

“Ur dei Caldei” e il prestito del Tempio. Cronache marXZiane n. 12

di Giorgio Gattei

imageoibki6eyszas1. Dove eravamo rimasti? Che prima dei Babilonesi in quello stesso lembo di terra tra il Tigri e l’Eufrate avevano abitato i Sumeri e sono stati costoro ad aver dato il via, 5000 anni fa, ad una intera economia centrata sul prestito ad interesse. Insomma, ai Sumeri non spetterebbe soltanto quella “rivoluzione urbana” che ha attribuito loro Gordon Childe nel 1950 (a fare il paio con la successiva Rivoluzione industriale britannica del XVIII secolo), ma ben di più se, insieme alle città, essi avrebbero inventato addirittura la finanza (O. Bulgarelli, La finanza… esisteva già nel III millennio a. C.?, in Bancaria”, 2015, n. 12 e più in dettaglio Moneta ed economia nella antica Mesopotamia (III-I millennio a.C.), in “Rivista trimestrale di diritto dell’economia”, 2009, n. 3, supplemento). Le condizioni ambientali c’erano tutte: un territorio alluvionale particolarmente fertile per cereali e bestiame, una produttività del lavoro in aumento, una popolazione in crescita che progressivamente si trasferiva dall’insediamento sparso dei villaggi in agglomerati urbani in cui le attività economiche si specializzavano facendo coesistere le abitazioni private con le botteghe artigiane e commerciali. Storicamente la città più famosa ritrovata dagli archeologi è stata «Ur dei Caldei» (come viene impropriamente chiamata nella Bibbia) che, se non proprio la prima che sembra che sia stata Uruk peraltro non distante) è stata certamente la più importante e dove ha vissuto il patriarca Abramo prima di trasferirsi, con famiglia e mandrie al seguito, nel “paese di Canaan”, ossia in Palestina.

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perunsocialismodelXXI

Senza partito niente coscienza di classe. Senza classe niente partito rivoluzionario

di Carlo Formenti

manifestorgaeQuesta non è una recensione. Il nuovo libro di Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo (1), tratta troppi argomenti perché li si possa esaurire nell'angusto spazio di una recensione, ancorché corposa. In questo articolo mi limito quindi ad affrontare due temi teorici che reputo cruciali: la ridefinizione del concetto di classe (e il suo impatto sul concetto di partito) e il background "religioso" della civiltà capitalistica (e la sua capacità di "contaminare" il discorso socialista). Da queste pagine restano quindi fuori temi quali il lascito delle grandi rivoluzioni otto-novecentesche, nonché l'alternanza fra capitalismo di mercato e capitalismo politicamente regolato, associata all'alternanza fra fasi di crisi e fasi di ripresa economica, temi ai quali il lavoro di Visalli dedica ampio spazio.

 

1. Classe e partito: due questioni inscindibili

"Lo spettro che si aggira per l'Europa" evocato da Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti era in larga misura un'entità virtuale (decenni più tardi, al tempo della Comune, gli insorti saranno in larga misura garzoni di bottega e artigiani, più che operai in senso moderno), ma presentava già una consistenza materiale sufficiente a inquietare una borghesia timorosa di dover abbandonare il trono sul quale si era da poco seduta. Oggi, dopo che la controrivoluzione neoliberale ha espropriato il proletariato occidentale della propria identità sociale, culturale e politica, lo spettro di cui sopra sembra persino più evanescente di quello evocato un secolo e mezzo fa.

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antropocene

Il comunismo della decrescita: l'ultima svolta di Marx

di Peter Boyle

Marx in greenAnche se il marxista giapponese Kohei Saito non avesse scritto Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, la sinistra oggi dovrebbe ancora prendere sul serio l'idea della decrescita.

Questo perché, spiega l'economista e antropologo Jason Hickel in Less is More, «Sebbene sia possibile passare al 100% di energia rinnovabile, non possiamo farlo abbastanza velocemente da rimanere sotto gli 1,5°C o i 2°C, se continuiamo a far crescere l'economia globale ai ritmi attuali».

Non è solo la dipendenza dai combustibili fossili a mettere in pericolo il pianeta, ma la ricerca cronica della crescita economica da parte del capitalismo. Crescita illimitata significa maggiore domanda di energia. E una maggiore domanda di energia rende più difficile sviluppare una capacità sufficiente per generare energia rinnovabile nel breve tempo rimasto per evitare un riscaldamento catastrofico.

Questo è il motivo per cui la rilettura di Saito dell'opera di una vita di Karl Marx è cruciale per i socialisti di oggi. Come egli sostiene, l'ecologia non era una considerazione secondaria per Marx, ma al centro della sua analisi del capitalismo. E mentre si avvicinava alla fine della sua vita, Marx si rivolse sempre più alle scienze naturali e si convinse profondamente che una crescita illimitata nel capitalismo non poteva essere sfruttata per scopi umani o ambientali. Piuttosto, come spiega Saito, Marx capì che il comunismo avrebbe portato sia abbondanza che decrescita.

 

Altro che riscaldamento globale

Oggi, gli attivisti ambientali in genere si concentrano sul riscaldamento globale.